Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire - 12

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scendere di giorno in giorno più rapidamente il funesto pendìo della
povertà; se si avvede della inutilità dei mal diretti e mal concepiti
suoi sforzi per migliorare la sua sorte; quando pure questo popolo non
avesse contratto sotto il già franto giogo il malaugurato vizio della
intolleranza, e la tendenza ad imputare tutte le sue sventure al
governo, ed a' suoi maggiori in generale; quando pure fosse libero da
ogni pregiudizio e da ogni preconcetto errore, non saprebbe obbliare i
suoi patimenti per godere degli acquistati beni. E qualora il possesso
di quelli stessi beni gli venisse contestato, esso non ne risentirebbe
nè quel dolore, nè quello sdegno, che avrebbe risentito se i patimenti
suoi proprii non ne avessero assorbito pressochè tutta la sensibilità. —
L'eroismo che ne fa dimenticare noi stessi e gli attuali nostri dolori,
per godere della prospettiva delle gioie e dei trionfi che l'avvenire
serba in premio ai pazienti, non è tal cosa che si possa chiedere alle
moltitudini; e perchè queste non sono dotate della facoltà
dell'astrazione, e perchè difficilmente sanno imaginare ciò che ad esse
prepara l'avvenire. Se dunque vogliamo vedere le popolazioni italiane
affezionarsi alle istituzioni che le reggono, ed alla nobile, alla
splendida esistenza che le aspetta, dobbiamo applicarci senza indugio a
medicare ed a cicatrizzare le loro piaghe, ed a guidarle verso uno stato
materiale meno penoso di quello in cui si trovino oggidì. Quando avremo
fatto qualche passo su questa nuova via, quando avremo condotto le
moltitudini in luoghi da cui sia ad esse dato di scorgere il ridente
aspetto delle contrade ad esse destinate, le vedremo prender lena e
coraggio; come fece un tempo il popolo ebreo, quando stanco e scorato
del suo lungo pellegrinaggio attraverso il deserto, fu da Mosè condotto
sulle alture in vista della terra promessa, ed ammirò schierate fra le
sue tende i maravigliosi prodotti del paese di Canaan. — Che facciamo
noi? Perchè non seguiamo l'esempio del legislatore ebreo? Noi tentiamo
di condurre le nostre popolazioni attraverso il deserto che circonda la
terra fertilissima della libertà e della moderna civiltà; ma siamo guide
silenziose e maestri intolleranti; facciamo le meraviglie perchè
l'ardore di chi ne segue non si sostiene al pari del nostro,
dimenticando che l'aspettativa del futuro, la quale alimenta la nostra
costanza, non conforta le moltitudini. — Noi tolleriamo di buon animo le
privazioni e i sacrifizi, perchè ne vediamo il termine, e sappiamo che
cosa ne debbono fruttare; ma il popolo lo ignora, e quando esso ci vede
camminare innanzi, ed invitarlo a seguirci per le balze e dirupi sotto
la sferza del cocente sole, che asciuga i ruscelli e le fontane, quando
ci vede innoltrarci nel deserto con fronte serena e con passo animato,
esso ne sospetta di pazzia, o talvolta ancora di tradimento. Perchè non
lo confortiamo? perchè non cerchiamo di rianimare le sue forze con quel
farmaco stesso che sostiene le nostre? Noi gli abbiamo detto: siete
liberi, e la libertà è la bella cosa che vedete. Perchè non dirgli
invece: queste sono le vie che conducono al libero ordinamento della
civile società, questi sono i confini che dividono le schiavitù dell'età
di mezzo dalla bene regolata libertà dell'età nostra e dell'avvenire?
Varchiamoli animosi, con passo veloce, senza cedere nè agli stenti, nè
alla stanchezza, sicuri di trovare conforti e compensi non appena saremo
giunti al termine del nostro viaggio. — Se così gli parleremo, lo
vedremo tosto rasserenarsi; e forse fra non molto troveremo in lui,
nelle sue forze, naturalmente superiori alle nostre, quell'appoggio che
ora siamo in debito di prestargli, e di cui per avventura potremmo
quando che sia alla nostra volta abbisognare.
