Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire - 11

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sempre nei loro discorsi, ma fa sentire il suo impero quando si vuol
passare dalla sfera delle parole a quella degli atti. Nonostante i
lamenti degli uni, e le declamazioni degli altri, non v'ha per così dire
italiano, che non sappia che tutte le piaghe di cui soffre oggi il
paese, non sono imputabili al governo, e nulla hanno che fare con questa
o quella forma di costituzione. Un paese che si regge e si governa coi
propri rappresentanti, non può accusare de' suoi danni che sè stesso, o
le circostanze a sè stesso avverse. Gli italiani ben sanno che se il
numero degli uomini di stato a cui si possa affidare la direzione degli
affari nazionali è ristretto, esso non si accrescerebbe perchè alla
monarchia subentrasse la repubblica, e perchè un presidente occupasse il
seggio ora riserbato al re. Gli italiani ben sanno che la composizione
delle camere, in cui nessuno riesce a formare una maggioranza durevole,
è l'effetto dell'ignoranza e della indifferenza degli elettori, e non
già dell'azione governativa. Gli italiani sanno inoltre che la virtù ad
essi negata sin qui dall'Europa tutta, quella che per la prima volta fu
in essi riconosciuta dopo il 59, e che ottenne loro la simpatia e la
benevolenza delle estere potenze, è la costanza, e la moderazione nella
costanza; e che quand'anco fosse per noi evidente, il che non è, che i
plebisciti di quell'epoca erano basati sopra una erronea nozione di ciò
che all'Italia occorreva e conveniva, il confessarlo oggi, ed il
mostrarci disposti ad un nuovo cangiamento di stato, sarebbe poco
onorevole per noi, e ne toglierebbe ad un tratto tutto ciò che abbiamo
acquistato dal 59 in poi nella pubblica opinione. — Tutte queste
riflessioni, che riescirebbero forse impotenti a combattere uno spirito
di parte quale lo abbiamo veduto in altri tempi ed in altri paesi, hanno
bastato sin qui, e spero che basteranno ancora nell'avvenire, a
trattenere gli italiani da qualsiasi atto, che potesse scuotere nelle
sue basi il nostro governo, il governo da tutti acclamato or sono sette
anni, o che solamente facesse credere ai nostri vicini che tale sarebbe
il nostro desiderio.
Il governo rappresentativo ossia parlamentare lascia un vasto e libero
campo alla diversità delle opinioni. — Le dottrine più svariate e
contradditorie possono manifestarsi e conquistare il primato sopra le
altre, purchè coloro che le sostengono giungano a renderle accette alla
maggioranza dei cittadini, senza che l'edificio supremo governativo nè
crolli, nè minacci di crollare. Il più eminente fra i pregi della
monarchia costituzionale è questo appunto, che essa non è il frutto del
trionfo di una fazione, e non è necessariamente legata ad un assieme di
dottrine politiche, ma le domina tutte coll'accettarle alla prova, senza
dare alle estere potenze il temuto scandalo di ripetuti sconvolgimenti.
Se le opinioni del partito che dicesi d'azione non furono sinora
applicate dal nostro governo, ciò non dipende da incompatibilità nessuna
di quelle colla forma monarchica di questo; ma soltanto dal fatto, che
nessuno fra i rappresentanti di tali opinioni si è sentito sin qui
abbastanza forte e sicuro di una maggioranza nel parlamento come nel
paese, da indurlo ad accettare il potere che ad alcuni di essi fu più di
una volta offerto.
Gli italiani o la immensa maggioranza degli italiani sanno tutte queste
cose; e se la scienza loro non li trattiene dal proferire parole poco
assennate e per nulla in armonia coi loro serii pensieri, essa ha però
un'azione sufficiente per impedire che dalle parole si passi ai fatti.
