Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire - 07

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supporsi neppure che gli uomini di Stato austriaci ignorassero ove
conduceva la via imposta agli italiani; ma al governo austriaco, come a
tutti i governi dispotici, poco importa de' suoi amministrati, e se un
sistema di governo o di amministrazione gli sembra conveniente, esso lo
addotta, quand'anche lo sappia ingiusto, rovinoso e mortale per una
parte qualunque de' suoi sudditi.
L'Italia possedeva tesori in oggetti di belle arti e di antichità, come
sarebbero intagli, avori, smalti, cesellature in metalli, ecc. Le sue
principali città vantavano famiglie nobili di smisurata ricchezza. Le
repubbliche di Genova e di Venezia avevano creato, mediante il
commercio, delle ricchezze private come non se ne conoscevano altrove in
quei tempi, cioè sul principiare del secolo decimonono. Ma tutte queste
dovizie, erano tesori accumulati da lungo tempo, e nessuna nuova
sorgente erasi aperta per riacquistare il denaro che si spendeva con
prodigalità più pazza che altro. — I tesori italiani dovevano dunque
esaurirsi in un dato tempo; ma varie circostanze concorsero ad
abbreviare quel tempo e ad affrettare il compimento della inevitabile
rovina. — La rendita che rimaneva agli italiani traevasi, come ho già
detto, dall'agricoltura; ed era prodotta in gran parte dai bachi da seta
e dalle viti. Ognuno conosce la dolorosa storia di questi due prodotti
agricoli, durante gli ultimi dodici anni. — Un morbo speciale e
misterioso in quanto alla sua origine piombava sui bachi e sulle viti,
nè ha per anco ceduto ad alcuno dei rimedi tentati. E non si vede nè
come nè quando nell'avvenire l'industria sericola riprenderà il suo
corso, e ridonerà qualche valore al suolo, da cui si traeva. — Parecchi
possidenti, che godevano di un'annua rendita di circa cento mila
franchi, cavati dalla coltura dei bachi, si sono trovati subitamente
ridotti ad una pressochè assoluta povertà. — I bachi prosperavano e
sembravano promettere un abbondante raccolto, quando tutto ad un tratto,
mentre stavano avviandosi al bosco, o disponendosi a formare la loro
buccia, cadevano morti, quasi colpiti da morbo pestilenziale. Da dodici
anni queste scene si ripetono ogni primavera, ad onta dei lunghi e
pericolosi viaggi intrapresi da giovani avventurosi nelle più remote e
barbare contrade dell'estremo oriente, per procurare agli allevatori di
bachi da seta, una semente più sana, e non ancora tocca dal morbo
europeo. — Nulla valgono questi generosi tentativi; che dopo due o tre
anni di mediocre raccolto, e di cure indefesse, la semente straniera
risente l'azione della morbosa influenza, ed i bachi che ne nascono
muoiono, come morivano dapprima gl'indigeni. — Si sono fatti studi
variati ed estesi per conoscere la cagione del male, e per trovarvi un
rimedio; ma dopo tanti anni, ancora non si giunse a stabilire con
certezza se il germe infetto sia quello del baco, ovvero quello del
gelso.
La crittogama della vite non è così misteriosa come la malattia dei
bachi; ma è tenace non meno di quella, e la distruzione di quei due
prodotti della nostra industria agricola sembra farsi di giorno in
giorno più probabile. E quei due generi erano veramente e
considerevolmente i due più ricchi prodotti della nostra agricoltura;
quelli che le davano una certa importanza come sorgente della pubblica
ricchezza, ed una certa superiorità sull'agricoltura delle altre
contrade d'Europa. — A noi lombardi rimangono i terreni inaffiati o
paludosi, le praterie a marcite, le risaie, ecc.; ma questi terreni sono
necessariamente assai ristretti, e tutto il rimanente del suolo italiano
è limitato attualmente alla produzione dei cereali, cioè alla produzione
medesima delle altre parti d'Europa; alla produzione di cereali che
possono bene bastare al nutrimento del contadino, ma che a nulla montano
come oggetti commerciabili, destinati ad impedire che il tesoro pubblico
si esaurisca intieramente.
