Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - 08

parte dell'esercito sull'Alpi Marittime per tener a bada il nemico da
quelle parti, il principale sforzo sì di Tedeschi che di Piemontesi si
dirizzasse contro la Savoia, per quindi marciare a Lione. Nè dubitavano
che ove fossero giunti in quella città, i popoli vicini per la
vicinanza, ed i Provenzali per la natura loro pronta e vivace, si
sarebbero levati tumultuando alla fama di tanta venuta. Certamente
disegno nè più conforme agli accidenti, nè di più probabile esecuzione
non s'era mai concetto di questo; se ne promettevano gli autori effetti
certissimi. Ma il re Vittorio, mosso da un desiderio più generoso che
considerato, non vi volle acconsentire. Era egli gravissimamente
sdegnato contro i Savoiardi, siccome quelli che avevano accettato con
amore i Francesi, e che tuttavia gli ajutavano, quanto era in poter
loro, di consiglio e di forza. A questo sdegno aggiungeva possente
stimolo il vedere, che le persone più chiare in Savoia per virtù, per
sapere e per valore, parteggiavano caldamente per la Francia, levavano
soldati, facevano ogni sforzo perchè la nuova signorìa si stabilisse.
Amaro fastidio poi gli dava quella legione degli Allobrogi ordinata dal
medico Doppet, uomo strano assai, ma di molto ingegno, e nelle opinioni
di quei tempi ardentissimo: questa legione asperava coi fatti il re, ma
vieppiù ancora lo asperava con gli scherni, e per l'eccessive cose che
diceva contro di lui; il che alterava a dismisura l'animo di Vittorio.
Assai diverso da questo era il procedere dei Nizzardi, i quali più
alieni di natura, e forse anco meno propensi a lasciarsi volgere, non so
se per indole meno buona o per giudizio più prudente, dalle utopìe
dottrinali che giravano a quei dì, di mala voglia sopportavano il nuovo
imperio, tenevano con rapporti informato l'antico signore loro, e con
bande sparse, ed appostate nei luoghi più opportuni di quei monti aspri,
e difficili, infestavano continuamente i Francesi, e facevan loro tutto
quel maggior male che potevano.
Queste inclinazioni considerate dal re Vittorio, solito a misurare le
cose più col desiderio che con la prudenza, operarono di modo, che
grandissima affezione portando a' suoi Nizzardi, e concitato a
gravissimo sdegno contro i Savoiardi, non volle mai udire con pacato
animo, che si desse mano a liberare dalla tirannide Francese prima i
secondi, che i primi. Ogni ora gli pareva mill'anni, che i suoi fedeli
di Nizza non tornassero al grembo suo, mentre per castigo sopportava più
volentieri, che i popoli di Savoia continuassero a gustare di quanto
sapessero i Francesi, non considerando, ch'ei gli castigava di quanto
essi più desideravano. Devins e Precy interposero grandissima diligenza
per persuadere il loro desiderio al re, ma non avendo potuto vincere la
sua ostinazione, si fermarono in questo pensiero, che, munite le
frontiere della Savoia con truppe sufficienti per frenar il nemico, ed
anche per ispignersi più oltre secondo le occasioni, si assaltasse la
contea di Nizza col grosso dell'esercito, come prima il tempo avesse
condotto la opportunità di tentar la impresa.
Questa fu la prima origine, questo il seme delle calamità innumerabili,
e della variazione di quasi tutte le cose, che poco dopo seguirono.
Devins continuamente si lamentava, che il re di Sardegna gli avesse
tolto la occasione di far chiaro il suo nome con una onorata e grande
vittoria.
Mentre tutte queste cose si sollecitavano per gli alleati, i Francesi
pensavano ai modi di resistere alla piena che veniva loro addosso: le
deliberazioni loro parte miravano la guerra, parte i negoziati, parte le
corruttele. Quanto alla guerra, si consigliarono di preporre ai due
eserciti dell'Alpi superiori e delle inferiori, dei quali il primo
chiamavano dell'Alpi, il secondo d'Italia, un solo generale, acciocchè
per l'unità dei pensieri potesse più efficacemente conseguire il
medesimo fine. Siccome poi, parte per sospetti vani, parte per argomenti
veri si erano persuasi, che alcuni fra i generali loro, come non
contenti dello stato, o freddamente si adoperavano, o nascostamente
s'intendevano coi Sardi, così pensarono di dar il governo dei due
eserciti ad un uomo non solo di provato valore, ma ancora di provata
fede. Questi fu il generale Kellerman, che aveva testè combattuto i
Prussiani con molta gloria sulle sponde della Matrona. A questo tutte le
genti, che per loro si potevano risparmiare per la grossa guerra che si
guerreggiava verso il Reno, mandavano all'Alpi, per modo che all'aprirsi
della stagione componevano un esercito di cinquanta mila soldati, buoni
per la disciplina, ottimi pel valore, terribili per la rabbia.
