Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire - 09

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patria e al dovere hanno consacrato la vita e le facoltà, è questo un
contegno così odioso, che la innata generosità della giovinezza dovrebbe
bastare a preservarne la crescente generazione.
Quella tendenza al biasimare e al volgere in ridicolo qualsiasi cosa o
persona che a noi si presenti con aspetto grave, è una delle piaghe
d'Italia.
L'uomo educato e colto non sa frenare la vena sarcastica, e crede far
prova d'ingegno fino ed accorto, lasciandole libero il corso. Il
popolano che vede il nobile, il ricco, il potente trattare ogni cosa con
ischerno e leggerezza, impara a tenere in poco o nessun conto le cose
così derise. Quando venne pubblicato il nuovo codice italiano, non vi fu
legge o capitolo di esso che potesse sottrarsi alla sferza, non dirò dei
giureconsulti, ma di tutti coloro che sanno o che non sanno che cosa sia
un codice. I giornali criticavano ogni espressione del nuovo libro, e la
critica loro non era già la critica grave e ragionata che si conveniva
al soggetto; era la critica esagerata e contorta del Pasquino e
Marforio, ed era ripetuta da gran parte dei lettori, non perchè giusta,
vera e coraggiosa, ma perchè atta a promuovere le risa. Che cosa ne
risultò? Ne risultò questa deplorabile conseguenza, che una gran parte
del popolo non ha per la legge del suo paese quel rispetto, nè quella
cieca obbedienza, senza la quale il buon ordine e la moralità pubblica
sono impossibili. Mi si dirà forse, che se il popolo non rispetta la
legge, ciò avviene perchè gli esecutori della stessa non sanno farla
rispettare, o perchè la legge medesima non è rispettabile. — Vane
asserzioni. Il popolo non è in grado di giudicare del merito della
legge, e non dovrebbe creder lecito il tentarlo. Quanto alla taccia che
si appone agli esecutori di essa, l'accusa è facilmente rintuzzata;
poichè se gli esecutori della legge non la impongono con sufficiente
autorità e fermezza, ciò proviene dal disprezzo con cui la vedono
accolta da coloro che dovrebbero ciecamente seguirla. Se gli esecutori
della nostra legge meritano la taccia di debolezza, nessuno sapeva che
essi la meriterebbero, quando appunto fu pubblicato il codice, e la
derisione della legge non aspettò per manifestarsi che tale debolezza
fosse conosciuta. Se il popolo non si cura della legge, si è perchè vide
i suoi maggiori deriderla e farne soggetto dei loro motteggi. Se il buon
senso nazionale non pone rimedio a questa malaugurata condizione di
cose, verrà un giorno che il disprezzo popolare della legge produrrà
delitti e disordini infiniti; e la colpa di questi peserà sul cuore e
sulla coscienza dei beffeggiatori spensierati e frivoli, che non sanno
por freno alla sbrigliata loro lingua. — Lo stesso accadde per le nuove
imposte. Ella era cosa generalmente intesa e conosciuta che il peso
delle imposte, cadendo tutto intero ed esclusivamente sulla possidenza
fondiaria, era un'enorme ingiustizia, e rendeva impossibile il progresso
dell'agricoltura. La tassa sulla ricchezza mobile, cioè sui capitali e
sulle professioni, era desiderata e acclamata da tutti coloro che
possedevano le prime nozioni della pubblica economia, e considerata come
un futuro sollievo per la possidenza fondiaria, che è quanto dire per
l'agricoltura. Eppure non appena fu promulgata la legge che imponeva la
ricchezza mobile, ecco levarsi da ogni banda un coro di lamenti e
d'invettive, come se la nuova tassa fosse destinata a rovinare l'intero
paese, e giungesse improvvisa ed a tutti inaspettata. Egli è vero che la
legge era male concepita in alcune sue parti, e che il regolamento per
l'applicazione di essa, aggiungeva altri errori a quelli contenuti nella
legge stessa. Egli è vero, a cagion d'esempio, che il minimum della
rendita tassabile, fu stabilito troppo basso, poichè colui che guadagna
col lavoro delle sue mani 400 franchi all'anno, ed ha una famiglia da
mantenere, non può sottrarre una parte anche minima dal suo meschino
guadagno per soddisfare l'esattore, senza risentirne un grave danno.