Riflettiamo altresì, che la sola fazione che meriti veramente un tal
nome, e che potrebbe suscitare ne' suoi membri il pericoloso spirito di
parte, è così specialmente costituita, che il suo desiderio più ardente
è quello di nascondere sè stessa, di farsi dimenticare dal pubblico, e
di non accrescere di troppo il numero dei suoi partigiani, per timore di
venire da essi compromessa. La fazione clericale aspetta il suo trionfo
dal tempo, da scaltri maneggi diplomatici e segreti, non da lotte
materiali e violenti. — Noi crediamo al contrario che il tempo impiegato
da essa in intrighi, dissimulazioni e maneggi, sarà il suo più fiero
nemico. — Ma in ogni caso, e qualunque sia l'esito che l'avvenire serbi
alle nostre dissensioni, vero è però che oggidì quella fazione non ne
minaccia imminenti pericoli, ed è totalmente assorta nella conservazione
di sè medesima. Ricordiamo ora a qual segno di acciecamento e di
passione erano giunte le popolazioni della Francia, dell'Inghilterra,
dell'America e di tutti i paesi che attraversarono le burrascose regioni
di un politico sconvolgimento, e renderemo grazie a Dio che maggiori
sciagure non abbia chiamato sul nostro paese lo _Spirito di Parte_.[2]


CAPITOLO QUINTO
NOSTRI DOVERI

Nel descrivere il carattere dei popoli d'Italia, accennando alle cause
che lo hanno prodotto, ed agli effetti che ne derivano, ho spesse volte
ragionato dai doveri che ne spettano; per cui temo di cadere nel corso
di questo capitolo in frequenti ripetizioni dello stesso pensiero. Per
sottrarmi in parte almeno a simile inconveniente, altro non mi rimane
che di ristringermi quanto più posso, e compendiare ciò che dovrò pure
ripetere. — Ho detto, e parmi di averlo dimostrato, che una parte
considerevole delle popolazioni italiane, non è abbastanza educata ad un
libero e civile reggimento; anzi, ch'essa è tuttora ingolfata nei vizi
che risultano da una lunga servitù ad un potere straniero e nemico, che
le tolse o paralizzò a bello studio in essa ogni nazionale e patriottica
virtù, nella scellerata speranza di renderla cieca ed insensibile al
proprio avvilimento, pervertendola a tal punto che fosse incapace di
vivere libera e civile.
Se non riescì interamente nel suo proposito il dispotismo che
dall'Austria si diffuse sull'Italia, vi riescì però in parte; e questo
infelice risultato è appunto ciò che oggi fieramente ne travaglia, e che
dobbiamo distruggere. — Non riescì il dispotismo a farci amare la
schiavitù, la quale al contrario ci divenne di giorno in giorno più
abborrita, in modo che primo nostro pensiero, nostro sogno, nostro
impaziente desiderio, era l'infrangere le secolari catene, e cacciare al
di là delle Alpi ogni satellite del dominio straniero. — Non vi era
sagrifizio che a noi sembrasse tale quando avesse per iscopo la fine
della nostra cattività; e cotesta nostra accanita e costante resistenza
che ci opprimeva, questo nostro inveterato abborrimento del giogo, fu
appunto ciò che ne tenne luogo per molto tempo di ogni altra civile
virtù, che ne ottenne finalmente la simpatia dei generosi, e ne diede la
forza di combattere e di vincere i nostri tiranni.
Riescì in parte nell'iniquo suo intento il dispotismo; poichè partendo
ci lasciò molte piaghe, che le sue catene e le sue sferzate ne avevano
aperte. — Ci lasciò un criterio confuso di ciò che merita il nostro
rispetto o il nostro disprezzo, cosicchè ci fidiamo e diffidiamo di
tutti, secondo il capriccio del momento; un folle amore dell'ozio, che
sotto il dispotismo straniero vestiva agli stessi occhi nostri l'aspetto
di resistenza passiva al non legittimo Signore, d'invincibile ripugnanza
all'idea di servire l'odiato governo, ma che oggi dovremmo gettare lungi
da noi. — Ed invece di ciò, questo sciagurato amore dell'ozio lo
conserviamo gelosamente; e, ciò ch'è peggio ancora, tentiamo di
onestarlo col medesimo pretesto che nei tempi passati poteva essere
giusta ragione per astenerci da ogni ufficio. — E diciamo tuttora, che
siam mal governati, che non abbiamo tutta la libertà che eravamo in
diritto di aspettare; oppure diciamo (ciò che più si avvicina al vero),
che abbiamo troppa libertà, che il governo difetta di forza, di
fermezza, di coraggio, di sagacia, di risolutezza, d'ogni dote insomma
necessaria a ben reggere una nazione; e ne concludiamo, che il nostro
concorso, che l'opera nostra a nulla rimedierebbe, e che non dobbiamo
consumarci senza frutto pel paese. — Pretesti miserabili, pretesti
creati al solo scopo di non ispogliarci di un abito che lusinga il
nostro istinto, nel quale si compiace l'indole nostra.
