Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire - 08

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difficile a superarsi; potendo il secondo considerarsi come conseguenza
del primo.
Ma per trovare la via di vincere questi ostacoli è primieramente
necessario di studiarne attentamente la natura, il carattere, la potenza
e l'azione sull'indole e sui costumi delle popolazioni italiane. Abbiamo
veduto come la secolare oppressione, sotto cui visse l'Italia sino al
59, ne ha spogliati della energica operosità, che è forse la prima delle
condizioni indispensabili alla vita di una nazione, ed è propriamente
ciò che corrisponde alla forza vitale dell'individuo. Ma questo difetto
di vitalità si strascina dietro di sè una deplorabile sequela d'infiniti
danni. Il despotismo ha fra gli altri effetti quello di offuscare e di
traviare il sano giudizio delle sue vittime. I fatti e gli avvenimenti
non portano più con essi le naturali loro conseguenze, che sono altri
fatti ed altri avvenimenti. L'uomo ignorante non aspetta di veder
succedersi i futuri eventi, a seconda della tendenza degli eventi
anteriori. Le nozioni di causa e di effetto si confondono nella mente di
lui, poichè a sconvolgere il corso regolare delle cose, sempre
interviene la capricciosa volontà del despota, che di nulla tien conto,
fuorchè della soddisfazione delle private sue mire. Un uomo tenta una
pazza speculazione, e la tenta senza possedere alcuni di quei mezzi che
potrebbero renderla meno rovinosa; ed il pubblico argomenta
accuratamente che una terribile catastrofe sta per piombare sul
temerario speculatore. Ma questi gode la protezione di qualche oscuro
membro della casa del padrone; il quale conosce le vie ingannevoli e
tenebrose che conducono all'orecchio di quello, e se ne vale in favore
del pericolante amico. — Ed ecco che all'ultima ora, quando il
precipizio si apre sotto i piedi dell'imprudente, quando la sua caduta è
certa, la mano onnipotente del despota lo afferra, lo solleva, e lo
depone sovra un solido terreno; e di ciò non contento, impedisce
talvolta a' suoi creditori di costringerlo al rimborso del danaro che
loro è dovuto. Il principale insegnamento che i popoli traggono da tali
fatti è questo: che il favore del principe è la sola áncora di salvezza
su cui è ragionevole di affidarsi. La quotidiana esperienza nulla
insegna oltre ciò. La imprudenza non è più una sorgente di disastri, la
sapienza, l'avvedutezza, la moderazione, la precisione delle vedute, la
fecondità degli spedienti, la puntualità nell'adempire gli assunti
impegni, non sono più una garanzia di felice successo. Il favore del
sovrano tien luogo di qualsiasi dote, e senza di quello nulla si
ottiene. Quando viene repentinamente a cessare la onnipotenza di tal
favore, o quando una costituzione vieta ad esso d'intervenire negli
affari dei cittadini, a chi si rivolge per ottenere una direzione o un
appoggio il popolo educato da più secoli a non fare assegnamento che
sulla protezione del padrone?
Così avviene di noi. — Dal 59 in poi si sono tentate molte cose; ma si
sono tentate come se il felice o l'infelice successo di esse fossero
accidenti di nessun conto, indipendenti dal modo con cui si dirigono e
si conducono gli affari. Si suol dire che gli speculatori italiani si
affidano nella stella d'Italia; ma il fatto è questo, che la immensa
maggioranza dei nostri speculatori non ha mai studiato le condizioni in
cui deve esser posta una speculazione perchè se ne possa sperare un
favorevole risultato. V'ha di peggio. Benchè nulla attendano dal sovrano
favore, gli speculatori che soggiacciono a qualche sventura, ne
incolpano nel segreto de' loro cuori la poca benevolenza del governo. Il
ministro non ha mai veduto di buon occhio questa infelice impresa,
dicono a chi li interroga sulla loro sventura; non so che cosa il
segretario generale abbia contro di me, ma egli non mi ha mai dimostrato
nè interessamento, nè simpatia; e se la mia impresa andò fallita, ciò
accadde perchè il governo nulla fece per salvarmi, mentre egli poteva
facilissimamente impedire la mia caduta. E mentre lo speculatore fallito
parla con tale apparente moderazione, esso accusa sovente in suo cuore
il governo di mala fede, di animo vendicativo, di venalità, di
corruzione, ecc., ecc.; perpetuandosi in tal modo fra i cittadini e i
membri del governo quella diffidenza e quel malumore, che sono di sì
grande impedimento al regolare sviluppo della nostra prosperità.