Egli è vero altresì che i poveri non sono mai stati esonerati dal
pagamento delle imposte; che ogni capo di famiglia, per povero ch'ei
fosse, pagava altre volte il così detto testatico, ossia tassa
personale, dalla quale erano esclusi i soli mendicanti, e che il
testatico ammontava ad una somma pressochè tripla della tassa sul
minimum della rendita, tassa che non giunge a due franchi annui. — Ma
chi riflette a queste cose? La tassa sulla ricchezza mobile era
nuovamente imposta; e d'altra parte nessuno ama di spendere il suo
denaro altrimenti che per l'uso suo proprio. Dunque la nuova tassa
spiacque a tutti quelli che vi soggiacquero; e perchè spiaceva loro, non
si volle riconoscerne nè la giustizia nè la necessità, e si gridò contro
il governo come tiranno e spogliatore. La tassa era stata stanziata dai
rappresentanti della nazione; che importa? al solo governo fu imputata,
e chi avesse giudicato secondo quanto si vociferava nelle conversazioni,
sulle piazze e nei caffè, avrebbe concluso che il governo aveva ordinata
arbitrariamente questa nuova imposta per arricchire sè stesso, e non per
mettere il paese in condizioni tali che si potesse mantenere libero ed
indipendente. — La nazione italiana attraversa ora una difficile prova,
per acquistare e consolidare la sua libertà. Questa libertà, essa la
possiede, e ne gode così pienamente, che non potrebbe oltrepassarla,
senza cadere nel disordine e nell'anarchia. Ma l'acquisto di tanta
libertà le costò caro, ed ora essa ne sta pagando il prezzo. — Nulla
v'ha di più naturale, di più inevitabile. In sei anni abbiamo dovuto
raggiungere sulla via della civiltà tutte le nazioni che vi camminavano
da secoli, mentre noi eravamo rimasti immobili nelle tenebre
dell'ignoranza e della servitù, in cui ci tenne il dispotismo straniero.
Se gli italiani riflettessero freddamente, intenderebbero senza fatica
che le conquiste operate debbono costare sagrifizi ingenti, ed avendo
risoluto di operare tali conquiste, ne pagherebbero il costo senza
lagnarsi e senza accusare alcuno. Ma gli italiani, per quanto appare,
non sanno riflettere freddamente, e si consolano delle loro angustie,
imputandole ora a questo ed ora a quello. Somigliano in ciò i bambini,
che urtando in qualche mobile, si adirano contro lo stesso, e lo battono
fieramente, o per castigarlo o per dare sfogo all'ira loro e al loro
dispetto. Si direbbe che nessuno o quasi nessuno in Italia avesse
preveduto di dover comperare e pagare la sospirata libertà e
l'indipendenza, altrimenti che con pochi giorni di combattimento e di
entusiasmo. Occorrono invece lunghi e numerosi sacrifizi; e chi non sa
incontrarli con animo sereno e tranquillo, non è degno di quei sommi
beni, che sono la libertà e l'indipendenza. Ed è appunto la perpetua
ribellione contro la necessità di tali sacrifizi che li rende più gravi
e meno fecondi. La tassa sulla ricchezza mobile non era soltanto un atto
di giustizia e di convenienza; era altresì e principalmente un atto di
necessità, poichè senza un aumento determinato della rendita pubblica,
il paese era esposto ad un disonorevole fallimento. La commissione pel
riparto dell'imposta doveva raccogliere la somma voluta; ma essa non
poteva regolarne la distribuzione se non fondandosi sulle dichiarazioni
dei possessori di ricchezze mobili. Se questi avessero tutti operato
onestamente, dichiarando senza menzogna i capitali da essi posseduti, o
la rendita prodotta tanto dai capitali quanto dall'industria loro, la
tassa sarebbe caduta su quelli ch'erano atti a portarla, e che appena ne
avrebbero sentito il peso. Ma, cosa dolorosa e vergognosa a dirsi, pochi
furono quelli che non ricorsero alla menzogna. Persone che spendono una
grossa rendita, ne dichiarano la terza o la quarta parte. Molti
possessori di carte pubbliche si astennero dal dichiararle, e menarono
vanto di questa loro simulazione. Eppure la somma totale prefissa doveva
trovarsi, perchè necessaria alla conservazione del credito pubblico; e
molti di coloro ch'erano in grado e in obbligo di pagarla, essendosi
disonestamente sottratti all'adempimento del loro dovere, i poveri si
trovarono naturalmente assai più gravati che non dovevano esserlo.
