Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire - 05

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lotta non fu lunga, ma accanitissima. — Pochi anni dopo il tentativo
infelice del 21, Carlo Felice fu colpito da morbo letale. — Prevedendo
il prossimo suo fine, egli chiamava intorno al suo letto gli uomini più
rispettati della sua Corte e del Piemonte, e loro dichiarava che il
principe di Carignano doveva succedergli, e che tale era l'ultima, la
irremovibile sua volontà. — Carlo Felice morendo, compì un atto che
doveva col tempo mutare le sorti d'Italia.
Un nuovo elemento, che contribuir doveva al risorgimento d'Italia,
comparve in quel tempo sulla scena politica di questa nazione. Verso la
Casa di Savoja cominciavano a volgersi gli sguardi dei liberali delle
classi elevate e colte, che anelavano alla libertà e alla indipendenza
del loro paese, ma che non avrebbero voluto comperarla a prezzo del
disordine, del pazzo furore, e delle miserie che oscurarono il primo
splendore della rivoluzione francese dell'89 e del 93. — In Italia non
erano a temersi gli eccessi di furor popolare che la sete di libertà
aveva svegliato in Francia. — La nostra plebe era pressochè indifferente
alle generose nozioni della libertà e del patriottismo, e le classi
educate, che avevano assistito alle sanguinose scene della repubblica
francese, non ardivano scuotere dal suo letargo il nostro popolo, e
preferivano vederlo indifferente, piuttosto che feroce o frenetico. — Ma
all'epoca nostra non si compiono grandi rivolgimenti politici senza il
popolare concorso. — Sebbene indifferenti alle idee di libertà, di
diritto, di dignità e di onor nazionale, le nostre plebi conoscevano i
loro materiali bisogni, e non si abbandonavano ciecamente fiduciose a
chi non si mostrava capace e volonteroso di soddisfarli. — Chi
prometteva ad esse l'alleviamento delle imposte e della coscrizione, e
l'allargamento delle vie di lucro, ne disponeva a piacer suo; e i
liberali italiani nulla potevano operare senza involgere il paese in
momentanee, ma gravi difficoltà. — Erano dunque, per così dire, certi di
non trovar favore nelle plebi, e di accendere la guerra civile
insorgendo contro gli ultramontani oppressori, che avrebbero trascinate
nelle fila dei loro armati le infime classi delle popolazioni. — Non so
come i liberali italiani di quel tempo avrebbero trionfato di tale
ostacolo, se il nuovo elemento di cui feci testè cenno non fosse
felicemente intervenuto.
Primo a scoprirlo ed a valersene fu un avvocato genovese chiamato
Giuseppe Mazzini. — Chi gli insegnasse il linguaggio del popolo, nol so;
ma certo si è ch'egli seppe farsi intendere dalle masse popolari, e
svegliare in esse sentimenti e passioni ch'erano rimaste intorpidite
sino a lui. — Egli cominciò col volgere le sue parole al solo popolo,
come alla sola classe degna della libertà, e capace di energici sforzi
per ottenerla, lusingando così le passioni popolari, sempre pronte ad
accendersi contro tutti quelli che per ricchezze e per natali stanno in
una sfera più elevata, e godono piaceri ad esso inaccessibili. — I suoi
scritti, che il Mazzini seppe spargere fra le plebi, contenevano poche
idee, ma chiare, ed espresse con enfasi e calore. — Lo stile n'era
talvolta ampolloso e poetico, troppo poetico per essere pienamente
inteso dai suoi lettori; ma vi è un linguaggio che anche imperfettamente
inteso possiede direi quasi un magico potere, e si fa accettare da
uditori già accesi di entusiasmo. — Codesto linguaggio è cosparso di
parole, il cui suono basta a svegliare le appassionate simpatie del
popolo; e questo linguaggio era quello di Mazzini. — Egli parlava al
popolo ch'ei chiamava gli oppressi; sebbene a quel tempo le classi
popolari fossero quelle appunto sulle quali pesava meno ruvidamente
l'oppressione straniera. — Egli parlava altresì ai giovani, agli
ambiziosi, accertandoli che mediante un solo atto di coraggio o di
audacia potevano acquistar fama, autorità, ed emergere dalla folla agli
onori ed al potere; condannava tutto il passato, e chi al passato
apparteneva o il passato studiava. — Egli chiamava la prudenza viltà, la
moderazione debolezza. — Il titolo di Re costituiva un tiranno, e la
sola forma di governo che convenisse ad un popolo degno della libertà
era la repubblica. — Le imposte erano un furto legale mediante il quale
si empivano le tasche dei re e dei cortigiani, alle spese e colla rovina
dei popoli. — I nobili erano altrettanti piccioli tiranni, servilmente
divoti al Sovrano, ed erano oltrecciò ridicoli, ignoranti, boriosi,
deboli di corpo e crudeli. — E così mischiando e confondendo quelle cose
e quelli uomini che il popolo abborriva, con quelle altre cose e quelli
altri uomini su di cui voleva egli rivolgere lo sdegno e l'avversione
popolare, faceva un gran fascio di ogni cosa e buona e pessima purchè
avesse le radici nel passato. — L'universo secondo il Mazzini di quel
tempo aveva sempre camminato per empie vie, progredendo di iniquità in
iniquità. — Nel 89 e nel 93 dello scorso secolo, la nazione francese
erasi ribellata contro l'universo e lo aveva vinto, dando per la prima
volta alla umana famiglia insegnamenti ed esempi salutari e conformi
alla giustizia ed alla verità. — Seguire le orme dei rivoluzionarii
francesi era d'ora in poi il solo dovere che avessero i popoli.