Lo speculatore non si inganna però sempre, quando dice che il governo
avrebbe potuto salvarlo se lo avesse voluto. Ma il governo avrebbe
allora oltrepassato i limiti della sfera di azione a lui prescritta. Il
governo di un paese libero non deve intervenire nelle faccende dei
privati, se non per far eseguire le leggi che possono riferirsi ad essi.
Un governo costituzionale non deve assumere il carattere paterno: il
governo è il delegato della nazione, non ne è il tutore, e molto meno il
padrone. Questo è quello che non sappiamo ancora intendere. Dai
precedenti governi, tanto dall'austriaco pretto, quanto dagli altri più
o meno indirettamente austriaci, non aspettavamo che persecuzioni,
vessazioni, ingiustizie, violenze, ecc. e la nostra aspettativa era
sovente superata dal fatto. Ora aspettiamo dal nostro governo tutto
l'opposto di ciò che aspettavamo dall'Austria, e ci troviamo
necessariamente delusi nelle nostre speranze; perchè non abbiamo
imparato ancora che da un governo costituzionale si richiede
principalmente che esso si astenga da qualsiasi intervento negli affari
dei privati, almeno sino a tanto che le leggi non sono da questi
violate. Quel costante bisogno di appoggio, di protezione, di favore e
di direzione, è la più profonda piaga che ci abbiano lasciato le nostre
infrante catene. È questo un sintomo troppo evidente della debolezza del
nostro carattere, del nostro criterio e della nostra volontà; è una
tentazione pel governo, il quale vedendosi implorato dai cittadini
perchè intervenga negli affari loro, e sentendo che il suo rifiuto
eccita mali umori e risentimento, è necessario che conosca perfettamente
i propri impegni, e sia fornito di singolare onestà per non cedere, e
per non trasformarsi insensibilmente in ciò che chiamasi governo paterno
ossia dispotico.
L'ignoranza in cui vegetiamo e in cui ci mantennero scientemente i
nostri padroni, combinata colla naturale indolenza, propria a tutti i
popoli meridionali, ci rese sin qui incapaci di competere colle nazioni
vicine nelle industrie e nel commercio, e ne lascia senza difesa contro
la superstizione, l'assoluto, il tirannico e talvolta immorale dominio
del clero, non meno ignorante, è vero, e non meno inerte dei laici, ma
che riceve le sue istruzioni e la sua parola d'ordine da Roma. L'Italia
meridionale è per così dire esclusivamente ligia al suo clero, e a
quelle torme di frati e di monache che la divorano. L'Italia
settentrionale non è così acciecata, o almeno gli abitanti delle sue
città si sono sottratti alla tutela clericale; ma le popolazioni delle
nostre campagne sono nelle mani del clero tanto quanto le popolazioni
del mezzodì. Il clero delle provincie settentrionali d'Italia è meno
sensuale e meno ignorante del clero napoletano e siciliano, e della
moltitudine di frati che occupavano tutte quelle contrade; ma in
compenso esso è forse meno sincero. Obbediente ad alcune sommità
clericali, le quali sono in perenne ribellione contro il governo
italiano, e sempre intento a macchinare congiure contro il medesimo, il
clero delle nostre campagne dispone come gli piace de' suoi popolani, e
mentre finge tendenze liberali, mentre deplora di essere impotente a
fare il bene, si oppone copertamente a tutto ciò che potrebbe sollevare
il contadino dalla sua secolare ignoranza, e illuminarlo sui veri suoi
interessi, e lo mantiene in uno stato di stolida ostilità contro i
naturali suoi protettori.