Quindi lagnanze, malcontento ed accuse contro il governo spogliatore,
che levava il pane di bocca ai miseri. Chi diceva loro che il governo
non avea parte nella distribuzione della tassa, che le menzogne dei
ricchi e non la crudeltà del governo, erano la cagione dei loro
patimenti, non era ascoltato, e taluni cadevano in sospetto di
intendersela col governo, per ingannarli e spogliarli impunemente.
Nelle campagne abbandonate all'influenza dei contadini arricchiti, vi fu
di peggio. Gli affittaiuoli riescirono facilmente a farsi nominare
membri delle commissioni di riparto, dai consigli comunali che loro
obbediscono ciecamente; ed una volta in possesso della tassa, essi
trattarono sè medesimi e gli amici loro con tale indulgenza e
predilezione, che non pochi fra i poveri artigiani o mercantucci di
contado, infelici che non arriverebbero a mantenere le loro famiglie, se
la carità del padrone non venisse loro in aiuto, si videro tassati di
maggior somma che gli stessi ricchi agricoltori membri della
commissione. La nequizia di tale distribuzione era evidente, e doveva
essere imputata agli autori di essa, cioè ai membri delle commissioni;
ma questi insinuarono ai contadini che le vessazioni di cui erano le
vittime emanavano dal governo; e siccome il contadino sa di poter
maledire il governo impunemente, e teme di porsi in ostilità colla
classe degli affittaiuoli, perciò credette o finse di credere alle
menzogne dei commissari, e proruppe contro il governo in improperi e in
minacce, sapendo altresì che così facendo otteneva il favore del suo
clero. Il governo italiano rispetta la libertà del cittadino, direi
quasi con troppo scrupoloso rigore, e non si prende la libertà
d'intervenire nelle faccende che la costituzione ha riservate al
cittadino, e che al cittadino spetterebbero giustamente, quando esso
fosse onesto, sensato ed illuminato. Ma simili cittadini sono in picciol
numero fra di noi. Il cittadino, a cui viene affidata tanta parte del
governo nazionale, commette errori o colpe, o è vittima di accorti
raggiratori; e quando ha rovinato sè stesso e le cose a lui affidate,
accusa il governo dell'universale rovina, e biasimando amaramente
quello, si dispensa dal biasimare e dal correggere sè stesso.
Così accadde pure in proposito della emissione dei biglietti di banca a
corso forzoso. Simili misure, che pur troppo sono talvolta necessarie,
traggono sempre dietro di sè molti guai e molti disastri. Spetta ad ogni
cittadino di scemare la gravità di quelle tristi conseguenze, accettando
la propria parte nel danno comune, ed evitando di far pesare sugli altri
più di quanto deve agli altri toccare. Se tutti sentissero la necessità
di tal dovere, il danno prodotto dall'emissione della carta moneta non
sarebbe intollerabile per nessuno. Ciò che costituisce la ricchezza dei
facoltosi, non è il valore intrinseco del denaro ch'essi posseggono;
bensì il valore convenzionale che al denaro viene attribuito. Sì fatto
valore può essere trasportato ed applicato ad altri oggetti, senza
cagionare direttamente un gran turbamento nella condizione finanziaria
degli individui. Ciò che rende codeste misure pericolose, si è il
discredito che nasce dalle medesime, mentre tutti sanno che nessun
governo si appiglia ad esse se non per mancanza di altre risorse. E
questo gli nuoce ne' suoi negozi colle banche straniere, e
conseguentemente può arenare il commercio e l'industria. Ma quanto agli
effetti immediati della carta moneta sul ben essere dell'individuo
cittadino, questi sarebbero appena sensibili, se tutti vi si
rassegnassero onestamente. Ma così non accade. Non solo v'hanno molti
che non vogliono soggiacere nè a danni nè ad incomodi, ma v'hanno pure
di quelli che non esitano a trar profitto della sventura altrui, e che
speculano su di essa. Quanti comperarono immediatamente tutto il denaro
coniato già in circolazione, e negarono di cangiarlo coi biglietti di
banca se non ricavavano una somma assai maggiore dalla somma che davano,
attribuendo così alla carta un valore arbitrario assai al di sotto di
quello che le dava la legge! Allora incominciarono gli imbarazzi, i
danni reali, la confusione dei valori e dei loro surrogati. Il corso
forzoso della carta non valse a mantenerne il valore, poichè i mercanti
quasi tutti ricusavano di rimborsare, sia in denaro sia in carta, il di
più del valore degli oggetti che si pagavano colla carta. Voglio dire
che se uno voleva comperare un oggetto stimato cinquanta franchi, dando
un biglietto di cento franchi, e ricevendone indietro cinquanta, questi
incontrava un'invincibile resistenza nel mercante, e si vedeva costretto
o a pagare cento ciò che valeva cinquanta, o a comperare un supplemento
di mercanzia che lo addebitasse di cento franchi, o a costituirsi
debitore per l'oggetto di cinquanta, o a rinunziare all'acquisto di
esso.
