Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI - 06

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capaci di significarti degnamente: se potessi appormi la carta sul
cuore, e improntarla dei suoi palpiti, forse aprirei alle genti
concetti non mai più uditi: però questo nè a me, nè ad altri fu
concesso, e le mie immagini è forza che si rivelino incomplete, vaghe,
e confuse; onde se la fantasia di chi legge non supplisce al difetto,
io dispero farmi comprendere. Oh da quante catene è stretta quaggiù
l'anima immortale!
Bellezza, Amore, voi eravate ai fianchi di Dio nel giorno della
creazione; egli vi lasciò suoi primi vicarii sopra la terra. La
bruttezza e l'odio vennero più tardi, faville scoppiate insieme dal
primo fulmine che Dio avventò contro l'uomo, quando lo condannava allo
affanno e alla morte. Il culto della Bellezza e dello Amore riconduce
la nostra schiatta diseredata alla sua origine divina.
O Francesco Petrarca, tu che per prova intendesti amore; dopo tanti
dolci concetti, con quale amaro liquore ti bagnò il labbro Calliope
quando dettasti questi versi ingiocondi:
_Ei nacque d'ozio, e di lascivia umana,
Nudrito di pensier dolci e soavi,
Fatto signore e dio da gente vana?_[2]
E senza amore dove sarebbe adesso il tuo nome? L'_Africa_ certo, e il
dotto favellìo delle tue epistole non farebbero cercare il tuo volume.
Tu saresti, come tanti altri scrittori, posto a modo di medaglia
antica dentro lo scaffale, per informare chi avesse voglia di saperlo,
che tu vivesti un dì. Se amore nasce da lascivia, o come avviene che
_nel muovere degli occhi onesti e tardi_ della tua donna tu vedevi il
_dolce lume, che ti mostrava la via che al ciel conduce?_ Se in cuore
umano _fuoco di amore poco dura dove occhio e tatto spesso nol
raccenda_, o come, dopo la morte, ti compariva Laura tutta accesa nei
raggi di sua stella, e tu le muovevi pietose parole, ed ella or sì, or
no pareva rispondesse; finchè, risensando dal mesto vaneggiare, dicevi
alla tua mente:
_..... tu se' ingannata;
Sai che in mille trecentoquarantotto
Il dì sesto d'aprile, in l'ora prima,
Del corpo uscìo quell'anima beata?_[3]
Ah! se la terra avesse sepolto a un punto la _bella vesta delle
membra_ di Laura e la memoria del suo amore, i tuoi canti suonerebbero
esercitazioni di gaia scienza, eco delle canzoni dei Trovatori, gemiti
mentiti di cuore bugiardo; e se così fosse, io ti compiangerei perchè
avresti tradito i posteri, e te.
Beatrice stava seduta sopra un verone del palazzo Cènci, che guardava
il giardino: in grembo ella teneva un fanciullo, che dagli occhi, dai
capelli, da tutte le sembianze appariva esserle fratello: ella gli
accarezzava amorosa i capelli, e di tratto in tratto gli baciava la
fronte. Il fanciullo riposa il suo capo sul seno della sorella, e
affissa in lei le pupille immote, ma senza intenzione, a guisa di
persona assorta nel pensiero di qualche cosa fuori di questo mondo. La
infermità aveva appassito il fiore della giovanezza: la sua pelle era
tenue, e candida di un bianco pallido e dilicato così, che i raggi del
sole cadente gli tralucevano in vermiglio traverso le orecchia e le
dita: talora sospirava, più spesso schiudeva la bocca con isbadiglio
convulso: pareva un angiolo in pena. Beatrice sconsolata gli disse:
--A che pensi, mio diletto Virgilio?
--Penso, che sarebbe pure stata la grande carità non farci mai venire
al mondo!
--Ah! Virgilio...
--E poichè a questo non trovo più rimedio, il meglio sarà uscirne
presto.
--Uscirne! E perchè?
