Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI - 01
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BEATRICE CÈNCI
STORIA DEL SECOLO XVI
DI
F. D. GUERRAZZI
PISA
A SPESE DELL'EDITORE
1854.
Questa Edizione è posta sotto la tutela delle leggi relative.--Per cui
si avranno per contraffatti quegli Esemplari non muniti della firma
dell'Editore.
_Tip. Vannucchi._
A
MASSIMO CORDERO
MARCHESE DI MONTEZEMOLO, SENATORE DEL REGNO
_Non potendo in altro modo sdebitarmi dell'amicizia, che malgrado
l'asprezza della fortuna e la malignità degli uomini, tu, nobile
veracemente, mi conservasti, questo mio libro intitolo al tuo nome, e
desidero tu lo abbi caro.--Sta sano.
Bastia, 20 novembre 1853
A TORINO.
_Aff.mo Amico_
F.D. GUERRAZZI
INTRODUZIONE
Amoroso ti versa a raccontare
Questa storia di pianto, o pianto mio.
ANFOSSI.
Io quando vidi la immagine della Beatrice Cènci, che la pietosa
tradizione racconta effigiata dai pennelli di Guido Reni, considerando
l'arco della fronte purissimo, gli occhi soavi e la pacata
tranquillità del sembiante divino, meco stesso pensai: ora, come
cotesta forma di angiolo avrebbe potuto contenere anima di demonio? Se
il Creatore manifesta i suoi concetti con la bellezza delle cose
create, accompagnando tanto decoro di volto con tanta nequizia
d'intelligenza non avrebb'egli mentito a se stesso? Dio è forse uomo,
per abbassarsi fino alla menzogna? I Magi di Oriente e i Sofi della
Grecia insegnarono, che Dio favella in lingua di bellezza. La età
ghiacciata tiene coteste dottrine in conto di sogni, piovuti dal cielo
in compagnia delle rose dell'aurora: lo so. Serbi la età ghiacciata i
suoi calcoli, a noi lasci le nostre immagini; serbi il suo
argomentare, che distrugge; a me talenta il palpito che crea. I
pellegrini intelletti illuminano di un tratto di luce i tempi
avvenire; per essi i fati non tengono i pugni chiusi; su l'oceano
dello infinito appuntando gli occhi della mente, scorgono i secoli
lontani come l'alacre pilota segnala il naviglio laggiù in fondo, dove
il mare si smarrisce col firmamento. A questi sogni divini, che cosa
avete sostituito voi, uomini dal cuore arido? La verità, voi dite.
Sia; ma la dottrina di cui ci dissetate è tutta la verità? È ella
eterna, necessaria, invincibile, o piuttosto transeunte e mutabile?
No; le verità che deturpano la creatura non formano la sua sostanza,
del pari che le nuvole non fanno parte del cielo.--O giovani
generazioni, a cui io mi volgo; o care frondi di un albero percosso
dal fulmine, ma non incenerito, Dio vi conceda di credere sempre il
bello ed il buono pensieri nati gemelli dalla sua mente
immortale;--due scintille sfavillate ad un medesimo punto dalla sua
bontà infinita--due vibrazioni uscite dalla stessa corda della lira
eterna, che armonizza il creato.
Così pensando io mi dava a ricercare pei tempi trascorsi: lèssi le
accuse e le difese; confrontai racconti, scritti e memorie; porsi le
orecchie alla tradizione lontana. La tradizione, che quando i Potenti
scrivono la storia della innocenza tradita col sangue, che le trassero
dalle vene, conserva la verità con le lacrime del popolo, e s'insinua
nel cuore dei più tardi nepoti a modo di lamento. Scoperchiai le
antiche sepolture, e interrogai le ceneri. Purchè sappiansi
interrogare, anche le ceneri parlano. Invano mi si presentarono agli
occhi uomini vestiti di porpora: io distinsi dal colore del mollusco
marino quello del sangue, che da Abele in poi grida vendetta al
cospetto di Dio;--ahi! troppo spesso indarno. Conobbi la ragione della
offesa: e ciò, che persuase il delitto al volgare degli uomini, usi a
supporlo colà dove colpisce la scure, me convinse di sacrificio unico
al mondo. Allora Beatrice mi apparve bella di sventura; e volgendomi
alla sua larva sconsolata, la supplicai con parole amorose:
«Sorgi, infelice, dal tuo sepolcro d'infamia, e svelati, quale tu
fosti, angiolo di martirio. Lunga riposa l'abominazione delle genti
sopra il tuo capo incolpevole; e non pertanto reciso. Poichè seppi
comprenderti, impetrami virtù che basti a narrare degnamente i tuoi
casi a queste care itale fanciulle che ti amano come sorella poco anzi
dipartita dai dolci colloquii, quantunque l'ombra di due secoli e
mezzo si distenda sopra il tuo sepolcro.»
Certo, questa è storia di truci delitti; ma le donzelle della mia
terra la leggeranno:--trapasserà le anime gentili a guisa di spada, ma
la leggeranno. Quando si accosterà loro il giovane che amano, si
affretteranno, arrossendo, a nasconderla; ma la leggeranno, e ti
offriranno il premio che unico può darsi ai traditi--il pianto.
Ed invero, perchè non la dovrebbero leggere? Forse perchè racconta di
misfatti e di sventure? La trama del mondo si compone di fila di
ferro. La virtù nel tempo pare fiaccola accesa gettata nelle tenebrose
latebre dello abisso. Fate lieta fronte alla sventura; per molto tempo
ancora siederà non invitata alle vostre mense, e temprerà il vostro
vino col pianto. Quando cesserete di piangere voi sarete felici. E
giovino adesso le lacrime e il sangue sparsi; imperciocchè il fiore
della libertà non si nudrisca che di siffatte rugiade. La virtù, disse
Socrate, in contesa con lo infortunio è spettacolo degno degli Dei.