Kellerman, avendosene recato in mano il governo, andò considerando, come
la frontiera fosse di troppo più grande larghezza, perchè in ogni luogo
si potesse difendere convenevolmente; e siccome il nemico principalmente
minacciava di prorompere sulle ali estreme, cioè sulla Savoia e su
Nizza, così determinossi a porre il campo grosso in un sito mezzano,
acciocchè fosse in grado di soccorrere con uguale celerità od al ducato,
od alla contea, se l'uno o l'altra corressero pericolo. Questa
opportunità offeriva il sito di Tornus posto nella valle di Queiras, per
essere a un di presso ugualmente discosto da Nizza e da Ciamberì, non
che avesse sfogo d'importanza in cospetto, che anzi non ne aveva a
cagione dei luoghi chiusi o precipitosi, ma per quella rispondenza coi
due estremi. Per la qual cosa Kellerman vi pose il campo, e vi mandava
le genti, le armi, e le vettovaglie; ma la difesa era difficile, perchè
gli alleati occupavano tuttavia la sommità dell'Alpi su tutta la
frontiera, e potevano con facilità e vantaggio calare nelle parti più
basse, e cacciarne i Francesi, combattendogli dall'alto. Per ovviare a
questo pericolo il generale Francese dispose con lodevol arte le sue
genti nelle valli della Savoia superiore, che accennano per istrade più
facili nell'Italia. Così munì Termignone, e San Giovanni nella Morienna;
Moutiers nella Tarantasia, e per maggior sicurezza alloggiò un grosso
corpo a Conflans, dove le due valli dell'Isero e dell'Arco si
congiungono. Nell'Alpi marittime, ove i Piemontesi e gli Austriaci
insistevano con grandissimo vantaggio, a dritta sul monte di Raus, a
stanca sulle creste delle Sorgenti, e nel mezzo sulla fortezza di
Saorgio, Kellerman, distendendo l'esercito dalla Roia sino ai fonti
della Nembia, aveva munito tutte le cime accessibili delle montagne, e
posto il campo di mezzo sul monte Fogasso. Quanto all'ala sua sinistra,
dove il pericolo era maggiore per la facilità dei varchi, e per la
vicinanza della città di Nizza, alla quale principalmente miravano gli
alleati, oltre le stanze solite, aveva collocato un grosso squadrone,
come squadra di riscossa, sul monte Boletto.
Questi erano i preparamenti guerrieri di Francia; le arti politiche
furono le seguenti. Tentarono la Porta Ottomana affinchè si aderisse
alla repubblica contro l'Austria e contro Venezia, ma fu senza frutto.
Tentarono Venezia, promettendole grossi e pronti ajuti, ed ingrandimento
di stato a pregiudizio dell'imperatore. Ma i tentativi di Costantinopoli
mettevano sospetto, lo stato disordinato della Francia non dava
confidenza, l'Austria sì vicina, sì potente, e già penetrata pel passo
concesso quasi dentro alle viscere della repubblica recava timore, e
quel perpetuo pagar lo scotto dei minori, quando si mescolano nelle
differenze fra i maggiori, teneva gli animi sospesi, e lontani
dall'entrar in un mare di tanto pericolo. Perseverò adunque il senato
nella neutralità, offerendo ai Francesi quelle medesime agevolezze negli
stati Veneti, che erano state concedute alle potenze confederate.
Parte principalissima della lega, tra per la forza de' suoi eserciti, e
per la situazione del suo dominio, era certamente il re di Sardegna.
