Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - 01

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STORIA D'ITALIA
DAL 1789 AL 1814

SCRITTA
DA CARLO BOTTA
TOMO I

CAPOLAGO
_presso Mendrisio_
Tipografia Elvetica
MDCCCXXXIII


STORIA D'ITALIA


LIBRO PRIMO
SOMMARIO
Proposito dell'opera. Stato d'Italia nel 1789. Come siano nati
gli ordini feudali; poi come moderati. Opinioni ed
inclinazioni del secolo in questa materia. Stato della
religione; perchè fu soppressa la società dei gesuiti, e quali
effetti siano nati da questa soppressione. Lodi di Giuseppe II
imperatore d'Alemagna, e riforme fatte da lui. Viaggio di papa
Pio VI a Vienna. Buon governo del ducato di Milano sotto il
conte di Firmian. Lodi di Leopoldo gran duca di Toscana; sue
numerose ed utili riforme; felice condizione del popolo sotto
questo principe. Dottrine di Scipione de' Ricci vescovo di
Pistoia, e del suo sinodo. Quali effetti partoriscano queste
dottrine sulla corte di Roma. Stato del regno di Napoli;
amministrazione del marchese Tanucci; opinioni che vi
regnavano; riforme eseguite, o sperate. Stato, e parlamento di
Sicilia. Stato del ducato di Parma sotto i duchi don Filippo e
don Ferdinando: buona amministrazione di Dutillot. Condizioni
di Roma e delle romane cose: disegni che vi si facevano:
qualità di Pio VI; sua magnificenza; suoi sforzi pel
prosciugamento delle paludi Pontine. Stato del Piemonte;
qualità di Vittorio Amedeo III re di Sardegna; suoi
ordinamenti sui soldati, sull'amministrazione, sulle finanze.
Stato della repubblica di Venezia; natura del suo governo, e
de' suoi popoli. Condizioni della repubblica di Genova, poi di
quelle di Lucca, e di San Marino. Stato del ducato di Modena,
e qualità del suo principe, Ercole Rinaldo d'Este. Sunto
generale delle opinioni, ch'erano prevalse in Italia nel 1789.

Proponendomi io di scrivere la storia delle cose succedute in Italia ai
tempi nostri, non so quello che gli uomini della presente età saran per
dire di me. Conciossiachè mancati col finire del decimo sesto secolo gli
eccellenti storici fiorentini, i quali soli forse fra gli storici di
tutti i tempi e di tutte le nazioni scrissero senza studio di parti la
verità, i tempi andarono sì fattamente peggiorandosi, e l'adulazione in
guisa tale distendendosi, che il volere scrivere la storia con sincerità
pare opera piuttosto incredibile, che maravigliosa. E non so perch'io
m'oda dire tuttavia, che la storia è il lume del tempo, e che insegna
bene il fatto loro ai popoli, ed ai principi: imperciocchè, scritta
secondo il costume che prevalse, io non so quale altra cosa ella possa
insegnare altrui, fuori che a dir le bugie; e qual buona guida nel
malagevole cammino della nostra vita siano queste, ognun sel vede,
stantechè i negozi umani con la realtà si governano, non con le chimere.
E già i più tra coloro ai quali io appalesai questo mio pensiero, mi
dissero apertamente o ch'io non oserei, o ch'io non potrei, od
all'ultimo ch'io non dovrei mandarlo ad esecuzione. Pure, pare a me, che
se l'adulazione si cerca da una parte, che certamente si cerca, molto
ancora più si offra dall'altra, e che più ancora siano da accagionarsi
di viltà gli scrittori, che di rigore, o di ambizione i principi. Per la
qual cosa io, che di maggior libertà nello scrivere non pretendo di
godermi di quella, cui Benedetto Varchi, o Francesco Guicciardini
ottennero dal duca Cosimo, e Niccolò Machiavelli dal pontefice romano,
il quale concesse anco un amplissimo privilegio per la stampa delle sue
opere, mi confido che comportare mi si possa: salvochè si voglia
credere, od almeno dire, ciò che credeva e diceva colui, che ai nostri
dì avrebbe voluto spegnere anco il nome della libertà, cioè che tutto il
male (così chiamava egli il desiderio mostrato prima dai principi,
poscia dai popoli, di un governo più benigno) procedette dal secolo di
Leone X. Che se ad alcuni sembrasse essere le cose più tenere oggidì,
che ai tempi passati, dirò che anche allora furono, come negli anni
vicini a noi, massime nella misera Italia, inondazioni di eserciti
forestieri, arsioni di città, rapine di popoli, devastazioni di
provincie, sovvertimenti di stati, e fazioni, e sette, e congiure, ed
ambizioni crudeli, ed avarizie ladre, e debolezze di governi effeminati,
e fraudi di reggimenti iniqui, e sfrenatezze di popoli scatenati. Per
me, sonmi del tutto risoluto, se a tanto si estenderanno le forze del
mio ingegno, a mandare ai posteri con verità la compassionevol trama di
tanti accidenti atroci, di cui la memoria sola ancora ci sgomenta.
