Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire - 01

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OSSERVAZIONI
SULLO STATO ATTUALE DELL'ITALIA
E SUL SUO AVVENIRE

DI
CRISTINA TRIVULZIO DI BELGIOJOSO

MILANO
TIPOGRAFIA DEL DOTT. FRANCESCO VALLARDI.
1868.


PROPRIETÀ LETTERARIA.


AL LETTORE

Queste pagine non sarebbero state, me vivente, pubblicate, se avessi
minor fiducia nella indulgenza e nella benevolenza de' miei lettori. —
Se le mie osservazioni sembrassero ad essi senza fondamento, male
esposte, inopportune o superflue, essi non sospetteranno almeno la
rettitudine delle mie intenzioni; e questa convinzione basta a
confortarmi, ed a farmi incontrare con mente serena e con animo saldo
qualunque critica, per acerba che sia.
Per la prima volta mi dirigo al pubblico nella mia lingua nativa, in un
momento in cui essa è l'oggetto di sapienti discussioni e di ardui
problemi. Su questo punto ancora debbo confidare nell'indulgenza di chi
mi legge. Nell'esporre i miei pensieri mi prefissi soltanto di essere
facilmente intesa. L'eleganza dello stile non è dote ch'io possegga, e
non ho mai preteso di aspirare a questo vanto. — Scrivo perchè parmi di
avere qualche cosa da dire, che possa per avventura riescire non inutile
al mio paese. — Se tacessi perchè so di non parlare con linguaggio
elegante e forbito, arrossirei di questa mia puerile vanità. — Se chi mi
legge m'intende senza durar fatica, mi terrò per pienamente soddisfatta.
— Se chi mi ha intesa rende giustizia alla rettitudine delle mie
intenzioni, e mi perdona la illimitata ed assoluta schiettezza del mio
dire, sarò sempre più convinta della bontà e della cortesia de' miei
compatriotti.


CAPITOLO PRIMO
SITUAZIONE POLITICA E MATERIALE D'ITALIA

L'Italia non è più una semplice astrazione geografica. — L'Italia esiste
come nazione, nel modo istesso nel quale esistono le altre nazioni
europee o per dir meglio le più potenti e le più incivilite dell'Europa.
— Ristretta intorno ad una sola bandiera, retta a monarchia da un re;
posta sotto l'egida di uno statuto costituzionale che il governo non
tentò mai di frangere, forte e superbo della propria indipendenza, dopo
che l'ultimo soldato straniero ne sgombrò, e voltava le spalle ai
confini di lei; difesa dagli italiani, da italiani amministrata,
governata e rappresentata; solcata in ogni direzione da numerose
ferrovie, corredata di una forte marina, proporzionatamente alla
estensione del di lei littorale; l'Italia coi suoi 26 milioni d'abitanti
e più, guarda con legittima soddisfazione a tuttociò ch'essa compiva nel
brevissimo spazio di sei anni, e si prepara ad eseguire nuovi progressi.
Questi 26 milioni di abitanti sono ripartiti inegualmente sopra una
estensione di circa 24,650,719 ettari quadri. Ognuno conosce la forma
esterna della nostra penisola. Terminata a settentrione da una vasta
catena di altissimi monti, dessa si allarga in ampie pianure, interrotte
da amene regioni di colli e di laghi, occupando così tutto lo spazio che
corre fra le provincie meridionali della Francia e la Dalmazia. — Questa
gran parte di sè, che vien detta l'Italia settentrionale, comprende il
Piemonte, la Lombardia, gli Stati Estensi e Parmigiani ed il Veneto e
conta ad oltre nove milioni di abitanti.