Sulle prime s'imputavano questi inconvenienti all'inavvertenza del
governo, che aveva emessi soltanto dei biglietti di cento franchi,
invece di emetterne di venti, di dieci, di cinque, e persino di un
franco. Il governo si decise dunque di aderire al pubblico voto e di
emettere biglietti di minor valore. Ma appena questi comparvero, che di
bel nuovo sparirono: gli speculatori se n'erano impadroniti, e
l'illecito mercato, che li aveva arricchiti col cambio della carta
contro il denaro, ricominciò sul cambio dei grossi biglietti contro i
piccoli. Ed il pubblico, poco intelligente delle vere cagioni de' suoi
danni, si adirava contro il governo, che sebbene avesse promesso di
emettere gl'indicati biglietti, li emetteva in così piccola quantità che
diventava quasi impossibile di ottenerne. Certo che il governo avrebbe
potuto farne una nuova emissione; ma a che pro? Gli speculatori che
avevano fatto monopolio dei primi, lo avrebbero fatto anche dei secondi,
e la condizione del popolo non sarebbe punto migliorata.
Poscia fu promulgato il prestito forzoso. La somma chiesta dal governo
fu assai minore di quella generalmente aspettata. Le condizioni fatte ai
fornitori del denaro erano così favorevoli, che un capitalista avrebbe
trovato difficilmente un migliore impiego de' suoi capitali. I
capitalisti non hanno durato fatica ad intendere il loro interesse; ma
non soddisfatti del lecito profitto ad essi riservato dalla legge,
alcuni di essi, sotto il manto di una lodevole sollecitudine pel
pubblico bene, hanno come preso ad appalto il debito di certe località,
anticipando i capitali a chi ne difettava (e questi disgraziatamente
sono molti), vendendo il loro denaro a caro prezzo, ed usurpando con ciò
il profitto che la legge aveva destinato a tutti. Quando i ricchi, e
generalmente parlando le persone poste in condizione eminente, danno
l'esempio della cupidità e della rilasciatezza nei principii di
moralità, tale esempio è seguito con ardore da ogni classe di persone.
Ella è cosa dolorosa e vergognosa ad un tempo il vedere i pubblici
impiegati, sia delle ferrovie, sia d'altre pubbliche aziende, rifiutare
la carta che vien loro presentata, e rispondere ai meritati rimproveri
che loro si fanno con un ghigno malizioso ed insolente, che tali sono
gli ordini del governo, che al governo debbono rivolgersi per ottenere
giustizia, risarcimento, ecc. ecc. E le vittime della disonestà
cittadina maledicono il governo, che altra parte non ebbe nei loro
danni, se non col forse soverchio rispetto dell'individuale libertà, e
coll'astenersi d'intervenire nelle private convenzioni quando non ne era
richiesto da alcuna delle parti. Il nostro governo, il ripeto, rispetta
la cittadina libertà, come va rispettata da un governo costituzionale,
in un paese libero, le cui popolazioni apprezzano il benefizio della
libertà, e se ne mantengono degne, seguendo i dettami di una rigorosa
moralità. Disgraziatamente il paese nostro non corrisponde al rispetto
che a lui mostra il governo. Questo tratta il paese come degno e capace
di una libertà pressochè illimitata; ma il paese non è per anco nè degno
nè capace di esercitare senza tutela i privilegi di tanta libertà. In
certe classi cittadine l'amore del lucro domina ogni altro sentimento, e
la libertà è impiegata ad ottenerne gli intenti con qualsiasi mezzo. In
altre l'amore dell'ozio si è impadronito dei cittadini, riducendoli alla
indecorosa condizione di spettatori dei pubblici eventi, mentre
dovrebbero prendere in essi la loro parte. Tutte le istituzioni che
assicurano la patria libertà, cadono in disuso e sono neglette per la
pigrizia di chi dovrebbe difenderle.