Mazzini al suo primo apparire cercava di farsi un alleato di Dio; ma il
suo Dio era quello dei rivoluzionarii francesi, e non quello che adorano
i popoli d'Italia; era un Dio senza culto, senza ministri, senza tempii,
e quasi senza leggi. Tutto il rimanente era una stupida e perfida
superstizione, gettata sui popoli per accecarli, e renderli obbedienti
ad un clero che si era fatto il primo strumento della tirannide dei re.
Mi si farà osservare forse che tali dottrine nulla hanno di pellegrino
nè di squisito; e sottoscrivo pienamente a tale giudizio. Mazzini però
sapeva con chi parlava, e quale scopo egli si proponeva di raggiungere.
Si è parlato molto di Giuseppe Mazzini, e di lui furono portati i più
opposti ed esagerati giudizi. Fu portato alle stelle come il salvatore e
il liberatore d'Italia; come lo scopritore o l'inventore di nuove
dottrine politiche atte a produrre la rigenerazione italiana; come un
eroe capace e pronto a tutti i sagrifici di cui potesse abbisognare il
suo paese; un uomo dotato di tale potenza di azione sovra i popoli, che
la sola sua presenza, e una sola parola ch'egli ad essi volgesse dovea
bastare a trasformarli, infondendo in essi il suo meraviglioso coraggio
e la sua energica risoluzione.
Altri non videro in Giuseppe Mazzini che un fanatico ambizioso e di
limitato ingegno. Dissero le sue dottrine politiche false e viete, e lo
accusarono di lusingare i popoli per renderli a sè stesso ligi, e per
farli docili e ciechi strumenti della sua ambizione. Alcuni arrivarono
sino a pensare, se pure nol dissero, che qualora il popolo italiano
s'imbevesse realmente delle idee mazziniane, e imprendesse di
realizzarle, minor male sarebbe per le classi colte e civili stringersi
intorno al dominatore straniero, piuttosto che lasciarsi trascinare da
una furibonda plebe in tutte le follie sanguinose che la rivoluzione
francese non seppe evitare.
A me non ispetta di pronunziare fra così variati giudizi. Credo che le
intenzioni di Giuseppe Mazzini fossero pure e rette, principalmente in
quei primi tempi di ciò ch'esso chiama il suo apostolato. E credo
altresì che le sue dottrine altro non sieno che un'eco delle dottrine
rivoluzionarie francesi, ridotte a semplice teoria, e spoglie di quella
violenza che l'azione e la resistenza degli oppositori sono atte a
generare. Ma con queste dottrine false e viete, ma con questo suo
parlare enfatico, ampolloso ed intralciato, Giuseppe Mazzini riescì nel
corso di pochissimi anni a trasformare il popolo italiano, e ad
ispirargli l'odio del dominio straniero, e l'amore della libertà e della
indipendenza e quello della patria. Non so se Mazzini avesse la
coscienza dell'opera sua; ma quest'opera fu da esso condotta al suo fine
con mirabile rapidità ed ordinamento. Quelle popolazioni, che per tanti
secoli non avevano avuto altro oggetto che di procurarsi i comodi della
vita, nè altro furore, se non contro coloro ch'erano favoriti dalla
sorte, abiurarono repentinamente gli odi antichi e le antiche
aspirazioni, per confondersi tutte in un solo amore ed un solo odio:
amor di patria ed abborrimento dello straniero dominatore.