Queste provincie d'altronde possono dirsi le più ricche dell'intero
regno, e non ne sono certamente le meno incivilite. — Il Piemonte che fu
sempre reputato assai povero, si è di recente arricchito per la libertà
di cui godeva vari anni prima che il rimanente d'Italia dividesse tanta
ventura. — Ad arricchirlo concorsero pure altre circostanze; fralle
quali va numerata la cessione alla Francia della più povera fra le
antiche sue provincie, ed il progresso della grande agricoltura, ossia
dell'agricoltura irrigatoria, dei quali progressi vennero a fruire la
Lomellina ed il Novarese, altre provincie dell'antico Piemonte. La
Lombardia che fu sempre reputata assai ricca, perchè il suolo ne è
veramente feracissimo, non ebbe mai una ricchezza stabilita sopra solide
basi, mentre tutto il suo reddito provveniva da una fonte sola, la
agricoltura. — È bensì vero che questo reddito era assai maggiore che
non lo sono negli altri Stati Europei quella parte del pubblico reddito
proveniente dalla stessa sorgente. — Cosicchè l'osservatore superficiale
che metteva in raffronto il prodotto delle terre Lombarde con quello di
qualsifossero altre terre di dimensione eguale e non si informava della
condizione degli altri rami di pubblica prosperità, si formava uno
stupendo concetto delle ricchezze dei lombardi, e le andava poi sempre
magnificando e vantando come prodigiose. — Certo è però che in tutto il
corso del dominio austriaco sulle provincie Lombardo-Venete, sebbene la
Lombardia non avesse ancora soggiaciuto ai flagelli della criptogama e
della malattia dei bachi da seta, e tutte le sue terre fossero in istato
di pieno prodotto e valore; sebbene l'Austria non ristasse
dall'opprimerne con gravissime e sempre crescenti imposte, il governo
austriaco non riescì mai a pareggiare in queste sue provincie il dare
coll'avere, e si vide sempre costretto a spendere per mantenerne
soggetti più di quanto da noi riceveva.
Accadde poi ciò che naturalmente deve accadere di quelle ricchezze
zoppe, cioè squilibrate e dovute ad una unica sorgente. — Questa si
intorbidiva, cessava in parte, e l'intero edifizio della pubblica
prosperità crollava e rovinava. — Se la Lombardia avesse posseduto in
allora un sufficiente numero di stabilimenti industriali e di opificj,
le braccia rimaste oziose per la mancanza degli usati lavori agricoli si
sarebbero impiegate altrimenti, l'attività popolare si sarebbe rivolta
verso quelle vie ad essa aperte, ed i flagelli sopra di noi scatenati
non avrebbero avuto i fatali risultati che ebbero. — Nella condizione in
cui ci trovavamo, invece nessuna risorsa ne fu presentata. — Tutte le
terre situate al settentrione della città di Milano, i colli Euganej, e
Brianzej, il Varesotto, l'intere provincie di Bergamo e di Brescia, ecc.
ecc., sono come colpite di sterilità; cioè producono i loro soliti
frutti, ma questi si corrompono e muojono prima di essere giunti a
maturanza. — I possidenti privi con ciò del loro reddito usato, debbono
inoltre condonare ai contadini l'affitto delle loro case, e provvederli
almeno di grano turco, il che non facendo essi accadrebbe del contadino
Lombardo ciò che accade di tratto in tratto del contadino irlandese,
cioè di morire d'inedia, e di freddo sulle pubbliche strade o sul
limitare delle abbandonate e chiuse loro povere case. — Ciò prevengono i
nostri possidenti col prestare ai loro villici il pane ed il tetto; ma
così facendo scemano le proprie risorse, per essi v'ha lucro cessante e
danno emergente, e la totale loro rovina si fa ogni giorno più
verosimile e più prossima.
La bassa Lombardia sebbene assai meno estesa dell'alta, poichè non
comprende oltre la Lomellina ed il Novarese di cui abbiamo accennato più
su, che il Pavese, il Lodigiano e parte del Cremasco è divenuta oggi
pressochè la sola fonte del pubblico reddito in Lombardia. — I terreni
irrigatorj le case poste nell'interno della città, ed alcuni pochissimi
opifici appartenenti a famiglie plebee che lentamente, e copertamente vi
si arricchirono anche prima del 59 e che ora vanno comperando tutto ciò
che le nostre illustri e cospicue famiglie più non possono conservare,
formando così una nuova aristocrazia, più in armonia colle idee e coi
bisogni della moderna società: ecco le fonti da cui oggi scaturisce lo
scemato e smunto reddito della Lombardia. L'Italia centrale si compone
della Toscana e di una grande parte delle provincie che formavano prima
del 59 o del 60 gli Stati romani.