Altra piaga lasciataci dal dispotismo straniero, come già dissi, è
l'inclinazione ad imputare ogni nostro danno, ogni sventura, ogni
calamità al governo. — Durante la dominazione straniera, il governo
portava l'azione sua in ogni direzione e sopra ogni cosa che gli
sembrasse di tale azione meritevole o bisognosa, senza essere trattenuto
dal rispetto dei diritti altrui nè delle altrui libertà, in una parola
senza essere frenato da legge, da istituzione o costituzione di sorta. —
Un individuo che al governo diventasse sospetto, era tosto o arrestato
ed indefinitamente tenuto prigione, o esiliato, o confinato in qualche
povera borgata di una remota provincia. — Un opificio industriale che
potesse giovare al paese, ma che poteva recare eziandio qualche danno ad
un'altra provincia dell'impero, era dichiarato pericoloso e soppresso. —
Un libro, un dramma destinato a risvegliare nelle popolazioni qualche
scintilla di amor patrio, erano proibiti, e l'autore spietatamente
perseguitato. — In quei tempi si poteva, senza pericolo di errare,
vedere difatto la mano del governo in tutte le sventure che ne toccava
di subire. Ma ora le cose camminano in modo al tutto diverso. — Il
governo non interviene nelle faccende dei privati individui, se non
quando le leggi sono da questi violate; e d'altra parte il governo
costituzionale non è un essere a sè, un essere sui generis, diviso dalla
nazione: egli è il rappresentante della nazione, eletto in modo più o
meno diretto da essa; mutabile di giorno in giorno, non si regge e non
esiste se non col concorso e l'appoggio della maggioranza dei
rappresentanti del paese. — Che cosa significano dunque queste
incessanti accuse che si muovono al governo, come s'egli esistesse a
nostro dispetto o per nostra sventura? Significano una cosa sola: cioè
che noi non intendiamo ciò che sia un governo nazionale, costituzionale
e rappresentativo.
Queste sono le piaghe più profonde e d'indole più maligna che ne lasciò
il passato, rimettendo per brevità di parlare della ignoranza, della
superstizione, e di altri malanni, che ereditammo dai nostri padri, i
quali vissero e morirono schiavi.
Non però tutti gli italiani sono infetti di cotai morbi. — Ve n'hanno
molti, che dalla natura favoriti d'ingegno singolarmente docile e sano,
o di una educazione eletta, o di fortuite e fortunate circostanze,
pensano, sanno e sentono, come pensano, come sanno e come sentono gli
uomini rispettabili dei paesi più inciviliti e più liberi. — Che di tali
uomini non difetta l'Italia, chiaro risulta da tutto ciò che abbiamo
tentato e condotto a buon fine nel corso degli ultimi sette anni. — A
questi uomini spettano ora doveri immensi: ad essi spetta il salvare la
patria dai molti pericoli che le sovrastano, ed a cui la espongono gli
ignoranti, gli oziosi ed i malevoli, funesti prodotti del dispotismo
straniero. — Non v'ha uomo dotato di qualche criterio e di una dose
qualunque di senso comune, che non sia sino ad un certo punto
responsabile dei pericoli che minacciano la patria, e dei danni che a
lei ne possono risultare. Quando gli italiani decisero di strappare
l'Italia allo straniero, e di rimaner padroni della loro terra natia,
assunsero il dovere di guidare il paese in modo tale, che esso potesse
mantenersi indipendente, e prosperare nella sua libertà. — Altrimenti,
cioè se gli italiani assennati ed amanti della patria, che tanto
sacrificarono per dare ad essa l'indipendenza, avessero pensato di
rimanere poi inoperosi e di lavarsi le mani dell'uso che le moltitudini
starebbero per fare della acquistata indipendenza, essi sarebbero
colpevoli non solo, ma positivamente indegni di perdono.
