Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire - 06

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degli eroi di Alfieri. — V'era chi sognava la repubblica francese del
93, e protestava che nulla di grande si fonderebbe in Italia, se non si
aprivano certe arterie, dalle quali doveva sgorgare molto sangue
corrotto. — V'era chi sognava il primato di Gioberti, ed un papato
universale politico sotto Pio IX. — Insomma varii ed innumerevoli erano
in quel tempo i pensieri e i voleri degli Italiani; ma fra tanti e sì
svariati pensieri e sistemi nulla vi era di eseguibile, e sembrava che
gli Italiani si fossero spogliati di ogni senso pratico.
Se loro si additavano gli ostacoli, che dovevano necessariamente opporsi
alla realizzazione delle loro utopie, vi rispondevano che la parola
ostacolo era per essi vuota di senso, che non vi era cosa impossibile
per chi voleva fortemente, ecc. — Se loro si chiedeva che cosa avrebbero
fatto quando l'Europa tutta si fosse dichiarata risoluta a finirla con
una nazione che si suppone sempre intenta ad introdurre novità
pericolose per la civile società, essi stringevansi nelle spalle, e
dicevano in tuono di compatimento, che la nazione italiana si componeva
di circa 26 milioni di esseri, che si alzerebbero come un sol uomo
quando fosse mestieri dare all'Europa una salutare lezioncina, e che ad
un popolo così unanime, così valoroso e risoluto in favore di una idea,
non v'era esercito, nè associazione di eserciti che potesse resistere. —
Si pronunziavano sentenze in tuono cattedratico ed entusiastico, e si
credeva aver profferito verità sacrosante, argomenti irresistibili. — Ai
pericoli che ne circondavano, alla rovina che stava per piombare su di
noi, nessuno pensava. — Gli Austriaci avevano abbandonate quasi tutte le
città dell'alta Italia, e quelli fra i principi delle altre parti
d'Italia che non li avevano seguiti sembravano trasformati in
altrettanti liberali, smaniosi di sagrificare sè stessi e le loro
dinastie per contribuire al risorgimento d'Italia. — Tutto ciò era stato
operato dagli Italiani, dalla loro risolutezza o dal loro valore. — Che
più v'era da temere? Come avevano già vinto, vincerebbero ogni volta che
il bisogno della vittoria fosse loro dimostrato.
Intanto gli Austriaci si concertavano coi principi loro satelliti, si
riavvicinavano al Pontefice, e ne guadagnavano l'animo incerto e
titubante; ed intanto l'Europa assisteva al nostro dramma senza neppure
fingere di interessarsi in favor nostro, e simulava ne' suoi fogli
periodici di considerarne come impazziti per l'inaspettato apparente
trionfo, ch'essa non avrebbe permesso qualora lo avesse considerato come
vero e reale. — Presto si vedrebbe a che cosa si ridurrebbero questi
nostri trionfi; ma qualora gli Italiani acquistassero veramente la
libertà e la indipendenza, toccherebbe alle savie e bene ordinate
nazioni dell'Europa il porli in tutela, e l'impedire che le loro pazze
teorie e la loro tracotanza ponessero a soqquadro la civiltà e la quiete
di questa parte del mondo.
Nessuno pensava di prestarci aiuto; nessuno desiderava vederci liberi e
contenti; ma forse meritavamo questa generale malevolenza, poichè ne
andavamo superbi e soddisfatti. — Non abbiamo bisogno nè di amici nè di
alleati. — Bastiamo a noi stessi; ed insegneremo all'Europa ciò che
siamo e ciò che possiamo. — Così parlavamo; e mi ricordo di un tempo in
cui la maggiore nostra paura era quella di essere aiutati a nostro
dispetto da qualche potenza educata alla scuola di Don Quisciotte.