I possidenti delle campagne dell'Italia settentrionale avrebbero cento
mezzi per combattere l'influenza del clero e per sostituirvi la loro. Ma
nulla si ottiene senza qualche sforzo e senza qualche fatica. Ora la
fatica è la cosa che più ripugna all'attuale generazione italiana. Le
terre più produttive, quelle che danno tuttora qualche valore alla
possidenza fondiaria, sono situate in quella parte che chiamasi la bassa
Lombardia, e che comprende il Lodigiano, il Pavese, il Cremasco, il
Piacentino, il basso Novarese e la Lomellina: paese tutto di pianura, e
spoglio di quelle attrattive di cui abbondano i paesi di montagna. Oltre
a ciò l'aria di quei fertilissimi luoghi è sovente impregnata di miasmi
palustri, e gli abitanti vi sono esposti a ricorrenti febbri
intermittenti, che degenerano talvolta in perniciose, e forniscono ai
possidenti di quelle terre un plausibile pretesto per non visitarli.
Tali poderi, che formano ora tutta la ricchezza effettiva dei signori
dell'Italia settentrionale, poderi assai più estesi di quelli situati
sulle sponde dei nostri laghi, o sui colli della Brianza o del
Varesotto, sono affittati ad una classe di cittadini che non esiste
forse altrove che in Lombardia ed in alcuni stati dell'America.
Parte della classe degli affittaiuoli della bassa Lombardia trae la sua
origine dalla classe dei contadini, ed ha tuttora comune con questi la
profonda ignoranza e un eccessivo amore del lucro.
Alcuni affittaiuoli emergono dalla moltitudine degli uomini di contado,
quando uno di essi, o più fortunato o più accorto o meno tenero di
coscienza de' suoi compagni, è riuscito a mettere insieme qualche
migliaio di lire. — Esso prende un piccolo podere in affitto, e vi si
stabilisce colla sua famiglia, incominciando una nuova esistenza. Ogni
legame di consanguineità o di amicizia cogli antichi suoi pari è da lui
spezzato. Da quel momento in poi il contadino diviene il renitente,
l'infedel servo dell'affittaiuolo; e questi assume il carattere di
tiranno volgare, brutale, e talvolta crudele.
Il contadino che riesce a salire in più elevata sfera e a prendere posto
tra gli affittaiuoli, deve necessariamente possedere qualche dote
naturale di cui sieno privi i compagni de' suoi primi anni. Queste doti
sono per lo più l'accortezza, la dissimulazione, l'avidità di lucro, ed
un certo istinto che lo strascina verso alcune speculazioni piuttosto
che verso certe altre. Convien pure ch'egli non sia nè trattenuto nè
incomodato da delicatezze o da scrupoli di coscienza, nè da pietosi
riguardi per le sofferenze de' suoi dipendenti, o pel danno ch'ei
cagiona altrui affine di giovare a sè medesimo.
Queste facoltà naturali non sono già quelle che formano e che
distinguono l'onesto uomo ed il cristiano; e le ricchezze, che vanno
cumulandosi nelle mani di siffatti uomini, sono e rimangono sterili pel
paese. A quelle facoltà, che meglio sarebbero chiamate vizi, si aggiunge
a poco a poco l'orgoglio e la vanità generale del successo; poi
l'ambizione di ulteriori successi ed un odio acerbissimo contro tutto
ciò che gli si oppone, o che giova ad altrui piuttosto che a sè stesso.
Avvezzo dalla più tenera infanzia alle privazioni dell'estrema povertà,
il contadino arricchito tratta col massimo disprezzo i lamenti che gli
fanno i contadini rimasti poveri; ma ritiene di avere acquistato il
diritto di compensare a sè medesimo le sofferenze antiche colla più
ampia soddisfazione di tutti gli istinti materiali. Siccome però le
delicatezze, e le ricercatezze del lusso elegante, sono ad esso
sconosciute, gli istinti ch'ei vuol soddisfatti sono limitati al
mangiare, al bere, al fumare, all'annusare tabacco. I contadini che da
esso dipendono non hanno agli occhi suoi diritto alcuno di voler
migliorata la loro sorte. Perchè non seguono essi il suo esempio? Perchè
non seppero arricchirsi? Il povero deve patire; tale è la moralità del
contadino arricchito.
Un'esistenza così spoglia di aspirazioni elevate, di tenere affezioni e
di onesti propositi, deve necessariamente corrompere e degradare la
condizione morale di chi se ne accontenta; ed è cosa veramente
deplorabile che la sola industria in cui l'italiano abbia progredito con
qualche successo anche sotto il dominio straniero, la sola industria che
produce qualche vantaggio al paese, sia in parte almeno affidata ad una
classe d'uomini sì poco degna della sua missione. Nè v'ha speranza che
quel senso di religiosa fede, che regna generalmente negli animi dei
poveri abitanti delle campagne italiane e li mantiene entro certi
limiti, possa produrre simili effetti anco sui contadini arricchiti.