Altre cagioni di rapido impoverimento si sono aggiunte a quelle già
accennate. Il mostruoso incremento del lusso, e il disgraziato abito,
contratto dalla gioventù d'ogni classe, di fuggire qualsiasi occupazione
che non sia di puro divertimento. E siccome il vigore giovanile vuole
uno sfogo, i giovani che hanno imparato a considerare le occupazioni
dello studio o di un impiego, in una parola quelle occupazioni che
compongono una professione, ossia una carriera amministrativa, militare,
magistrale, scientifica o artistica, come un mezzo per guadagnar denaro,
come una necessità per chi non ne ereditava dalla propria famiglia; i
giovani, dico, disgraziatamente imbevuti di tali falsissimi concetti,
non trovano altro pascolo alla loro operosità che nell'imitare
servilmente i costumi dei giovani della aristocrazia inglese, francese e
russa, i quali disponendo di beni di fortuna assai superiori ai nostri,
ne porgono rovinosi esempi. I nostri giovani, i quali ereditarono dai
padri loro una rendita che i padri non riescivano a spendere, la
ricevettero già ridotta dalla parte che la legge garantisce ai fratelli
e dalla dote delle sorelle, gravata inoltre d'imposte che non pesavano
sui padri loro; e si credono tenuti di far onore alla nobiltà della
stirpe coll'eseguire in Italia tutto ciò che i loro pari inglesi,
francesi e russi, eseguiscono a Londra, a Parigi e a Pietroburgo. I
nostri giovani rappresentanti le antiche famiglie della nostra storia,
non sono contenti di possedere dei buoni e bei cavalli, delle carrozze
comode ed eleganti, e tutto ciò che costituisce dei ricchi e convenienti
equipaggi; ma vogliono essere ammirati come gli esatti _fac simili_ dei
giovani inglesi di alto grado; e siccome tanto le importazioni quanto le
imitazioni inglesi non si ottengono in Italia se non si pagano a peso
d'oro, così la soddisfazione degli innocenti e puerili desideri dei
nostri giovani basta talora a mandarli in rovina. Non uno forse degli
eredi delle nostre più cospicue e più doviziose famiglie ha saputo
conservare intatti i suoi beni e la condizione elevata che essi gli
procuravano. Con una rendita ridotta e frazionata, i nostri giovani, a
nulla intenti se non all'esatta riproduzione dei costumi oltramontani,
spendono assai più che non spendevano i loro padri. Nel secolo passato
l'anglomania spuntava appena, e gli uomini di qualche valore morale,
intellettuale o anche soltanto sociale, avrebbero arrossito di scendere
dalla loro elevata condizione per cambiarla con quella d'imitatori delle
straniere singolarità. — Quando gli animali o gli oggetti qualsifossero,
che servivano ai loro comodi o ai loro divertimenti, riempivano di fatto
la missione loro imposta, i nostri antenati non si tormentavano lo
spirito a ricercare se i lord inglesi non avrebbero richiesto di più:
possedevano dei magnifici palazzi, delle ville pressochè reali; ma non
trasformavano queste loro sontuose dimore in una perenne occasione
d'ingenti spese. L'addobbamento dei loro palazzi era in armonia coi
palazzi medesimi, e si componeva in gran parte di oggetti d'arte,
pitture, sculture, bronzi, porcellane e sete; ma nessuno pensava a
rinnovarli prima che il tempo li avesse contaminati e distrutti, perchè
in altri paesi le case dei ricchi si ammobigliano in diverso modo.
Non mi tratterrei così lungamente sopra queste apparenti inezie, se non
si traessero dietro gravi e tristissime conseguenze. Non credo,
ripeterò, siavi nell'Italia del nord un solo dei rappresentanti delle
nostre famiglie illustri, che non abbia più o meno sciupato l'ereditato
patrimonio, e che non sia avviato verso una maggiore rovina; e ciò senza
aver imparato cosa alcuna, senza avere acquistato nè oggetti preziosi,
nè introdotto o tentato d'introdurre nel proprio paese altre novità,
fuorchè le stranezze di oziosi stranieri, che non formano nei paesi loro
che una derisa minoranza. Poichè nè in Inghilterra, nè in Francia, nè
tampoco in Russia prevale quella assurda opinione, che lo studio o la
scelta di una professione o di una pubblica carriera sieno cose
riservate ai poveri, che hanno bisogno di lavorare per guadagnarsi il
vitto. Fatale errore! Il lavoro non è soltanto il mezzo più onesto di
guadagnar denaro, è il dovere di ogni cittadino, o, diciam meglio, di
ogni essere dotato di ragione, che possiede un'anima intelligente, di
cui dovrà un giorno render conto al creatore. Lo studio e il lavoro sono
il mezzo che una benefica provvidenza ne largisce per sviluppare e
perfezionare l'intelletto nostro; sono il mezzo col quale ciascuno può
servire il proprio paese; sono la scala per cui la creatura umana sale
dalla terra al cielo, dalla vita materiale, che ha comune coi bruti,
alla vita spirituale a cui può sola aspirare.