--E perchè restarci? Il mio cuore qui dentro è morto da tempo; e
quando il cuore è morto, oh come pesa che gli sopravviva il corpo!
--Tu, si può dire, ti affacci appena, fratello, alla vita, e già
favelli parole disperate; ciò non istà bene: vivi e rallegrati, perchè
non sai quali rose educhi per te la fortuna.
--Rose! fortuna! Adesso la morte coglie i fiori per la ghirlanda della
mia bara. La fortuna mi abbandonò quel giorno che perdemmo la madre...
--Ma noi non ci possiamo considerare orfani affatto: forse l'ottima
signora Lucrezia non ci mostra viscere di madre?
--Sì, ma non è nostra madre.
--E poi non hai anche me, che ti amo tanto?
--Sì, sì, buona sorella, rispose il fanciullo gittandole le braccia al
collo e piangendo dirotto;--ma nè anche tu sei la mamma mia.
--Ed oltre a me, ti mancano forse fratelli? Non hai tu padre?
--Chi padre?
Beatrice, atterrita dallo improvviso rimescolarsi del fanciullo a
cotesta parola, si tacque. Solo, dopo lungo silenzio, con voce
esitante soggiunse:
--Francesco Cènci non è per avventura tuo padre... e mio?
Il fanciullo abbassò il capo, chiuse gli occhi, fece delle braccia al
petto croce, e con suono velato rispose:
--Sorella, guardami su la fronte alla radice dei capelli; vedi la
cicatrice che vi porto?--La vedi?--Sai tu chi mi ha ferito?--Io non
tel dissi fin qui; ma ora, che mi sento vicino a morire, io te lo
posso confessare. Ripensando fra me come Francesco Cènci mi tenesse in
dispregio, e sovente mi guardasse di traverso, nè a me parendo di
meritarlo, un giorno, fattomi cuore, gli caddi davanti, e tentai
prendergli la mano per recarmela alla bocca. Egli gridò: «va via,
bastardo!» e mi diè così forte un pugno nel petto, che mi spinse giù a
precipizio a percuotere col capo nello angolo dello armario, ch'ei
tiene nel suo studio.--Francesco Cènci mi vide svenuto, e tutto
intriso di sangue;--mi vide, e non mi rilevò.--Di qui la ferita; di
qui la infermità, che mi consuma le viscere...
Beatrice rabbrividì, nè potè formare parola. Il fanciullo con passione
crescente scuoprendo dalla manica un braccio scarno, e sporgendolo
verso la sorella:
--Guarda, aggiunse, la traccia di questo morso. Sai tu chi me lo ha
fatto? Nerone; e senti come. Un giorno io colsi in giardino una bella
pesca, e dissi: andiamo ad offrirla al signor padre, che forse la
gradirà. In questo pensiero mi avvio alla sua stanza, apro l'uscio, e
vedo ch'ei legge. Timoroso di disturbarlo, mi accosto pian piano;
quando Nerone mi si avventa addosso e mi morde il braccio:--io
spasimava per dolore... mio padre rideva.
Il seno di Beatrice palpitava così, che parea volesse spezzarsi.
--E se Marzio non era, egli mi lasciava sbranare. Mira anche qui--e il
fanciullo si spartiva i capelli al sommo del capo--vedi questa
piazzetta? Manca una ciocca di capelli. Sai tu chi me gli ha
strappati? Il padre mio. Poco dopo il colpo percosso dentro l'armario,
col capo tuttora fasciato, preso dalla passione che mi affogava, mi
presentai risoluto dal padre, e gli dissi: «Padre mio, in che cosa vi
offesi? perchè mi odiate voi? Beneditemi in nome di Dio, benedite il
figliuolo vostro, che vi ama». Egli, avvoltasi prima una ciocca dei
miei capelli alle dita, mi rispose così;--senti bene, proprio così:
«Se tu avessi il capo di zolfo, e le mie parole fossero di fuoco, io
ti benedirei per bruciarti: va, vipera, perchè io ti odio tu devi
odiarmi; io non so che cosa farmi del tuo amore, bastardo!» E tirò
tanto forte, che mi parve tutta la pelle del cranio si distaccasse con
immenso dolore: la ciocca dei capelli gli rimase in mano; ed
infuriando, lo spietato, nella ira, come se egli soffrisse, non io, il
dolore, soggiunse: «Io maledico te e i tuoi figliuoli, se mai arrivi a
procrearne; possiate tutti vivere di miseria, nudrirvi di delitto, e
morire di patibolo».--Ora, Beatrice, fammi grazia di dirmi un po' come
posso desiderare di vivere io? Mia madre mi ha lasciato; mio padre mi
ha maledetto: non è egli dunque meglio, che io muoia? Non dico il
vero, sorella?--E qui il fanciullo singhiozzava convulso.