Questi ultimi si credono superiori alla semplice legge di Cristo, e si
assicurano della tolleranza e della condiscendenza del loro curato con
qualche dono o qualche invito alla loro mensa.
Ma se il contadino arricchito è il naturale nemico del contadino rimasto
povero, cotale inimicizia non è la sola che turbi ed avveleni l'animo
del primo; anzi è questa notevolmente superata dal timore e dall'odio
che l'affittaiuolo nutre verso il possidente del fondo da lui coltivato,
o come esso lo chiama, verso il padrone. Il povero contadino è
considerato dall'affittaiuolo come uno strumento, di cui si vale per
arricchirsi, ed al quale concederà qualche frazione delle ricchezze
acquistate per mantenerlo in istato di servirlo con eguale efficacia ed
alacrità. Ma il così detto padrone è il possessore delle ricchezze da
lui ambite, e di cui esso pretende spogliarlo. Al cospetto del padrone
il contadino arricchito si maschera e simula principii e sentimenti di
cui ride nel cuor suo. Col povero contadino il ricco non si cura di
sembrare diverso dal vero; e questa libertà di cui gode col povero,
posta a confronto della dissimulazione che gli è forza usare verso il
ricco, fa sì che esso abborre l'ultimo assai più del primo. Questo è
d'altronde compiutamente in sua balìa, mentre il padrone può
interrompere ad ogni momento il corso de' suoi guadagni. Dunque il
contadino arricchito teme il padrone, ed è temuto dal povero; per cui
ella è cosa naturalissima che il padrone sia l'oggetto dell'odio più
acerbo di cui è capace il cuore dell'affittaiuolo.
Non dovrebbe essere necessario di notare, che codesta pittura del
carattere di alcuni fra i nostri ricchi agricoltori non va applicata ad
ognuno di essi. Non solo v'hanno delle eccezioni, ma ve n'hanno molte;
ed eccezioni sarebbero forse meglio dette quei primi. Gli agricoltori
che prendono in affitto dei grossi tenimenti, non sono contadini
arricchiti, e non pochi fra questi appartengono a famiglie benestanti e
civili, poichè debbono necessariamente essere forniti di grossi capitali
per procacciarsi le così dette scorte del fondo, ossia le mandre, e il
bestiame da tiro e da soma, oltre il denaro occorrente per
l'anticipazione di un anno d'affitto, e per far fronte alle eventualità
di uno o di più falliti raccolti. Questi agricoltori ebbero naturalmente
un'educazione non inferiore a quella dei cittadini che si dedicano alle
professioni dell'ingegnere, dell'avvocato e del medico; e di tale
educazione le leggi ed i principii morali di onestà e di onore formano
parte integrante. Questi non ambiscono disonesti guadagni, e per ciò non
considerano il padrone del fondo come il nemico loro. Tali eccezioni
però non sono numerose abbastanza, perchè pochi sono gli uomini, che
cresciuti fra la gente colta, e le agiatezze della vita civile, scelgano
di rinunziare a queste e a quelle, per condurre una vita faticosa,
scevra d'ogni dolcezza civile, fra gente rozza, ignorante, e più
propensa al male che al bene. Alcuni, spinti da circostanze speciali o
da inclinazioni possenti, abbracciano la professione dell'affittaiuolo.
Avviene allora non di rado una trasformazione, che vale sempre più a
provare come la classe sociale degli affittaiuoli non sia in armonia coi
bisogni e coi progressi della nostra vita civile. Accade sovente che
l'uomo colto, educato per esser membro di una società colta, trovandosi
tutto ad un tratto fuori di essa, lasciato digiuno di ogni alimento
intellettuale, costretto ad applicarsi esclusivamente alla realizzazione
del maggior lucro che ottenere ei possa, non va guari che si vede
rapidamente cadere negli andamenti dei rozzi suoi compagni, cercarsi
delle distrazioni nei piaceri più volgari, e dimenticare a poco a poco
l'abito più elevato e spirituale de' suoi primi anni.