L'avversione al lavoro, e il disprezzo per chi è costretto a
dedicarvisi, sono una inesauribile sorgente di danni pel paese nostro. —
Il popolo, e particolarmente gli abitanti della campagna, inclinano per
la naturale loro pigrizia all'ozio, e non potendo abbandonarvisi
interamente (chè ad essi lo vieta la necessità di procurarsi vitto, casa
e vestimenta), si contentano del puro necessario; e, questo ottenuto,
nessuno al mondo li saprebbe indurre a prolungare di un'ora l'opera
loro. Perciò avviene che ogni nuova imposta, o tassa, per poco gravosa e
per equa che siasi, pare al nostro contadino una misura vessatoria,
iniqua ed intollerabile; solo perchè essa lo toglie momentaneamente a
quell'ozio ch'egli considera come suo privilegio e suo diritto. Come
potrebb'egli giudicare altrimenti, circondato qual è da altri contadini
che la pensano come lui, da un clero che si studia di mantenerlo
nell'ignoranza, e quindi nella soggezione e nella dipendenza de' suoi
voleri, ed alla presenza di un padrone, che lungi dall'inspirargli
l'energia e l'amore al lavoro, come alla unica fonte di ogni prosperità,
gli dà il deplorabile esempio di sprezzare il lavoro e di astenersene
ogni qual volta lo può?
D'altra parte nè l'abilità al lavoro, nè l'attitudine all'applicazione,
non s'acquistano in un giorno. — Un'intera generazione non basta a
formare una nazione laboriosa ed energica, nè ad imprimerle quel
carattere di creatrice, che distingue così eminentemente fra tutte le
altre la inglese, e fa sì che un'impresa industriale da essa tentata, è
giustamente considerata dalle altre nazioni, come una impresa
felicemente compita. — Io pure vorrei che gli italiani prendessero gli
inglesi per modelli; ma non per imitare le puerili stravaganze di alcuni
ricchissimi oziosi, bensì per emulare la maravigliosa operosità delle
moltitudini. E si osservi altresì che quegli stessi ricchissimi oziosi
cui la nostra gioventù tributa tanta ammirazione, non sono poi così
oziosi come lo crediamo, e lo sono in tutt'altro modo di noi. I loro
passatempi, i viaggi, le caccie, le corse e gli esercizi equestri, nulla
hanno per certo di effeminato; anzi allo sviluppo delle forze
intellettuali unendosi così lo sviluppo delle forze fisiche, come a
concepire essi riescono atti a compiere le più ardue imprese. I viaggi
più pericolosi di questo secolo, le scoperte di nuove terre, e di nuovi
passi per recarvisi, sono dovuti in gran parte ai rampolli della inglese
aristocrazia; e quelli poi che non hanno acquistato fama di
grandi viaggiatori, non si sono però addormentati nell'ozio e
nell'effeminatezza; ma o proseguono nei maschi diporti della caccia e
del cavalcare, o si dedicano all'agricoltura, all'industria, al
commercio, o a qualche dotta professione, impiegando così nell'età
matura quell'eccesso di energia che li aveva traviati nella primissima
gioventù. In Inghilterra gli uomini che non si consacrano ad una
occupazione, o ad uno studio, o ad uno scopo di pubblica beneficenza,
insomma che non impieghino la esistenza loro al servizio del loro paese,
formano una impercettibile minoranza; mentre da noi, i giovani forniti
di beni di fortuna, che si dedicano ad un proposito patriottico, formano
la volta loro, rarissime eccezioni. Abbiamo veduto che il numero dei
rappresentanti delle nostre più illustri e più ricche famiglie i quali
abbiano conservato intatto il patrimonio loro, non è superiore a quello
dei giovani che si dedicano ad una virile occupazione; e di ciò siamo
oltremodo dolenti, perchè il rapido deperimento di una classe di
cittadini così importante come la nobiltà italiana, in cui erano
concentrate le maggiori ricchezze del paese e tutta l'autorità e
l'influenza che sono come i corollari delle ricchezze, non può decadere
senza produrre un adequato e funesto squilibrio in ogni classe della
società.
