Viaggi di Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia, v. 2 - 04

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rimettermi, riempirono una parte de' miei otri d'acqua, e mi lasciarono
all'istante, perchè preziosi erano tutti i momenti che perdevano in
questo luogo, ed irreparabile la perdita.
Quest'attacco della sete si manifesta su tutta la superficie del corpo
con una somma aridità della pelle; gli occhi pajono sanguigni, la lingua
e la bocca, sì internamente che al di fuori si ricuoprono d'un tartaro
della densità di una linea: questa crosta è d'un giallo fosco, insipida
al palato, e d'una consistenza perfettamente uguale alla cera molle d'un
favo di miele. Una spossatezza, un certo languore impediscono il
movimento; e l'angoscia, ed una specie di nodo nel diafragma e nella
gola impediscono la respirazione; cadono dagli occhi alcune grosse
lagrime isolale; si cade a terra, ed in pochi istanti si perdono i
sensi. Tali sono i sintomi ch'io notai sugli sventurati compagni del mio
viaggio, e che poco dopo provai in me stesso.
Montai a cavallo con molta difficoltà, e si riprese l'interrotto
cammino. I miei Bedovini, ed il mio fedele Salem erano ognuno dal suo
lato in traccia d'acqua, due ore dopo tornarono l'un dopo l'altro con un
poco d'acqua buona o cattiva. Siccome ognuno arrivava frettoloso per
porgermi ciò che aveva ritrovato, dovetti beverne, e bevetti più di
venti volte: ma sì tosto ch'io avevo inghiottito un poco d'acqua, la mia
bocca tornava ad essere arsa come avanti di bagnarla; di modo che io non
potevo nè sputare nè parlare.
Alle sette ore della sera facemmo alto presso ad un dovar e ad un
ruscello dopo una marcia sforzata di ventidue ore consecutive, senza un
momento di riposo.
Le mie genti ed i miei equipaggi arrivarono la notte a diverse riprese.
Io non perdei quasi nulla perchè la carovana di Sidi Alarbi avendo
successivamente incontrati i miei equipaggi ed i miei domestici,
soccorse e salvò colla sua acqua gli uomini e gli animali.
Se non giugneva questa carovana noi tutti perivamo infallibilmente,
perchè l'acqua portata dai Bedovini e da Salem sarebbe giunta troppo
tardi: la respirazione e le funzioni vitali andavano già mancando, ed io
credo che non sarebbesi durato altre due ore in così violento stato
senza perire. Allorchè io penso che questa grande carovana erasi
allontanata dalla strada ordinaria dietro la falsa notizia che vi erano
due o tre mille uomini disposti ad attaccarla, (non erano poi che i
quattrocento Arabi che mi aspettavano) che quest'errore fu la cagione
della mia salute, io, confesso il vero, non posso stancarmi d'ammirare e
benedire la Provvidenza.
Adesso comprendo facilmente come lo sgraziato maggiore _Houghtton_ può
essere perito nel deserto in conseguenza di una circostanza simile alla
mia, senza che vi abbia avuto parte la perfidia di coloro, che lo
accompagnavano.
La maggior parte del suolo del deserto è di pura argilla, ad eccezione
d'un breve tratto di terreno calcareo, la superficie è coperta da uno
strato di ciottoli calcarei bianchi, rotolati, liberi, grossi come il
pugno, quasi tutti eguali, aventi la superficie bucherata come fossero
pezzi di vecchio calcinaccio, lo che mi persuade a ritenerli come un
prodotto vulcanico. Questo strato è steso con sì perfetta eguaglianza,
che non lascia assolutamente verun punto discoperto, e rende il cammino
assai faticoso.
Non vedesi in questo deserto veruna specie d'animali, quadrupedi, od
uccelli, rettili od insetti; l'occhio vi cerca invano una pianta, e
l'uomo non si vede altro d'intorno che il silenzio e la morte. Soltanto
verso le quattr'ore della sera si poterono distinguere a qualche
distanza alcune piccole piante abbrucciate, ed un albero spinoso senza
fiori e senza frutti. Io avevo raccolte nel deserto due pietre, un pezzo
d'argilla, e due pezzi di minerale: ma tutto andò perduto.
In questa orribile calamità i miei muli ed i miei cavalli non solamente
perdettero i ferri, ma rimasero quasi tutti storpiati.