La Toscana conta presso a due milioni di abitanti; è paese gremito di
piccole, ma belle città, variato da colli ameni, da corsi d'acque, da
sontuose ville, palazzetti, parchi, giardini, e villaggi che nulla
presentano di quello squallore, che disadorna troppo sovente quelli del
rimanente d'Italia. — Nessun angolo della Toscana possiede un aspetto
grandioso e tetro, e le sue campagne fanno tutte presentire la vicinanza
di una città. — Per quanto alcune di esse sieno solitarie e silenziose,
vi si sente sempre che l'uomo è a pochi passi distante; ed il contadino
toscano che vive sobriamente, respira un'aria salubre, lavora
moderatamente ed è in frequente contatto cogli abitanti della città,
nulla ha di rozzo, e non risveglia in chi lo incontra il doloroso
pensiero di una ereditaria ed incurabile miseria. — Le donne o
intrecciano i cappelli di paglia, o coltivano e vendono fiori; due
mestieri che non affaticano le delicate membra, e non abusano delle
forze giovanili, cosicchè le contadine toscane rimangono giovani per
tutto il corso della loro gioventù, e per nulla rassomigliano quelle
altre a cui incombono i più ardui lavori dei campi, e che bellissime a
diciotto anni sembrano spesso decrepite appena passati i venti.
Tanta gentilezza, vaghezza di forme e di costumi, tanta agiatezza di
vita, ed una certa coltura che si estende alle infime classi della
popolazione, farebbe naturalmente supporre che la Toscana sia paese
ricco, e che i suoi abitanti sieno ampiamente dotati di operosità, di
intelligenza, di risoluzione e di perseveranza. — Chi formasse una
simile conclusione, commetterebbe però un gravissimo errore.
L'agiatezza di tutte le classi popolari, la gentilezza dei loro modi e
la durevole bellezza delle loro donne, provvengono da tutt'altra
cagione, cioè dalla proporzione ed armonia esistente fra i desideri o
diciam pure i bisogni, ed i mezzi di cui dispongono i popolani. — Il
toscano non è un popolo ardente ed impetuoso come lo sono gli altri
popoli d'Italia. Desso riflette alla condizione sua, sa che certe
soddisfazioni non si possono ottenere se non col rinunziare a certe
altre, e scieglie fra queste, quelle che più gli convengono,
abbandonando con animo rassegnato quelle che sarebbero un ostacolo alle
prime. — Tutto il sistema economico della Toscana è fondato sopra tale
scelta. — Tra i desiderj o i bisogni più urgenti del popolo Toscano; il
principale è il riposo; un riposo relativo s'intende e non assoluto. Il
popolano ed il contadino Toscano, lavorano quanto è necessario per
guadagnare ogni giorno i pochi bajocchi che bastano al sostentamento di
lui e della famiglia perchè tanto l'uno quanto l'altra sanno di ciò
accontentarsi. — La scarsità del denaro forma la ricchezza delle infime
classi della popolazione, mantenendo bassi i prezzi degli oggetti di
prima necessità. — Se un genio benefico versasse improvvisamente qualche
milione di lire sulla Toscana, desso non riceverebbe in ringraziamento
altro che maledizioni e busse, e produrrebbe in realtà un funesto
squilibrio nella esistenza di quelle popolazioni, poichè gli oggetti di
prima necessità aumenterebbero subito di prezzo. — Egli è ben vero che
la mano d'opera sarebbe rimunerata più largamente, ma la concorrenza
degli operai non toscani, si aggiungerebbe presto alle altre
complicazioni, ed il toscano non conserverebbe il suo posto se non
lavorando più o meglio che per lo passato. Ora il pensiero di lavorare
più e meglio ch'esso non lavora oggidì, è pensiero per lui
dolorosissimo, nè lo consolerebbe la prospettiva di un guadagno maggiore
poichè ha pesato nella mente sua i vantaggi del riposo e della ricchezza
ed ha preferito i primi ai secondi. Con tali sentimenti, e con siffatto
carattere i progressi verso la civiltà ch'è quanto dire nella industria
non possono essere che assai lenti se pure non sono nulli.