Vedete la guardia nazionale, che arma il paese contro qualsiasi
usurpazione, sia del governo, sia delle fazioni; che mette l'ordine e la
sicurezza pubblica sotto la salvaguardia dei cittadini, e li avvezza al
maneggio delle armi, sicchè possano, quando ne nasca il bisogno,
trasformarsi prontamente in soldati. Gli amatori dell'ozio, fanno le
beffe di così bella istituzione, per iscusarsi di non assumerne i pesi;
e le file della milizia nazionale vanno di giorno in giorno diradandosi.
— Vedete l'istituzione dei giurati. Le liste dei cittadini, destinati a
sentenziare sulla colpabilità degli accusati, si compongono in gran
parte di persone ignoranti, o svogliate, che considerano questo
privilegio e questo diritto cittadino come un attentato contro i loro
comodi e quell'altro loro diritto di starsene colle mani alla cintola. —
Vedete il più importante, il più prezioso di tutti i diritti cittadini;
quello cioè che concede alle popolazioni di mandare al parlamento i loro
deputati, ch'è quanto dire di esercitare mediante i loro rappresentanti
la sovrana autorità. Tale istituzione anch'essa fu prima beffeggiata e
poi negletta; per modo che ai collegi elettorali non interviene ormai
che una piccola frazione degli elettori iscritti, e la deputazione forse
nulla più rappresenta, che i maneggi di alcuni ambiziosi e la colpevole
indifferenza dei più. Ed anche di ciò si scusano i pigri, trattando con
disprezzo quell'istituzione, prima colonna della nazionale libertà.
Udite con che scherno parlano gli oziosi della rappresentanza nazionale!
I deputati altro non fanno che ciarlare ed attendere ai privati loro
interessi. Se si risponde loro che, ciò supposto vero, tanto più corre
ad essi l'obbligo di scegliere con maggior accuratezza i nuovi deputati,
alzano le spalle, affermando che tutti gli aspiranti alla deputazione
sono della medesima tempra, che l'occuparsi di elezioni altro non è che
un perditempo, ecc. ecc.
Sembra a vederli e ad udirli che in questi sei anni essi abbiano
penetrato nelle profondità del governo costituzionale, e ne abbiano
riconosciuta tutta la inanità. Le istituzioni che l'Inghilterra difende
e mantiene con gelosa cura da tanti secoli; le istituzioni che la
Francia ha comperato con tante rivoluzioni e tanto sangue, che non seppe
conservare, e dietro le quali sospira con rammarico e dolore; le
istituzioni che l'Europa intera si sforza di ottenere, e che ottenute
soddisfano le aspirazioni liberali dei popoli più civili; le istituzioni
che nel corso di due secoli crearono l'America, e la resero l'oggetto
dell'universale meraviglia; queste benefiche, queste nobili istituzioni,
noi, nati ieri, le abbiamo giudicate nello spazio di sette anni, e le
abbiamo condannate come cose puerili, vane ed indegne del nostro
rispetto. Mi perdonino i miei compatrioti, se dico loro che un tale
giudizio è indegno di una nazione che rispetta sè medesima, e che vuol
essere libera ed indipendente.