Chi avesse visitata l'Italia negli anni che seguirono dal 40 al 48
avrebbe creduto di sognare. Quelle popolazioni, sepolte nella secolare
ignoranza, che è il più prezioso strumento di qualsiasi tirannide,
quelle popolazioni indifferenti a tutto ciò che non toccava direttamente
i loro materiali e ristrettissimi bisogni o interessi, quelle
popolazioni molli ed effeminate, amanti dei loro comodi, dei loro ozi, e
dei loro personali piaceri o passioni, sorde ad ogni voce che tentasse
ispirar loro l'amore di un bene non tangibile, quali sarebbero la
libertà, l'indipendenza, la gloria; quelle popolazioni erano
trasformate. Un non so che di fiero nobilitava quelle fisionomie pur
sempre belle, ma per lo addietro troppo sensuali e piuttosto accorte che
intelligenti. Gli ozi e gli amori più non assorbivano tutti i desideri
della gioventù. Le proscritte parole di patria e di libertà, erano sopra
tutte le labbra, e si vedeva che ivi erano spinte dai cuori.
L'ignoranza, quella piaga letale imposta dal dispotismo agli schiavi, e
così poco conforme al naturale degli Italiani, l'ignoranza, non era
stata nè combattuta nè vinta regolarmente e scolasticamente; ma alcune
idee fondamentali e chiaramente espresse dai discepoli del Mazzini erano
bastate a distruggerne i più perniciosi effetti e a mettere questa
stessa ignoranza in sospetto di mala cosa. Quasi in tutte le provincie
italiane, e da tutte le classi sociali, si sapeva oramai quali erano a
un dipresso i confini naturali d'Italia, e quali i diritti ed i doveri
di tutti coloro ch'erano nati fra codesti confini. Si sapeva che il
mondo abitato si divide in nazioni; che i popoli componenti queste
nazioni sono fra di loro stretti da comuni interessi, diritti e doveri;
che la sventura d'Italia era stata la ignoranza di queste verità, e
l'aver sempre scambiato l'amore del luogo natio per l'amore di patria,
nutrendo come legittimi e doverosi sentimenti la gelosia e la rivalità
fra Italiani di diverse provincie, e una rispettosa fiducia negli
stranieri che opprimevano una parte qual si fosse d'Italia. — Si sapeva
che la ignoranza di codesti fatti era stata imposta e rigorosamente
mantenuta dallo straniero, onde impedire all'Italia di vivere la vita
delle nazioni indipendenti, e frazionarla in diverse greggie di schiavi.
— Si sapeva che a cangiare simile stato di cose erano mestieri sagrifizi
numerosissimi di ogni genere, e si sapeva che il rimanere nella
condizione presente, piuttosto che esporsi a maggiori sventure o
sottoporsi a costosi sagrifizi era vergogna e disonore. — Si sapeva che
il maggior bene a cui debba aspirare un popolo è l'onore; la maggiore
sciagura che a lui sovrasta, la perdita di quello. — Tutto ciò si sapeva
e si teneva religiosamente per vero; e tali nozioni avevano
siffattamente accese le passioni popolari, che ogni altro eccitamento
era diventato inefficace e vano. Il pensiero del poco conto in cui il
carattere degli Italiani era tenuto all'estero, era come una sferza che
lacerava costantemente i nostri cuori, e il bisogno di riscattare il
nostro buon nome riscattando la nostra libertà, diveniva di giorno in
giorno più imperioso, e non ne lasciava più posa.
Tutto ciò era stato operato da alcune parole di Giuseppe Mazzini; e
quando l'Italia avrà veramente riconquistato il seggio cui ha diritto
fra le grandi nazioni europee, i nostri posteri dovranno scrivere quel
nome sopra tavole di marmo, e ricordarsi sempre di quanto a lui si deve.