Parlerò meno diffusamente del carattere e dei costumi delle popolazioni
dell'Italia centrale e meridionale, perchè non sono spettatrice costante
dei fatti loro, come lo sono dei nostri. Pure quel poco che ne so non mi
mostra gli italiani di quelle provincie più esperti e più intelligenti
di noi in materia di libertà e di governo costituzionale. Il fatto, per
citarne uno a tutti noto, che la città di Messina, la seconda città
della Sicilia e in realtà eguale alla prima in estensione, in ricchezza,
in coltura e in civiltà, deputò ripetutamente a rappresentarla al
parlamento l'esule Mazzini, prova sufficientemente che i suoi elettori
nulla intendono del sistema di governo detto costituzionale. Se la
Sicilia avesse inteso di protestare contro il governo attuale, doveva
mandare al parlamento insieme con Giuseppe Mazzini altri uomini di fama
repubblicana; e soddisfatta di avere con ciò espresse le proprie
aspirazioni, non ostinarsi in quella espressione dopo che il parlamento
l'avea respinta come incostituzionale. — I messinesi si condussero
altrimenti. Nominarono un solo repubblicano, Giuseppe Mazzini, insieme
con altri molti che avevano protestato della loro divota adesione alla
nostra monarchia; e quegli elettori medesimi che avevano votato con
entusiasmo per Mazzini, facevano pochi giorni dopo una rumorosa
dimostrazione in onore di Vittorio Emanuele, più non ricordo in quale
particolare occasione, togliendo con ciò ogni possibile significato al
singolare loro voto. Poi quando il parlamento, condannando la illegalità
della elezione, la cassò, i messinesi la rinnovarono, mettendosi così in
urto ed in ostilità non più col governo, ma colla rappresentanza
nazionale, che è quanto dire colla nazione e con sè medesimi.
Lo stesso ha fatto più recentemente Palermo, nell'occasione della legge
votata dal parlamento per l'abolizione degli ordini religiosi. Tutti
conoscono le orribili scene che scaturirono dalla fanatica superstizione
dei palermitani, ad istigazione evidente dei frati e delle monache,
inferociti per l'abolizione dei loro privilegi. Nessuno vorrà dire che
un popolo capace di simili eccessi sia maturo per godere di una regolare
libertà; e i più indulgenti confessarono che un poco di educazione
civile e politica, non sarebbe superflua pei siciliani. Ora, questa
educazione chi pensa a darla, e come sarà data?
I napolitani hanno l'aspetto e le forme più civili dei siciliani. Oltre
ciò hanno una intelligenza così aperta ed una fantasia così svegliata,
che prontamente imparano, e si fan proprie le cose, o almeno l'apparenza
delle cose che loro passano sotto gli occhi. Aggiungiamo pure che se non
le idee, le parole di costituzione, di parlamento, ecc. non giungono ad
essi nuove, mentre ebbero un principio di effettuazione nel 21, ed un
altro ne avevano avuto sul finire dello scorso secolo. La presenza di
cospicue famiglie straniere che a Napoli accorrevano, ivi attratte dalla
bellezza del cielo e dalla mitezza del clima, vi avevano introdotto
alcune abitudini civili, e sparso una certa gentilezza di modi sopra una
popolazione naturalmente alla gentilezza inclinata, quando non sia
trasportata da passioni violenti e sfrenate. Napoli diffatto ed il suo
popolo hanno progredito verso la vita civile dal 60 in poi. Certe
immondezze scomparvero dalle pubbliche vie: certe nudità permesse dal
clima, ma vietate dalla civiltà, più non si incontrano per le strade,
sulle piazze e nelle chiese; le scuole normali e popolari sono
frequentate dai figli di padri e di madri analfabetici.