Seguane poi ciò che vuole: che la vita è breve, ed il contento di avere
adempiute le parti che a buono e fedele storico si appartengono, è
grande, e quasi infinito. Oltrechè di conforto non poco sarammi il
raccontare, come farò, con uguale sincerità le cose liete, utili, e
grandi, che fra tanti lagrimevoli casi si operarono per un benigno
risguardo della divina providenza che mai non abbandona del tutto i
miseri mortali.
L'Europa conquistata dai re barbari fu data in preda ai capitani loro;
uomini e terre caddero in potestà di questi. Così se ai tempi romani le
generazioni erano partite in uomini liberi, e schiavi, ai tempi barbari
furono divise in conquistatori, e servi. Tale è l'origine degli ordini
feudali. Teodorico re de' Goti moderò una tal condizione coll'avere
istituito i municipii. Poi gli ecclesiastici diventati ricchi fecero
ordine, e mitigarono, dividendola, o contrastandola, l'autorità feudale.
Così sorsero gli ordini, o stati, o bracci, che si voglian nominare,
della nobiltà, del clero, e dei comuni. Carlo V gli spense nella Spagna,
ma non potè nell'isole d'Italia; i Borboni gli conservarono in Francia,
servendosene più o meno, secondo i tempi. Nell'Italia divisa in tanti
stati, e sì spesso preda di principi forestieri, che a fine di tenerla
accarezzavano pochi potenti per assicurarsi dei più, l'autorità
municipale, se si eccettuano alcune antiche repubbliche, si mantenne più
ristretta, la feudale più larga. Ciò quanto allo stato. Rispetto ai
particolari restavano ancora non pochi vestigi dell'antico servaggio,
tanto circa le cose, quanto circa le persone. Di questi, alcuni andarono
in disuso per opinione de' popoli, o per benignità dei feudatarii; altri
furono aboliti dai principi: dei superstiti, il secolo, di cui abbiamo
veduto il fine, voleva l'annullazione.
Nè in questo si contenevano i desiderii dei popoli. Volevasi una
equalità quanto alla giustizia, e quanto ai carichi dello stato; nella
quale inclinazione concorrevano non solamente coloro ai quali questa
equalità era profittevole, ma eziandio la maggior parte di quelli, che
si godevano i privilegi. Dire poi, come alcuni hanno scritto, e
probabilmente non creduto, che si volesse una equalità di tutto, ed
anche di beni, fu improntitudine d'uomini addetti a sette, soliti sempre
a non guardare quel che dicono, purchè dicano cose che possano
infiammare i popoli, e farli correre alle armi civili. Queste erano le
quistioni dei diritti; e sarà da quinc'innanzi cosa luttuosissima al
pensarci, e degna di eterne lagrime, che col progresso di tempo siansi
alle quistioni medesime mescolate certe altre astrattezze, e sofisterie,
che insegnarono alla moltitudine il voler fare da se, quantunque si
sapesse che la moltitudine commette il male volentieri, e si ficca anco
spesso il coltello nel petto da se: tanto i moti suoi sono incomposti, i
voleri discordi, le fantasie accendibili, e tanto ancora sopra di lei
possono sempre più gli ambiziosi, che i modesti cittadini.