Quelle nozioni erano accompagnate, come già dissi, da non poche idee
esagerate o radicalmente false. — L'odio o il disprezzo per tutto ciò
che altre volte era tenuto in grande onore, siccome la nobiltà, la
religione, e la monarchia. — Nessun governo tranne il repubblicano
poteva rispettare la libertà dei popoli, ed ogni re era naturalmente e
necessariamente un tiranno. — A chi si provava di richiamare al vero
questi fervorosi ed inesorabili repubblicani, si rispondeva con degli
squarci di Alfieri o delle strofe di Berchet. — L'idea dominante sopra
tutte le altre in quell'epoca era la necessità della espiazione ed il
valore del sacrifizio, sicchè se uno spirito benefico fosse venuto ad
offrirci in grazioso dono la libertà e la indipendenza, senza chiedere
da noi altro concorso che la nostra accettazione, credo che avremmo
respinto il dono, e certamente avremmo sentito rancore verso il
donatore. — Volevamo la indipendenza e la libertà, ma volevamo più
ancora mostrarcene degni.
Un'altra scuola di liberalismo italiano era sorta contemporaneamente a
quella di Giuseppe Mazzini. I fondatori, e le dottrine di essa in nulla
rassomigliavano nè a Mazzini, nè a' suoi insegnamenti, se non se nel
concetto fondamentale e generale di tutti, ch'era la liberazione
d'Italia, la di lei concentrazione in un solo Stato, e la
imprescrittibile legittimità de' suoi diritti alla indipendenza e alla
libertà. — La scuola di cui parlo non si volgeva al popolo, e non
sarebbe stata da questo ascoltata nè intesa. — Era una scuola di
filosofia applicata alla speciale condizione d'Italia ed al suo
avvenire. — Nata in Piemonte, da piemontesi, dispiegava essa quella
saggia moderazione, quel rispetto per le cose del passato, che non
impedisce di sostituire ad esse le cose del presente e del futuro, che
sono più conformi agli attuali bisogni, quella fermezza e quel
patriottismo che distinsero per tanti anni il liberalismo piemontese da
quello di quasi tutto il rimanente d'Italia. Capi di questa scuola erano
Gioberti, Rosmini, Balbo, e molti altri di minor fama, ma forse di non
minore ingegno e di non minore virtù.
Non so quali frutti avrebbe prodotto quella scuola, se fosse stata sola
a scuotere gli Italiani dal loro letargo; ma contemporanea e per così
dire parallela a quella di Mazzini, essa si trovò riempire un vuoto che
il Mazzini non poteva colmare, e che al momento dell'azione non sarebbe
stato trascurato senza gravi danni del paese. — La scuola filosofica
liberale di cui parlo ebbe d'altronde per effetto di persuadere alla
gente colta e prudente d'Italia, che la liberazione della patria non era
un sogno di fanatici repubblicani, ai quali nulla si poteva togliere
perchè nulla possedevano; bensì l'oggetto delle speranze, delle
aspirazioni, degli sforzi di uomini che meritavano il titolo di _maestri
di color che sanno_. — Così si riconciliava colle idee rivoluzionarie
quella classe di Italiani che vi era stata sino allora invincibilmente
avversa, ossia i timidi, che avevano sempre tenuto come impossibile il
buon successo di una sollevazione popolare a mano armata contro
l'esercito regolare e la tirannide dell'Austria, e di amici quasi
esclusivi dell'ordine e della pace.
Con ciò cessava l'ultimo ostacolo alla perfetta concordia e alla
unanimità delle volontà italiane.
Così disposti ci avvicinavamo al 48. — Le nostre classi elevate non
avevano piena conoscenza della trasformazione accaduta nelle classi
inferiori, o per dir meglio ne ignoravano tutta la estensione e la
importanza. — I più giovani rampolli delle nobili famiglie italiane
erano in gran parte scritti nei ruoli della _Giovane Italia_; ma,
siccome accader doveva, essi erano alieni da quelle esagerazioni che
esercitano una irresistibile azione sulle immaginazioni non assistite da
un'intelligenza coltivata. — Questi membri del nostro patriziato e della
_Giovane Italia_ ad un tempo erano come l'anello che univa quelle due
frazioni dei liberali italiani. — Il loro concorso però non era dubbio
in tutto ciò che i loro congiunti volessero intraprendere in favore
della patria. — Da un capo all'altro della nostra penisola si sognava un
sogno solo: l'indipendenza e la libertà. Del 31 al 48 si erano tentate
molte insurrezioni, parziali e popolari, alle quali avevano cooperato
varii dei giovani discendenti delle nostre più nobili famiglie. — Tutte
queste insurrezioni, figlie di congiure ordite all'estero dai nostri
profughi, il cui capo era sempre Giuseppe Mazzini, avevano avuto il più
infelice successo, e il sangue dei nostri patrioti aveva cosperso tutti
i patiboli d'Italia. — I primi rivi versati avevano accresciuto l'ira
dei popoli contro i principi, e reso più che mai inaccessibile l'abisso
che divideva questi da quelli. — Ma passo passo la disperata natura di
quei tentativi apparve ai cospiratori ed agli insorgenti, e il buon
senso degli Italiani insegnò loro che persistendo su quella via essi
servivano le inique mire dei loro padroni, camminando ad una completa ed
assoluta distruzione, che lascerebbe quelli nell'incontestato esercizio
del loro odiato potere. — Era necessario trovare altri mezzi, altre vie,
era necessario giungere allo scopo.