Adunque i capi del governo Francese assai volentieri piegarono l'animo a
pruovare, se potessero con promesse guadagnarsi la sua amicizia. A
questo fine furono introdotti alcuni negoziati segreti tra un agente di
Robespierre per parte della Francia, ed il conte Viretti per parte del
re. Aveva il conte Viretti grande introduzione in tutte le faccende
importanti, benchè di governare le cose di stato avesse piccolo
intendimento. Ricercava Robespierre il re, che si alienasse
dall'amicizia dell'imperatore, cedesse Savoia e Nizza, desse il transito
libero all'esercito di Francia, unisse le sue armi a quelle della
repubblica, od almeno se ne stesse neutrale, purchè solo desse il passo.
Prometteva poi che gli sarebbero assicurati gli stati, e quanto si
conquistasse in Italia a danni dell'imperatore. A questo aggiungeva, che
se il re consentisse a cedere la Sardegna alla Francia, gli sarebbe dato
in compenso lo stato di Genova, e che ogni giorno più apparirebbero
dimostrazioni evidenti dell'amicizia della repubblica verso di lui. Il
re, che era animoso, e sapeva anche del cavalleresco, non volle mai
udire pazientemente le proposte di fare collegazione con Francia, nè
accettare le speranze che gli si proponevano, aggiungendo parole, certo
molto prudenti, che non si voleva fidar dei giacobini. Così rifiutati
del tutto i consigli quieti, sorse più ardente l'inclinazione alla
guerra.
Mentre così andavano i repubblicani di Francia lusingando i potentati
d'Italia per conciliarsi l'amicizia loro, non cessavano per uomini a
posta e per mezzo dei loro giornali, che pure malgrado della vigilanza
dei governi ad interrompergli, s'insinuavano nascostamente in ogni
luogo, a spargere mali semi nei popoli, con invasargli dell'amore della
libertà, e con incitargli a levarsi dal collo il giogo degli antichi
signori. Queste instigazioni non restavano senza effetto, perchè di
quella libertà nella lontana Italia si vedevano soltanto le parole, e
non bene se ne conoscevano i fatti. Le parti nascevano, le sette
macchinavano accordi, le fazioni tumulti. Ma non fia senza utilità il
particolarizzare gli umori che correvano a quei tempi in Italia,
acciocchè i posteri possano distinguere i buoni dai tristi, conoscere i
grandi inganni, e deplorare le debolezze fatali. Adunque in primo luogo
gli uomini si erano generalmente divisi in due parti, quelli che
parteggiavano pei governi vecchi, detestando le novità, e quelli che
parteggiando pei Francesi desideravano mutazioni nello stato. Fra i
primi alcuni così opinavano per fedeltà, alcuni per superbia, alcuni per
interesse. Erano i fedeli i più numerosi, fra i quali chi per tenerezza
verso le famiglie regnanti, e questi erano pochi, chi per bontà di
giudizio o per esperienza delle azioni umane, il numero dei quali era
più largo, e chi finalmente per consuetudine, e questi erano i più. Fra
i superbi osservavansi principalmente i nobili, che temevano di perdere
in uno stato popolare l'autorità ed il credito loro. Tra questi, oltre i
nobili, mescolavansi anche non pochi popolani che volevano diventar
nobili, od almeno tenere i magistrati. Per interesse poi abborrivano lo
stato nuovo tutti coloro che vivevano del vecchio, e questi erano
numerosissimi: a costoro poco importava la equalità o la non equalità,
la libertà o la tirannide, solo che si godessero, o sperassero gli
stipendj. Si aggiungevano i prelati ricchi ed oziosi, per interesse, i
preti popolari e buoni, per amor della religione. In tutti poi operava
una avversione antica contro i Francesi, nata per opera dei governi
Italiani sempre sospettosi della potenza di quella nazione, e del suo
appetito di aver signorìa in Italia.
Di tutti quelli che fino a qui siamo andati descrivendo, alcuni erano
utili ai governi, alcuni disutili, alcuni dannosi. Gli utili erano gli
uomini intelligenti di stato, e pratichi del mondo, i quali ajutavano i
principi coi buoni consigli. Utilissimi erano poi i preti popolari, ed i
popoli da loro ammaestrati. Solo si sarebbe desiderato che avessero
usato maggior temperanza nel dire, perchè magnificando di soverchio le
cose di Francia, scemavano appresso a molti fede alle parole loro, ed
operavano che non credessero loro neanco la verità.
I disutili apparivano gli amatori teneri delle persone principesche,
soliti ad adulare nella fortuna prospera, ed a piangere nell'avversa.