La religione medesima era già trascorsa, non già nel dogma, che sempre
rimase inconcusso, ma bensì nella disciplina. Dolevansi i popoli che gli
utili operai della vigna del Signore fossero poveri, mentre gli oziosi
se ne vivevano in grandi ricchezze, delle quali non solo usavano, ma
spesso ancora abusavano: dolevansi essere i primi insufficienti per
numero, o per mala distribuzione delle cariche, i secondi eccessivi;
dolevansi di certe pratiche religiose, più utili a chi le metteva su che
decorose pel divin culto, mentre per queste era nel medesimo tempo
scemato maestà e frequenza alle più gravi e necessarie solennità della
chiesa: scandalizzarsene le anime pie, darsi cagion di calunnia agli
empi, ed agli acattolici.
Ma ben altri discorsi si facevano, massimamente in Italia, i quali tutti
nascevano da quella inclinazione del secolo favorevole ai più. Era stata
soppressa la società di Gesù, perchè era divenuta formidabile ai
principi, e perchè faceva coll'autorità sua, e co' suoi maneggi
formidabile di soverchio ai medesimi la corte di Roma. Imperciocchè,
mescolate le profane cose con le divine, temevano i principi cattolici,
che siccome era una monarchia universale spirituale di cui era capo il
sommo pontefice, così venisse a nascere per mezzo dei gesuiti, tanto
attivi, e tanto sagaci operatori per la santa sede, una forma di
monarchia universale temporale, in cui avesse il capo della fede
cattolica più autorità, che gli si convenisse. Vedevasi il sommo
pontefice Clemente XIV, che lo spegnere i gesuiti era un privarsi della
più efficace milizia che s'avesse: con tutto ciò non potè resistere alle
esortazioni ed alle minacce di tanti principi potenti di forze,
celebrati per pietà, formidabili per concordia. Pure stette lungo tempo
in forse; finalmente consentì, poi fra breve si pentì. Ma seguitonne a
timore del papa, ed a contentezza dei principi maggior effetto, che
quello e questi non avevano creduto; poichè ne sorse più viva nel corpo
della chiesa la parte popolare. Parlossi di doversi ridurre alla
semplicità antica la chiesa di Cristo; allargare la autorità de' vescovi
e dei parrochi; scemar quella del pontefice sommo, nè doversi più
tollerare il romano fasto. Le querele, che risuonarono già fin dai tempi
antichissimi contro la corruzione di Roma, rinnovellavansi, ed andavano
al colmo. Le dottrine di Porto-Reale si diffondevano; coloro che le
mantenevano erano in molta autorità presso il popolo, perchè
risplendevano non per oro, nè per corredi, ma per dottrina, per
austerità di costumi, e per una certa semplicità di vita, che molto
ritraeva degli antichi tempi evangelici.
Inclinazioni di tal sorte arridevano ai principi, memori tuttavia della
superiorità dei gesuiti, e della potenza di Roma. Nè non pensavano, che
maggiore autorità acquisterebbero nell'ecclesiastiche discipline, se i
vescovi, che sempre sono da loro dipendenti, meno da Roma dipendessero.
Stimavano che la diminuzione delle prerogative papali fosse per essere
la libertà dei principi.
Queste massime più strette per chi dominava, più larghe per chi
obbediva, trovavano disposizioni favorevoli nell'opinione de' popoli, e
però più profonde radici mettevano. Così uno spirito stesso e circa le
cose civili, e circa le ecclesiastiche andava insinuandosi a poco a poco
in tutte le parti del corpo sociale. Ciò non ostante, se molti pensavano
a riforme, nissuno pensava a sovvertimenti; nè alcuno ambiva di far da
se, ma ognuno aspettava dal tempo e dalla sapienza dei principi
temperamento alle cose, e compimento a' desiderii.
Piacemi ora, venendo ai particolari, che in proposito di riforme il mio
discorso abbia principio da un nome imperiale. Giuseppe II, imperatore
d'Alemagna, principe per vigor di mente, e per amore verso l'umana
generazione facilmente il primo, se si paragona ai principi de' suoi
tempi estranei alla sua casa; il primo forse ancora, od il secondo, se
si paragona a Leopoldo suo fratello, molto pensò e molto operò in
benefizio dell'austriache popolazioni. Nè voglio, che le accuse dategli,
perchè era re, dagli sfrenati commettitori di tante enormità in Francia
a' tempi della rivoluzione, nè quelle dategli dopo, perchè ei volle
operare, ed operò molte novità, da coloro, che vorrebbono in chi regge
una potestà non solo assoluta, ma anche dura e terribile, tanto gli
nocciano, ch'io non lo predichi, come uno dei primi, e più principali
benefattori, che abbia avuto il mondo. Molto viaggiò, non per pompa, ma
per conoscere le instituzioni utili, ed i bisogni dei popoli; i casolari
dei poveri più aveva in cale, che gli edifizj dei ricchi; nè mai
visitava il bisognoso, che nol consolasse di parole, ed ancor più di
fatti. Protesse con provvide leggi i contadini dalle molestie dei
feudatari, opera già incominciata dalla sua madre augusta Maria Teresa:
gli ordini feudali stessi voleva estirpare, e fecelo. Volle che si
ministrasse giustizia indifferente a tutti; là creava spedali, ospizi,
conservatorii, ed altre opere pie; quà fondava università di studi; i
giovani ricchi d'ingegno, e poveri di fortuna, in singolar modo aiutava.