Cotesti dolori non potevano consolarsi. Beatrice lo sentì, e si
tacque; la sua fronte si coperse di sudore, e le gocce succedendosi
cadevano spesse come le lacrime dagli occhi dolenti. Poichè fu
trascorso spazio lungo di tempo in silenzio affannoso, Beatrice,
comprimendo la passione che le traboccava dall'anima, si provò a
confortarlo con voce mansueta:
--Quietati, Virgilio, tu avrai colto il mal tempo...
--No, egli era tranquillo...
--Forse turbato da qualche cura segreta...
--No, egli era lieto;--dopo che il cane mi ebbe morso egli si pose a
scherzare con lui... col cane, che stette per isbranargli il
figliuolo!--Adesso anch'io non lo amo più... sai? Quando lo vedo
m'entra il tremito nelle vene, e la sua voce mi dà il dolore di capo.
Spesso con gli occhi della mente io vedo non lontano un luogo oscuro,
dond'esce rumore di bestemmie e d'imprecazioni scellerate; e una voce
irrequieta mi tintinna nelle orecchie: «Cotesta è la contrada
dell'odio, tu sei aspettato colà». Io non vi voglio andare; io non
voglio odiare persona... molto meno mio padre... piuttosto voglio
morire.
Beatrice, tramutata nella faccia, si sentiva venir meno; ma con la
forte volontà domando la natura, si vinse: levò gli occhi al cielo, si
sforzò favellare, e non potè;--invece di parola, dalla gola attenuata
mise un singulto. Soprastette alquanto, e poi con voce, che studiò
rendere soave, disse:
--Virgilio mio, non disperiamo; ma supplichiamo l'Eterno onde voglia
ispirare sensi più mansueti per noi nella mente del nostro genitore.
--O Beatrice! E pensi tu, che io non lo abbia supplicato? Oh quante
volte l'ho fatto! La notte precedente al giorno in cui Francesco Cènci
respingendomi da se mi ruppe la testa, io mi levai cheto da letto in
camicia, scalzo, e me ne andai giù in cappella; dove, inginocchiato
davanti la reliquia di santo Felice protettore della nostra famiglia,
supplicai con tutto il fervore perchè l'anima del padre ammollisse, e
lo persuadesse a ricambiare con un poco di amore lo svisceratissimo
bene che gli portavamo noi. Vedi eh! come mi esaudirono i santi!
E trattenendosi alquanto sopra di se, poco dopo riprese:
--Ma un'altra preghiera conosco avermi esaudito Dio, e fu quando mi
rilevai da letto, e per la seconda volta andai a prostrarmi davanti al
Crocifisso miracoloso, e: _Abbi misericordia_, dissi, _o divino
Redentore, di me, e tu o mi dona lo affetto del padre, o richiamami
alla tua pace_. A queste parole Gesù piegò il capo, come per
rispondermi: _Sarai esaudito..._
--Ci esaudirà tutti, inspirando benignità nel cuore del padre...