Essi avrebbero esposto scientemente la patria a pericoli maggiori di
quelli che le sovrastavano nel passato, e le avrebbero preparato un
avvenire funesto, che chiamerebbe su essa ad un tempo il disprezzo dei
contemporanei, la pietà dei posteri, e servirebbe di esempio alle future
generazioni.
Mi si risponderà forse che singoli individui, per operosi e desiderosi
del bene che sieno, nulla possono sulle moltitudini. — Io credo invece
che chiunque, per debole che naturalmente sia, acquista una
ragguardevole autorità sulle masse, quando cammini a faccia scoperta ed
a fronte alzata sulla retta via. — Del resto non vedo perchè gli
individui che hanno opinioni, volontà e sentimenti comuni, debbono
rimanere isolati gli uni dagli altri. — Riuniscano le loro forze, si
associno, come già si associarono segretamente quando intrapresero di
liberare la patria. — Quella era una impresa in cui l'individuo era
pressochè impotente, poichè non poteva essere condotta a buon termine se
non colla forza. Allora le associazioni erano interdette; e cionullameno
una trama nascosta ordivasi in tutta Italia, e non so se un solo fra i
patrioti italiani possa dire di non avere appartenuto ad una delle tante
società che avevano per oggetto la liberazione del paese. — Oggi le
associazioni fra i cittadini sono permesse non solo, ma raccomandate e
protette; per cui nessun individuo può scusare la propria inazione col
pretesto che gli sia vietato di operare.
Non registrerò qui per minuto i vari oggetti che tali associazioni
potrebbero e dovrebbero proporsi, variando essi ad ogni passo, perchè in
ogni città, in ogni provincia d'Italia, vi sono dei bisogni speciali.
Dirò soltanto che i popoli sono suscettibili di progresso; e che con
quella medesima facilità con cui gli italiani furono corrotti e
pervertiti dal dispotismo, possono essere emendati ed illuminati dalla
libertà e dalle istituzioni a cui questa serve di base. Osservino gli
uomini assennati di ogni città, di ogni provincia italiana, quali più
funesti effetti produsse nei loro concittadini il dispotismo straniero;
e quindi riuniti, stretti fra loro da patriottico nodo, si accingano a
combatterli, chiamando in loro sussidio il buon senso popolare, che in
Italia così facilmente si risveglia, e dimostrino a tutti la falsità
delle loro credenze, la vanità dei loro sospetti e dei loro pregiudizi,
l'assurdità delle loro esigenze e delle loro pretese, le conseguenze
inevitabili e funestissime della loro condotta, la necessità delle
civili virtù, fra le quali la più cospicua è forse la tolleranza dei
mali individuali, quando questi abbiano per risultato il maggior bene
del maggior numero. — Facciano noto a chi lo ignora, che la libertà e
l'indipendenza di una nazione, già schiava dalla caduta del romano
impero sino ai giorni nostri, non sono beni che si acquistano con poca
spesa e con poca fatica; e che il perdersi d'animo perchè pagandoli si
scema il nostro avere, è un condursi da vile o da spensierato. — E
mentre insegnano a chi le ignora le prime e più semplici verità
fondamentali della vita nazionale e civile, si applichino a rimediare in
qualche parte almeno ai danni reali che cagionano il malcontento delle
moltitudini. — Si aprano dei negozi cooperativi, delle banche popolari,
ed altre simili istituzioni, atte a combattere gli intrighi di certi
capitalisti, che si arricchiscono speculando sulla miseria e sulla
ignoranza del volgo, e mentre l'erario o i varii municipi sono costretti
a gravare di qualche imposta gli oggetti di prima necessità, ne
esagerano pel proprio loro illecito guadagno i prezzi correnti, e fanno
credere al popolo che tale aumento rovinoso per lui sia opera del
governo.