Altre eccezioni e più numerose s'incontrano in una categoria di ricchi
agricoltori, degni dell'universale rispetto. Evvi delle famiglie di
affittaiuoli che rimasero tali per più e più generazioni, il padre
morente affidando al primogenito l'incarico di proteggere e di reggere
l'orbata famiglia, questi assumendo l'autorità paterna, e i minori
fratelli sottomettendosi di buon animo alla sua autorità.
Codeste famiglie si sono serbate quasi intatte per più generazioni; ed
ebbero l'origine al tempo stesso in cui la stretta osservanza della
morale cristiana e cattolica, e il vivere al di fuori del turbine
cittadino una vita operosa e tranquilla, bastava a preservarle da ogni
corruzione di costumi e di principii.
Esse rimangono tuttora come monumenti di una età che lasciammo lungi
dietro di noi; le rispettiamo perchè rispettabili; non temiamo da esse
raggiri, nè perfidie, nè atti crudeli verso i poveri giornalieri; ma
sappiamo che la esistenza loro è oramai vicina al suo termine. Tali
esistenze patriarcali non ponno riprodursi nell'età nostra. Nessuna
campagna, per remota che sia, può difendersi ormai dalla invasione della
vita cittadina. Altre volte la società progrediva a lentissimi passi, e
le generazioni si sviluppavano a seconda della educazione ricevuta nella
infanzia, quando questa educazione fosse onesta e comprendesse gli
acquisti già compiuti della civiltà. Il padre poteva servire di esempio
e di modello al figlio. Oggi tutto è cangiato: l'educazione anche la più
completa non basta alla vita naturale dell'uomo, se questi non la
perpetua, ma commette l'errore di crederla sufficiente e di chiuderla.
I progressi delle scienze a cui si appoggia la civiltà sono ora così
rapidi, incessanti ed infiniti, che la vita di un uomo basta appena a
seguirli e a registrarli. L'età del riposo era aspettata dai nostri
padri, e giungeva per essi colla vecchiaia; oggi chi vuol riposare deve
isolarsi assolutamente dalla società, chiudere gli occhi, turarsi le
orecchie, ed ignorare le sorti de' suoi simili, perchè in tutto il
consorzio umano non v'ha più un angolo dedicato al riposo. Siamo entrati
nella sfera del progresso continuo, del moto perpetuo e sempre più
rapido. — Colui che dopo un decenne riposo rientrasse nella società
umana, troverebbe ogni cosa così cangiata, che gli sembrerebbe di stare
fra gente che non ha comune con lui neppure la origine.
L'era delle famiglie e dei costumi patriarcali è chiusa. Me ne duole
perchè erano monumenti di moralità, di doveroso affetto, e di pietà
sincera. Ma la società, che tende a' suoi fini, ha bisogno di altri
strumenti. Non mi estenderò più lungamente a parlare di questa categoria
di ricchi agricoltori italiani, sebbene sia oggidì non poco numerosa,
perchè la credo destinata a scomparire in breve dal nostro suolo. Non
vedo per essa nè posto, nè missione nella moderna società industriale.
Un problema che tutti i nostri ricchi agricoltori sono chiamati a
risolvere, e che dà loro molto da pensare, si è quello della educazione
dei figli.
Alcuni fra i padri di famiglia vogliono arricchire i figli del bene di
una educazione cittadina, e si preparano dei successori dottori in legge
o in medicina, che hanno imparato molte cose, ma nessuna di quelle a cui
sono destinati ad attendere. Altri padri al contrario si sdegnano al
solo pensiero che i figli loro abbiano da sapere ciò ch'essi ignorano, e
trasmettono loro esattamente la somma di cognizioni che ricevettero dai
padri loro.
Codeste educazioni hanno i peggiori risultati. L'ignoranza ch'era
pressochè innocua nei padri, perchè posti in un'atmosfera in armonia con
quella, diviene deplorabile e direi quasi mostruosa nel figlio, quando
esso trovasi in contatto con cose e con individui di troppo a lui
superiori. Ogni passo ch'esso muove, ogni via ch'esso tenta, lo rende
l'oggetto del pubblico scherno. Esso non sa difendere sè medesimo, nè i
propri interessi, se non coll'astuzia, colla bugia; e non potendo
misurare la propria inferiorità, nè giudicare accuratamente il valore
delle sue risorse, le adopera tutte, persuaso che danneggiando altrui,
giova a sè stesso.