Ricordiamoci dunque, che le moltitudini non possono mantenersi
costantemente affezionate ad un ordine di cose da cui non traggono alcun
benefizio materiale, nè qualche fondata speranza di futuri e prossimi
vantaggi. — Sforziamoci di migliorare la sorte delle classi più povere
delle nostre popolazioni; e sino a tanto che tale miglioramento non sia
da esse effettuato e conosciuto, mostriamo loro le conseguenze che
risultar debbono dalle istituzioni nostre, e come fra non molti anni
possiamo sperare di porre in fuga gli ultimi avanzi della popolare
miseria, della popolare ignoranza e barbarie. — Presentiamo al nostro
popolo una imagine succinta e fedele della società a cui lo vorremmo
guidare; mostriamogli nell'avvenire l'unione delle varie classi sociali,
ossia l'associazione loro all'intento di sollevare il povero dal peso
della sua miseria e della sua ignoranza: non già col vieto e
limitatissimo mezzo dell'elemosina, che operata largamente, come
dovrebbe esserlo per ottenere un sensibile cangiamento nelle condizioni
del povero, avrebbe per effetto d'impoverire il ricco, con che si
porrebbe fine all'intero sistema dell'elemosina; ma con ciò che a quel
sistema deve sostituirsi nell'avvenire, ossia coll'associazione dei
capitali, degli elementi industriali, e degli artigiani che forniscono
al commercio i prodotti dell'industria loro. Il principale oggetto di sì
fatta associazione sarebbe di sopprimere le spese superflue, e i
disonesti guadagni di coloro che oggi dispongono dei capitali, e che
dirigono l'industria al solo fine di arricchire sè medesimi, ingannando
i compratori, a cui dispensano mercanzie guaste o scadenti, non
concedendo al povero artigiano che quella minima paga che basti a
sostenergli miseramente la vita, per abbandonarlo poi alla carità degli
ospedali e dei luoghi di ricovero, tosto che la gioventù e la forza ne
sono esaurite.
L'Inghilterra maestra di tutto ciò che tende al perfezionamento
dell'industria, ed allo sviluppo della carità bene intesa, (non già
della elemosina), possiede un gran numero di tali associazioni; ed il
concetto loro è così penetrato nella intelligenza di ogni classe di
persone, che la miseria non vi si trova quasi mai, se non unita ad un
eccesso d'immoralità, di perversità e di corruzione, che ne spiegano
abbastanza la torbida sorgente. — Un artigiano laborioso ed onesto, la
cui famiglia, per quanto possa essere numerosa, segua l'esempio dal suo
capo, è sicuro di non trovarsi mai al disotto di una modesta agiatezza;
e per poco che la sua intelligenza si apra e si eserciti, o che le
circostanze gli sieno favorevoli, egli può sperare di giungere in breve
tempo ad un certo grado di ricchezza, al quale pervenuto ch'ei sia,
nulla osta al suo innalzamento fra quei Cresi della industria britannica
che destano la meraviglia del mondo intero. Imitando le associazioni
filantropiche dell'Inghilterra, ed adattandole al carattere ed alle
speciali condizioni nostre, noi otterremo i medesimi effetti, senza
sagrificare altro che i disonesti speculatori e i loro illeciti
guadagni. — E partecipando sin d'ora alle nostre popolazioni l'intento
nostro, le nostre mire e le nostre speranze, infonderemo loro il
coraggio di seguirne attraverso gli sterpi e le spine, che ingombrano
tuttora la nostra e loro via.
Quando il popolo sia convinto che il risultato finale dei nostri sforzi
e l'oggetto delle nostre istituzioni, è il suo maggior bene, cesserà
senza alcun dubbio dal mostrarsi indifferente e dal mettere in dileggio
quelle istituzioni e tutto ciò che noi difendiamo, sosteniamo e
comprendiamo sotto il nome di libertà. Egli si affretterà al contrario
di studiare il significato delle parole da noi usate e delle cose da noi
commendate, per conoscere in qual modo gli è concesso di prendervi
parte, affine di agevolare il compimento dei nostri disegni, e gli
elettori si recheranno puntualmente ai loro collegi, per dare a sè
medesimi dei rappresentanti atti ad ordinare delle buone e provvide
leggi, che assicurino il destino della nazione. — L'istituzione della
Guardia Nazionale, invece di essere considerata come una vessazione
governativa, sarà giustamente considerata come una garanzia pel paese, e
cesseranno dal maledirla. E così di tutti i funesti pregiudizi, che ora
offuscano la mente delle nostre popolazioni, e le rendono intolleranti
di un civile reggimento.