La guerra del 66 ha messo in chiaro una verità importantissima, ed è che
la scienza, l'intelletto e la coltura intellettuale valgono più del
numero, della forza e del coraggio anche sui campi di battaglia. A qual
cagione si attribuiscono i mirabili trionfi della Prussia? Alla scienza
de' suoi generali, e al fatto che nessun cittadino è ammesso nelle file
dei difensori del paese, se non ha seduto pel corso di sei anni sulle
panche delle pubbliche scuole. Questa verità, questa superiorità del
sapere sovra la forza materiale fu confessata da tutti; e si confessava
altresì che il poco successo delle nostre armi deve essere imputato alla
nostra ignoranza. Ne gioverà essa questa lezione? L'avvenire risponderà;
ma quanto al passato fa d'uopo avvertire che in questi ultimi sei anni
l'ignoranza nostra andò sempre crescendo. Gli studenti disertano le
università, i professori, stanchi di professare nelle aule vuote,
disertano le cattedre; e l'ultimo ostacolo posto alla prepotenza
dell'ignoranza, il rigore dei pubblici esami, è rovesciato dagli
studenti, che tratto tratto si ribellano, si rifiutano agli esami, ed
esigono che il governo abbandoni il sistema che li costringe ad aprire
qualche libro. E il governo cede a tali deplorabili esigenze, per
evitare il disordine, gli scandali e la taccia di pedantesca tirannide.
Il governo dovrebbe resistere, punire i rivoltosi, e mantenere la regola
stabilita; ma egli è pur troppo vero che l'intolleranza degli oziosi è
giunta a tale estremo, che la resistenza e la fermezza del governo
darebbe luogo sulle prime ad ogni sorta di calunniose imputazioni e
forse anco a scene scandalose. Il governo in questa occasione, come in
tante altre, si comporta come dovrebbe comportarsi verso una nazione
civile e degna della libertà: lascia che la nazione si governi da sè,
seguendo i proprii lumi, le proprie facoltà. Ma si è egli assicurato che
noi siamo in grado di governarci da noi? Se il governo volesse
sciogliere questo problema, scoprirebbe tosto la nostra insufficienza;
ma esso non si crede in diritto di varcare i confini stabiliti dallo
statuto. Lo statuto costituzionale suppone una nazione civile,
intelligente ed onesta; perciò ha fissato al governo certi limiti, oltre
i quali esso non si è mai spinto. Esso si mantiene scrupolosamente
fedele al giuramento prestato, e nessuno può di ciò biasimarlo: la
nostra disgrazia consiste nell'avere uno statuto forse troppo largamente
liberale; ma quando questo fu promulgato doveva reggere una sola
provincia italiana, una delle più incivilite ed illuminate, se non la
più civile e colta. La libertà di cui questa non avrebbe abusato,
diventa eccessiva quando concessa all'intera nazione.
Noi non pretendiamo che i componenti il nostro governo non abbiano
commesso errori, ed errori gravi. Ne abbiamo notati parecchi, e li
abbiamo amaramente deplorati. — Ma ciò che vorremmo chiarire agli occhi
della nazione si è il fatto, che codesti errori non furono commessi da
un ente morale da essa distinto e ad essa estraneo. Il governo italiano
altro non essendo se non una rappresentanza della nazione italiana, da
questa stessa emanata, i difetti che si osservano nel nostro governo,
sono i difetti nostri; i suoi errori, gli errori nostri, ai quali esso
partecipa come partecipa alle nostre virtù.
La più cospicua di queste ultime, quella però da cui sorgono per noi e
pel governo nostro molti danni, si è l'immaculato rispetto delle
nazionali libertà, e dello statuto che a noi le assicura e le
garantisce. — Vi è chi parla ancora del governo repubblicano come del
solo sotto cui sieno sicure codeste libertà; ma nessuno che non sia
traviato ed illuso dal vano rimbombo di sonore parole, nessuno che non
abbia interamente perduto il senso comune, non vede che le libertà
nostre sono piuttosto eccessive che imperfette. — La prova ne sta
appunto nell'abuso che di esse facciamo, e nella costanza con cui il
governo si astiene dall'approfittare dei nostri falli per abolirle. Chi
può dire che vi sia maggior libertà nei cantoni elvetici (la sola
repubblica esistente in Europa), o che si godessero maggiori libertà in
Francia, quando questa reggevasi a repubblica, e i suoi cittadini
espiavano col sangue la terribile colpa di chiamare i loro figli coi
nomi dei padri loro, o di pregare Iddio nel modo che ad essi era stato
insegnato dalle loro madri? La stampa non è forse piuttosto licenziosa
che libera? Il diritto di riunione non fu esso sempre rispettato, sino a
che non divenne sinonimo di disordine? Ed oggi ancora, dopo tanti
sfortunati esperimenti, un tal diritto non è forse mantenuto, e
ristretto soltanto in particolari circostanze, in casi affatto
eccezionali? Le elezioni dei deputati al parlamento non sono esse così
libere, che vediamo poi la camera stessa, formata da quelle, cassarne un
gran numero? Non parlerò della stranezza delle opinioni così
rappresentate nel parlamento: ricorderò solo che vi fu una elezione
cassata dalla camera, perchè l'eletto aveva subìto condanne infamanti,
non già per delitti politici, ma per delitti ordinari, e che il governo
italiano non era intervenuto ad impedirla, fidando pazientemente nella
revisione parlamentare. Credo che così facendo il governo seguisse
religiosamente la via che gli tracciava lo statuto e la legge
elettorale; ma, lo ripeto per la centesima volta, vi sono dei paesi e
dei tempi in cui la stretta legalità può essere fonte di gravi danni.