_Lunedì 5._
Erano le sette del mattino quando si riprese la strada a traverso lo
stesso deserto, e facendo un giro al S., ed al S. O.
Il terreno è lo stesso di quello di jeri. Alle undici ore del mattino si
scese una lunga costiera, dopo di che ci trovammo nella provincia di
Schaonia, e sulla sponda diritta del fiume Enzà. Sull'opposta riva
vedevasi una sola casa ove abitava _Schek Schaoui_, o capo della
provincia. Poi che si ebbe tre volte attraversato il fiume, ci
accampammo a mezzogiorno sulla riva sinistra presso ad un dovar, e ad un
mercato. Le mie genti avevano l'immaginazione ancora così calda del
passato pericolo, e gli animali risentivansi in modo delle fatiche
dell'antecedente giorno, che gli uni e gli altri appena veduto il fiume,
corsero a gettarvisi dentro all'istante, gli uomini vestiti com'erano, e
gli animali coi loro carichi; onde vi abbisognò molto tempo, pena e
travaglio per farneli sortire.
Io fui tormentato dalla febbre tutto il giorno, effetto, non v'ha dubbio
del sofferto disastro.
Assai ben coltivate erano le sponde dell'Enzà; e vi trovammo in
abbondanza pastinache, popponi, uve, che furono da noi risguardate come
un dono del cielo nello stato d'irritamento in cui trovavasi il nostro
sangue.
Schek Schaoui, la di cui provincia parvemi assai ricca, era assente, ma
suo fratello venne a trovarmi, e mi mandò a regalare molte provvisioni.

_Martedì 6._
Alle sei ore del mattino si levò il campo dirigendoci all'O. nelle
montagne, e dopo mezzogiorno soltanto scendemmo nella grande pianura,
ove camminando a N.O. si passò verso le quattr'ore della sera il gran
fiume Moulouia: al di là del quale feci far alto presso ad un dovar.
Le montagne attraversate questo giorno non sono sterili come le
precedenti; vi si trovano di quando in quando piccoli fiumi e terreni
coltivati. La pianura è quel medesimo deserto, ch'io avevo attraversato
precedentemente andando verso Ouschda.
Io continuavo ad essere assai indisposto, e temevo di qualche più serio
attacco.

_Mercoledì 7._
La mia carovana prese il già descritto cammino, che ci condusse
all'alcassaba di Temessouinn.

_Giovedì 8._
Proseguendo la stessa strada giunsimo presso alla città di Tezza.

_Venerdì 9._
Questo giorno non si levò il campo; ed io entrai in città per assistere
alla pubblica preghiera del venerdì.
Tezza è la più gentile città che io vedessi nell'impero di Marocco; la
sola ove l'occhio non è rattristato dalla vista delle ruine: le strade
sono belle, le case dipinte. La principale moschea è grande assai, ben
fatta, ed ornata d'un vago vestibolo. Sonovi varj mercati ben
provveduti, molte botteghe, orti assai fertili, acque eccellenti, l'aria
purissima: vi si trovano buoni cibi, ed a prezzi assai moderati, ed in
grande abbondanza; e gli abitanti mi sembrarono assai risvegliati.
Questi vantaggi riuniti mi fanno preferire Tezza a tutte le città
dell'impero, non escluse Fez e Marocco.
Trovavasi accampato presso alle nostre tende un corpo di truppe
comandate da un pascià, che mi fece rendere gli onori dovuti al mio
rango, e mi mandò alcune provvisioni. Eravi con lui _Muley Moussa_
fratello dell'imperatore di Marocco; cui la mia indisposizione non mi
permise di visitare.
Più accurate osservazioni delle prime mi diedero la latitudine di Tezza
a 34° 9′ 32″; lo che dimostra l'errore in cui ero caduto la prima volta.
Soltanto la longitudine fu esatta.
Deviando dalla nostra pratica si riprese il viaggio alle nove della
sera, dirigendoci al S. O. Dopo aver passato il fiume Tezza, e fatte
molte sinuosità in mezzo alle montagne, si passarono altri fiumi.

_Sabbato 10._
Dopo avere camminato tutta la notte passammo in sul far del giorno un
altro fiume che va verso l'E. Attraversando un paese sempre montuoso, mi
volsi all'O., ed alle otto del mattino feci far alto presso ad un dovar.
Ero allora nella provincia di _Hiàïna_.
Si riponemmo in via ad un'ora dopo mezzogiorno volgendoci all'O., ed al
S. O. fino alle cinque della sera; ed allora feci piantare le tende
presso ad un dovar, patria di uno degli ufficiali che mi accompagnavano.