Quando il nostro popolo abbia imparato a giudicare sanamente le
intenzioni degli speculatori disonesti, che vorrebbero trasformare il
nostro nazionale riscatto in una illimitata prerogativa che li autorizzi
a spogliare impunemente altrui di ogni cosa che risvegli la loro
cupidigia, non si lascerà più ingannare da essi come al presente, e più
non crederà che le vessazioni e le spogliazioni, di cui è vittima, sieno
combinate e ordinate dai ministri del re per arricchire sè stessi. —
Quando gli occhi delle popolazioni italiane fossero bene aperti sopra i
raggiri e le menzogne di siffatti speculatori, i loro trionfi avrebbero
fine; e quando essi tentassero di prolungarli, il popolo, conscio dei
loro inganni, potrebbe dar loro una lezione che li disgutasse da nuovi
colpevoli tentativi. Allora, cessando quelli illeciti ed immensi
guadagni, la sorte del povero, alle cui spese si fanno per la massima
parte, sarebbe mirabilmente migliorata.
Per riassumermi dirò, che lo scopo a cui dobbiamo tendere innanzi tutto,
si è lo spargere luce nelle menti delle povere classi delle nostre
popolazioni, onde renderle consapevoli dei loro diritti e dei loro
doveri, e dar loro i mezzi di sfuggire ai sanguinosi artigli degli
spogliatori di ogni genere, che oggi le fanno loro preda. — Le nostre
popolazioni ricevettero dalla natura una intelligenza tanto pronta
quanto retta, che le sforza a seguire il giusto, tosto che lo hanno
veduto e conosciuto. — Con questi due doni della natura, che formano la
parte più elevata del carattere del popolo italiano, come si spiega
l'infinita serie di errori e di pregiudizi, che lo dominano oggi ancora,
e che lo fanno traviare ad ogni passo? Non è questa una irrefragabile
prova che nessuno si è accinto a dir loro la verità? Andiamo sempre
ripetendo, che le nostre popolazioni agricole ed artigiane sono nelle
mani del clero, che le istruisce a modo suo, ed a cui credono
ciecamente; sappiamo che la maggioranza del clero vede di mal occhio,
anzi biasima e condanna tutto ciò che fu fatto in Italia dal 59 in poi,
e nulla tentiamo per togliere al clero le menti ed i cuori delle nostre
popolazioni, e per sostituirci ad esso nella loro confidenza. Di chi
dunque è la colpa, se il nostro popolo è così poco informato delle
massime fondamentali del vivere civile?
Un piccol numero dei nostri possidenti fondiarii incomincia a sospettare
che nessuno possa avere tanto a cuore l'interesse loro quanto essi
stessi. — E perciò, e perchè inoltre il vivere in città è più
dispendioso che il vivere in campagna, questo picciol numero dei nostri
signori abbandona per tempo i conforti e i diletti dei teatri, delle
conversazioni, dei ritrovi, ecc., e si ritira in mezzo a' suoi campi,
nelle sue ville, e fra i suoi villici, per accudire ai lavori che
procurare gli debbono un aumento di entrata. È questo un progresso
compito da questi nostri possidenti; ma il profitto che ne trarrebbero e
i possidenti ed il paese intero, sarebbe di gran lunga maggiore, se un
altro intento aggiungessero a quello di dirigere la coltura dei terreni.
— I contadini di un paese libero non sono unicamente gli strumenti
dell'agricoltura, come gli aratri, le vanghe, i mulini, i trebbiatoi,
ecc. Essi sono le membra del corpo sociale e politico, i possessori di
ogni diritto civile, i produttori della pubblica prosperità, i difensori
della indipendenza nazionale e del buon ordinamento civile, e possono
diventare i rappresentanti della nazione e gli amministratori delle sue
ricchezze.
Queste moltitudini, destinate a così nobile e così splendida missione,
sono quelle appunto che più si lagnano, direi quasi che più abborrono i
rivolgimenti accaduti dal 59 sino ad oggi, e che oppongono una ostinata,
una disperata forza d'inerzia al conseguimento delle nostre mire. — È
egli possibile di attribuire tale stranezza ad altra cagione, se non ad
un equivoco, ad un difetto d'intelligenza in quelle moltitudini
pregiudicate e sdegnate contro chi vuol farsi loro benefattori, e contro
gli stessi benefizi ad esse offerti?