I dannosi erano i nobili ed i prelati ambiziosi, i quali credevano di
render più sicuro lo stato loro coll'esagerarlo, e si proponevano di far
argomento di gran fiducia con mostrar maggiore insolenza. Il frenargli
non pareva buono ai governi, perchè temevano e di alienar coloro, di cui
avevano bisogno, e di mostrar debolezza ai popoli.
L'odio di costoro principalmente mirava contro gli uomini della
condizione mezzana, nei quali supponevano dottrine per lettura, orgoglio
per dottrine, autorità col popolo per contatto. Gli uni chiamavano gli
altri ignoranti, insolenti, tiranni; gli altri chiamavano gli uni
ambiziosi, novatori, giacobini, e tra mezzo ad ire sì sfrenate, non
trovando gli animi moderazione, ed introdotta la discordia nello stato,
si preparava l'adito ai forestieri.
Ora per raccontar di coloro che inclinavano ai Francesi, od almeno
desideravano, che per opera loro si facessero mutazioni nello stato,
diremo, che per la lettura dei libri dei filosofi di Francia era sorta
una setta di utopisti, i quali siccome benevolenti, ed inesperti di
queste passioni umane, credevano esser nata una era novella, e
prepararsi un secol d'oro. Costoro misurando gli antichi governi
solamente dal male che avevano in se, e non dal bene, desideravano le
riforme. Questa esca aveva colto i migliori, i più generosi uomini, e
siccome le speculazioni filosofiche, che son vere in astratto,
allettavano gli animi, così portavano opinione, che a procurar l'utopìa
fra gli uomini non si richiedesse altro che recare ad atto quelle
speculazioni, persuadendosi, certo con molta semplicità, che la felicità
umana potesse solo, e dovesse consistere nella verità applicata. Atteso
poi che il governo della repubblica pareva loro assai più conforme a
quelle dottrine filosofiche, che quello della monarchìa, parteggiavasi
generalmente per la repubblica; ognuno voleva essere, ognuno si vantava
di esser repubblicano, cioè amatore del governo della repubblica. I
Francesi avevano a questi tempi statuito questa maniera di governo; il
che diè maggior fomento alle nuove opinioni, trovando esse appoggio in
un fatto, che veduto di lontano, e consuonando coi tempi, pareva molto
allettativo. Queste radici tanto più facilmente e più profondamente
allignavano, quanto più trovavano un terreno bene preparato a riceverle
ed a farle prosperare, massime in Italia, a cagione della memoria delle
cose antiche; le storie della Grecia e di Roma si riandavano con
diligenza, e maravigliosamente infiammavano gli animi. Chi voleva esser
Pericle, chi Aristide, chi Scipione, e di Bruti non v'era penuria;
siccome poi un famoso filosofo Francese aveva scritto, che la virtù era
la base delle repubbliche, così era anche nata la moda della virtù.
Certamente non si può negare, ed i posteri deonlo sapere (poichè non
vogliamo, per quanto sta in noi, che le opinioni contaminino coll'andar
dei secoli le virtù), che gli utopisti di quei tempi per amicizia, per
sincerità, per fede, per costanza d'animo, e per tutte quelle virtù, che
alla vita privata si appartengono, non siano stati piuttosto singolari,
che rari. Solo errarono, perchè credettero, che le utopìe potessero
essere di questi tempi, perchè si fidarono di uomini infedeli, e perchè
supposero virtù in uomini che erano la sentina de' vizj.
Costoro, così affascinati come erano, offerivano fondamento ai disegni
dei repubblicani di Francia, perchè avevano molto seguito in Italia; ma
fra di loro non tutti pensavano allo stesso modo. I più temperati, ed
erano il maggior numero, avvisavano, non doversi movere cosa alcuna, ed
aspettavano quietamente quello che portassero i tempi. Altri più audaci
opinavano, doversi ajutar l'impresa coi fatti; e però s'allegavano,
tenevano congreghe segrete, ed avevano intelligenze in Francia,
procedendo a fine di un bene immaginario con modi degni di biasimo.