Nè vale il dire che la miseria non sentita nè rimpianta non può
considerarsi come vera miseria. — Se il contadino ed il popolano toscano
non deplorano la propria miseria, ma lo accettano come il prezzo del
riposo cui godono, le classi più elevate della toscana società, poste in
contatto coi pari loro di altre parti d'Italia e di Europa, sentono
amaramente la condizione direi quasi subalterna e parassita a cui le
condanna la loro povertà. — Firenze ebbe sempre una corte ed un corpo
diplomatico che traeva dietro di sè molte famiglie straniere illustri e
doviziose. — Queste esercitavano in Firenze la ospitalità, ed i
Fiorentini a cui spettava siffatta parte, la abbandonavano a quelli che
avrebbero dovuto ospitare, accettando invece per sè medesimi la parte
dell'ospitato senza neppur ricambiare le cortesie dagli stranieri
ricevute.
In nessuna provincia d'Italia il bisogno di aprire nuove vie alla
prosperità nazionale è così evidente come in Toscana; ed in nessuna la
introduzione di nuovi strumenti per la operosità della popolazione
sembra a primo aspetto dover incontrare minori difficoltà. Il gran
numero delle città ossia dei centri di popolazione, di operosità e di
civiltà, un certo grado di coltura e di modi civili distribuiti in tutte
le classi sociali, la circostanza che il popolo parla non già un
dialetto non intelligibile per chi nacque una trentina di miglia più in
su o più in giù, ma la lingua scritta leggermente alterata,
l'intelligenza ed il naturale docile e quieto degli abitanti, sono cose
che animar dovrebbero gli speculatori e gli spiriti intraprendenti a
tentare qualche nuovo stabilimento commerciale ed industriale. — Il
felice successo di un tale tentativo non sarebbe però così certo nè così
probabile, come può sembrarlo a prima vista. — Il grande, il formidabile
ostacolo sta appunto nel carattere della popolazione che nessun male
considera come più intollerabile, della fatica e che resiste
passivamente a qualunque sforzo si tenti per vincerne l'inerzia; e vi
resiste senza rimorsi perchè la sua resistenza non è accompagnata da
moti o da espressioni violenti, anzi direi quasi che il toscano
considera quella sua ostinata resistenza come una virtù, detta la
moderazione nei desiderj, la rassegnazione, ed il sapersi accontentare
di poco.
Il governo gran ducale toscano fu sempre il più mite fra i governi
dispotici che fecero per tanti secoli strazio dell'Italia. Il sovrano
che conosceva personalmente una grandissima parte dei suoi sudditi
conosceva e praticava con perfezione quelli artifizj di modi e di
espressioni che toccano il cuore dei semplici, e rivestono agli occhi
loro l'aspetto della benevolenza e della umiltà. Una passeggiata per le
vie della città in abito borghese, e senza seguito apparente; una parola
detta familiarmente ad un popolano, un soccorso largito in tempo
opportuno ad un bisognoso, erano i mezzi con cui si mascherava agli
occhi delle popolazioni il vicerè austriaco, il depositario delle
massime imperiali. Una penna toscana gli strappò la maschera e lo
presentò al popolo deluso in tutta la laidezza di un ipocrita tiranno,
ma il popolo toscano rise della strana figura che gli si mostrava per la
prima volta, ritenne nella memoria il mirabile ritratto di quello; _che
non è, nella lista dei tiranni, carne nè pesce_; ma non cavò
insegnamento alcuno dallo spettacolo, e forse noverò fra le virtù del
sovrano la indulgenza con cui si lasciava dipingere coronato di papaveri
e lattughe e permetteva a lui di ridere del dipinto.