Ora poichè tale equivoco, oltre all'essere evidente, è pure
singolarmente assurdo, e minaccia di diventare funesto alla patria ed
alla nazione stessa, non è forse un preciso, un assoluto dovere per
quelli, a cui spetta d'illuminare le moltitudini perchè istrutti ed in
grado di guidarle rettamente, non è forse loro sacrosanto dovere di
tutto porre in opera affinchè cessi l'equivoco, e cessi al più presto?
Si suol dire, per iscusare la inerzia delle classi educate, nulla
esservi di più difficile, che il mostrare la luce ai ciechi, di
sottomettere alla ragione i zotici, d'insegnare agli ignoranti.
L'impresa può essere ardua, e deve apparire doppiamente tale a chi non
ha mai tentato passo alcuno in quella direzione. Ma le difficoltà non
sono però tali da disanimare la buona volontà di un vero filantropo, di
un vero patriotta, di un vero cristiano. — Ricordiamoci che acquistando
la libertà e l'indipendenza, costituendoci in nazione, ed ottenendo come
tale un posto onorato fra le potenti e civili nazioni europee, abbiamo
acquistato dei diritti non solo, ma abbiamo contratto altresì dei doveri
verso le vicine potenze, e verso noi medesimi. — Siamo stati rispettati
sin quì, dobbiamo mostrarci degni di rispetto. Dobbiamo tollerare con
forte pazienza i mali inseparabili da ogni sociale rivolgimento; non
perdere il tempo e la lena in vani lamenti, in puerili ed irate
recriminazioni, in urti ed assalti reciproci, in garruli od inutili
dibattimenti; ma prefiggerci per iscopo d'ogni nostro atto la
consolidazione di quanto abbiamo fatto, e perchè non potevamo far cosa
migliore, e perchè ciò che abbiamo fatto liberamente non possiamo
ripudiarlo senza confessarci inetti e bisognosi di severa tutela:
confessione che sarebbe troppo umiliante per una nazione come la nostra,
che per tanti anni aspirava ai beni di cui gode oggidì, e che acquistati
appena non ha il diritto di sprezzarli, o di dichiararsene stanca. —
Ricordiamoci che il pentimento nelle nazioni non è virtù, ma debolezza,
leggierezza, o indizio dell'una e dell'altra.
Sforziamoci d'inspirare ai nostri compatriotti, a qualunque classe di
persone appartengano, la tolleranza, la costanza e l'energia. —
Scacciamo le tenebre della ignoranza, che tolgono al povero delle
campagne, come a quello delle città, la necessaria luce; ma mentre
ammaestriamo il povero, non trascuriamo di ammaestrare noi medesimi.
Chi semina la discordia fra i cittadini non è il povero. — Chi sparge
sospetti, proteste e calunnie sui nomi sin qui più onorati del paese
nostro, sì che più non si trovi un uomo meritevole di stima e di
rispetto che assumere si voglia di succedere a chi sottostava alle
ingiuste ed alle assurde accuse de' suoi concittadini; chi operava
simili nefandità non è il povero nè l'incolto. — Chi consiglia agli
elettori di scegliersi a loro rappresentante un avversario dell'attuale
ordine di cose, che non accetta l'incarico affidatogli, o lo accetta per
aggiungere nuovi ostacoli a quelli che già ingombrano la via ove
camminar debbono il governo e il paese, non è nè il povero nè
l'ignorante. — Chi biasima gli operosi, senza additar mai ciò che
sarebbe da farsi, e senza por mano ad opra alcuna, non è il povero, che
si accontenta di ripetere le insulse diatribe de' suoi maggiori. Chi
profetizza, ed annunzia come imminenti, rovinose catastrofi, senza dir
mai come si potrebbero evitare, eccitando così il terrore, lo
scoraggiamento e la diffidenza nell'animo delle moltitudini, non è il
povero. — Dobbiamo farci maestri del popolo, ma dobbiamo altresì
correggere noi stessi, sicchè egli possa vedere in noi il modello di ciò
che esser deve il cittadino di un paese libero.