I napolitani non si mostrano avversi alle leggi della vita civile[1]. Ma
tutto ciò non significa ch'essi sieno in grado d'intendere e di
apprezzare i benefizi di un governo costituzionale, nè di compierne i
corrispondenti doveri: ed in varie occorrenze gli antichi sudditi dei
Borboni mostrarono invece di avere inteso soltanto che la dinastia dei
loro re era mutata. Si ricordino i miei lettori certe elezioni avvenute
nel 65, e confesseranno meco che i napolitani anch'essi hanno bisogno di
essere educati alla libertà. Le doti che la natura ha loro compartito
serviranno a rendere la educazione loro più facile e più pronta; ma
converrebbe invero supporre ch'essi possedessero la così detta scienza
infusa, per ammettere che i diritti ed i doveri dei popoli liberi e
civili potessero essere noti a chi non ha mai goduto gli uni, nè avuto
chi gli insegnasse gli altri, ad un popolo che fu sempre retto da un
despota e da un clero fomentatore della superstizione e della ignoranza,
che non conosce insomma via di mezzo fra una cieca obbedienza ed una
sfrenata libertà.
Questa educazione civile e politica, chi pensa a darla ai napoletani? Si
pubblicano giornali, o quotidiani o settimanali o mensili, accessibili
per ogni conto al povero, e in cui si esponga il significato delle nuove
istituzioni ad esso largite? Si sono aperti corsi pubblici e gratuiti in
convenienti locali, ove il povero possa ricoverarsi, imparando a
benedire la Provvidenza per la libertà acquistata ed intesa? Io non
avrei scritte queste pagine, se avessi udito che una sola delle tante
cose da farsi fosse stata fatta. Ma vedo gli anni succedersi
rapidamente; vedo gli effetti della generale ignoranza rallentare e
talvolta impedire il progresso del nostro nazionale sviluppo; e non vedo
che si tenti rimediare a tale ignoranza dell'attuale generazione. Si
insegna a leggere alla generazione futura, e si spera forse che questi
nuovi letterati faranno buon uso della scienza acquisita per istruirsi
in ciò che loro spetta di sapere. Ma parmi questa una vana speranza. I
contadini lombardi hanno tutti, o pressochè tutti, frequentato,
nell'infanzia loro, le scuole comunali; ma sino a che in codeste scuole
non si acquista altro che uno strumento per imparare ciò che veramente è
necessario sapersi, non si può sperare che il giovanetto, licenziato
dalla scuola perchè ha raggiunto il duodecimo anno di sua vita, e
rimandato alle fatiche ed alle sofferenze domestiche col solo vantaggio
di poter leggere, scarabocchiare il proprio nome, ed eseguire le due
prime operazioni dell'aritmetica; non si può sperare, dico, ch'esso
impieghi utilmente il suo magro corredo di cognizioni per acquistarne
altre indispensabili ad un popolo che vuol essere libero. Ciò che deve
invece accadere, e che accade diffatto, si è che il giovinetto stesso
che sapeva leggere a dodici anni più non lo sappia passati i venti.
Della Toscana, e delle provincie che componevano prima del 59 e del 60
gli stati romani, non posso parlare in modo assai diverso da quello con
cui ho parlato sin qui delle altre parti d'Italia. Il toscano ad altro
non aspira che ad un dolce ed innocente riposo. Si accontenta di una
mediocre agiatezza; si accontenta ben anco del puro necessario, purchè
gli si conceda di goderne pacificamente e senza sforzi nè fatiche. Così
ci figuriamo ad un dipresso la vita dei pastori arcadici; ma nulla v'ha
al mondo di meno arcadico dell'attuale società. Già lo dissi più sopra:
chi non lavora, chi non tende ad uno scopo che non può raggiungere senza
sudori, chi si compiace nell'ozio, e soltanto nell'ozio, non trova
spazio ove adagiarsi nel trambusto del perpetuo progresso, e viene
schiacciato sotto il pesante carro di _Zaggernaught_ delle scienze,
dell'industria, del commercio, della civiltà e della ricchezza.