In quel frattempo i liberali che accostavano le Corti, si sforzavano di
eccitare nel cuore dei principi una generosa ambizione, che trovasse
alimento nell'operare o per lo meno nel contribuire al risorgimento ed
alla esaltazione della comune patria. — Si diceva ad essi: che cosa è un
trono di secondo o di terzo ordine mantenuto colla forza straniera, e
sul quale siete costretti ad obbedire i comandi di chi dispone di quella
forza, a fronte della gloria di essere veramente il liberatore, il
salvatore, il padre insomma della vostra patria? — Se bene vi riflettete
vi sentirete preso dalla nobile ambizione di abdicare una corona che non
portate se non a prezzo dell'onore del paese, e non consentirete a
conservarla, a riprenderla, se non quando vi sarà presentata dagli
Italiani rinati alla indipendenza ed alla libertà, e che sapranno essere
a voi dovuto questo loro risorgimento.
Così per certo due lombardi, Ciro Menotti ed il Misley, avevano parlato
al duca di Modena nel 1830 e nel 31. — Il duca era ambizioso, crudele, e
di nulla curante tranne degli interessi suoi. — Esso aveva creduto
scorgere nella via additatagli dai due imprudenti giovani un mezzo di
allargare i suoi confini e di accrescere la propria importanza. —
D'altronde, mostrandosi inclinato ai consigli di quei due, il duca era
quasi certo di conoscere le trame che ordivano i liberali; e siccome la
finzione non gli costava, finse, e trasse nell'agguato i nuovi suoi
amici. — Ognuno conosce il risultato di quelle mene. — Menotti espiò sul
patibolo il fallo di aver prestato fede ad una creatura dell'Austria; e
Misley con molti altri andarono ad ingrossare le fila di quelli
emigrati, a cui la Francia e l'Inghilterra furono per tanti anni larghe
di ospitalità. —
Ma all'avvicinarsi del 48, l'aspetto delle cose era qualche poco
emendato. — Nel prender possesso delle sacre chiavi, Pio IX aveva
pronunziato parole che risuonarono in tutti i cuori italiani e li
scossero profondamente. Pio IX si dichiarava italiano, amico della
libertà e della indipendenza di tutti i popoli, ed alieno da ogni
violenza. — Ciò bastò perchè gli Italiani vedessero in lui un nuovo
Messia da Dio mandato pel loro riscatto. — Vi fu chi pensò a dargli su
l'Italia intera il poter temporale ch'egli esercitava sovra picciola
parte di essa. — Alcuni membri del clero, chiari per ingegno e per
dottrina, scrissero libri di filosofia e di politica, in cui splendeva
il più puro e il più razionale liberalismo. — Il solo difetto di quei
libri era il non essere scritti in modo da farsi leggere da molti. —
Carlo Alberto era tuttora sul trono di Piemonte, e già da vari anni
aveva manifestato l'animo suo tutto italiano e liberale. — Leopoldo
regnava in Toscana, mentre Lucca era tuttora sotto il dominio del
giovanetto che ivi aspettava la morte della arciduchessa Maria Luisa
alla quale doveva succedere, lasciando Lucca a Leopoldo. A Napoli
Ferdinando di Borbone, assorto dagli amori della famiglia, dai piaceri
della tavola, e dagli scrupoli religiosi, sembrava incapace di
partecipare attivamente in nessuna intrapresa, sia per coadiuvarla, sia
per opporvisi, e lasciava supporre che la naturale indolenza, ed il peso
degli anni avessero spento in lui quella innata crudeltà e
scelleraggine, che mai non aveva abbandonato nessun membro della iniqua
sua razza.