Ai tempi suoi, e per opera sua lo studio di Pavia sorse in tanto grido,
che forse alcun altro non fu mai sì famoso in Europa. Lo studio medesimo
empiè di professori eccellenti in ogni genere di dottrina, cui favoriva
con premii, e non avviliva con la necessità dell'adulazione. Nè contento
a questo, fondò premii per gli agricoltori diligenti ed aprì novelle vie
al commercio per nuove strade, per nuovi porti, per abolizione delle
dogane interne; nè mai in alcun altro paese o tempo, furono in così
grande onore tenuti, come in Italia sotto Giuseppe, gli scienziati che
sollevano, ed i letterati che abbelliscono la vita incresciosa e trista.
Mandovvi altresì, qual degno esecutore de' suoi consigli, il conte di
Firmian, sotto la tutela del quale la Lombardia austriaca venne in tanto
fiore, che sto per dire, che in lei verificossi la favolosa età
dell'oro.
Quanto alle instituzioni ecclesiastiche, dichiarò Giuseppe la religione
cattolica dominante, ma volle che si tollerassero tutte; comandò ai
vescovi, che niuna bolla pontificia avessero per valida, che non fosse
loro dal governo trasmessa, regola già praticata da altri principi, ma
non sempre osservata; statuì, che gli ordini dei religiosi regolari, non
dai loro generali residenti in Roma, ma bensì dal superiore ordinario,
cioè dal vescovo, dipendessero; parendogli nè sicura, nè decorosa allo
stato quella dipendenza, nè alla ecclesiastica disciplina profittevole;
abolì i conventi che gli parvero inutili, lasciando sussistere fra le
monache solamente quelle, che facevano professione d'ammaestrar le
fanciulle; eresse nuovi vescovati, accoppionne altri; distribuì meglio
l'entrate di tutti; fondò poi un numero assai considerabile di
parrocchie, sollecito piuttosto dell'instruzione, e della salute di
tutti i fedeli, che del fasto di pochi prelati.
A queste innovazioni risentissi gravemente il sommo pontefice Pio VI,
uomo di natura assai subita, e delle prerogative della santa sede
zelantissimo. Perciò confidatosi nell'autorità del grado, nella maestà
dell'aspetto, e nell'eloquenza, che era in lui grandissima, nè pensando
alla diminuzion di riputazione, che gli verrebbe, se la sua gita
riuscisse senza frutto, se n'andò a Vienna. Quivi fu ricevuto forse
tanto più onoratamente, quanto più gli si volevano denegare le proposte.