_Domenica 11._
I buoni abitanti di questo dovar mi pregarono di così buona grazia a
rimanere un giorno con loro, che non mi vi potei rifiutare. Nulla essi
ommisero di tutto ciò che poteva riuscirmi dilettevole, onde
testificarmi la loro gratitudine e rendermi meno nojosa la dimora. Io
non mi dolevo di questa circostanza, che mi diede agio di riposarmi dopo
tante fatiche sofferte.

_Lunedì 12._
Dato ch'ebbi un addio a questi buoni Arabi, mi posi in cammino alle sei
ore, facendo molti giri entro le montagne. Erano le nove ore quando
scendemmo per passare il _Levèn_ fiume assai vasto che va al S. O. Si
costeggiò la sua sponda destra per lo spazio di due ore in un luogo
piano, dopo il quale si tornò a salire sulle montagne. Ad un'ora dopo
mezzogiorno si fece alto presso ad un dovar.
A poca distanza dal mio campo trovansi alcune ricche saline; di là
scoprivansi una serie di sei o sette montagne isolate in forma di pani
di zuccaro; il di cui colore rosso mi fece sospettare che siano
interamente metalliche.

_Martedì 13._
Alle sei ore del mattino si proseguì il viaggio tra le montagne fino
alle due dopo mezzogiorno, che si pose il campo presso ad un grosso
dovar.
Tutto il paese ch'io avevo attraversato apparteneva alla provincia di
Hiaïna.
Il suolo è composto di montagne rotonde di argilla glutinosa come quelle
di Tetovan. Sono esse naturalmente sterili; ma gli abitanti sono
laboriosi, e vedonsi quasi tutte le colline coperte di _panicum_ ossia
di quel miglio; che s'avvicina al mais, e costituisce la base della loro
sussistenza. Era allora maturo, e tutti i poderi venivano custoditi da
alcuni uomini che avevano cura d'allontanarne gli uccelli con continue
grida.
Tranne i fiumi di cui si è parlato, gli abitanti della provincia di
Hiaïna non hanno che acqua dei piccoli pozzi che scavano sul pendio
delle montagne: le acque di quasi tutti questi pozzi hanno un cattivo
gusto sono salate, sulfuree, o minerali. Vedonsi alcuni burroni, e letti
di torrenti coperti di uno strato bianco di sale. È probabile che questo
paese abbondi di minerali; senza che gli abitanti abbiano il più leggero
sospetto dei tesori su cui passeggiano. In molti luoghi gli strati
metallici si manifestano di sotto all'argilla che li ricopre; ed alcune
roccie perpendicolari, quasi affatto composte di sostanze metalliche,
s'alzano qua e là in mezzo alla pianura come torri isolate.
Gli abitanti dediti all'agricoltura abbondano di granaglie, ma non hanno
alberi, e non coltivano che pochissimi erbaggi, o frutta. Le loro case
fatte di terra, e coperte di tralci sono assai piccole, ed abitate
soltanto nell'inverno; perchè durante la bella stagione stanno sotto le
tende come gli altri Arabi.

_Mercoledì 14._
Alle sei ore del mattino ci ponemmo in viaggio facendo mille
ravvolgimenti tra montagne assai alte e sparse di dovar. Era ormai
mezzogiorno allorchè scendemmo in sul piano. Dopo avere traversata la
_Wérga_ fiume assai largo che scorre all'O., costeggiammo la sua sponda
destra nella stessa direzione fino alle tre della sera; ed in allora
piantaronsi le tende presso a due dovar.
La tribù che abita questi e molti altri dovar vicini chiamasi
_Vlèd-Aaïza_, o figlia di Gesù; ed è assai numerosa.