Mi si potrebbe opporre ch'io raccomando ad un tempo due cose che non
possono camminare di pari passo; cioè che raccomando alle classi più
elevate della nostra società di farsi educatrici delle più povere e più
rozze, mentre dichiaro che le prime abbisognano non meno che le seconde
di una educazione politica, e si potrebbe ancora soggiungere che codesta
educazione io non accenno chi debba ad esse compartirla.
Poche parole basteranno a chiarirmi su tale apparente contraddizione. Se
le modificazioni, ch'io vorrei suggerire alle classi più colte ed
illuminate de' miei concittadini, richiedessero lungo tempo ed ardui
studii per essere effettuate, meriterei invero la taccia di proporre
degli scolari per maestri delle classi più povere e più ignoranti. — Ma
le modificazioni di cui parlo dipendono unicamente dalla volontà di
coloro che dovrebbero eseguirle. — Gli italiani educati e colti sanno
benissimo, che un paese non può governarsi costituzionalmente, se i
cittadini di questo non partecipano al maneggio degli affari suoi; che
non v'ha linea stabile di confine tra i governati e i governanti, ma che
l'autorità passa dagli uni negli altri, secondo le varie circostanze,
secondo pure che si scoprono nuovi cittadini atti ad assumerla e ad
esercitarla. E se gli italiani capaci di partecipare al governo del loro
paese, se ne stanno inoperosi, fuori della sfera in cui si trattano gli
affari, contenti di biasimare chi assunse l'incarico di governare, non è
già perchè essi non sappiano che quando tutti i cittadini se ne stessero
come essi stanno colle mani alla cintola, il governo parlamentare o
rappresentativo sarebbe pel nostro paese una utopia. Non è neppure che
ad essi poco o nulla importi che esista o non esista il governo
parlamentare: ma perchè vanno dicendo a sè medesimi, che gli aspiranti
all'esercizio del potere non sono mai in numero troppo ristretto; che la
loro propria cooperazione non sarebbe di vantaggio alcuno al paese, e
che a loro è concesso di starsene oziosi, sicuri essendo che l'autorità
non difetterà mai di esercenti. — Se v'ha un solo fra i nostri censori
inoperosi, che rimproverato da qualche amico per la sua inerzia, non
abbia tentato di giustificarsi adducendo per argomento la propria
incapacità, e la certezza che non mancano cittadini disposti ad
accettare la responsabilità del governo ed atti a sostenerla degnamente,
si faccia innanzi, e mi dimostri la falsità del mio supposto.
Quando fosse vinta l'inerzia che opprime e domina una gran parte degli
italiani più colti ed illuminati, sarebbero sanate molte delle piaghe
che ne lasciarono i nostri antichi padroni. — Il cittadino, assorto
negli affari dello stato o in quelli dell'amministrazione, non avrebbe
nè il tempo, nè la volontà di volgere in ridicolo e di biasimare tutto
ciò ch'egli vede; e quando avesse contratta l'abitudine di occuparsi di
cose serie, non crederebbe più che gli manchi il tempo di applicarsi
alla educazione delle classi povere ed incolte. Insomma le nostre classi
illuminate ed istrutte sono atte a reggere lo stato, ed a guidare la
pubblica opinione, che abbandonata a sè medesima, troppo spesso è
soggetta ad errare; sono atte in una parola ad educare il popolo ed a
perfezionare sè medesime, purchè così vogliano. — Così risolva la
volontà loro, e le sorti del nostro paese seguiranno un corso regolare e
placido, nè inciamperanno ad ogni passo negli ostacoli che loro
suscitano pochi spensierati o maligni oppositori.
Sia vinta l'inerzia che ne tiene prostrati, e tosto vedremo chiarirsi il
nostro orizzonte. Gli elettori si recheranno ai rispettivi loro collegi,
e manderanno al parlamento, non già dei nomi in qualsiasi guisa famosi,
ma degli uomini assennati, versati nel maneggio degli affari, onesti e
prudenti. — Allora il parlamento si dividerà in una maggioranza
compatta, e in una minoranza che servirà a mantenere la maggioranza
sulla retta via. — Allora i ministeri sapranno su chi possono
appoggiarsi, e formeranno progetti che spereranno di condurre a buon
fine. — Allora cesseranno le deplorabili scene di violenza e di
disordine, che alcuni degli attuali nostri deputati suscitano a bello
studio, perchè le considerano come una incontestabile prova del loro
ascendente. — Furono eletti perchè avevano fatto parlare di sè, ed ora
mettono sottosopra il parlamento per mostrarsi non inferiori a sè
stessi. — E gli uomini assennati di cui abbonda l'Italia permettono tali
scandali!