Passate le prime caldezze, e ristrettosi con l'imperatore, entrò il
pontefice a negoziare con lui delle cose che occorrevano; e con
incredibile maestà favellando lo ammonì: «Badasse molto bene a quel che
si faceva; magnifiche parole essere la semplicità delle cose antiche, ma
non convenirsi ad un secolo che non le cura; esser trascorsi i costumi,
debilitate le credenze, gli animi pieni d'ambizione, però l'apparato
esteriore dover aiutare la fede vacillante, frenare dall'un canto,
saziare dall'altro gli appetiti; altra dover esser la condizione della
chiesa ristretta, povera, e perseguitata, altra quella della chiesa
estesa quanto il mondo, ricca, e trionfante; se possono convenire i
governi larghi ai piccoli stati, convenirsi certamente le monarchie ai
grandi, nè in tanta immensità di dominio spirituale potersi senza
pericolo debilitare la potestà suprema della santa sede; senza di lei
sorgerebbero tosto le ambizioni locali, e nascerebbe lo scisma;
osservasse quante discordie, e quante sette fossero nate dal solo errore
di Lutero, non per altro, che per aver gettato via il salutare freno del
successore di San Pietro: lacererebbesi del pari la restante chiesa
cattolica da tali principii; e tolti al governo consueto del pastore
universale, gli agnelli diventerebbero preda dei lupi; in materia di
riforme, quando si vuol far da se, cominciarsi forse con animo
innocente, e volto al bene, finirsi per la pervicacia, e per l'ambizione
connaturale all'uomo, nel male; non desse ascolto alle parole melliflue,
e suonanti umiltà di certuni; sotto umili spoglie, entro discorsi
mansueti velar essi pensieri superbissimi; non voler obbedire altrui per
poter col tempo dominare altrui; deboli, esser supplicanti, forti,
intolleranti; riflettesse, quanto importasse alla conservazione delle
monarchie temporali la monarchia spirituale; le male usanze appiccarsi
facilmente; sciolta questa, esser pericolo, che per contagio si
sciolgano anche le altre, e già gittarsene motti per le dottrine dei
moderni filosofi; dal torre la venerazione ad un potente, al torla a
tutti esser facile la strada; in un secolo scapestrato nissun maggior
fondamento aver i monarchi, che l'autorità monarchica del pontefice
romano; ch'esso ne voglia abusare, come ne fu accusato ai tempi antichi
contro i monarchi stessi, apparire nissun indicio, nè comportarlo il
secolo; quanto a lui particolarmente, avvertisse diligentemente alla
potenza del re di Prussia, emulo della potenza sua, e capo della parte
protestante in Germana; se alienasse da se i cattolici, i quali
seguiteranno sempre o per persuasione, o per consuetudine i dettami
della chiesa di Roma, quale speranza, quale appoggio, quale forza gli
resterebbe? Ricordassesi di Carlo V, suo glorioso antenato, costretto a
fuggirsene in fretta da Inspruck, cacciato da quei protestanti medesimi,
a cui pur troppo grandi favori aveva compartito; seguitasse le vestigia
dell'augusta sua madre, e di tanti altri antecessori del suo stesso
sangue famosi al mondo per le cose grandi fatte sì in pace che in
guerra, ma più famosi ancora per la pietà loro e per la divozione verso
la santa sede; lasciasse dall'un de' lati queste subdole opinioni,
questi pericolosi fatti, tornasse al grembo suo, ch'ei l'avrebbe accolto
ed abbracciato, quale amorosissimo padre accoglie ed abbraccia un
amatissimo figliuolo; sapersi lui, le cose umane trascorrere di secolo
in secolo, ed aver bisogno di esser ritirate di tempo in tempo verso i
principii loro; esser parato a farlo, come padre comune di tutti i
fedeli in tutto quanto e la religione richiedesse, e la dignità, ed i
diritti della santa sede tollerassero; ma da lui solo dover venire, come
da fonte comune, ed in virtù della pienezza della potestà apostolica, le
riforme; venir da altri, non poter essere senza scandalo, nè senza
offesa della dignità, e delle prerogative del vicario di Cristo; in età
già grave aver lasciato la sede apostolica sua, corso un tratto immenso
di strada, valicati aspri monti, venuto in paese tanto strano a lui, a
ciò spinto da quel divino spirito, che non inganna, per rimuovere ogni
intermedia persona, per ammonirlo a bocca lui medesimo dei pericoli che
sovrastavano, e per farlo avvertito, che una è la chiesa di Cristo, uno
il governo di lei, ed uno il suo pastore, dal quale solo gli altri
derivano l'autorità loro; non sopportasse, che tanta fatica, che sì
solenne viaggio, che esortazioni tanto paterne, che sì grande
aspettazione dei buoni, in affare di tanto momento, fossero indarno».
Tutte queste cose gravi in se stesse, e porte altresì con grandissima
gravità dal pontefice, non poterono svolgere Cesare dalle prese
deliberazioni. Tornossene Pio a Roma tanto più dolente, quanto più
vicino alla sua sede stessa vedeva sorgere la tempesta, cui voleva
stornare. Era stato assunto nel 1765 al trono di Toscana il gran duca
Leopoldo. Questo principe, il quale non si potrà mai tanto lodare, che
non meriti molto più, mostrò quanto possa per la felicità dei popoli una
mente sana congiunta con un animo buono, e tutto volto a gratificare
all'umanità. Solone fece un governo popolare, e torbido, Licurgo un
governo popolare, e ruvido, Romolo un governo soldatesco, e
conquistatore; fece Leopoldo un governo quieto, dolce, e pacifico, tanto
più da lodarsi dell'aver concesso molto, quanto più poteva serbar tutto.