Suonava l'ora dei rovesci. — Con mirabile valore e con deplorabile
spensieratezza, la piccola armata piemontese ed alcune improvvisate
legioni di volontarii, a cui si unirono i corpi universitarii, si
cimentavano contro l'intera forza dell'impero austriaco, accresciuta
ancora da non pochi Russi, che vestivano per obbedienza al loro Czar
l'uniforme bianco. — Già il Borbone aveva deposto la maschera, e
richiamate le truppe, che la paura di una rivoluzione lo aveva costretto
a mandare nell'alta Italia. Già il Pontefice aveva fatto riflessione che
gli Austriaci essendo cattolici erano suoi figli non meno degli
Italiani, e che la nostra guerra essendo per conseguenza una guerra
fratricida, egli non poteva parteciparvi, e richiamava pure le sue
truppe. — Il gran duca di Toscana o non ne mandava, o ne mandava così
parcamente, che non potevano recare gran danno al nemico nostro. —
Attoniti e scorati per sì sfacciato ed inaspettato abbandono, i
difensori che ne rimanevano, combattevano eroicamente, ma sentendosi già
vinti. — In pochi giorni l'Austriaco toccava le porte di Milano, e
dinanzi a lui andavano ritirandosi i nostri soldati umiliati ed
impotenti.
I Lombardi fremevano, ed avrebbero preferito seppellirsi sotto le rovine
delle loro città, piuttosto che vederle nuovamente occupate dall'odiato
oppressore. — L'Italia tutta fremeva; ma i suoi fremiti erano vani. — I
popoli non improvvisano le grandi risoluzioni. — Di nulla erano
convenuti gli Italiani, se non di combattere e di vincere per prima
cosa, e di pensar poi al modo di mettere la vittoria a profitto. La
sorte delle armi ne era stata avversa, e non sapevamo far altro che
fremere, sognare tradimenti, e maledire i traditori. — Chi voleva
cacciare il Borbone, il Pontefice, il gran Duca, e persino Carlo
Alberto, e costituirsi in republica. — Chi voleva ricondurre o per amore
o per forza i principi sulla via del dovere; e rifuggivano dal pensiero
della repubblica. — Mazzini imputava le nostre sventure alla fiducia che
avevamo riposta nei Principi, e li dichiarava tutti, o traditori, o
condannati ad incessanti disfatte per le colpe loro e per quelle dei
padri.
L'ira contro le potenze europee, che ci vedevano cadere sotto la
insanguinata scure dell'Austria senza stenderci la mano e salvarci;
l'ira contro Carlo Alberto, al quale si attribuiva in quei giorni di
avere pel primo profferite le mal augurate parole, _l'Italia farà da
sè_, era generale, e si sarebbe potuto credere che il paese non avesse
mai divisa l'erronea credenza nelle proprie sue forze.
Poniamo fine a queste dolorose ricordanze. — L'Italia non compianta
ricadde sotto gli antichi ed abborriti dominatori, che si prefissero di
opprimerla con sì pesante giogo, che più non potesse neppur sognare
nuove rivoluzioni. L'Italia non cadeva tutta in un giorno stesso. Due
città resistettero più a lungo delle altre, e in queste due città, che
Mazzini o i suoi discepoli reggevano con forma popolare, la diplomazia
esercitava poca influenza, e forse non ambiva di esercitarne una più
grande. Voglio parlare di Roma e di Venezia: esse non caddero nel 48, ma
bensì nel 49; ed in esse l'Italia diede per quella volta almeno gli
ultimi aneliti di vita civile e libera.
Anche Brescia, lasciata in balìa del suo municipio, che è quanto dire di
sè stessa, chiuse le sue porte agli Austriaci, armò tutti i suoi
cittadini, senza eccezione di sesso o di età, e si preparò ad una eroica
ma disperata resistenza. Per ben tre giorni gli Austriaci irrompevano
dalle porte nelle strade della città, ed appena impegnati in queste le
ingombravano dei loro cadaveri, da tutte le case, da tutte le finestre,
dai tetti rovinando su di loro micidiali proiettili d'ogni sorta. Ma
Brescia dovette cessare dalla pugna quando non ebbe più munizioni con
cui tenere a distanza il nemico, e quando non ebbe più difensori che non
grondassero del proprio sangue.
Gli Italiani diedero cospicua prova di animo valoroso e divoto alla
patria; ma ciò non basta a costituire ed a fondare una nazione. — I
Polacchi furono sempre ammirati pel singolare loro valore, ma non col
solo valor militare si acquista un seggio fra le nazioni civili, libere
ed indipendenti; e la storia del popolo polacco basterebbe a convincerne
di ciò quando nol fossimo già a sufficienza.