Mi sono trattenuta così a lungo sulla classe dei nostri ricchi
agricoltori, perchè essa forma realmente uno degli strumenti principali
della nazionale prosperità; l'industria agricola essendo la sola che
possa sostenere il confronto colle industrie straniere, e trovandosi
essa assolutamente abbandonata alla classe dei ricchi agricoltori. Non è
superfluo che il paese, e la classe dei possidenti in particolare,
sappia su chi riposa la ricchezza della nazione.
Quando la nuova legge comunale italiana fu promulgata ed attivata nelle
nostre campagne, alcuni dei nostri affittaiuoli si accinsero ad una
ambiziosa intrapresa. Un certo numero di essi concepì il pensiero di
impadronirsi delle autorità che lo Statuto concedeva alle classi
popolari rurali. In molte località i voti dei contadini furono o
comperati o strappati con minaccie, ed andarono a favorire
l'affittaiuolo più ardito, più ambizioso del luogo. Volevano gli
affittaiuoli occupare tutti i sindacati, riempire i consigli comunali di
creature ad essi ligie e divote, imporre a loro capriccio i comuni,
impedire le riforme e i progressi della pubblica istruzione, la
costruzione di nuove strade che favoriscono le relazioni fra le varie
provincie italiane, farsi eleggere deputati, nutrire ed invigorire il
goffo malcontento dei contadini, mantenendoli oppressi sotto il triplice
flagello della miseria, della ignoranza e della superstizione, e
preparare il ritorno della dominazione straniera, ch'essi desiderano,
non per altro se non perchè considerano gli austriaci come i nemici
della classe dei possidenti.
Queste avare, ambiziose, e poco oneste mire non ebbero sin qui effetto
per varie ragioni. In qualche località furono tacitamente combattute da
alcuni uomini dabbene, che svelarono al popolo le trame ordite, e li
protessero contro le minacciate conseguenze della loro ribellione. Ma
nel maggior numero dei casi le congiure andarono a vuoto, perchè
concepite senza prudenza nè abilità di sorta. Il più vivo desiderio
degli agricoltori ambiziosi era il farsi eleggere deputati. Ciò
credevano di conseguire trascinando al collegio elettorale la
maggioranza dei voti del loro comune, maggioranza che si trasformava in
una impercettibile minoranza quando trovavasi a fronte dei votanti
dell'intero collegio.
Il perno dell'ambizione del nostro contadino arricchito essendo appunto
la deputazione, lo scacco toccatogli nelle elezioni gli tarpò le ali. Ma
questo sgomento non si perpetuerà; ed il ricco agricoltore, risoluto di
rappresentare al parlamento gli interessi agricoli, tesserà nuove trame
per rendersi gradito agli elettori. Se un certo numero di codesti
ambiziosi si fa strada nel parlamento, gli interessi agricoli della
nazione (interessi interamente estranei ai possidenti fondiari) verranno
presentati sotto falsi colori al pubblico e all'assemblea; i pretesi
rappresentanti di questi interessi acquisteranno una notevole influenza
sui loro colleghi, perchè saranno da essi considerati a priori come i
soli che bene li conoscano, e che abbiano ragione di volerli protetti.
Nessuno sognerà che l'agricoltore voglia arricchirsi rovinando
l'agricoltura e il paese; e ciò non accadrebbe diffatto, se la ignoranza
e la malignità del contadino arricchito non fossero del pari
grandissime, e se la noncuranza dei possidenti non le uguagliasse.