I liberali si divisero gli animi di quei sovrani, e si accinsero a
muoverli verso la nobile passione del patriotismo. — Il popolo italiano
poca parte poteva prendere a tali tentativi, e vi sarebbe rimasto
completamente indifferente qualora fosse stato tuttora ciò ch'era al
principio di questo secolo. — Ma Mazzini lo aveva destato, e i liberali
delle classi colte lo sapevano desto, sicchè non dubitavano che il primo
grido di _fuori lo straniero_ metterebbe a tutti in mano le armi.
E così si andava innanzi, lavorando ed aspettando una occasione per
operare.
A persuadere Carlo Alberto di consacrarsi alla salute ed alla
liberazione d'Italia, non era mestieri nè degli sforzi, nè delle istanze
dei liberali. — Il re di Piemonte non aveva avuto durante la vita sua
altro desiderio, altro scopo alla sua ambizione. — Appena gli fu svelato
l'accordo stretto fra i liberali delle varie provincie d'Italia, ch'egli
abbracciò con trasporto le loro viste, le loro speranze, e pose sè
stesso, la sua famiglia, la sua casa e la sua corona, al servigio
dell'indipendenza italiana.
Dinanzi a lui si apriva un nuovo orizzonte; ed era quello stesso dei
sogni di sua gioventù. — Egli vi si precipitò baldanzoso, senza dare al
passato un ultimo sguardo.
Gli Austriaci, sempre pronti a chiamare su di essi i colpi della avversa
fortuna, nulla avevano imparato di quanto si leggeva a chiare note nel
contegno degli Italiani. — Gli Italiani gemevano da più di 30 anni sotto
il ferreo giogo della Casa di Absburgo; vi obbedivano perchè non era
loro possibile la resistenza. — Dunque sin tanto che il giogo della Casa
di Absburgo non scemerebbe nè di peso, nè di rigore, la obbedienza degli
Italiani non poteva venir meno. — E per accertarsi che il giogo della
Casa di Absburgo non diventava più leggiero, l'Imperatore ed i suoi
ministri vi aggiunsero nuove catene. I pieni poteri delle polizie e dei
loro agenti, i tribunali militari, dinanzi a cui erano condotte persino
le donne, la esorbitanza delle imposte, tasse, multe, prestiti
volontarii o forzosi, che in nulla differivano gli uni dagli altri, i
sequestri, le prigionie, gli ostacoli sempre crescenti allo sviluppo del
commercio e della industria in Italia, quel trattar sempre l'Italia come
paese conquistato, cioè come si trattavano i paesi conquistati quando la
Casa di Absburgo era salita sul trono imperiale, senza riconoscere nè
rispettare in essi alcuno dei diritti da Dio concessi a tutte le umane
incivilite creature: componeva ciò che chiamavasi il sistema del governo
imperiale, e gli Italiani tutti intendevano omai quanto era odioso,
iniquo, inumano quel sistema. — Ma gli Austriaci si ridevano delle
nozioni che gli Italiani avevano sì di recente acquistate. — I nostri
argomenti sono le palle dei nostri cannoni, dicevano a chi tentava far
loro intendere che gli Italiani del 40 non erano più quelli del 15 e del
20; e con questi argomenti metteremo in iscompiglio tutto il sapere di
questi nuovi dottrinarii, rivoluzionarii, ecc. E così andarono diffatti
calcando sempre la via che conduce gli oppressori al precipizio, sino
all'anno 47, quando l'iniquità della tirannide austriaca aveva raggiunto
il culmine della sfacciata sua forza, e non poteva andare più in là. — I
liberali sparsi nelle varie contrade d'Italia, sicuri del concorso
popolare, fiduciosi nella simpatia e nell'appoggio del Pontefice,
soddisfatti delle disposizioni in cui credevano che l'esempio di Pio IX
avesse posto gli animi del gran duca di Toscana e del re di Napoli,
istrutti della prontezza e dello zelo con cui Carlo Alberto
risponderebbe al primo appello degli Italiani, i nostri liberali, dico,
decisero di tentare la sorte senza aspettare nuovi insulti e nuovi
danni.