Per undici anni ancora gli Italiani furono trattati come gli Iloti
dell'antichità. — Derisa e non curata dall'Europa, martoriata, oppressa,
straziata, e munta da' suoi padroni, l'Italia sembrava oramai condannata
ad eterna ed ignominiosa servitù; e gli stranieri così opinavano. — Deve
esservi, dicevano essi, qualche nascosto difetto, qualche pecca
originale nel carattere degli Italiani; poichè ogni loro sforzo per
diventare indipendenti e per ricostituirsi in nazione riesce vano; e
sappiamo oggidì che non si cade se non perchè si difetta della forza
necessaria per reggersi. È inutile tentar nuove prove, soggiungevano
talvolta, e dovete rassegnarvi ad uno stato di cose ch'è evidentemente
il solo cui siate propri.
L'Italia sola non aveva accettata la crudele sentenza; e protestava
contro di essa con parole e con atti ogni qual volta le se ne presentava
la opportunità. In quelli undici anni l'odio dell'oppresso per
l'oppressore, e viceversa, giunse all'apice della violenza. Ma se a ciò
si fossero limitati i nostri progressi, saremmo tuttora schiavi. Un
genio benefico sorse presso ad un principe veramente liberale e
patriota, nel tempo stesso che un amico d'Italia saliva al supremo
potere e prendeva a reggere la più possente e la più energica fra le
nazioni europee. — Una segreta alleanza fu giurata fra l'imperatore dei
Francesi, e il re Vittorio Emanuele, sotto la ispirazione del conte
Camillo di Cavour. — Ma ciò non sarebbe bastato, se una radicale
alleanza non avesse composto in un sol corpo e in una sola volontà gli
Italiani tutti. — Cavour si fece capo di una nuova scuola politica in
Italia. — Egli fece brillare agli occhi degli Italiani queste verità
semplici ed incontestabili: per conquistare la indipendenza e la libertà
è necessario esser forti; e la unione può solo creare la forza.
Questa così ovvia verità fu prontamente afferrata dagli Italiani, che
l'accettarono e la confessarono da quel momento in poi come un dogma,
cioè con fede religiosa. — Tutto il passato apparve allora agli occhi
nostri sotto un aspetto tutto nuovo. Le nostre sventure più non furono
da noi imputate nè ad una sorte avversa e capricciosa, nè al tradimento
di chi doveva guidarci. — La vera e patente origine delle nostre
incessanti sciagure era appunto il difetto di unione e di unità di
vedute, di scopo e di azione. — Sembrava che la segreta cagione dei
nostri rovesci ne fosse stata tutto ad un tratto rivelata; e da quel
momento in poi ogni gara, ogni rivalità, ogni differenza di opinioni, di
tendenze, di gare politiche, fu condannata come delitto verso la comune
patria. — Nessuno tentò più di volgere a suo talento gli avvenimenti che
si succedevano, e una cosa sola si volle considerare: quale fosse la
volontà della maggioranza degli Italiani. — Questa volontà non trovò più
oppositori. — Anche i partigiani dell'assolutismo repubblicano di
Mazzini sospesero la crociata bandita dal loro maestro contro ogni forma
di governo che non fosse repubblicana. — La forma di governo che sarebbe
più accetta al maggior numero degli Italiani, quella che sembrerebbe più
atta a tenerli tutti uniti, e a crear loro interessi comuni, quella che
all'Italia susciterebbe il minor numero di nemici possibile: quella
sarebbe la forma di governo contro cui nessuno ardirebbe protestare. — E
quando si parlava in tal modo, già si sapeva che la forma di governo
necessaria al dì d'oggi era la monarchica. — Alcune città delle Romagne
e della Lombardia avrebbero accettata la repubblica di buona voglia,
quando questa fosse stata l'oggetto della preferenza di tutta Italia; ma
i due principali Stati italiani, quelli che disponevano di eserciti,
senza i quali sarebbe stata follìa l'intraprendere cosa alcuna contro la
dominazione straniera, il napoletano ed il sardo erano affezionatissimi
alla forma monarchica, e non l'avrebbero scambiata colla repubblicana,
se non vi fossero stati costretti. — L'Europa d'altronde non lo avrebbe
concesso; e gli italiani cominciarono a travedere, che le dichiarazioni
e le proteste repubblicane dei nostri emigrati politici erano in gran
parte la cagione della diffidenza che l'Europa manifestava verso di noi,
e del poco conto in cui ne teneva. L'unico scopo a cui tendevano tutti
gli italiani, era il costituirsi in nazione indipendente; e tutto ciò
che facilitava il compimento di questo voto era da tutti accettato senza
discussione e con trasporto.