--Io so di certo che fu esaudita la seconda parte della preghiera, e
non la prima; imperciocchè, quando mi ricondussi a giacere, una voce
distinta mi chiamò: «Virgilio! Virgilio!» Mi alzai, apersi la porta, e
non vidi persona; tornai a coricarmi, e la voce di nuovo gridò:
«Virgilio! Virgilio!» Per questa volta io non mi era ingannato di
certo, e risposi: «chi mi chiama?» E la voce: «Io ti chiamo dal
paradiso». Eccomi pronto, mio Dio»; ma la voce: «No, la tua ora non è
venuta ancora, ma si avvicina».
--Coteste sono immaginazioni che dà la febbre; su, via, non lasciarti
rodere dalla tristezza; io ti voglio veder lieto...
--Perchè le chiami immaginazioni? Forse non si legge nella santa
scrittura, che il Signore fece sentire la sua voce a Samuele? Anche ieri
notte, tenendo gli occhi aperti, vidi a un tratto empirsi la stanza di
luce, ed entrare una bellissima gentildonna vestita di celeste, tutta
ingemmata, la quale essendosi fatta accosto al letto si curvò, pose il
suo volto accanto al mio, mi baciò in fronte, e sparve: le sue labbra
erano ghiacciate, e il freddo mi strinse il cervello. Vuoi sapere,
Beatrice, a cui rassomigliava la gentildonna?--Rassomigliava al ritratto
della signora Madre, che sta appeso in sala grande. Tutto mi parla di
morte. Forse non sento che io manco a poco a poco, come candela giunta
al verde? La vita mi fugge da tutti i pori. Guarda queste mani scarne, e
bianche al pari del marmo; guarda queste unghie colore di viola;
guardami qui in mezzo della fronte, e vedi il segno espresso ove ha
deposto il suo bacio la morte.
E più non potè dire.
Un uccello in questo momento venne a riposare le stanche ale sopra il
parapetto della terrazza: volgeva il capo in qua e in là, come
sospettoso d'incontrare molestia; ma presto assicurato, si pose a
saltellare--a beccare; finalmente parve fissasse il fanciullo; poi
sciolse un dolcissimo canto, aperse le penne, e fuggi via.
--Oh, esclamava Virgilio, potess'io seguitarlo! Forse, chi sa!, egli
conosce suo padre, e sua madre dall'aperta frasca tende lo sguardo
ansiosa del suo ritorno. O madre mia! Beatrice, dimmi, dov'è nostra
madre adesso?...
--Nostra madre?--È lassù in paradiso.
--Lo so, la sua anima alberga nella patria dei giusti; ma io vorrei
conoscere in qual parte riposino le sue ossa. Sapresti tu indicarmelo,
Beatrice? Il Conte Cènci non volle permettere mai, che mi conducessero
a visitare il sepolcro di nostra madre...
Beatrice, studiando deviare il doloroso colloquio in obbietti alquanto
meno tristi, si levò pronta per appagare il desiderio del fanciullo;
e, postolo a sedere sul parapetto della terrazza, si prostese fuori
col busto.
Il pianeta del giorno stava per tramontare, e mandava i mesti raggi
dello addio a questa terra, che, sebbene infelice, gli è sì cara. Ogni
digradare della luce presentava una nuova maraviglia: colori
soavemente più languidi, come lo spirare dei suoni per la superficie
delle acque. Le vette dei campanili, le cime dei monti, le nuvole
lontane pareva si affaticassero a ritenere un palpito di raggio, in
quella guisa stessa che i cari parenti, da balcone da loggia o da
colle, sventolano al pellegrino che si allontana un panno bianco,
finchè la sua forma non si confonda con la bruma della sera... Oh Dio!