A tutti questi, come suol avvenire, s'accostavano uomini perversi, i
quali celavano rei disegni sotto magnifiche parole di virtù, di
repubblica, di libertà, d'uguaglianza. Di questi alcuni volevano
signoreggiare, altri arricchire; gli avidi, gli ambiziosi eran diventati
amici della libertà, e nissun creda che altri mai abbia maggiori
dimostrazioni fatto d'amor di patria, che costoro facevano. Essi soli
erano i zelatori, essi i virtuosi, essi i patriotti, ed i poveri
utopisti eran chiamati aristocrati; accidenti tutti pieni di un orribil
avvenire; imperciocchè non solamente pronosticavano mutazioni nello
stato vecchio, ma ancora molto disordine nel nuovo.
I buoni utopisti intanto non si svegliavano dal forte sonno, e
continuavano nelle loro beatitudini, non che scusassero le enormità di
Francia, che anzi le detestavano, ma stimavano fra breve dover cessare
per far luogo alla felicissima repubblica. Fra loro i migliori, e quelli
che non andavano presi alle grida, sapevano che non si poteva mutar lo
stato senza molte calamità, nè ignoravano che la presenza in Italia di
una gente inquieta, non poteva portar con se se non un diluvio di mali;
ma si consolavano col pensare che i Francesi, come incostanti, avrebbero
finalmente lasciato Italia in balìa propria, e con quel reggimento
politico che più si desiderava. A tutto questo si aggiungevano altri
stimoli: credevano, i governi Italiani aver certamente bisogno di
riforme, ma molto più ancora credevano, qualunque fosse il modo di
governo che si avesse ad ordinare, che l'Italia abbisognasse di
sottrarsi a quell'impotente giogo, a cui era posta da tanti secoli, e di
risorgere a nuova vita, ed a nuova grandezza, nel qual pensiero erano
infiammatissimi. Spargevano, esser venuto il tempo, che Italia
pareggiasse Germania e Francia per potenza, come le pareggiava per
civiltà, e per dottrina; dovere l'Italia moderna assomigliarsi
all'antica; quei governi vieti ed umilianti non esser pari a tanto
disegno, quelli spartimenti di stati essere pregiudiziali alla
independenza; assai e pur troppo aver corso i forestieri a posta loro
l'Italia; doversi finalmente alzar l'animo a più larghi pensieri; ora
dovere questa nobile provincia aver tali condizioni, che la speranza
della debolezza sua non dia più ai forestieri ardire di assaltarla; e
poichè la libertà comune non si poteva conseguire se non con un
rivolgimento totale, così questo doversi meglio desiderare che fuggire.
A che montare mali passeggieri in soggetto di perpetua felicità?
Benediranno, aggiungevano, benediranno i posteri con infinite laudi
coloro, ai quali non rifuggì l'animo d'incontrar mille pericoli, di
soggettarsi a calamità senza fine per creare un beato vivere all'Italia.
Era fra i zelatori di novità una rara spezie; quest'era di ecclesiastici
di buoni costumi, e di profonda dottrina, i quali nemici alla potenza
immoderata dei papi, che chiamavano usurpata, s'immaginavano, che come
in Francia essa era stata distrutta, così sarebbe in Italia, se i
Francesi vi ponessero piede. A questi pareva, che il governo popolare
politico molto si confacesse con quel governo popolare religioso, che
era in uso fra i Cristiani nei tempi primitivi della chiesa. Gridavano,
essersi accordati i papi coi re per introdurre la tirannide nello stato
e nella chiesa; doversi i popoli accordare per introdurvi la libertà con
ritirare l'uno e l'altra verso i suoi principj. I giovani allievi delle
scuole di Pavia e Pistoia avevano, e propagavano queste dottrine. Fra i
vecchi poi ve n'erano anche de' più pertinaci nelle opinioni loro, e
questi per l'autorità che avevano grandissima, mettevano divisione fra
la gente di chiesa.