Un fortunatissimo concorso di circostanze contribuì alla nostra
salvezza. — L'avere sul trono di Francia un amico fedele, che conosceva
l'Italia, e sapeva che cosa si poteva sperare, anzi aspettarsi da essa
quando fosse pervenuta a rompere le sue catene e a costituirsi in
nazione. — Questo amico sapeva altresì che l'Italia, ridotta al misero
stato in cui l'avevano precipitata, e la mantenevano i suoi dominatori,
non poteva muovere il primo passo verso l'indipendenza senza l'aiuto di
una nazione già costituita, sviluppata e forte. — Questo aiuto
iniziatore egli era in grado di darnelo, ed avea deciso che non ne
mancherebbe. — L'avere alla testa di buona parte dell'alta Italia un re
liberale, irremovibilmente schiavo della propria parola, animoso,
risoluto ed onesto. — L'avere questo re alla direzione de' suoi consigli
un ministro come il conte di Cavour, sagace e destro maneggiatore delle
cose politiche, divoto alla salute della patria italiana, che seppe
apprezzare le generose intenzioni ed il genio politico dell'imperatore
Napoleone, come aveva saputo apprezzare il sincero amor patrio del re
Vittorio Emanuele, e come egli medesimo era apprezzato da quei due; che
sapeva persuadere e dirigere gli italiani di tutte le provincie d'Italia
e di tutti i partiti. Intorno a Cavour si stendeva un'atmosfera di
fiducia, tutta nuova per gli italiani, che da tanti secoli erano avvezzi
a diffidare e a sospettare di ognuno. — Cavour fu l'anello che legò
vicendevolmente Napoleone e Vittorio Emanuele, e questo all'Italia;
Cavour fu l'iniziatore della spedizione sarda in Crimea, l'inspiratore
del congresso di Parigi, ove per la prima volta i diritti degli italiani
furono discussi seriamente, e finalmente riconosciuti. — Cavour aveva
fuso gli italiani in un solo pensiero: quello di cacciare al di là delle
Alpi lo straniero, e di costituirsi in nazione; e quando l'Austria,
insospettita di quanto macchinavasi contro di essa tra la Francia e
l'Italia, si accinse a distruggere, cioè a conquistare quel piccolo
Piemonte che aveva l'audacia di dichiararsi protettore dell'Italia
tutta, e suo nemico, Cavour, che aspettava una occasione propizia, si
volse ad un tratto a Napoleone e all'Italia. — Tutti risposero alla sua
voce. Napoleone condusse immediatamente i suoi eserciti nell'alta
Italia, e gli italiani tutti insorsero contro i loro signori, e
protestarono di voler essere italiani liberi ed indipendenti sotto il
governo della Casa di Savoja. — Mentre ancora si combattevano gli
austriaci, le principali città d'Italia, e gli stati italiani, mandavano
deputazioni al re Vittorio Emanuele e al suo ministro, per chiedere di
essere annessi al regno dell'alta Italia.
La pace di Villafranca sembrò sulle prime porsi come insuperabile
ostacolo all'adempimento dei voti degli italiani; ma in breve quella
infausta illusione si dissipava. — Mentre la diplomazia stabiliva a
Villafranca e a Zurigo, che l'Italia rimarrebbe a un dipresso qual era
prima del 59, che la Lombardia sola sarebbe annessa al Piemonte, che la
Venezia sarebbe lasciata all'Austria, che i duchi e i principi scacciati
rientrerebbero al possesso dei loro stati, e che tutti i sovrani
d'Italia compreso l'imperatore d'Austria, formerebbero una
confederazione sotto la presidenza del romano Pontefice; mentre
Napoleone dettava tali condizioni, ed il nuovo ministero di Vittorio
Emanuele le accettava, le annessioni dei ducati, della Toscana, delle
Legazioni si compivano, e si rendeva impossibile il ritorno dei
principi. — Si temeva che l'imperatore dei Francesi si adirasse contro
questa audace resistenza a' suoi voleri; ma tale resistenza sanzionata
dai plebesciti delle provincie, che volevano l'annessione, fu giudicata
legittima e giusta.
Più tardi l'Umbria, la Sicilia e il napoletano invocarono l'annessione;
e Garibaldi co' suoi mille andò a mettere in fuga i soldati borbonici,
che impedivano l'aperta manifestazione della volontà popolare.