_Giovedì 15._
Alle sei ore tutti eravamo pronti a porsi in cammino prendendo la
direzione di N. O. Entrammo alle otto nel distretto di Wazéin, e
poc'appresso vidi al N. la montagna su cui è posta la città; che si
lasciò alla dritta, continuando la strada fino alle tre ore della sera,
che si alzarono le tende presso a molti dovar.
Il distretto di Wazéin è composto di vaste pianure chiuse all'E. da alte
montagne. In mezzo alle pianure alzasi una grande montagna vasta affatto
isolata, a metà del di cui declivio è posta la città di Wazéin; che
chiamasi la forte, ma che non è cinta di mura come le altre città
dell'impero. Colà dimora il celebre Santo Sidi Ali Benhamet di cui si
parlò poco sopra. Padrone della città e del distretto, egli vive quasi
affatto indipendente.
Io non vidi mai altrove un paese più bello, più popoloso, e meglio
alimentato, nè più belle messi. Onde convien credere che la Divina
grazia protegga in particolar modo questi abitanti. Il paese è tutto
sparso di grandi dovar disposti affatto diversamente da tutti gli altri:
qui le tende sono poste in linea retta, e negli altri luoghi in cerchio.
In tutta l'estensione del piano non vedesi un albero; e non vi si trova
che l'acqua di alcune piccole sorgenti.
Il mio campo trovavasi distante dalla montagna di Wazéin all'O. Dalle
osservazioni astronomiche ebbi il risultato di 6° 55′ 0″ di longitudine
orientale, e di 34° 42′ 29″ di latitudine.
Notai ne' due ufficiali condottieri una cert'aria misteriosa, e segni di
connivenza; pure continuavano a trattarmi con profondo rispetto; ed io
non potevo dir loro alcuna cosa, nè manco concepire verun dubbio sui
loro segreti abboccamenti. Le tribù stazionate sul mio passaggio
venivano a rendermi tutti gli onori, ed a offrirmi i doni di viveri e di
foraggi; ed io continuavo a far uso del parasole; ero in somma sempre
trattato come un figlio o fratello del Sultano. Questo stato di cose
potev'egli durare? Ecco ciò che vedremo tra poco.

_Venerdì 16._
Si riprese in cammino verso le sei del mattino dirigendoci all'O. in
mezzo a piccole montagne, ed un'ora dopo la nostra partenza essendo
arrivati sulla strada da Fez a Tanger, ci volgemmo direttamente al N.
fino alle tre ore della sera, ed allora ordinai di spiegare le tende tra
i giardini situati al N. della città d'Alcassar.
Feci una cattiva osservazione intorno alla longitudine; ma non mi riuscì
d'afferrare il passaggio d'alcuna stella, nè meno quello della luna in
su lo spontar del giorno, per causa di alcune grosse nubi che
ingombravano l'emisfero.