Le popolazioni degli antichi stati romani, ammontano a circa due
milioni; sono povere come tutte le popolazioni italiane, non posseggono
industria di sorta, non si dedicano al commercio; e vivono su di un
suolo quasi interamente incolto. Una gran parte dei poderi rurali, ed il
terreno che circonda i villaggi, erano sino al 59 od al 60 posseduti
dalle manimorte, ossia dalle corporazioni religiose o dalla chiesa. Tali
possidenti non avendo nè molti bisogni, nè aspirazioni ambiziose, ma
accontentandosi per lo più di mangiar bene e di essere al coperto dalle
intemperie delle stagioni, al che provvedeva d'altronde la pietosa
generosità dei fedeli, l'agricoltura era da essi trascurata e negletta,
ed il viaggiatore che attraversava dieci anni sono le Romagne, le
Legazioni, ecc. ecc., vedeva con dolore e con raccapriccio i villaggi
situati nelle vicinanze degli innumerevoli conventi, o monasterj,
squallidi, in rovina, schifosamente sudici, ed abitati da infelici che
sembravano piuttosto cadaveri che viventi. — Piaghe di siffatta natura
non si medicano in pochi anni, e tutto, meno le strade, è tuttora da
farsi in quelle provincie. —
Il difetto principale dei governi costituzionali, è la debolezza della
loro iniziativa. In qualsiasi direzione quei governi intendino di
volgere le popolazioni, dessi trovansi ad ogni passo, o possono trovarsi
in urto colle individuali volontà; e la prospettiva stessa di tali
incontri basta a paralizzare le patriotiche intenzioni dei governi
costituzionali anco più energici. — Non dubito che il nostro il quale
non pretende ad una eccessiva energia, avrà risentito i frigidi effetti
di simili previsioni; ma forse ch'esso incontrerebbe minori ostacoli
fralle popolazioni degli antichi stati Romani che non fra quelle del
rimanente d'Italia. I già sudditi della chiesa hanno sofferto assai, non
solo moralmente, ma fisicamente eziandio e stanno ora aspettando
pazientemente il compenso del lungo passato. — Materialmente la sorte
loro deve aver peggiorato coll'acquisto della libertà poichè sono ora
gravate di forti imposte, e nessuna nuova via fu ad essi aperta per
guadagnare il denaro che pagano allo stato. — Eppure nessuno sintomo di
malcontento apparve mai in quelle provincie. — I Romagnuoli non hanno
speso nè in puerilità nè in frivolezze la esuberante gioja del loro
riscatto. — Se ne rallegrarono e se ne rallegrano tuttavia con maschia
gravità, come gente che non si crede in diritto di ottenere
gratuitamente i due più preziosi doni a cui un popolo possa aspirare, la
libertà e la indipendenza ma è preparato invece a pagarli a caro prezzo.
— Tali erano nel 60; tali sono oggi e gli Italiani tutti potrebbero
senza derogare prendere esempio dal contegno dei già sudditi della
Chiesa.
Delle provincie Napoletane e delle loro popolazioni si è parlato assai,
e parmi, dietro osservazioni troppo superficiali. — Il brigante feroce
superstizioso e stupido, ed il Lazzarone inerte più che mezzo ignudo, e
per tre quarti selvaggio, sono i due tipi dietro i quali ne raffiguriamo
generalmente i Napoletani, seppure non vi si aggiunge un Principe o un
Duca senza denaro, giuocatore, libertino, duellista e poco amante della
guerra. — Non nego che tali tipi si incontrino più frequentemente nelle
provincie Napoletane che altrove; ma in questi si spiegano ingranditi ed
esagerati i difetti di tutti i popoli meridionali, e di quelli in
particolar modo che non conobbero mai i vantaggi risultanti dalle virtù
a tali difetti opposte. — Ma siffatte esagerazioni dei difetti comuni ai
popoli meridionali, non sono da imputarsi al popolo Napoletano in massa.
— Se v'ha una provincia d'Italia in cui la libertà e la indipendenza
abbiano già prodotto dei risultati evidenti, oltre la costruzione di
nuove strade, di nuovi ponti e di nuovi edifizi, quella è la provincia o
per dir meglio lo stato Napoletano. Il tipo Lazzarone che viveva di
maccheroni e di angurie, e dormiva in un canestro, è quasi interamente
scomparso, trasformandosi e confondendosi nei pescatori. — L'immondezza
delle pubbliche vie di Napoli degli atrj, dei cortili e persino delle
scale dei più sontuosi palazzi scomparve anch'essa vinta dalle cure
della edilità municipale, e del concorso che la immensa maggioranza di
ogni classe di popolo gli prestava che se tale concorso non avesse
esistito, o nulla o a ben poca cosa avrebbero giovato le misure della
edilità.