L'imperatore Napoleone aveva proclamato due principii, ch'egli imponeva
all'Europa di rispettare. Eran questi, la onnipotenza del suffragio
universale, ed il non intervento. — Tutto ciò ch'erasi operato in Italia
era stato sancito dai plebisciti, ossia dal suffragio universale, ed il
principio del non intervento non permetteva all'Europa di opporvisi. —
Questi principii, che furono la nostra egida, Napoleone li proclamò in
favor nostro; e ciò solo dovrebbe bastare ad assicurargli la nostra
indelebile riconoscenza.
Ma la cessione della Savoja e del contado di Nizza fu per gli italiani
un seme di discordia e di malcontento. — Col tempo impareremo a benedire
quel sacrifizio come il vero fondamento della nostra indipendenza.
Gli italiani vogliono innanzi tutto, ed è ben naturale che così sia,
vogliono, dico, ottenere l'intento loro; ma le loro forze non essendo
sempre adequate alla grandezza dei loro concetti, essi o implorano o
accettano l'aiuto di chi si dice loro amico; e questo aiuto gli italiani
sognano sempre che abbia ad essere gratuito. — Se loro si chiede
schiettamente un compenso, essi si sdegnano, e si tengono per sciolti da
qualsiasi obbligo di gratitudine. — Essi non vedono essere il puntuale
pagamento del compenso richiesto e convenuto la sola via per raggiungere
e per conservare la loro indipendenza. — Dio ne liberi dal peso di un
debito non definito e non pagato! Quel peso è come un fantasma
minaccioso, che si frappone in perpetuo fra il beneficato e ogni atto di
indipendenza ch'egli sta per compiere. Benedetto invece quel benefattore
che fissa il prezzo dell'opera sua, e che ricevutolo, si tiene per
soddisfatto, e dichiara il beneficato sciolto da ogni debito verso di
lui! Ciò pattuiva il conte di Cavour coll'imperatore Napoleone, perchè
l'imperatore doveva alla Francia di non sottoporla a sacrifizi senza
compenso, e perchè il conte di Cavour voleva che l'indipendenza italiana
non fosse più illusoria, ma vera e durevole, non quale era stata tante
volte, il passaggio da una ad un'altra dominazione. — Abbiamo saldato il
nostro debito verso la Francia; e sebbene dobbiamo ad essa i più sinceri
sentimenti di gratitudine, non dobbiamo nè ad essa, nè ad altra potenza
non italiana, il sacrifizio della benchè menoma frazione della nostra
indipendenza.
La nostra nazionalità conta oggi sette anni di vita; e questi sette anni
di goduta libertà, di pubblica tranquillità e di moderazione ne hanno
fruttato il riconoscimento di tutte le potenze europee. — Ne hanno
fruttato un bellissimo esercito, una marina considerevole, un sistema di
ferrovie che rilega fra loro tutte le parti d'Italia, e facilita
l'accomunarsi delle varie popolazioni e dei loro interessi: cospicui
abbellimenti nelle principali città, e la universale simpatia
dell'Europa, a tal segno che quando all'aprirsi della penultima stagione
estiva chiedevamo all'Austria di cederne quella parte della patria
nostra ch'essa teneva tuttora schiava, l'Europa tutta sclamò essere la
nostra domanda giusta e legittima, e dovere la Venezia esser ceduta
all'Italia. Chi ne avrebbe detto dieci anni sono, che i nostri diritti
sarebbero oggi così spontaneamente confessati e sostenuti da quelle
potenze, che per lo addietro dileggiavano le nostre pretese, i nostri
sforzi sempre vani?
La sorte delle armi non ne fu, quanto lo avevamo sperato, propizia, e
l'imperizia e l'inesperienza dei grandi comandi, e delle grandi
battaglie, tanto dei capi militari di terra, quanto di quelli di mare,
ne costò molto sangue, e ne fruttò poca gloria. — Ma nessuno si ingannò
sulle cagioni di cotesti nostri problematici successi; e il valore
dell'esercito intero, l'eroismo dei nostri soldati di marina,
risplendettero così straordinariamente durante la guerra, che gli
stranieri ne rispettarono dopo questa assai più che nol facevano per lo
passato, e ne tributarono meritate, ma non aspettate lodi. — La Venezia
è omai nostra col consenso dell'Austria stessa; e quel formidabile
quadrilatero, perenne minaccia alla nostra libertà ed indipendenza,
diventa ora per noi un baluardo quasi inespugnabile contro qualsiasi
futuro tentativo d'invasione.