Egli è presso a sparire; gli occhi della madre, offuscati dalle
lacrime, non lo distinguono più; ella se gli asciuga col velo per
rimirarlo ancora:--adesso ella li tende più alacri che mai... ahimè!
il suo figliuolo è sparito:--quando lo rivedrà? Voci misteriose
mormoravano pel cielo e per la terra: dalle piante e dalle acque
uscivano sussurri di gemiti segreti, eco di quelli che si diffusero
lungo le marine alla morte di Cristo, e piangevano: _Il gran Pane è
morto!_[4]
Questa terra, anticamente mesta e vocale più di ogni altra, rivela il
dolore del mondo al dileguarsi del sole. Nati gemelli nel giorno della
creazione, essi spireranno insieme. Comecchè la terra sappia che il
sole tornerà domane a portarle luce e calore, pure ella conosce
ugualmente, che i giorni dalla mano del tempo cadono irrevocabili
nello abisso della Eternità. Molto certamente hanno vissuto insieme
prima che l'uomo nascesse, e molto vivranno ancora dopo che la nostra
razza sarà scomparsa; passeranno secoli e secoli, avanti che si
rompano sfasciati a rovinare in corsa disordinata per le miriadi dei
mondi superstiti; ma ogni secolo come ogni minuto si avvicinano al
punto, dove il Creatore per ogni cosa creata ha scritto: _basta_. Se
l'uomo pensasse che questi eccelsi luminari, che queste belle luci di
amore, portento delle notti serene, hanno a chiudere le palpebre nella
morte; che tutto, anche le rocce di granito, ossatura della terra, ha
da sformarsi... Se l'uomo, dico, a queste cose pensasse... atomo
infelice balestrato dall'utero della donna nel seno della morte,
tormenterebbe egli per essere tormentato?--O grano di sabbia maligno!
tu ardisci perfino avventarti dentro gli occhi di Dio, e farli
lacrimare di spasimo...--
Ma intanto questa bella e magnifica natura non può rimanere lungamente
desolata; ed ecco non per anche il sole è scomparso da una parte dello
emisfero, che dall'altra si affaccia la luna.--Benvenuta, amica delle
anime afflitte; benvenuta, compagna dei nostri trionfi: anche vestiti
della tua luce si mostrano maestosi alle genti il Campidoglio e il
Colosseo; anche al lume dei tuoi raggi negli archi di Tito, di
Costantino, di Severo, e nella colonna Trajana si vedono le immagini
dei popoli vinti. Ahimè! Luna, che percorri frettolosa il cielo di
Roma, tu non vedrai più nemici vinti, se non iscolpiti sopra i
monumenti degli antichissimi capitani.
Nella notte, al chiarore di questa luna, quando Roma dorme più
profondo il sonno dal quale sarebbe misericordia che non si destasse
mai più, le larve dei famosi capitani scoperchiano le vetuste
sepolture, e vengono silenziose a visitare la terra donde dettarono
leggi ai re del mondo; la rupe, che seppero difendere; il luogo dove
Cammillo vide la spada di Brenno gittata su la bilancia per aggravare
il peso della nostra vergogna...: la vide, ma nessuno dei barbari
passò i monti a raccontarlo alla sua moglie. All'alba si dileguano
perchè odiano la vista dei viventi, e aborrono esser vedute
piangere!--È fama che sul fare del giorno, quando i morti rientrano
nelle antiche sepolture, si spanda lungo pei campi un gemito, che
lamenta così: «Grande fu la gloria, ma l'abiezione è senza misura
maggiore; e tu, o Re del mondo, e fino a quando?..»
La miseria di Roma vince la desolazione dei sepolcri. Beati i morti!
Perchè ti chiami Città eterna?--Oh! rammenta, che ai tempi della tua
antica religione tu credevi eterno anche il marito dell'Aurora.--Eterno,
ma caduco, Titone venne in tanto odio di se, che reputò grazia somma dei
Numi essere convertito nello stridulo animale, fastidio dei giorni di
estate: fu un lieto giorno per lui quando potè scambiare la sua
miserabile eternità con la vita di una cicala. Perchè ti chiamano Città
eterna?--La religione, a cui tu credi adesso, t'insegna come vestirono
Cristo con le insegne reali per vituperarlo più crudelmente. Dio nel suo
furore sembra ti abbia condannato, pur troppo, ad una eternità... ma è
quella del pianto.