La Toscana è un piccolo e povero paese, abitato da un popolo gentile ed
intelligente, ma pigro, inerte, che non mosse mai passo sulla via che
percorrono oggidì le nazioni libere e civili. — Tutto rimanevagli a fare
quando fu annessa all'Italia, che si veniva allora costituendo. Sono ora
due anni, se non più, che una combinazione per essa fortunata trasportò
sul suo territorio la sede del governo italiano. Firenze fu prescelta
per succedere a Torino; e siccome Torino erasi amaramente risentita di
ciò ch'essa considerava come una sciagura, era naturale che Firenze se
ne rallegrasse come di un acquisto. Ma Firenze prese la cosa in
tutt'altro modo. — Che la sua popolazione si raddoppiasse numericamente
in pochi giorni, che molti nuovi edifizi s'innalzassero nelle sue mura,
che il denaro circolasse in quantità e con rapidità assai maggiore che
per lo passato, che nessun forastiere distinto e ricco che visitasse
l'Italia potesse d'ora in poi trascurare di visitare anche Firenze;
tutto ciò poco ad essa importava, anzi le cagionava rammarico ed
inquietudine. E perchè? Perchè una cosa sola le apparve fra tutte le
altre; e fu che tanta affluenza di nuovi abitanti farebbe crescere il
prezzo degli affitti, ed il prezzo corrente altresì degli oggetti
indispensabili alla vita di ognuno. Egli è pur vero che se le case di
Firenze crescevano di valore, queste essendo proprietà dei fiorentini,
il vantaggio era loro altresì; e lo stesso poteva dirsi degli oggetti
necessari alla vita di tutti, come le farine, le carni, gli ortaggi, i
latticinii, ecc., ecc. I fiorentini non sono punto gonzi, e intendono
tutto ciò come lo intenderebbe l'uomo più versato negli studi economici.
Ma un'altra cosa intendevano pure; ed era, che il cresciuto consumo dei
viveri, ed il cresciuto bisogno di abitazioni, sola cagione dell'aumento
dei prezzi, renderebbe necessario un accrescimento di produzione, e per
conseguenza di lavoro e di fatica. Nè valse far loro osservare, che
insieme coi consumatori verrebbero dal di fuori, cioè dalle altre parti
d'Italia e dallo stesso toscano contado, dei produttori, cioè degli
operai, che si assumerebbero con lieto animo quell'eccesso di lavoro,
che essi fiorentini non potrebbero o non vorrebbero eseguire. — In tal
caso, rispondevano i fiorentini, nascerà la concorrenza: dovremo
contendere coi nuovi arrivati per ottenere quel poco di lavoro che ne
bastava sin quì; l'opera nostra non sarà più così gradita a chi la
riceve; i nuovi arrivati faranno altrimenti, e si dirà che fanno meglio
di noi; dovremo studiare, esercitarci, ecc. E piuttosto che esporsi ad
un accrescimento di occupazione, che produrrebbe loro un sicuro aumento
di guadagno, i fiorentini hanno in gran numero emigrato dalla capitale,
per ritirarsi sui territorii di Pescia, di Prato, di Pistoia, di Lucca,
ecc., come in oasi non ancora invase dalla moltitudine e dalla civiltà,
e dove si può tuttora vegetare placidamente in un ozio decente e
dolcissimo. Il sagrifizio costò loro assai, e non poche maledizioni
salutarono l'arrivo di quelli irrequieti, cupidi ed ambiziosi che nulla
rispettano, e che sconvolgono senza rimorsi il placido andamento degli
affari in Toscana. Ma per amaro ch'ei fosse, il sagrifizio si compì, ed
oggi un certo numero degli opifici più prosperosi della capitale sono
nelle mani di piemontesi o di lombardi; chè a fronte dei fiorentini noi
lombardi siamo prodigi di energia e di ambizione.
Io non mi maraviglio punto che ciò accada in Italia; e saremmo invero
esseri di una tempra più che umana, se la perpetua servitù in cui
vivemmo non avesse lasciato traccia alcuna nel nostro carattere. Nè
suppongo un solo istante che tale nostra piaga sia incurabile. Anzi sono
convinta ch'essa cederà tosto ad una cura conveniente, e che la seguente
generazione sarà fors'anco perfettamente sana e robusta. Ciò che mi
accora si è il non vedere che alcuno si accinga a medicare quella piaga;
e neppure in Toscana, ove la capitale raduna in sè le forze vive della
nazione, ove tanta coltura fu sempre onorata, nessun farmaco fu ancora
proposto e discusso.
Di ciò mi lagno, e non del bisogno che abbiamo del farmaco; il quale
bisogno è la cosa più naturale del mondo.