_Sabbato 17 Agosto._
In questo giorno finalmente cadde il velo che copriva il misterioso
contegno de' miei ufficiali; allorchè mi annunciarono che dovevasi
andare a Laraïsch, o Larache, e non già a Tanger, ov'essi avevano prima
detto di andare. Questo procedere spiacquemi assaissimo, ma dopo avervi
riflettuto, mi lasciai condurre, essendomi affatto indifferente l'andare
in uno, o in altro luogo.
In conseguenza di ciò alle sei ore del mattino si riprese la strada
all'O.; ed un'ora dopo si piegò al N. o al N. O. Entrammo in un bosco di
lecci assai alti abbondante di felci, del quale non uscimmo che a
mezzogiorno dopo aver fatti molti giri. Finalmente si passò un fiume, ed
un'ora dopo mezzogiorno giungemmo a Larache.
_Laroïsch_ che i Cristiani dimandano Larache è una piccola città di
circa quattrocento case, poste sul pendio settentrionale d'una ripida
collina, di dove le case si prolungano fino sulla riva del fiume, la di
cui imboccatura serve di baja alle grandi navi. I bastimenti che non
oltrepassano la portata di duecento tonnellate possono entrare nel
fiume, ma sono costretti di scaricarsi onde passare la _barra_.
Larache abbonda di moschee, la principale delle quali è pregevole per la
sua architettura. Vi si trova un grande mercato, circondato da portici
sostenuti da piccole colonne di sasso; ed è il più bel mercato ch'io
vedessi nell'impero di Marocco. Fu fabbricato dai Cristiani, ugualmente
che le principali fortificazioni. La città appartenne agli Spagnuoli, ai
quali fu tolta da Muley Ismaïl.
Dalla parte di terra la città è difesa da buone mura con larga fossa; e
due bastioni proteggono la porta ed il ponte. L'alcassaba o castello
posto verso terra al S. della città è un piccolo quadrato di bastioni ad
orecchioni circondato da una fossa. Ogni cosa trovasi bastantemente
conservata, fuorchè il parapetto estremamente guasto. Sgraziatamente la
piazza non ha acqua, e quella che vi si beve deriva da una sorgente che
scaturisce in riva al mare a cento ottanta tese di distanza dalle mura,
in luogo coperto dal fuoco della piazza. Ne viene presa ancora da
un'altra sorgente lontana una lega. All'estremità della città, presso la
foce del fiume, avvi un castello che mi si disse fabbricato per ordine
di Muley Edris. La fortezza quadrata è provveduta di molte piccole
colombrine. La bocca del porto viene difesa da due batterie poste al S.,
e da una specie di castello situato dalla stessa banda a tre cento
cinquanta tese di distanza, con cannoni e mortai. Non avvi veruna
fortificazione al N. del fiume o del porto.
A trecento tese al S. dell'ultima batteria di cannoni e mortai, sonovi
presso all'acqua alcune opere, che viste dal mare, hanno l'apparenza di
fortezza, ma che in realtà non sono che le ruine d'una casa e d'un
molino a vento.
A sessanta leghe all'E. S. E. del castello quadrato trovasi una Cappella
o santuario di una santa femmina patrona della città, chiamata Làla
Minàna. Vi si onora il suo sepolcro. Io non ho giammai potuto dicifrare
la complicazione delle idee che risvegliò in me l'esistenza della
canonizzazione d'una donna, colla credenza mussulmana dell'esclusione di
questo sesso dal paradiso. Ma Dio ne sa più che gli uomini.
La costa del S. è formata da una rupe assai alta, mentre quella del N.
ha un piccolo banco di sabbia.
Per ordine del Sultano, Sidi Mohamed Safaxi, che era pascià di Larasche,
mi destinò la miglior casa, situata sul gran mercato a lato alla
principale moschea.
Malgrado questa vantaggiosa posizione, non potendo salire sopra la casa
per osservare il cielo senza impedimenti, non potei prendere le distanze
lunari; a fronte di ciò per mezzo degli ecclissi dei satelliti ho potuto
fissare la longitudine O. dell'osservatorio di Parigi ad 8° 21′ 45″;