Beatrice prostese il busto fuori del parapetto dicendo:
--Là, là oltre cotesti colli avvi una terra feconda, che la Madre
nostra portò in dote a Francesco Cènci: ivi è una chiesa dedicata ai
santi apostoli Pietro e Paolo. In cotesta chiesa, dentro un sepolcro
di marmo--a mano diritta di coloro che entrano--lungo la parete
giacciono le ossa della nostra madre benedetta.
E mentre, levato il braccio, additava il luogo acconsentendo con tutta
la persona all'atto, fortuna volle che dal seno le uscisse una lettera
e un medaglione, e cadessero giù nel giardino.
--Oh Dio, il mio segreto! urlò la giovane con grido straziante,
divampando in volto per la vergogna.
Francesco Cènci, appiattato dietro un bosco di lauri, da gran tempo
stavasi a contemplare coteste due creature fisso così, che pareva
volesse avvelenarle col guardo. Appena egli ebbe visto cadere il
foglio e il medaglione, si mosse frettoloso per prenderli; non tanto
presto però quanto lo spronava il desiderio, che la gamba offesa gli
arrecava impedimento. Beatrice lo scòrse costernata, e con suprema
smania ripetè due volte:
--Il mio segreto! il mio segreto! La mia vita a chi mi salva il
segreto!
Il fanciullo guardò lei, fattasi in volto del colore della morte,--e
guardò il vecchio;--quindi risoluto, e pieno di ardimento, con
disperato sforzo attaccandosi alle bozze sporgenti della terrazza,
discese nel giardino, e pronto come il baleno ebbe ricuperato il
foglio ed il ritratto.
--Vieni qua, urlava il vecchio rabbioso... vieni qua... portami
cotesta roba...
E poichè Virgilio, fingendo non lo sentire, prendeva la via per
tornarsene difilato a casa, il Conte imbestiando nel suo furore
muggiva:
--Vipera maladetta! Portami il foglio... e tosto... Se ti raggiungo,
ti strappo il cuore con le mie proprie mani.
Il fanciullo più, e più sempre affrettava il passo. Francesco, cieco
d'ira,
--Nerone!--grida--Qua, Nerone... su... addosso... e con ambedue le
--mani aizza il cane contro il figliuolo--addosso... addosso...
Il cane si slancia furiosamente, invano però; chè Virgilio quantunque
avesse già percorso buon tratto di via, pure, sembrandogli sentirsi le
zanne del mastino nelle vive carni, aveva messo le ali alle
piante:--non fuggiva, volava. Salì i gradini a due a due; e con
terribile anelito, estenuato di forze, giacque sul pavimento,
depositando ai piedi di Beatrice la lettera e il ritratto. La
fanciulla l'una e l'altro ripose precipitosa nel seno.
Poco dopo ecco il cane irrompere sopra la terrazza latrando: aveva gli
occhi di brace: esalava il fiato fumoso. Beatrice, improvvida a qual
partito appigliarsi, volge attorno lo sguardo, e scorge dentro una
nicchia un trofeo di armi antiche posto ad ornamento della loggia:
afferra una spada, e si pianta dinanzi al giacente fratello. Il
mastino feroce a testa bassa si caccia oltre per isbranarlo: la
fanciulla animosa, colto il destro, gli mena un colpo così potente,
che penetrandogli il petto gli fende il cuore. Il cane si rotola nel
proprio sangue, e traendo doloroso guaito spirò.
Sovrasta nuovo pericolo, e più grave. Francesco Cènci sopraggiunge
tempestando, con lo stile alla mano: balbuziente per furore, egli
grida:
--Dov'è la mala vipera? Morte di Dio! Chi mi ha ammazzato Nerone?...
Chi?
--Io.--
--Ebbene; anche tu... ma no, prima la vipera.--
E si china sul figliuolo per iscannarlo. Beatrice solleva la spada
insanguinata, e, puntatala contro il petto di Francesco Cènci, con
espressione impossibile a riferirsi dice:
--Padre... non ti accostare...