Sia vinta l'inerzia che ne tiene prostrati, ed il popolo imparerà a
fidare ne' suoi rappresentanti, e nei maestri che a lui spontaneamente
si offriranno per renderlo atto a trarre dalla libertà la materiale
prosperità a cui ha diritto. — Allora saremo veramente liberi ed
indipendenti, quando pure Roma dovesse rimanere, per qualche tempo
ancora, in balìa del Pontefice. — Allora saremo ricchi, perchè non
avremo bisogno di spendere ingenti somme per combattere la noia compagna
dell'ozio, e perchè la ricchezza dello stato ci consolerà delle scemate
nostre ricchezze. — Allora avremo degli speculatori onesti, e delle
speculazioni che arricchiranno i singoli leali speculatori, e con essi
il paese. — Allora progrediranno le nazionali industrie, perchè i
capitalisti le sosteranno, e gli artigiani vi lavoreranno con zelo
indefesso.
Gli stranieri conosceranno quali tesori di forza, di costanza e di
patriottismo serbi tuttora questa povera terra, tanto calunniata e
derisa, e che sembra talvolta voler giustificare le accuse di cui è
fatta bersaglio. Vere ed incalcolabili sarebbero le conseguenze di
questo primo passo sulla via della pubblica salvezza. — Faccia ognuno
ciò che sa e sente di poter fare, e nel giudicare della propria
attitudine non si lasci ingannare dall'amore dell'ozio, ma faccia di sè
uno scrupoloso e serio esame.
Questi sono i risultati verso i quali tutti dobbiamo tendere, nella
misura delle nostre forze e della nostra capacità. — Abbiamo creduto
troppo ingenuamente che, dopo le vittorie del 59 e del 60, le cose
nostre avessero a progredire da sè sole, senza forviarsi mai, e senza
che alcuno si prendesse la briga di guidarle. — Da quell'epoca in poi
abbiamo deviato non poco; e se non vi si pone pronto rimedio, potremo
trovarci in breve smarriti nel deserto. Per buona sorte però non abbiamo
ancora perso di vista la diritta via. — Torniamo senz'altro indugio ad
essa, e non consentiamo mai più che vizio o passione ce ne allontani. —
Cessiamo una volta dallo scambiare fra di noi accuse, sospetti e
rimproveri; ma risolviamo invece unanimi e concordi di conservare i beni
conquistati, educando noi stessi ed il popolo ad accrescerli sempre più,
e a trarne quei vantaggi materiali e morali, che simili beni producono
alle nazioni che già da molti anni ne godono, e che sanno giustamente
apprezzarli.

NOTE
[1] Quando io scriveva quelle righe, già si sussurrava di una
tacita resistenza al pagamento delle nuove imposte; ma si sperava
che in essa non vorrebbero persistere ed ostinarsi i napoletani. —
Si cercavano ad essi scuse, e si trovavano facilmente nel fatto,
che sino al 59 i sudditi dei Borboni non sapevano per così dire
che cosa fossero le imposte, nè perchè si decretassero, nè a qual
uso servissero. Tanta ignoranza doveva diradarsi rapidamente, ed
era o sembrava impossibile che una popolazione intelligente e
svegliata come la napoletana non intendesse che le strade non si
aprono, che le scuole non si creano, che la sicurezza e la
tranquillità pubblica non si ottengono senza denaro, e che il
denaro a ciò impiegato deve essere fornito dal popolo che fruisce
di siffatte opere ed istituzioni.
Forse che la indulgenza usata verso i primi che si astennero dal
pagare le nuove imposte persuase ai napoletani che, persistendo
essi nella loro resistenza, si manterrebbero immuni da ogni
disturbo fiscale. — Il fatto si è che le nostre provincie
meridionali pagano in effetto circa il 20 per cento della quota
che ad esse spetterebbe di pagare. — I deputati napoletani sono
però fra i più accaniti detrattori del governo italiano, perchè
esso non propone un mezzo facile ed economico di ragguagliare
l'avere ed il dare dell'annuo bilancio. — Nè è da supporre ch'essi
ignorino la principale cagione di quella pretesa incapacità del
nostro governo; ed un bambino non durerebbe fatica a convincersi
che quando il consuntivo non giunge al 50 per cento del
preventivo, il deficit non può essere evitato.