Tale è il passato che ne condusse, attraverso tante catastrofi e
peripezie, al felice e glorioso nostro presente. — Ma il carattere dei
popoli si compone delle passioni e dei costumi acquistati sotto
l'influenza del loro passato. — Il passato può essere completamente
distrutto, e trasformato in un presente tutto opposto a quello; ma le
traccie del passato esistono nel carattere e nelle abitudini popolari
che in esso si formarono. — Quando il passato più non esiste, ed ha dato
luogo ad un presente che in nulla gli somiglia, le tendenze morali ed
intellettuali create da quello più non convengono a questo. — Per noi
del resto la necessità di spogliarci di quegli avanzi del passato è
singolarmente evidente, in quanto che siamo stati educati dai nostri
dominatori per compiacerci negli ozi della schiavitù, e per essere
indegni della libertà. — Siamo stati educati a diffidare e a sospettare
di tutto e di tutti; a stancarci di tutto ciò che dura da qualche tempo,
a biasimare e criticare ogni cosa, a giudicare degli uomini e delle cose
colla nostra imaginazione piuttosto che col freddo criterio; ad
esaltarci fuor di misura per tutto ciò che riveste un aspetto drammatico
di sublimità e di eroismo, senza esaminare se la sostanza corrisponde
all'apparenza. — Siamo stati educati ad impiegare parole ampollose ed
enfatiche, e a prenderle per l'espressione di sublimi concetti, a
confondere l'enfiagione della vanità colla coscienza della nostra
irresistibile forza, e non dubitare della nostra superiorità, e dei
trionfi ch'essa ne assicura; e quando invece di trionfi raccogliamo
rovesci, ad esagerarli, a darci in preda all'abbattimento e alla
disperazione, e ad imputare altrui le sventure che la nostra imperizia e
la nostra inesperienza ne hanno procurato. — Siamo stati educati a
disprezzare la scienza e gli studi necessari ad acquistarla, e a
vantarci del nostro ingegno svegliato, che conosce ogni cosa per
intuizione, senza condannarsi alla noia dell'imparare. — Siamo stati
educati da chi voleva mantenerci schiavi, in modo tale da renderne
incapaci di costituirci in nazione libera ed indipendente; incapaci di
compiere i doveri del cittadino, come di sacrificare le private
ambizioni e i privati interessi alla salvezza e alla prosperità della
comune patria.
Il nostro principale studio deve essere omai di spogliarci di tutte le
letali influenze del passato.
Ricordiamoci che il nostro passato fu un'era di schiavitù, e che il
popolo educato alla schiavitù deve trasformare sè stesso, se vuol
diventare atto a godere della libertà e della indipendenza.


CAPITOLO TERZO
CARATTERE DELL'ITALIANO,
SUE VARIETÀ E SUE CONSEGUENZE

L'Italia può oggidì considerarsi come fatta e compiuta. Lo scopo di
tanti sforzi, di tanti sacrifizi, l'oggetto di tante aspirazioni e
speranze, può dirsi raggiunto. — L'Italia ha veduto l'ultimo di quei
soldati stranieri che la tennero sì a lungo soggetta rivarcare le Alpi,
lasciandola erede dell'inespugnabile quadrilatero; e l'Europa tutta
proclama la santità de' suoi diritti, e si dichiara stanca di vederli
conculcati.
Un certo sentimento di orgoglio può essere scusato in noi, quando
pensiamo alle cangiate nostre sorti, alla simpatia acquistata, al nostro
rapido innalzamento al grado di potenza di primo ordine; in noi che otto
anni indietro eravamo considerati come una mandra di servi austriaci. Ma
l'ebbrezza della gioia e dell'ambizione soddisfatta riesce pericolosa a
chi troppo vi si abbandona. — Abbiamo altro da fare che congratularci
vicendevolmente per le conquiste ultimate. — Dobbiamo costituirci
fortemente, e vincere quelle abitudini e quelle tendenze del nostro
carattere, che si oppongono al nostro sviluppo morale, intellettuale e
nazionale.
L'Italia fu sempre riputata ricchissimo paese, e fu questo un equivoco.