Insomma io vorrei che si formasse in Italia una vastissima associazione,
nella quale s'inscrivessero tutti gli uomini dotati di buon senso, di
patriottismo e di onestà, allo scopo di mettere in comune le loro
facoltà, i loro mezzi ed i loro pensieri, per sollevare il povero dalla
sua miseria, l'ignorante dalle sue tenebre, e per procurare a tutti
l'opportunità di lavorare e di fruire dei vantaggi dell'industria e del
commercio. — E finchè tale immensa associazione sia formata ed eserciti
l'opera sua, vorrei che gli uomini più operosi, più esperti e più colti
delle varie città d'Italia, si unissero e formassero delle associazioni
parziali, tendenti tutte a quel medesimo fine, non tralasciando al tempo
stesso di adoperarsi, anche come semplici individui, a persuadere gli
ignoranti ed i forviati dei loro errori, e del danno che ad essi e al
paese tutto risulta dai pregiudizi loro. — Quando ogni uomo di senno ed
amico del proprio paese abbia scolpito nella mente l'idea de' suoi
doveri verso il paese stesso, quando questa idea gli sia sempre
presente, avrò ottenuto il fine ch'io mi prefissi scrivendo questi
fogli; chè i mezzi non verranno meno a chi persiste nel cercarli, ed è
risoluto di adoperarli quando ad esso si presentino. — Ciò di cui
difettiamo è la costanza della volontà e della risoluzione.


CAPITOLO SESTO ED ULTIMO
RISULTATI VERSO I QUALI TUTTI DOBBIAMO TENDERE

Lo scopo che ogni italiano deve prefiggersi, è la conservazione e la
consolidazione della nostra indipendenza, insieme collo sviluppo delle
nostre libertà, le quali produr debbono la nazionale prosperità.
Queste però sono nozioni troppo generali, e su di cui ognuno conviene,
differendo poi sul significato dei vocaboli libertà, indipendenza e
prosperità nazionale, come pure sui mezzi più atti a procurarne lo
sviluppo. — Credo perciò di dover definire che cosa intendo di
raccomandare a' miei compatriotti, quando li esorto a consolidare la
nostra indipendenza e le nostre libertà, sviluppando queste ultime in
modo da produrre alla nazione il ben essere e la prosperità.
Una nazione può dirsi indipendente, quando nessuna parte del suo
territorio è occupato e soggetto allo straniero, e quando essa possiede
forze e volontà sufficienti per difendersi efficacemente contro chiunque
tentasse invaderne i confini. Perchè una nazione possa dirsi a buon
dritto indipendente, non occorre ch'essa ripudii qualunque influenza
straniera: il che la porrebbe tosto o tardi in ostilità con questo o con
quell'altro de' suoi vicini, ed avrebbe per conseguenza più o meno
remota, di esporre a gravi pericoli la stessa di lei indipendenza. — Ciò
osservo, perchè v'ha in Italia una scuola politica di fierissima
indipendenza, la quale considera ogni atto di condiscendenza verso gli
alleati come un principio di soggezione, e lo biasima come intollerabile
viltà. — Codesti fanatici della indipendenza, vorrebbero che la nazione
camminasse sempre nella direzione che più spiace, più offende, o più
minaccia le nazioni vicine; e se l'una di esse ne fu un giorno benefica,
veggono nella nazionale gratitudine un pericolo per la patria
indipendenza, ed appunto verso quella benefica potenza si volgono con
sospetto e con avversione maggiore, e sono più ansiosi di mostrarsele
nemici.
Le pacifiche relazioni fra le potenze, che si dividono questa parte del
mondo chiamata Europa, sono necessarie alla generale prosperità, e si
alimentano e si mantengono mediante reciproche concessioni, sagrifici e
buoni uffizi. — L'urtarsi di proposito contro chi non ha provocato
l'offesa, non è atto d'indipendenza, bensì di assurda jattanza, e di non
giustificata prepotenza. — L'esagerazione di qualsiasi virtù, così delle
politiche e civili, come delle famigliari o domestiche, si avvicina al
vizio opposto, piuttosto che alla stessa esagerata virtù. — Virtù
significa forza, e non vi è vera forza senza moderazione e giustizia.