Le cinque giornate del marzo 1848 in Milano furono il primo colpo
portato alla grandezza della Casa di Absburgo, e ad esse rispose
l'Italia tutta con applausi, con offerte di aiuto, e con dichiarazioni
energiche in favore della libertà e della indipendenza italiana. —
Leopoldo di Toscana e Ferdinando di Napoli proclamarono subito una
costituzione, che solennemente giurarono di conservare e di rispettare
in ogni caso; e Carlo Alberto, che già da qualche tempo li avea
preceduti su quella via, si accinse a compire l'opera gloriosa dei
Milanesi, cacciando colle armi sue, e come si sperava con quelle di
tutta Italia, l'Austriaco dalla intera penisola. — Carlo Alberto soleva
dire: _l'Italia farà da sè_; e noi tutti ripetevamo quelle nobili
parole, senza esaminare se esse fossero l'espressione di un patriottico
desiderio, o di una ben fondata convinzione.
Ognuno conosce la dolorosa storia del 48 e del 49; ma pochi la giudicano
con mente posata e scevra da pregiudizii, come da spirito di parte. —
V'ha chi imputa i nostri rovesci alla perfidia e al tradimento dei
principi; chi, più moderato, li incolpa soltanto di imperizia e di
stoltezza. — I soli Milanesi, disarmati e senza capi, avevano trionfato
degli Austriaci; come mai si può concepire che gli Austriaci vincessero,
pochi mesi più tardi, l'intera Italia? Con questa domanda si credette di
aver provato la esistenza di almeno un tradimento, e molti ripeterono
quella domanda come irrefragabile prova di questo.
Ma le catastrofi pari a quella del 48 e del 49 non accadono mai, se non
per un numeroso concorso di circostanze le quali tendono tutte ad un
medesimo risultato.
In questo nostro particolar caso le circostanze che ne procacciarono la
rovina sono evidenti; ma perchè numerose e richiedenti, da chi le
considera, certa quale tensione dell'intelletto, riescono poco gradite
alle moltitudini, che preferiscono attribuire le sventure nazionali al
tradimento di chi le regge; appunto come vedono ciò accadere sulle scene
teatrali.
Gli Italiani non avevano in comune che una sola passione o due al più:
l'odio dello straniero dominio, e l'amore ossia il desiderio della
libertà. — Ma non erano punto fissati intorno alla condotta da tenersi
per assicurarsi il possesso di un tanto bene, quando lo avessero
ottenuto. — Sembrava difatti che lo avessero afferrato, e con quella
inclinazione alle illusioni, che forma gran parte del carattere
italiano, noi tutti credemmo di aver conquistata l'indipendenza e la
libertà, quando vedemmo i soldati austriaci abbandonare umiliati ed
impauriti la città di Milano, ed i principi satelliti dell'Austria
prodigarne le costituzioni ed i parlamenti, mentre stavano pronti alla
fuga per poco che i sudditi loro non si mostrassero soddisfatti delle
concedute istituzioni. — Gli Italiani si tennero sicuri della loro
libertà, ma si sentivano disorganizzati, e desideravano di costituirsi
nel modo migliore. — Non si pensava allora a contentarsi del possibile,
dell'eseguibile, del praticabile; si voleva giungere col primo passo
alla costituzione più perfetta, a quella cioè che presentava maggiori
garanzie di libertà, di uguaglianza civile e sociale, di prosperità, di
gloria, e di una vita comoda. — Si voleva una costituzione che
trasformasse questa nostra terra in un paradiso, non riflettendo che il
paradiso è la patria degli angeli, e che non v'hanno molti di questi sul
nostro globo. — Chi voleva una federazione, e fra i federalisti, chi
voleva una federazione sul modello della germanica, chi la voleva a modo
della elvetica. — Nel settentrione d'Italia una imponente maggioranza
voleva mantenere la Casa di Savoja e Carlo Alberto sul trono, che si
ambiva soltanto di far più grande. — Altri ricordavano il 21, o ciò che
ne avevano udito raccontare; e dando le loro interpretazioni di quei
fatti misteriosi, come verità storiche documentate ed accettate dal
mondo intero, sognavano tradimenti e gridavano: non vi fidate dei
traditori. — V'era chi ripeteva le viete massime del Mazzini, e credeva
di vincere il mondo e la sorte con poche parolone alto-sonanti, e vuote
di significato; v'era chi sognava l'Italia del medio evo, le repubbliche
di Venezia e di Genova, il vestire alla foggia del 500, e le parlate
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