Il suolo italiano è certamente il più ferace di Europa, e l'agricoltura
vi è giunta, parzialmente almeno, ad un certo grado di perfezione che
mal si accorda col limitato sviluppo delle scienze e dell'industria. —
Il motivo di tale difetto di armonia è evidente. L'Italia non ha vissuto
sin quì di sua vita propria, nè conformemente ai propri bisogni, ai
propri interessi; ma fu diretta da' suoi padroni, secondo ad essi
conveniva, e secondo risultava più confacente all'insieme di quei corpi
politici mostruosi e diformi, di cui le provincie italiane erano parte.
La frazione d'Italia che dipendeva direttamente dall'Austria (e l'Italia
presso che tutta ne dipendeva indirettamente) fu detta paese agricolo, e
tale è difatto; ma i tempi in cui la ricchezza pubblica delle nazioni si
misurava dalla fecondità del terreno, e dalla salubrità del clima, sono
lungi da noi. La ricchezza degli Stati è oramai la conseguenza dello
sviluppo dell'umana operosità nell'industria e nel commercio, non meno
che dello sviluppo dell'agricoltura.
L'impero austriaco, che si componeva di tante provincie e di popolazioni
fra loro eterogenee ed avverse, considerava le sue provincie italiane
come il suo giardino e il suo granaio. E di fatti nè la Boemia, nè
l'Ungheria, nè la Gallizia, nè la Stiria, nè alcuna di quelle nordiche
contrade possono competere coll'Italia per la feracità del suolo e per
la mitezza del clima. L'Italia fu dunque dall'Austria destinata, o per
dir meglio condannata a fornire all'impero i prodotti agricoli, e a
consumare i prodotti dell'industria delle altre provincie. L'industria
fu interdetta all'Italia, perchè all'impero conveniva di averla
inoperosa ed incapace di sovvenire ai propri bisogni. Nel lungo corso
del dominio austriaco in Italia, più d'una prova fu tentata da
capitalisti italiani, per introdurre nel paese qualche industria che
valesse ad arrestarne il rapido impoverimento. — Il governo austriaco
conosceva la iniquità del suo procedere, e sentiva la necessità di
mascherarlo. Per ciò non si opponeva apertamente a tali esperimenti; ma
ben sapeva renderli vani, ed ottenerne l'abbandono. I capitalisti autori
di quelle prove si vedevano subitamente decaduti dal favore del governo;
incontravano non preveduti ostacoli ad ogni loro mossa; il prezzo degli
oggetti necessari al progredire della industria loro cresceva ad un
tratto smisuratamente. Se ad essi occorrevano macchine che non si
potessero avere che dall'Inghilterra o dalla Francia, l'importazione di
tali macchine era sottoposta a tasse e a difficoltà siffatte, che la
nascente industria non poteva sostenerle, e il tentativo andava fallito.
Certo che un simile procedere non avrebbe ottenuto in Inghilterra il
successo che ottenne in Italia; ma gli italiani sono per natura poco
inclinati al lavoro, e la fredda e pacata resistenza ad una mascherata
persecuzione li stanca. — Essi resistono a qualsiasi costo quando l'ira
li sprona; e in tal caso sdegnano i consigli della prudenza, si
slanciano ad aperto combattimento, e spesse volte sono vinti
dall'avveduto nemico che si era da lungo tempo preparato alla lotta. —
Ma la costante e misurata resistenza ad una coperta persecuzione, il
combattere nascostamente, nelle tenebre, e lungi da ogni spettatore,
lascia l'italiano freddo, e gli toglie coll'ardore della pugna in campo
aperto la forza materiale e l'energia morale. — Gli italiani accettarono
dunque la parte che il governo austriaco loro destinava nella commedia
politica di un impero, e questa parte era quella del compratore di
oggetti manufatturati nelle provincie germaniche e slave. — Gli italiani
ricuperarono in compenso la facoltà di abbandonarsi all'ozio; compenso
fatale, perchè troppo conforme all'indole nostra e dei popoli
meridionali in generale, cosicchè abbandonandosi all'ozio per necessità,
vi si adagiarono senza rimorso, nè vergogna, e ne contrassero
rapidamente l'abito. — Che la parte imposta agli italiani nella
costituzione economica dell'impero dovesse condurli in breve ad una
inevitabile rovina, era cosa preveduta da chiunque rifletteva alle
condizioni finanziarie dell'Italia, e a quelle che i moderni progressi
delle scienze e dell'industria hanno creato in Europa. — Non è da
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