Una nazione può dirsi a buon dritto libera, quando non è richiesta di
obbedire ad altri che alla legge, e quando nessun comando abbia forza di
legge sinchè non sia stato dichiarato tale ed approvato dalla
maggioranza dei rappresentanti la nazione. — Queste sono le basi di una
bene ordinata libertà, e possono trovarsi parimenti sotto qualsiasi
forma di governo, cioè monarchico o repubblicano. Se ci scostiamo da
codesta massima, se oltrepassiamo questa linea di confine tra il vero ed
il falso, cadiamo nella confusione e nella contraddizione di noi stessi
e delle nostre dottrine. — Qualunque resistenza incontrino i desideri di
un cittadino, sarà da questo dichiarata tirannica, e gli sembrerà tanto
più intollerabile, quanto è più ardente (non già più legittimo) il
desiderio combattuto. — Si chiamerà dispotica e tirannica la volontà dei
rappresentanti della nazione, che è quanto dire la volontà della nazione
stessa, dimenticando così che l'indelebile carattere del dispotismo, ciò
che distingue l'arbitrario comando dalla legge, è appunto il non essere
quello sancito dalla nazione. — Una legge emanata dal parlamento può
essere improvvida, mal concepita, diciam pure ingiusta, chè non vi ha
modo quaggiù di prevenire radicalmente e sicuramente gli errori o i vizi
degli uomini; ma una legge così fatta non sarà mai, ed in nessun caso,
arbitraria o dispotica. — Gli ultra liberali, che non si accontentano
della libertà come l'ho testè definita, non hanno peranco scoperto il
rimedio specifico contro la umana fallibilità, nè credo sieno avviati
verso tale mirabile scoperta. — Il criterio del giusto e dell'ingiusto
considerati in modo assoluto non esiste quaggiù; esiste bensì quello del
legittimo e dell'illegittimo, ossia arbitrario comando, e ciò è appunto,
come già dissi, l'essere il primo sancito dalla volontà nazionale, e il
non esserlo il secondo.
E di ciò dobbiamo contentarci, per una semplicissima ragione; cioè
perchè è impossibile l'ottenere di più. — Non già perchè la libertà,
quale la sognano gli ultra liberali, sia circondata da tali ostacoli,
difesa e gelosamente custodita da chi vorrebbe defraudarne i popoli, che
impossibile ci riesca l'impadronircene; ma non possiamo ottenerla perchè
non esiste; e ciò che da lungi ne simula l'aspetto, altro non è
veramente che un fantasma, una illusione, che si trasforma in
confusione, in nebbia, nella peggiore delle tirannidi, l'anarchia, ossia
nel libero esercizio di ogni individuale volontà. Di ciò fecero
memorabile esperimento i Francesi quando nell'89 e nel 95 stabilirono,
come criterio e misura della nazionale libertà, la libertà di ogni
singolo individuo.
La libertà come io la intendo sagrifica in una certa misura l'individuo
alla nazione, e non considera quello se non come parte integrale o come
rappresentante di questa. — La libertà come la intendono gli ultra
liberali, la libertà non definita e non definibile, non confessa la
necessità di sagrificare nè l'individuo alla nazione, nè la nazione
all'individuo, ma di fatto li sagrifica ambedue ad una illusione, ad una
falsa dottrina. — L'esercizio dell'assoluta libertà dell'individuo, e di
tutte quelle individuali libertà radunate come in un fascio che
comporrebbero la nazionale libertà, è una di quelle teorie belle e
seducenti per sè stesse, ma che non reggono alla pratica, perchè la
libertà sfrenata di un individuo si urta necessariamente colla libertà
sfrenata di un altro individuo, e tutte queste libertà osteggianti fra
loro, formano non già la nazionale e universale libertà, ma un caos
tenebroso, ove si combatte ciecamente, e si perdono in breve persino le
nozioni del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, del diritto e
del dovere. Dio ne salvi da una siffatta libertà! — La libertà come io
la intendo è oggi rispettata e stabilita fra noi in tutta la sua
pienezza, e direi anche con troppo rigore per parte del nostro governo,
che ha accettato lealmente la missione affidatagli nello Statuto; e
segue la via che questo gli ha tracciata, senza dipartirsene mai di una
linea. — Lo Statuto, che fu sulle prime accordato al solo Piemonte,
ammette come fatto incontestabile ch'esso debba reggere una popolazione
civile, ordinata, e discretamente istruita, una popolazione insomma
degna delle più liberali istituzioni. — Parmi avere dimostrato nel corso
di questo volumetto, che alcune parti dell'Italia meridionale non sono
ancora giunte a quel grado medesimo di civiltà, che già da molti anni si
osservava nel Piemonte. — Vorrei dunque che le istituzioni, le quali
debbono reggere il Piemonte non solo, ma tutta Italia, fossero
leggermente modificate in guisa da potersi adattare ai vari stadii di
civiltà a cui sono giunte le varie popolazioni. — Nè vorrei che tale
riforma fosse operata dall'autorità governativa; bensì dal parlamento,
che riconoscesse il bisogno di proteggere le popolazioni contro i
proprii loro errori, mentre si stanno educando al governo di sè medesime
e del paese nostro. Nè vorrei che codeste leggieri modificazioni
rivestissero un aspetto di stabilità, ma quello soltanto di misure
provvisorie, e destinate a brevissima vita. — E ciò vorrei, perchè temo
che le nostre popolazioni agricole, non comprendendo il significato e lo
scopo delle nostre istituzioni, si stanchino della parte che ne venne ad
esse affidata, e considerandola come l'effetto di un capriccio
dell'autorità, si astengano affatto dal concorrervi, rompendo così il
buon accordo che risultar doveva dalla esatta osservanza delle
istituzioni nostre. L'Italia, abbiam detto, deve aver cura di mantenersi
libera, e deve far uso di questa sua libertà come di uno strumento per
attivare lo sviluppo delle sue facoltà, o disposizioni naturali, che
spingere la debbono a successi commerciali ed industriali non minori di
quelli che compiono ogni giorno le nazioni più civili e più ricche del
mondo.