E se anche si vorrà accagionare il gran duca di aver dato occasione co'
suoi nuovi ordinamenti alla rivoluzione Francese, come odo che si dice,
io non so se sia più da deplorarsi la cecità di certuni, o l'infelicità
dei principi, più soggetti sempre ad esser adulati quando fan male, che
lodati quando fan bene.
Erano prima di Leopoldo le leggi di Toscana parziali, intricate,
incommode, improvvide, siccome quelle che parte erano state fatte ai
tempi della repubblica di Firenze, tumultuaria sempre e piena di umori
di parti, e parte fatte dopo, ma non consonanti con le antiche, le quali
tuttavia sussistevano. Altre ancora erano per Firenze, altre pel
contado, queste per Pisa, quelle per Siena, poche, o nissune generali.
Sorgevano incertezze di foro, contese di giurisdizione, lunghezze
d'affari, un tacersi per istracchezza dei poveri, un procrastinare a
posta dei ricchi, ingiustizie facili, ruine di famiglie, rancori
inevitabili. Erano altresì leggi criminali crudeli, o insufficienti, un
commercio male favorito, un'agricoltura non curata, un suolo
pestilenziale, possessioni mal sicure, coloni poveri, debito pubblico
grave, dazii onerosissimi.
A tutto pose rimedio il buon Leopoldo. Annullò i magistrati o superflui,
o poco proficui, o privilegiati, e tra questi quello delle regalìe,
togliendo in tal modo qualunque prerogativa, che sottraesse ai tribunali
ordinarii quelle cause, che percuotevano l'interesse della corona.
Esentò i comuni dai fori privilegiati; gli rendè liberi nel governo dei
loro beni, diè loro facoltà non solamente di esaminare, ma ancora di
giudicare dell'opportunità delle pubbliche gravezze, per modo che il
corpo loro venne a formare nel gran-ducato a certi determinati effetti
una rappresentanza nazionale. Condonati, oltre a ciò, dei debiti verso
l'erario, e soddisfatti dei crediti, sorsero a grande prosperità;
crebbela ancor più il miglioramento del catasto.
Soppressi adunque i privilegii individui, ed i fori privilegiati, corpi
e persone acquistarono equalità di diritti quanto alla giustizia. Tali
furono gli ordini civili introdotti da Leopoldo. Circa i criminali,
annullò altresì ogni immunità e parzialità di foro; abolì la pena di
morte, abolì la tortura, il crimen-lese, la confisca dei beni, il
giuramento de' rei; statuì, le querele doversi dare per formale
instanza, e dovere stare il querelante per la verità dell'accusa;
restituissersi i contumaci all'integrità delle difese; del ritratto
delle multe e pene pecuniarie, cosa degna di grandissima lode, si
formasse un deposito separato a beneficio e sollievo di quegli
innocenti, che il necessario e libero corso della giustizia sottopone
talvolta alle molestie di un processo, ed anche del carcere, non meno
che per soccorrere i danneggiati per delitti altrui; il che fondò, cosa
maravigliosa, un fisco, che dava in vece di torre; le pene stabilì
proporzionate al delitto. Nè contento a questo, diè carico di scrivere
un novello codice toscano all'auditor di Ruota Vernaccini, ed al
consiglier Ciani, uomini, l'uno e l'altro i quali non solo volevano e
sapevano, ma ancora credevano potersi far bene e utilmente in queste
faccende delle leggi, il che non si dice senza ragione a questi nostri
dì, in cui da alcuni vorrebbesi insegnare, che la miglior legislazione
che sia, è quella dei tempi barbari.
Fu l'effetto conforme alle pie intenzioni; poichè fu in Toscana una vita
felicissima dopo le novità di Leopoldo; i costumi non solo buoni, ma
gentili, i delitti rarissimi, nè sì tosto commessi che puniti; le
prigioni vuote, ogni cosa in fiore. Così questa provincia, che già aveva
dato al mondo tanti buoni esempii, venuta in potestà di un principe
umanissimo, diè ancor quello di un corpo di leggi temperato di modo, che
nè il governo maggior sicurezza, nè i popoli potevano maggior felicità
desiderare.