come la latitudine per il passaggio del sole a 35° 13′ 15″ N. La
declinazione magnetica è di 21° 39′ 15″ orientale. La temperatura è
assai dolce e corrispondente a quella dell'Andalusia.
La città è circondata da un'arena rossiccia, ch'io riguardo come una
decomposizione di feldspato, con molta disposizione a conglutinarsi. La
rupe alta del mezzodì è formata di strati perfettamente orizzontali,
sottili assai, e vicinissimi gli uni agli altri, lo che forma un'ardesia
tagliata perpendicolarmente in riva al mare. Questi strati di roccia
sono formati soltanto di arena rossa di già conglutinata nella sottile
tessitura d'ardesia.
La città non è affatto sprovveduta di giardini. I viveri sono buoni, e
l'acqua, quantunque alquanto cruda, non è malsana.
Le fatiche sofferte nel viaggio d'Ouschda mi cagionarono una malattia di
quindici giorni. Furono pure indisposti alcuni miei domestici, e le
bestie da soma, alcune delle quali rimasero storpiate; ma non morì che
un mulo. Feci i bagni di mare, ed approfittai dell'opportunità per
arricchire la mia collezione di piante marine.
Una corvetta di Tripoli, che da più mesi era entrata nelle acque del
fiume, trovavasi a Larache. Il Sultano ordinò di equipaggiarla a sue
spese, destinandomi la camera di poppa per il mio viaggio in Levante.
Visitai questa nave che dovea tra pochi giorni mettere alla vela per
Tripoli, e feci disporre per questo lungo viaggio la camera che mi era
stata destinata.
La Domenica 13 ottobre 1805, giorno fissato per la mia partenza andai la
mattina a congedarmi dal pascià, che mi diede tutte le migliori
dimostrazioni di stima, e di considerazione, soggiungendo, che se volevo
differire il mio imbarco fino alle tre ore dopo mezzogiorno, egli
avrebbe assistito alla mia partenza. Tale inchiesta era per me troppo
lusinghiera per non la poter rifiutare.
Essendo i miei equipaggi già imballati e caricati a bordo, andai al
porto all'ora concertata per imbarcarmi colle mie genti. Chiesi conto
del Pascià, e mi fu risposto che non tarderebbe ad arrivare. Mentre
veniva la scialuppa, mi trattenni alcun tempo sulla spiaggia, ove la
muraglia forma un angolo rientrante, e dove trovasi un vicoletto che
sbocca dall'angolo.
Arrivata la scialuppa, e non vedendo venire il Pascià, mi disponevo di
andare a bordo, quando due distaccamenti di soldati si presentarono a
dritta ed a sinistra, e un terzo uscì dal vicolo in fondo all'angolo. I
due primi s'impadronirono bruscamente di tutte le mie genti, l'altro mi
prende in mezzo, e mi comanda d'imbarcarmi solo, e di partire
all'istante. Chiedo la ragione di così strano procedere; e mi viene
risposto: _così ordina il Sultano_. Domando di parlare al Pascià, e mi
vien detto, _imbarcatevi_. Conobbi allora apertamente la mala fede del
Sultano, e del Pascià, che fino all'ultimo istante, avevano ordinato che
mi fossero resi i più grandi onori dalle truppe e del popolo, mentre
meditavano il colpo che doveva profondamente ferirmi, poichè io non
avevo meno premura per le persone che mi erano affezionate, che per me
medesimo.
M'imbarcai nella scialuppa col cuore lacerato dalle grida di alcune
persone della mia famiglia desolate da così subita separazione. Scesi il
fiume divorato dalla rabbia e dalla disperazione finchè si giunse al
passaggio della barra, ove i violenti colpi dell'onda mi sconvolgevano
lo stomaco; lo che mi fu salutare, essendomi scaricato di un'enorne
quantità di bile: ma spossato da così violenti scosse morali e fisiche,
arrivai quasi privo di sensi alla corvetta che stava ancorata a poca
distanza dalla barra. Mi trasportarono nella mia camera, e coricaronmi a
letto.
In tal modo uscii dall'impero di Marocco. Sopprimo tutte le riflessioni
che qui sarebbero inopportune. Forse avranno luogo in altra opera.