A tutte queste sette si aggiungeva quella degli ottimati, o vogliam
dire, per parlar secondo i tempi, la setta aristocratica, la quale avida
anch'essa del dominare e nemica ugualmente alla autorità reale ed
all'autorità popolare, sperava, che in mezzo alle turbazioni potesse
sorgere la sua potenza. Questi settarj avvisavano, che lo stato popolare
si volge sempre all'aristocrazìa, per l'autorità che danno
necessariamente le ricchezze, le dottrine, la esperienza e la celebrità
del nome; e non dubitavano che debilitata, o spenta l'autorità reale, e
male ordinata quella del popolo, avesse a nascere l'anarchìa, per fuggir
la quale il popolo suol sempre ricorrere all'autorità dei pochi. Fra
questi erano quei nobili massimamente, che, ragguardevoli per ricchezze,
e per virtù, non tenevano i magistrati, e se ne vivevano lontani dalle
corti. Desideravano le novità, ma siccome quelli, che erano astuti e
pratichi del mondo, ed anche pretendevano dignità ad ogni proceder loro,
non macchinavano, anzi se ne stavano in disparte ad aspettar quietamente
quello, che la fortuna si cacciasse avanti; imperciocchè non ignoravano,
che a chi comincia, sempre mal n'incoglie, e che la necessità senza
nissuna cooperazione loro avrebbe indotto il loro dominio. Così costoro
nè ajutavano, nè disajutavano la potenza reale che pericolava, e
aspettavano la loro esaltazione dalla potenza popolare che loro era
nemica.
Tal'era la condizione d'Italia: i buoni esperti volevano la
conservazione per previdenza di male, i buoni inesperti volevano le
novità per isperanza di bene; i malvagi desideravano rivoluzioni per
dominare e per succiarsi lo stato; il clero stesso parteggiava; dei
nobili alcuni erano fedeli e temperati, altri fedeli ed insolenti, e per
l'insolenze loro operatori che nascessero male inclinazioni nel popolo;
altri finalmente poco fedeli, ma prudenti, aspettavano quietamente le
occasioni: in mezzo a tutte queste inclinazioni s'indebolivano
continuamente i fondamenti dello stato; pure la massa dei popoli
perseverava sana, ed avrebbe potuto essere di grande appoggio a chi
avesse saputo usarla prudentemente, e fortemente.
Narrati i preparamenti, le trame, e le speranze d'ambe le parti, ora
descriveremo gli accidenti che portò seco la fortuna dell'armi: nella
quale trattazione si dovrà sempre por mente, che in quest'anno
intenzione dei Francesi non era di farsi strada in Italia per forza, se
non nel caso in cui la fortuna avesse loro scoperto occasioni molto
favorevoli; perciò disegnavano di starsene sulla guerra difensiva,
mentre dall'altro canto gli alleati volevano ad ogni modo, usando la
offensiva, penetrare nell'interno della Francia.
I Francesi, prevedendo una guerra vicina coll'Inghilterra e la Spagna,
potenze forti sull'armi navali, e volendo usare la breve signorìa che
restava loro nel Mediterraneo, avevano ordinato una spedizione contro
l'isola di Sardegna. Speravano che qualche moto interiore avrebbe
ajutato l'impresa, che era per loro di grand'importanza, perchè l'avere
un rifugio nei porti di Sardegna nel caso di guerra marittima e di
burrasche, era stimato utilissimo; poi i fromenti che l'isola produce in
abbondanza, offerivano un opportuno ristoro alle coste della Provenza
sterili per se stesse, e non sicure per la presenza dei nemici sul mare.
A questo dava anche fomento il considerare, che per l'autorità di Paoli,
la Corsica si commoveva contro il governo testè ordinato in Francia. Si
argomentava essere necessaria la possessione della Sardegna per
conservar quella della Corsica, che già pericolava. Stimolato da questi
motivi il governo di Francia avea messo in ordine un'armata nel porto di
Tolone, composta di ventidue navi da guerra, fra le quali se ne
noveravano diecinove grosse di fila; e per combattere su terra, ed usar
le occasioni che si appresentassero, vi aveva imbarcato seimila soldati
atti a combattere nelle battaglie stabili di terra. Questa mole
guerriera dovevano seguitare molte navi da carico per imbarcarvi i
fromenti, e trasportargli in Francia. Il governo di sì fiorita
spedizione fu dato all'ammiraglio Truguet: laonde, trovandosi ogni cosa
in pronto, ed appena giunto l'anno 1793, l'armata Francese salpando da
Tolone, se ne veleggiava con vento prospero verso la Sardegna; vi giunse