Nel corso dei sei anni passati per Napoli sotto il benefico, ma talora
pericoloso regime della libertà, il popolo Napoletano non ha tentato una
sola volta di abusarne. — Desso ha accettato le leggi, i regolamenti, le
istituzioni, i decreti che gli furono imposti, sottomettendosi al peso
ed agli inconvenienti degli uni, e cavando vantaggi da altri con una
spontanea docilità, ed una costante prudenza che da lui non si
aspettava. — Si è sempre parlato della innata vigliaccheria del
Napoletano, ma qui ancora i vecchi motteggi, ed i rancidi pregiudizii
ebbero una solenne mentita. — La guerra del 66 fu combattuta dai
Napoletani quanto da tutte le altre popolazioni Italiane, e nessun
episodio fu narrato sin qui che testimoniasse della timidezza imputata
ai Napoletani. — Le nostre sventure durante quella guerra furono la
conseguenza della poca esperienza o della incapacità di alcuni capi, non
già del difetto di valore della bassa forza; e fra i generali di una
certa età e di un certo grado, quello che forse più d'ogni altro diede
di sè, del suo sapere del suo valore prove migliori, si fu un generale
Napoletano, il Nunziante, Duca di Mignano. — La classe che in Napoli si
è mostrata sin qui meno intelligente dei proprii interessi, e meno
tenera di quelli del paese, è la così detta aristocrazia. — In Napoli si
trovano meglio distinte che altrove le tre classi sociali che compongono
oggidì le nazioni civili; la aristocrazia cioè; la borghesia, o classe
di mezzo, ed il popolo. — Sotto il dominio dei Borboni, la prima e
l'ultima erano le predilette della corte; quella perchè rassomigliava e
conseguentemente simpatizzava di più coi membri della reale famiglia; sì
gli uni che gli altri ignoravano presso che tutto ciò che avrebbero
dovuto conoscere; consideravano questa loro ignoranza come un privilegio
della elevata loro condizione, e guardavano con ischerno e compassione
agli sforzi che le classi inferiori facevano per acquistare il sapere
ossia come quelli dicevano per guadagnarsi il pane. — La famiglia reale
e la aristocrazia avevano comuni gli interessi, le speranze, i
desiderii, i timori. — Il godimento materiale della vita, l'incremento
delle loro ricchezze; la soddisfazione della puerile loro vanità
componevano lo scopo della loro esistenza. — La nobiltà Napoletana stava
attaccata alla stirpe Borbonica, come a quella inesausta sorgente di
godimenti, e di onori che ne accarezzavano la vanità; mentre il sovrano
e la famiglia di lui si specchiavano nella nobiltà, come in quella
classe di persone che si divertiva dei divertimenti loro, nulla
desiderava di ciò ch'essi temevano, e dalla cui bocca non esciva parola
che contrastasse coi loro pensieri.
La classe infima della plebe Napoletana occupava il secondo posto nelle
reali affezioni. — Romorosa nelle sue dimostrazioni, ma inocua nelle sue
azioni, la plebe dei così detti Lazzari fanatica come presso che tutte
le ignoranti moltitudini, era assolutamente in balìa del clero e dei
frati che la volgevano e rivolgevano a loro capriccio. — Il re sapeva
qual uso facesse il clero di tanto dominio, e si maneggiava in modo da
tenerselo amico. — I Borboni d'altronde superstiziosi anch'essi non meno
della plebe, erano pure un docile strumento nelle mani del clero, la cui
ignoranza presso che eguale a quella dei principi e dei lazzaroni, gli
permetteva di prestar qualche fede ad alcune delle cose ch'esso
insegnava come dommi religiosi. — Tutte queste ignoranze erano fra di
esse alleate, e dirette ad un medesimo fine, il perpetuarsi della
società del medio evo, e l'impedire ogni progresso sì intellettuale,
come morale o materiale. — Perciò ottenere il clero aveva bisogno
dell'appoggio reale; ed il re non poteva sostenersi senza quello del
clero. — Consapevoli l'uno e l'altro di tale reciproca dipendenza, non
ad altro tendevano che a trarne vantaggio nel miglior modo possibile,
per difendersi da quel formidabile progresso che agli occhi loro
rappresentava il più orrendo cataclisma, la distruzione dell'edifizio
sociale, lo scatenamento di tutte le fiere del creato sotto nome di
filosofia, di diritto, di civiltà, di libertà, di indipendenza, di
eguaglianza, di tolleranza, di filantropia, ecc. ecc; e per catastrofe
finale, una guerra accanita contro il sacerdozio, cioè contro Dio e la
religione, un macello di frati e di monache, il saccheggio degli altari,
e le porte dell'inferno spalancate per inghiottire la moltitudine delle
anime feroci ed empie i cui corpi più non potevano contenerle. — Per
coloro che di buona fede vedono il moderno incivilimento sotto tale
aspetto non è da meravigliarsi se mettono tutto in opera per impedirne
il corso. — E non pochi fra i nemici della moderna civiltà, sono di
buona fede, o per lo meno credono ciò che venne loro insegnato, e
trovando in tale credenza il loro vantaggio non si sforzano di scoprire
se riposi quella sul vero o sul falso.