Le provincie che componevano prima del 59 e del 60 gli stati romani,
come le Legazioni, l'Umbria, ecc., ecc. non hanno dato sin qui segni
manifesti di non intendere i diritti e i doveri di un popolo libero, o
le leggi della moderna civile società. Quelle popolazioni, rette e
tiranneggiate dal clero, non diedero sin qui un solo indizio di
fanatismo o di superstizione: hanno accettato ed eseguito tutti i
sacrifici richiesti, senza dare mai segno di malcontento, e vanno
gradatamente migliorando le loro condizioni coll'apertura di nuove
strade e ferrovie, colla applicazione di un discreto governo comunale,
collo stabilimento di nuove scuole e di nuovi tribunali rispettabili, e
coll'esercitarsi nelle cose della guerra. Quelle popolazioni dovrebbero
in vero servire a tutte le altre di esempio e di modello; ma v'hanno
alcuni passi che i popoli non possono dare, se l'iniziativa non è presa
da qualche individuo o da qualche associazione più di loro esperti e più
ricchi. Le popolazioni degli antichi stati romani sono ad un tempo
maschie e prudenti. — Sanno soffrire, sanno tacere, sanno combattere; e
credo che saprebbero anche studiare ed imparare. — Ma non furono mai ciò
che volgarmente si chiama popolazioni industriali, ossia dedite alla
industria ed al commercio. Debbono però diventar tali e diventarlo in
breve tempo, poichè l'agricoltura non vi si può sviluppare in vaste
proporzioni, per la natura del suolo. Sino al 59 e al 60 quelle
popolazioni vivevano in gran parte della elemosina degli innumerevoli
conventi d'ambo i sessi; ma ora quella è una fonte disseccata ed
esausta. Se alcuno tentasse di fondare stabilimenti industriali,
opifici, ecc., non vedo quali ostacoli incontrerebbe, e sono convinta
che la popolazione andrebbe a gara per prestarvi l'opera sua. Nulla si
ottiene senza lavoro e senza fatica. Ma la buona volontà e l'attitudine
non bastano quando manca la direzione; e la direzione non appartiene
alle moltitudini, bensì all'individuo.
L'Italia può dirsi materialmente fatta, in quanto che la intera o
pressochè intera penisola è raccolta sotto un unico reggimento, e più
non vi sono padroni stranieri. L'Europa tutta ha riconosciuto il diritto
che noi abbiamo di esistere come nazione indipendente. Nel corso dei
sette anni, che compongono l'età nostra come nazione, abbiamo ottenuto
dei mirabili risultati: la distruzione del brigantaggio; l'abolizione
dei conventi; il nuovo assetto che sta per darsi all'asse ecclesiastico;
il traslocamento del governo e della rappresentanza nazionale da Torino
a Firenze; la riunione delle provincie venete al rimanente d'Italia; e
la probabilità di trovarci fra poco in condizione di trattare
direttamente col Santo Padre; la cessione del potere temporale, e i
compensi che può meritare simile cessione. E l'avere ottenuto tutto ciò
senza attraversare quelle tristissime e sanguinose crisi di rivoluzioni,
di reazioni e di guerre civili, che lasciano indelebili tracce e
dolorose memorie nelle popolazioni che vi soggiacquero, sono benefizi di
cui non possiamo mai essere abbastanza grati alla Provvidenza ed agli
uomini che la Provvidenza scelse per suoi strumenti. Ma appunto perchè
siamo stati così evidentemente e gratuitamente protetti sin quì,
dobbiamo mostrarci degni di tale protezione, porci arditamente e
devotamente all'opera, e nulla lasciare intentato, nè stancarci, nè
disgustarci od annoiarci di ciò che può contribuire a porre il nostro
paese fra i più inciviliti e i più rispettati del mondo.
Quali sono gli ostacoli che si oppongono al nostro progresso? Due sono i
principali.
1.º La depravazione lasciata nel carattere delle popolazioni da una
tirannide di tanti secoli, astuta ed iniqua, che non contenta di ridurci
colla violenza e coi mali trattamenti ad una cieca obbedienza, lavorava
a renderci incapaci di usare, senza però abusarne, di una saggia
libertà.
2.º La scarsezza del denaro, mentre avremmo così ingente bisogno di
abbondanti ricchezze, per dotare il nostro paese di tutte quelle
conquiste della scienza e della industria moderna, strade ferrate,
canali navigabili, opifici, macchine, ponti, per mantenere un poderoso
esercito, una forte marina: cose tutte che i nostri antichi padroni non
si curarono di procurarci.
Il primo di questi due ostacoli, è certamente il più grave e il più
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