Di molti elementi di prosperità difetta però l'Italia. La mancanza
considerata sin qui come incurabile di carbon fossile, ed il caro prezzo
a cui dobbiamo procurarcelo da lontane contrade, è un grave ostacolo
allo sviluppo di ogni industria, e specialmente delle industrie
metallurgiche, le quali richiedono un eccesso di calore, che non si
ottiene se non dal carbon fossile. E questo ostacolo al progresso delle
industrie metallurgiche è una sorgente di danni per tutte le altre
industrie, perchè ne costringe ad acquistare all'estero le varie ed
innumerevoli macchine, che sono il principale elemento della industriale
prosperità di ogni paese. — Altro ostacolo alla nostra commerciale
prosperità, è la circostanza dell'aver noi respinto il sistema
commerciale protettore, come tirannico e vessatorio, e adottato in sua
vece il principio del libero scambio: principio che fruttò
all'Inghilterra vantaggi infiniti, perchè le nazionali sue industrie
essendo già pervenute ad un alto grado di perfezione e di superiorità,
rispetto alle corrispondenti industrie dei continenti europeo ed
americano, essa non teme da queste nè concorrenze nè rivalità. E di
fatto la facoltà concessa alle nazioni tutte, di mandare i loro prodotti
industriali in Inghilterra, senza sottoporli a tassa alcuna, implicando
naturalmente per l'Inghilterra un diritto reciproco, essa si trovò ad un
tratto signora e padrona di tutti i mercati esteri, che invase co' suoi
superiori prodotti industriali. Per tal modo il principio del libero
scambio diventò per l'Inghilterra una ricchissima fonte di lucro e
d'influenza. — Ma la condizione intrinseca dell'Italia essendo appunto
tutto all'opposto di quella dell'Inghilterra, gli effetti che risultare
debbono per essa dall'attuazione del principio della illimitata libertà
di commercio, sarebbero dei più funesti, imperocchè nessuno fra gli
italiani stessi si accontenterebbe dei proprii prodotti, imperfetti,
poco durevoli, costosissimi, quando sapesse di potersi procurare i più
eccellenti prodotti esteri, senza perdere nè più tempo, nè più denaro. —
Quando i prodotti delle industrie straniere ingombrassero le nostre
piazze ed i nostri mercati, le industrie nazionali d'Italia sarebbero
condannate a certa ed imminente rovina, nè potrebbero prolungare d'alcun
poco la loro agonia, se non imitando e falsificando i prodotti degli
altri paesi, cioè vendendo i proprii prodotti come fossero prodotti
stranieri. Ma simili mezzi non valgono ad assicurare la prosperità di
una nazione, nè quella tampoco di una provincia o di una singola
industria.
Perchè un popolo sia veramente soddisfatto della sua condizione politica
e civile, conviene ch'esso si accorga di progredire sulla via della
prosperità materiale, come su quella dello sviluppo intellettuale. Se
malgrado le compiute conquiste della libertà, della indipendenza e di un
seggio onorevole fra le altre potenze, il popolo riscattato conosce di
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