CAPITOLO XIX.
_Dell'antica isola Atlantide. — Dell'esistenza di un mare
Mediterraneo nel centro dell'Affrica._

Prima di visitare la parte occidentale dell'Affrica, l'accurato studio
della geografia fisica di questa parte del mondo, confrontato colle
nozioni che la tradizione e l'istoria ne trasmisero intorno alle grandi
rivoluzioni del globo, ed alcuni indizj somministrati dai recenti
geografi e viaggiatori rispetto alla situazione interna di questo
continente, mi guidarono quasi simultaneamente a due idee che emanano
dal principio medesimo, ed appoggiandosi vicendevolmente, sembrano
concorrere a dare un grado di probabilità più grande di quello che possa
sperarsi in simili argomenti alla seguente opinione:
1.º Che l'antica Atlantide era formata dalla catena del monte Atlante;
2.º Che trovasi nell'Affrica un mare Mediterraneo, che siccome il Caspio
nell'Asia esiste isolato senza aver comunicazione cogli altri mari.
Dopo tanti sistemi e visioni sul luogo che doveva altra volta occupare
l'isola Atlantide, si risguarderà forse come una pazzia il voler di
nuovo far rivivere una quistione tante volte agitata, e che ora sembrava
dimenticata: ma siccome io mi limito ad indicare soltanto leggermente
quest'idea troppo spesso messa in campo da altri scrittori; la sua
coincidenza con quella dell'esistenza d'un mare interno nell'Affrica, mi
scuserà presso al lettore; il quale non pertanto potrà risguardare
questo capitolo come un episodio della storia de' miei viaggi. Per
leggerlo è duopo avere innanzi agli occhi la carta generale dell'Affrica
settentrionale.
Benchè niun viaggiatore Europeo attraversasse giammai nel suo centro il
Sahhara, o grande deserto dell'Affrica, noi abbiamo sufficienti dati per
essere quasi assolutamente certi, che dal N. al S. non è tagliato da
veruna cordelliera di montagne, la quale leghi quelle dell'Atlante con
quelle di Kong, e con quelle che sono al S. E. del deserto, e stendonsi
nella direzione E. O. fino nell'Abissinia.
Nell'estremità orientale della catena Atlantica trovansi i deserti che
s'avvicinano a Godemesch ed a Tripoli, quello di Soudah e quello di
Borca, che da un lato toccano al Sahhara, e dall'altro il mare
Mediterraneo; quindi la catena degli Atlanti circondata al N. ed all'O.
dal Mediterraneo e dall'Oceano, confinata al S. ed all'E, da deserti di
sabbia, che da una banda arrivano all'Oceano Atlantico, e dall'altra al
Mediterraneo, viene ad essere una vera isola senza apparente legame
colle altre montagne dell'Affrica.
Tutto ciò che si sa intorno ai deserti di sabbia che circondano la
catena dell'Atlante all'E. e al S. prova, che non sono composti come
quelli della Tartaria dell'_humus depauperatus_ di Linneo, val a dire,
di una terra che a forza di travagliare, e di produrre, è rimasta
esinanita, e priva delle molecole organiche necessarie alla vegetazione.
Si può far illazione ai deserti che sono al S. dell'Atlante da quelli
che io ho veduti al N. ed all'O. In questi io non trovai che strati
estesissimi d'argilla glutinosa, che viene considerata come un prodotto
vulcanico sotto-marino, pianure di sabbia sciolta tutta composta di una
polvere selciosa di quarzo, e di feldspato, mischiata di un _detritus_
di conchiglie estremamente fino, e di banchi di una marna calcarea assai
moderna, evidentemente formata dalla conglomerazione della sabbia, o del
_detritus_ animale.
Vero è ch'io non trovai in questi deserti intieri avanzi di animali
marini; ma perchè la situazione in cui io mi trovavo, non permettevami
di fare accurate ricerche; ed è altronde verosimile che questi avanzi,
quando esistano, non potrebbero trovarsi che a molta profondità al S o
all'O. dell'Atlante, perciocchè la violenza delle onde polverizza
qualunque oggetto che in questi luoghi s'innalza alla superficie del
mare. L'urto delle onde è così terribile, che senza borrasca, nella più
perfetta calma, e quando di lontano la superficie del mare sembra
tranquilla, le onde battono così furiosamente sulla costa, che
frequentemente innalzano montagne di schiuma alte cinquanta o sessanta
piedi, non solamente sulle coste sparse di scogli, ma ancora sulla
spiaggia d'arena.
Non esaminerò adesso le cagioni di tale fenomeno, che dovrebbero forse
ricercarsi nel movimento generale della grande massa delle acque
dell'Oceano, accresciuta o diminuita dalla projezione o configurazione
delle coste: ma devonsene soltanto considerare i risultati sotto i
rapporti che hanno colla presente quistione.
Quando il mare lambisce dolcemente una riva, le conchiglie ed i zoofiti
vi si stabiliscono, germoglianvi le piante marine, e si moltiplicano
come gli animali: la successiva decomposizione di tutti questi corpi
organici ingrassa il terreno, lo rende proprio alle posteriori
generazioni; e dall'ammasso di tante spoglie, nel corso di più secoli,
che per la natura non sono che un giorno, ne risulta finalmente una
ricca terra vegetale abbondantemente provveduta di mollecole organiche
proprie ad alimentare, ed a dare la vita agli animali terrestri, che
devono anch'essi servire ai bisogni dell'uomo.
Ma quando per lo contrario il mare batte furiosamente una costa, i
moluschi e gli altri animali marini se ne allontanano come da uno
scoglio contro di cui sarebbero infranti, le piante marine non possono
allignarvi perchè vengono sradicate prima d'essersi profondamente
fissate nel terreno che loro serve di sostegno. L'infelice animale, o la
pianta che la corrente porta su queste rive periscono vittime del furore
delle onde, ed i loro rottami sono spinti a grandissime distanze. Quando
per effetto delle correnti dell'Oceano, e per lo scemamento dei mari, e
per qualsiasi altra cagione, questa costa rimane scoperta e fuori
dell'acqua, non può offrire che un ammasso informe di pietre, di arena,
o di particelle selciose isolate, improprio alla vegetazione, e per
conseguenza ad essere abitazione d'animali, in una parola, inutile
all'esistenza dell'uomo: e questo avendo molta estensione sarà chiamato
_deserto_.
Una gran parte delle coste di Marocco trovansi in tale stato. Tanger è
circondato da un suolo arenoso, Rabat ugualmente: Mogador, che è il
punto più meridionale da me visitato, è posto nel centro d'un piccolo
Sahhara, la di cui sabbia forma colline mobili assai alte. Se, come io
lo suppongo, questi deserti diventano più estesi a misura che
c'innoltriamo verso il S., noi dobbiamo trovarvi il Sahhara o grande
deserto, il quale non è che una replica in grande del fenomeno che
vedesi in piccolo a Mogador, ed in miniatura a Rabat ed a Tanger.
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