--Scellerata! Da parte; dico,--e si provava di arrivare il giacente.
Beatrice con voce tremendamente pacata ripetè:
--Padre, non ti accostare!
A cotesto suono, che conteneva a un punto una suprema preghiera ed una
suprema minaccia, Francesco Cènci si ristette a contemplarla.
Dov'è la vergine dal dolce sembiante? Gli occhi di Beatrice, dilatati
in guisa strana, pare che avventino fiamme: le narici aperte
sussultano: le labbra compresse, il seno palpitante, i capelli sciolti
le fremono dietro le spalle: la gamba sinistra ferma, e tesa in
avanti; diritto il corpo; il pugno manco chiuso, e la destra accosto
al fianco armata di spada con la punta in alto, in atto di ferire. Nè
pittore mai nè scultore varrebbero ad effigiare cotesto portentoso
simulacro, nè la parola lo può. La fanciulla appariva tale, da non
sostenerne la vista: paragonarla al cherubino branditore di spada, che
difendeva la porta dell'Eden dopo il peccato di Adamo, sarebbe dir
niente; perchè come fosse quel cherubino noi non sappiamo: ella era
quale si mostra anche oggi la vergine romana, quando rammenta che
nasce del sangue di Clelia. Francesco Cènci ne rimase percosso; si
pose estatico a contemplarla, lasciò calare la mano armata, gittò via
lo stile; sentì per un momento placarsi l'anima. Beatrice anch'essa
gittò lontano da se la spada. Il vecchio sporse verso di lei le
braccia aperte, esclamando teneramente:
--Sei pur bella fanciulla!... Oh! perchè non mi ami?...
--Io?--Vi amerò... e gli si avventò al collo.
Il padre e la figlia si strinsero in religioso abbracciamento.
Ma il bene durava nell'empio vecchio quanto un baleno. Egli provava
per un sentimento di umanità la paura stessa, che altri proverebbe per
un rimorso. A un tratto ecco apparire i segni del parossismo del
delitto: gli si corrugano gli occhi, le palpebre tremano di quel riso
sinistro che faceva abbrividire; le palpa i capelli, il collo le
stazzona e le spalle; baciolla e ribaciolla, e nello accostare la
bocca al suo orecchio vi sussurrò dentro una parola...
Beatrice declina la faccia livida; si scioglie dallo amplesso del
padre, si reca in collo il fratello giacente, e nel partirsi manda
contro Francesco Cènci uno sguardo lungo--un fulmine di
disprezzo--ch'ebbe potenza d'impietrire il sangue nelle vene a colui,
che non temeva uomini, nè Dio.
Egli rimase lungamente immobile, chiuso dentro un profondo pensiero:
colà nel suo spirito prese a imperversare una tremenda procella. Ma la
voce del male vinceva il muggito dell'uragano; la voce del bene
disperata era, e fuggitiva come quella del naufrago. Quali pensieri
gli si avvolsero nella mente? Di che cosa dubitò? Che cosa statuì? Chi
lo sa! Forse lo stesso Demonio, se si fosse affacciato a vedere lo
inferno dell'anima di Francesco Cènci, avrebbe volto altrove impaurito
la faccia. Però è da credersi, che in cotesta vertigine di maligni
partiti egli si appigliasse al peggiore; conciosiachè battendosi forte
della palma destra la fronte, digrignasse fra i denti:
«Or come va? Io, che presumerei comandare al giorno quando si affaccia
all'orizzonte: «addietro! splenderai quando te ne darò licenza...»
ecco io mi sento arrestare in mezzo del mio cammino da meno, che da un
filo di paglia, dalla volontà di una fanciulla. Ahi sciagurata! Il
vetro potrà egli resistere, sotto al martello del fabbro? Tutto ha
piegato fin qui nella stretta della mia mano di ferro; e tu pure
piegherai--o ti stritolerò ad un punto anima ed ossa.