La conseguenza necessaria di tale dissesto è la creazione
incessante dì nuove imposte, le quali non rendendo allo stato
nemmeno la metà della somma aspettata, e ciò perchè circa una metà
degli abitanti del regno non paga la parte sua, rimangono e
rimarranno in perpetuo insufficienti. Intanto l'Italia
settentrionale che, di mala voglia sì ed imperfettamente paga, ma
pure paga, va impoverendosi di giorno in giorno, e potrà fors'anco
cadere in rovina, se le cose continuano su questo piede.
Chi ha pagato i molti milioni impiegati a costruire strade
carreggiabili e ferrovie, a stabilire telegrafi elettrici, a
fondare nuove scuole primarie in tutti i comuni delle provincie
meridionali? chi, se le provincie meridionali stesse non li hanno
pagati, e non li pagano? — Noi non siamo fra quelli che si
figurano il governo come un essere _sui generis_, possedente beni
suoi propri e tesori inesauribili, indipendenti dalle imposte e
dalle somme che ne ritrae. — Se dunque i napoletani fruiscono
gratuitamente dei lavori eseguiti nelle loro provincie, siccome il
denaro che costarono non può provenire da altra fonte che dal
pagamento delle imposte, dobbiamo concludere, che i benefizi
largiti ai napoletani furono pagati dall'Italia settentrionale in
gran parte, e dall'Italia centrale nella misura delle sue forze.
Noi non avremmo desiderato che il governo sospendesse i lavori
intrapresi nell'Italia meridionale, ed aspettasse per condurli a
buon fine che i suoi abitanti si adattassero a pagare le imposte.
— Le opere eseguite e le istituzioni attivate erano necessarie
alla fusione delle varie popolazioni, che è quanto dire al
consolidamento della nostra unità politica, ed è questo uno scopo
che deve essere raggiunto a qualunque costo. Nè ci rifiuteremmo di
pagare i conti dei napoletani anche nell'avvenire, se credessimo
la cosa possibile; ma camminando di questo passo, andremo in
rovina, senza vantaggio alcuno pel paese. Ciò che a noi sembra
urgente si è di ristabilire l'equilibrio tra le finanze delle
varie provincie, insieme con quello degli annui bilanci,
costringendo i napoletani a pagare la quota che ad essi spetta. —
Tosto o tardi sarà necessario adottare tale partito; e le
dilazioni altro effetto non hanno se non di persuadere ai
napoletani che, durando nella loro resistenza, rimarranno
vincitori.
[2] Mentre io stava scrivendo queste pagine, gli avvenimenti
sembravano disposti a darmi una solenne e decisiva mentita. — Un
pugno di giovani imprudenti, sedotti da irreconciliabili nemici
dell'attuale ordinamento delle cose nostre, e guidati da un uomo
il cui nome esercita un fascino singolare sulle giovanili
imaginazioni, fidando sul fatto che la Presidenza del Consiglio
dei Ministri era caduta nelle mani di chi sa persuadere a tutti i
partiti di essere cosa loro, e la cui presenza al Ministero fu
sempre seguita da una sciagura nazionale, levavano lo stendardo
della ribellione, ed irrompevano sul territorio pontificio. —
Confesso che i partigiani del generale Garibaldi formano una
fazione politica, che si appoggia, non già ad un corpo di dottrine
politiche, ma ad un uomo di cui si sono fatti un idolo, quantunque
lo riconoscano scevro di criterio politico, di prudenza, di
sagacità, di tutte le doti infine che costituiscono l'uomo di
stato, e ne lodano soltanto il coraggio, la lealtà ed il
patriottismo: virtù che bastano a meritargli la erezione di una
statua sulla pubblica piazza, ma non ad ottenergli il titolo ed i
diritti di un dittatore. — Il generale Garibaldi ed i suoi
partigiani pretendevano impadronirsi di Roma, cacciarne il
Pontefice, stabilirvi verosimilmente la dittatura repubblicana, e
sostenere quindi la guerra contro la Francia. — L'impresa era così
disperata, così rovinosa, che i romani stessi lo conobbero, e si
astennero dal parteciparvi. — Il successo non era dubbio; ma i
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