Pei Borboni, per la nobiltà e pel clero napoletano, il progresso era
personificato nel ceto di mezzo ossia nella borghesia. — Una certa somma
di coltura intellettuale è necessaria per formare degli avvocati, dei
medici, degli ingegneri, e persino dei militari; e sebbene i tre corpi
che governavano in Napoli avessero volontieri fatto di meno di tutte
quelle dotte professioni, e si fossero contentati di non avere sotto di
essi altri che lazzaroni, pure conoscendo che la totale soppressione del
ceto medico e della sua coltura intellettuale era cosa impossibile,
dessi si limitarono sebbene con rammarico, a combattere questi
rappresentanti del sociale progresso, perseguitandoli, ponendo ogni
sorta di ostacoli sulla loro strada, mantenendoli per quanto il potevano
nella condizione stessa in cui si erano trovati gli avvocati, i medici,
gli ingegneri, ecc. ecc. dei secoli passati, ed aizzando contro di essi
i pregiudizii e le passioni indomite della plebe.
Sintanto che le cose rimanevano in quello stato, il Re si teneva per
certo di trovare, quando ne abbisognasse, il popolo armato in sua difesa
e nemico dei suoi nemici; e la nobiltà siccome il clero avendo gli
interessi comuni colla corte, fidavano anch'essi nelle armi che
avrebbero consegnate ai lazzari in un momento di crisi rivoluzionaria e
si confortavano pensando che il popolano così affezionato al suo Re e
così devoto al clero avrebbe resistito a tutte le seduzioni del partito
liberale.
Già sul finire dello scorso secolo, i lazzari si erano mostrati quali li
volevano il Re, la nobiltà ed il clero, e se nel Maggio del 48 il sangue
cittadino non fu sparso in tanta copia, quanto nei giorni di
Championnet, non fu quella parsimonia da attribuirsi alla clemenza del
popolo, ma bensì alla debolezza della resistenza che ad esso opposero i
liberali, che in picciol numero erano rimasti in Napoli, mentre
pressochè tutti correvano verso il Po ove speravano combattere e vincere
l'austriaco.
Intanto sì il Re che la nobiltà ed il clero si confortavano colle
dimostrazioni popolari che consideravano come sintomi importantissimi
dello stato della pubblica opinione. — Quando il Re compariva a Chiaja o
a S. Lucia era salutato con acclamazioni frenetiche dei
lazzari-pescatori, ed esso rientrava nel suo palazzo convinto che il suo
popolo lo adorava, e sicuro di trovar sempre una valida difesa contro il
liberalismo ed i liberali, in quei semplici, ma fedelissimi petti. — La
nobiltà divideva le illusioni del sovrano, e ben sapendo, che la
privilegiata di lei condizione si manterrebbe quanto il potere assoluto
del principe, dessa si stimava solidamente stabilita e secura. — Il
clero anch'esso vedeva sempre lo stesso concorso di popolo nella chiesa
di S. Gennaro il giorno del famoso miracolo; udiva le stesse preghiere,
le stesse promesse, improperi ed acclamazioni secondo che il sangue era
più o meno pronto a bollire, vedeva la stessa moltitudine seguirlo nelle
processioni, la stessa calca nelle chiese, ai confessionali, dinanzi
agli altari; vendeva lo stesso numero di reliquie, di messe,
benedizioni, indulgenze, candele o acqua benedetta, ecc. ecc., e si
confortava pensando che la fede non era scemata malgrado i tentativi e
gli sforzi dei liberali, e dicendosi che molti secoli passerebbero
ancora prima che si riescisse a trasformare il lazzaro napoletano, in un
cittadino civile, istruito e spregiudicato.
Erravamo tutti. — Nè il re, nè la nobiltà nè il clero distinguevano ciò
che vi era di semplicemente drammatico in quelle dimostrazioni popolari,
da ciò che vi era di veramente sentito. — Il popolo napoletano era
favorevolmente inclinato al suo re perchè ne riceveva qualche parola o
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