A questo medesimo fine contribuirono non poco i nuovi ordini di Leopoldo
rispetto all'agricoltura, ed al commercio. Rendè i coloni liberi dalle
vessazioni, le terre dalle servitù; moderò la facoltà d'instituir
fide-commissi, riunì la facoltà del pascolo al dominio, onde fu
distrutta l'antica legge del pascolo pubblico, per cui veniva impedito
ai possessori ed ai coloni il cingere di stabili difese i terreni, e
costretti erano a lasciargli in preda al bestiame inselvatichito, con
grandissimo guasto delle ricolte. Nacquero da questa provvisione effetti
notabilissimi, che e le ricolte si migliorarono, ed i bestiami
s'addomesticarono.
Considerato poi quanto gli appalti generali dei dazii fossero molesti ai
popoli, e gravi ai governi buoni, Leopoldo gli abolì. Molte privative
ancora furono tolte, quella della vendita dei tabacchi, dell'acquavite,
e del ferro: a tutti si diè facoltà di cavar miniere; le gabelle sui
contratti, e la regalìa della carta bollata si moderarono. Sapevasi
Leopoldo, che tutte queste riforme avrebbero diminuito l'entrate
dell'erario. Pure non se ne rimase, movendolo il ben pubblico più che il
vantaggio del fisco. Ciò non ostante assai meno diminuirono, che si era
creduto: perchè la prosperità del paese, e la più attiva circolazione
dei generi, che ne risultarono, supplirono in gran parte a quello che si
perdeva. Mirabile argomento, che la prosperità dei popoli prodotta dalla
libertà, non la gravezza delle imposte, è la miglior fonte che sia della
ricchezza dell'erario.
S'aggiunsero le dogane interne soppresse, nuove strade aperte, canali
scavati, porti, e lazzaretti o nuovi, o ristorati, fatto sicuro a
Livorno agli esteri l'esercizio della religione, aboliti i corpi delle
arti e le matricole, surrogati agl'impedimenti premii, facilità, ed
esenzioni, massime in beneficio delle arti della seteria e del
lanificio, parti essenzialissime del commercio di Toscana. La libertà
delle tratte, mediante un modico dazio rispetto alle sete, tanto operò,
che se il provento loro in Toscana montò nel 1780 solamente a libbre
163,178, montò nel 1789 a ben 300,000.
Ma per parlar di nuovo del governo delle terre, non solo Leopoldo lo
migliorò d'assai, migliorando la condizione dei coloni, ma rendè ancora
coltivabili quelle che per infelicità di suolo si trovavano incolte.
Così la val di Chiana, così quella di Nievole, ricche ed ubertose terre;
così la gran parte il capitanato di Pietrasanta, e le frontiere del
littorale livornese e pisano, usando secondo i luoghi appositamente
tagli, colmate, argini, canali, furono per opera sua liberate
dall'acque, ridotte a sanità, e restituite alla coltivazione. Ma opera
di molto maggior momento, e di quasi insuperabile difficoltà, fu il
prosciugamento delle maremme sanesi a tal termine condotto, che si aveva
speranza di totale perfezione. Sono le maremme sanesi un vastissimo
padule, che dai confini della provincia di Pisa fino a quelli dello
stato ecclesiastico si distende, lungo il mare, lo spazio di circa
settanta miglia, e per larghezza dentro le terre da cinque o sei, fino a
quindici o diciotto. La pianura di Grosseto è la parte più considerabile
di queste maremme. Sono in questi luoghi i terreni non sommersi tanto
fecondi, quanto l'aria vi è infame, e pestilenziale.
Sotto Ferdinando primo de' Medici erasi già in parte conseguito
l'intento, e parecchi paduli a stato coltivabile ridotti. Trascurate poi
le opere da' suoi successori, ritornarono le terre e l'aria a peggior
condizione di prima. Ma non così tosto fu assunto Leopoldo, che pensò
alle maremme. Mandovvi il padre Ximenes, mandovvi Ferroni e Fantoni,
matematici di chiaro nome, e dell'idraulica intendentissimi. Già la
pianura di Grosseto, già il lago, o per meglio dire, la palude di
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