Importa assai che mentre le cose sono ancora in questo stato, i
possidenti prendano cognizione della condizione delle loro terre e
dell'agricoltura, dei trattamenti a cui soggiacciono i loro contadini,
delle conquiste operate nelle scienze naturali dalle vicine nazioni e
dei loro effetti sull'agricoltura, delle leggi economiche e finanziarie,
alle quali deve uniformarsi una nazione che voglia prosperare e non
sentirsi inferiore alle altre. In una parola il possidente deve assumere
per conto proprio quella parte della società agricola che l'agricoltore
tenta di usurpare per fini suoi privati e dannosi. Perchè permettere che
fra il contadino ed il signore, fra il popolo e la classe dei cittadini
colti, direi volontieri tra il padre e il figlio, sorga un intruso, il
cui intento è di seminar zizzania fra questo e quello, di presentare
l'uno all'altro sotto falsi e calunniosi colori, per rovinare il ricco e
per dominare il povero, e ciò perchè vittime anch'essi della più
profonda ignoranza e delle perverse passioni generate da questa, credono
(ed a torto il credono), di potersi innalzare sulle universali rovine?
Facciamo tutti ed ognuno di noi il nostro dovere. Ricordiamoci che in un
paese libero, governato dalla nazione stessa per mezzo de' suoi
rappresentanti, ogni uomo, per grande o per infima che sia la condizione
sua propria, è un servitore del pubblico, e non v'ha colpa o sciagura
nazionale di cui non debba sentire anch'esso rimorso e danno.
L'oppressione, sotto cui abbiamo troppo a lungo trascinata la vita, ne
ha insegnato a considerare il riposo come il degno oggetto delle nostre
legittime aspirazioni.
Fatale errore è quello che trova nella nostra costituzione fisica, come
popoli meridionali, un deplorabile ausiliario. Nessuno ha il diritto di
riposare, mentre la nazione sta componendosi ed ha bisogno di aiuto. Gli
infingardi sogliono giustificare la infingardaggine loro dicendo, che
v'hanno braccia sufficienti per compiere le opere incominciate, e per
portare il peso delle pubbliche faccende. Tale asserzione è falsa. Il
cittadino che non deve alla patria una parte delle sue facoltà, non può
essere che un uomo privo affatto di facoltà; ma colui che è capace di
operare qualche bene, non può rifiutare alla sua patria una parte de'
suoi talenti, della sua operosità, delle sue forze. Nè la nazione, nè il
governo non sono esseri distinti e divisi dal singolo cittadino, chè il
cittadino forma parte integrante dell'una e dell'altro. I governi
despotici hanno un'esistenza indipendente da quella della nazione
governata, e per conseguenza da quella degli individui di cui questa si
compone. Vi è quasi sempre un latente antagonismo fra il governo
despotico e la nazione governata dispoticamente; ma tale antagonismo non
si manifesta se non per accessi intermittenti, e negli intervalli di
calma l'osservatore superficiale può figurarsi che il governo e la
nazione altra relazione non abbiano oltre quella del padrone col servo.
— Ma in un paese libero, che si governa da sè medesimo, mediante i suoi
rappresentanti, non vi è atto governativo, non vi è vicenda nazionale a
cui un cittadino possa rimanere estraneo ed indifferente. Ognuno porta
la parte sua della responsabilità delle risoluzioni governative, siccome
ognuno divide e risente le conseguenze delle sciagure nazionali e dei
nazionali vantaggi.
Questo è quello che molti fra gli italiani ignorano, o fingono
d'ignorare, per non essere costretti dalla loro stessa coscienza ad
abbandonare le dolcezze dell'ozio ed arruolarsi fra gli operosi.
Pur troppo v'hanno fra noi molti giovani nati da illustri e cospicue
famiglie, educati a tutte le eleganti delicatezze della vita civile, che
menano vanto della loro inerzia e della loro indifferenza per le
pubbliche cose, che si dichiarano spettatori neutri dello svolgimento
nazionale, e credono di dar prova della superiore natura dell'ingegno
loro, criticando e deridendo tutto ciò che nel paese e dal paese si
opera. Non sanno essi forse che deridendo l'Italia e chi la rappresenta,
deridono sè stessi? E come possono essere rispettati dallo straniero, se
gli insegnano a sprezzare l'Italia? Se ad essi sembra che i
rappresentanti del paese nostro non lo rappresentano degnamente, lo
dichiarino schiettamente, ed espongano ad un tempo come dovrebbe essere
rappresentato, si dispongano a rappresentarlo, e facciano ogni sforzo
per mostrarsi più saggi e più benefici di chi li precedeva. Ma starsene
colle mani alla cintola, pavoneggiandosi della propria inerzia, e
contenti di versare biasimo, sospetto e ridicolo sopra coloro che alla
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