Una gran parte degli uomini che ne governano, e la real famiglia intorno
alla quale va stringendosi l'Italia, governarono sino al 59 un picciol
paese, una picciola, ma forte e saggia popolazione: quindi si trovarono
quasi magicamente trasportati alla testa di una nazione di oltre venti
milioni di anime, sparse lungo la penisola italica, colla missione di
formare uno stato compatto di tanti stati divisi, e spesso stati nemici
fra di loro; di comporli a nazione; di correggere, o, diciamo meglio, di
distruggere i letali effetti di tanti secoli di servitù e di pessimo
reggimento; di dotare le provincie annesse dei benefizi di una civiltà,
da cui i loro governi assoluti e tirannici le avevano tenute
deliberatamente lontane, e al tempo stesso di difendersi dai nemici che
tuttora rimanevano sul nostro territorio, e di metterci in grado di
scacciarnelo al più presto. Tutto ciò richiedeva ingenti somme di
danaro; attività straordinaria; acutezza d'intelletto, prudenza
instancabile, impero assoluto sulle proprie passioni, che mai non
debbono dominare l'uomo di stato; coraggio a tutta prova, sì morale che
fisico, sagacità, perspicacia, prontezza e sicurezza di concetto,
fermezza e precisione nell'esecuzione dei ponderati disegni,
disinteresse personale, probità riconosciuta, onoratezza, lealtà,
veracità, ossia avversione invincibile alla menzogna. Tali sono, (e ne
ho tralasciate altre molte) le doti, in parte naturali ed in parte
acquisite, che debbono distinguere i ministri di uno stato retto
costituzionalmente. Uomini siffatti sono poco numerosi in qualsiasi
contrada: rarissimi tra noi, così di recente nati alla vita sociale e
politica. — Uno ne avevamo, che sarebbe stato il primo fra i sommi delle
nazioni più incivilite e colte, come la Francia e la stessa Inghilterra.
Si sarebbe detto in vero che la Provvidenza ne aveva fatto dono di uno
di questi, per sottrarci a quella secolare servitù, che ci disonorava, e
minacciava di perpetuarsi a nostro danno. Ma se la Provvidenza ce lo
aveva dato, convien dire ch'essa ce lo ha ritolto; e lo ritolse prima
ch'egli provasse nella sua piena amarezza l'ingratitudine di una nazione
che da lui teneva l'esistenza, ossia l'indipendenza e la libertà. Forse
che la Provvidenza volle farne conoscere, e toccare con mano, quanto era
per noi malagevole il guidarci nei torbidi mari della politica, della
diplomazia, e dello spirito di parte. — Fra tanti ministri che si sono
succeduti al nostro governo dopo la morte del conte Cavour, non credo
che si possa senza ingiustizia condannarne un solo come assolutamente
inetto, o come disleale e traditore. E difatto nessuno fra i più
accaniti oppositori che alcuni collegi elettorali mandarono al
parlamento colla espressa missione di rovesciare almeno un gabinetto,
nessuno fra quegli stessi deputati che ricevono da Giuseppe Mazzini le
loro inspirazioni, si provò d'intentare una formale accusa contro un
ministro. Se i nostri ministri commisero errori, chi non ne avrebbe
commessi al loro posto? Gli errori di coloro che reggono uno stato,
vanno annoverati fra le piaghe inerenti alla natura degli uomini e delle
cose, che nessuna umana prudenza e previdenza potrà mai cicatrizzare o
evitare. Al governo italiano spettava il dovere di fare un'Italia,
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