prima del finir di gennajo, ed il dì ventiquattro del medesimo mese pose
l'ancora, mostrando un terribile apparato, nel porto di Cagliari; nè
ponendo tempo in mezzo, l'ammiraglio mandò un uffiziale con venti
soldati a far la chiamata alla città. Quì, secondo che narrano gli
scrittori Francesi più degni di fede, nacque il medesimo caso che già
abbiamo deplorato di Oneglia, cioè che i Sardi, veduto avvicinarsi il
palischermo sul quale era inalberata la nuova insegna dei tre colori,
trassero sì che l'uffiziale, e quattordici soldati restarono morti, e la
più parte degli altri feriti. L'ammiraglio pose mano a fulminare, ed a
bombardare la piazza con tutto il pondo delle sue artiglierìe. Nè i
difensori se ne stettero oziosi; spesseggiando coi colpi, e traendo con
palle di fuoco contro le navi Francesi, sostenevano una ferocissima
battaglia. Questo assalto durò tre giorni con poco danno dei Sardi, ma
con gravissimo dell'armata Francese, della quale una nave grossa arse, e
due andarono di traverso. Le altre o rotte sconciamente nel corpo, o
lacerate negli arredi, a stento potevano mareggiare. In questo mentre,
oltre il presidio che combattè egregiamente, massime i cannonieri,
arrivarono i montanari, che già si erano mossi quando dall'alto avevano
veduto avvicinarsi l'armata nemica; ed ora essendo stati distribuiti ai
luoghi più opportuni, minacciavano di rincacciare e di uccidere chiunque
si attentasse di sbarcare; memorabile esempio di fedeltà civile, e di
virtù militare. Nè fu inutile l'opera loro, poichè i Francesi, mentre
più ardeva la battaglia, avevano posto piede a terra nei luoghi
circonvicini, sperando di far muovere i popoli a favor loro, od almeno,
dando diversi riguardi e spartendo le forze nemiche, di far rallentare
la difesa della città, nella quale consisteva tutta l'importanza del
fatto. Ma coloro che sbarcarono o restarono uccisi, o costretti dai
montanari si ricoverarono precipitosamente alle navi. Così restò vana la
fatica ed il desiderio dell'ammiraglio di Francia. Perderono i Francesi
in questo conflitto circa seicento buoni soldati. Dal canto dei Sardi,
cinque solamente furono uccisi, pochi feriti. Nè Cagliari ricevè danno
proporzionato a tanto bersaglio; solo i sobborghi situati di sotto e più
vicini al mare patirono. L'ammiraglio, veduto che gl'isolani, nei quali
aveva posto la principale speranza, non solamente non avevano fatto
movimento in suo favore, ma ancora avevano validamente combattuto contro
di lui, disperato dell'evento, si allargò nel mare lontano dalla portata
delle batterìe, quantunque tuttavia stanziasse ancora con le sue navi,
così lacere come erano, per qualche tempo nelle acque del golfo di
Cagliari. Ma poco stante, non essendo senza sospetto di ammottinamento
ne' suoi soldati, come suole avvenire nelle disgrazie, e levatasi una
furiosa tempesta, se ne andò di nuovo a porre nel porto di Tolone, dove
l'attendevano casi ancor più tremendi.
Mentre in tal modo una guerra viva si era accesa e presto spenta sulle
coste di Sardegna, le cose della Corsica non passavano quietamente: la
perdita medesima dell'impresa di Cagliari diè fomento a coloro, che
scontenti del governo di Francia macchinavano di rivolgere lo stato.
Mosso dall'odio antico e dall'ingiurie recenti, andava Paoli sollevando
ed armando le popolazioni, massimamente nei luoghi montuosi ed
inaccessi. Al qual disegno gli preparavano la strada la chiarezza del
suo nome, la venerazione in cui lo avevano i Corsi, le esorbitanze dei
repubblicani. Pubblicava, essere oramai venuto il tempo di levarsi dal
collo la superiorità Francese stata sempre intollerabile, ed ora per
l'insolita ferocia diventata intollerabilissima; lo sdegno di tutta
l'Europa, e la rabbia interna, che consumava la Francia, aprir l'adito a
compire quello che una volta impedirono i fati inesorabili; afferrassero
la fortuna propizia, si liberassero dai tiranni, acquistassero la
independenza, fondassero la libertà; bastare quelle anime forti, bastare
quei corpi robusti all'onorata impresa, ma per soprappiù già muoversi in
ajuto loro la potente Inghilterra; avere l'Inghilterra forza sufficiente
per ajutare la libertà d'altri, non sufficiente per opprimerla;
cacciassero quei crudeli stromenti mandati da una crudelissima assemblea
a taglieggiare, a decimare la generosa ed innocente Corsica;