NOTE
[1] _Ah! quella chioma
Che la delizia fea già degli Amori,
Che con le rosee dita all'aura spesso
Spargeanla, allor che Beatrice lieta
Nei più bei dì di sua bellezza, ai raggi
La apponeva del Sole, e lo vincea._
ANFOSSI, _Beatrice Cènci_.
[2] PETRARCA, _Trionfo d'Amore, C. I._
[3] Idem, _Rime in morte di Madonna Laura. Son. 63._
[4] Il testo allude ad un fatto narrato da parecchi scrittori
dell'antichità. Intorno alla fede ch'ei merita lasciamo che ogni
uomo leggendo ne giudichi. La verità è, che Tiberio intendeva
riporre Gesù Cristo fra li Dei, e ne mosse proposta in senato; e
fu ventura che non ce lo volessero. Intorno al fatto lo
riporteremo tal come lo racconta PLUTARCO, nell'opuscolo--degli
Oracoli già cessati:--«Trovandosi il vascello del pilota _Jamo_
presso alcune isole del mare Egèo, improvvisamente cessò il vento.
Tutte le persone della nave erano ben deste e quasi tutte se la
passavano bevendo insieme, allorchè tutto ad un tratto udirono una
voce, che veniva dalle isole, e chiamava _Jamo_. Questi si lasciò
due volle chiamare senza rispondere, ma alla terza finalmente non
potè più resistere. Quella voce gli comandò, che appena foss'egli
arrivato ad un certo luogo dovesse ad alta voce gridare, che _il
gran Pane era morto_. Non vi fu alcuno che non rimanesse colto
dallo spavento. Stavasi deliberando se _Jamo_ dovesse obbedire; ma
egli stesso conchiuse, che allorquando fossero giunti al luogo
indicato, se eravi vento bastante per proseguire il cammino non
era necessario dir nulla; ma che se fossero stati ivi trattenuti
da troppa calma, era d'uopo eseguire l'ordine ricevuto. Non mancò
infatti di sopraggiungere la calma nell'accennato luogo: ond'egli
tostamente si diede a gridare ad alta voce esser morto il _gran
Pane_. Appena ebbe terminato di parlare, da tutte le parti
udironsi gemiti e pianti come di un gran numero di persone da tal
nuova sorprese, ed afflitte. Tutti coloro ch'erano in nave furono
testimoni di tale avventura: a poco a poco se ne sparsero le voci
fino a Roma; e avendo lo imperatore _Tiberio_ voluto vedere _Jamo_
in persona, unì alcuni dotti per apprendere da loro chi fosse.»...
Che poi il _gran Pane_ fosse Gesù Cristo, vedilo in BOCCACCIO,
_Genealogia degli Dei_, là dove parla del dio Pane.


CAPITOLO VII.
LA CHIESA DI SAN TOMMASO.
.....E Belzebub in mezzo.
PETRARCA, _Sonetti_.
«Tanto egli odiava questi suoi figliuoli, che aveva
fatto nel cortile del suo palazzo una chiesa dedicata
a san Tommaso, col solo pensiero di seppellirveli
tutti».
NOVAES, _Storia_.

La chiesa di san Tommaso dei Cènci, comecchè in parte mutata da quello
che era, sta tuttavia. Lo dicono monumento vetustissimo, e già ebbe
nome: _De Fraternitate_, ed anche _in Capite Molae_, o _Molarum_.
Questa notizia ricavasi dal diploma di papa Urbano III ai Canonici di
san Lorenzo in Damaso. La chiamarono poi _in Capite Molarum_ come
quella che sorgeva prossima al molino della Regola, là dove il Tevere
rimase interrato fino dal 1775; e _De Fraternitate_, ed anche _Romanae
fraternitatis caput_, forse perchè quivi fondarono la prima
confraternita donde trassero in successo di tempo esempio e titolo le
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