Bisogna pure che sia così, dacchè troppo spesso se lo pongano dinanzi
ai loro occhi immortali.
Pensoso più di te, che di me stesso, io piango e scrivo. Educato alla
scuola dei mali, mi sono sacri i miseri. I fati mi avvolsero fino
dalla nascita la sventura intorno alla vita come le fasce della
infanzia:--la sventura mi porse con le mammelle rigide un latte
acerbo, ma la sventura ancora mi ha ricinto i fianchi con la zona
della costanza; per cui dentro il carcere senza fine amaro incominciai
questo racconto, e dentro il carcere adesso io lo compisco.
Sopra la terra si levarono e si levano soli, nei quali la stirpe dei
ribaldi, per celare il pallore del rimorso o della paura, s'imbrattano
la faccia col sangue dei magnanimi, come gl'istrioni della tragedia di
Tespi se la tingevano di mosto.--Lo ricordino bene le genti: quando
l'amore di patria è registrato nel codice come delitto capitale--la
tirannide allaga a modo di secondo diluvio.
Ma la storia non si seppellisce co' cadaveri dei traditi: essa
imbraccia le sue tavole di bronzo quasi scudo, che salva dall'oblio i
traditi e i traditori.
Nella sala grande di Palazzovecchio in Firenze, nella estremità della
parete volta a tramontana havvi un quadro, dove scorgi un nano
precursore del duca Cosimo dentro Siena, con un fanale acceso nella
destra. Cotesta immagine è simbolo, o verità? Cotesto nano non è morto
senza posteri: sceso da serie lunghissima di antenati, ha dovuto
lasciare una discendenza che per ora non sappiamo quando sarà per
cessare.
Al tramonto del sole alcuni uomini hanno guardato la propria ombra; e,
vedutala lunga, si sono creduti grandi. Beati loro se fossero morti a
mezza notte! Però non senza intendimento la fortuna gli ha conservati
in vita: essi hanno insegnato che mille uomini mediocri, uno
aggiuntato all'altro, non formeranno mai un grande uomo;--e molto meno
un uomo di cuore.
Apolli di gesso vuoti, ma tristi; abietti, ma iniqui;--menzogna di
divinità. Quando atterrarono in Alessandria la statua del Sole,
trovarono la sua testa ricettacolo di ragnateli: quello che troveremmo
nella vostra non so; quel che conosco di certo si è, che il vostro
cuore racchiude un nido di vipere.
Le mani sono di Esaù, la voce è di Giacobbe, diceva Isacco; in voi,
voce mani e anima tutto è di Augustulo; imperciocchè la debolezza si
accoppii ottimamente con la crudeltà. Giuda senza rimorso, Claudii
senza impero--uscite dalla mia mente per sempre.
Però mi contrista un pensiero, ed è: che dal mal seme presto o tardi
nasce un frutto pessimo. O Creatore, tu che hai insegnato come il bene
non sorga dai sepolcri,--disperdi, io ti scongiuro, il giorno delle
vendette.
Verrà un dì, e verrà sento, in cui i miei conterranei daranno
sepoltura onorata a questo corpo stanco accanto alle ossa paterne.
Colà in quel monte, a capo della Terra ov'ebbi nascimento, la mia
tomba vi appaia quasi una mano distesa per benedirvi. A me giovi la
pietà vostra dopo la mia morte; io vi ho amato dal giorno che apersi
gli occhi alla vita;--e quando condurrete i vostri figli al Santuario
della Vergine, mostrando la mia lapide dite loro:
«Qui dentro riposa un uomo, che ebbe la fortuna nemica fino dall'ora
che gli versarono sul capo l'acqua del battesimo; tutta la sua vita fu
una lunga lotta con lei: ma le lotte con la fortuna assomigliano a
quella di Giacobbe con l'Angiolo. Superato, non vinto, amò, soffrì e
si travagliò del continuo pel decoro della Patria. Non provò amici
popoli, nè principi;---lo saettarono tutti. Dall'alto e dal basso gli
lanciarono strali crudeli. Parte di vita gli logorarono le carceri,
parte l'esilio. Prigioniero meditò e scrisse; libero si affaticò per
la salvezza comune, e principalmente per quella de' suoi nemici od
emuli. Invano la ingratitudine tentò riempirgli l'anima d'odio. Le
acque dello affanno lasciavano ogni amarezza nel passargli sul cuore.
Offeso gli piacque la potenza, e la ebbe per dimostrare col fatto, che
tenne la vendetta passione di menti plebee; nè perdonava soltanto, ma
(più ardua cosa assai) egli obliò.[1] La spada della legge, confidata
nelle sue mani, non convertì in pugnale di assassino. Quando altro non
potè fare, col proprio seno tutelò la vita di uomini che sapeva
essergli stati, e che avrebbero durato ad essergli nemici. Il popolo
un giorno lo ruppe come un giuoco da fanciullo; i potenti lo gittarono
alle moltitudini insanite come uno schiavo nel circo delle fiere.
Consumato nelle viscere, egli cadde sopra un mucchio di rovine e di
speranze; e non pertanto, morendo, lasciava alle genti il desiderio di
costumi migliori, e di tempi meno infelici. Le sue dita, con ultimo
moto, segnarono per testamento sopra questa terra desolata le parole:
_virtù, libertà_.»
NOTA
[1] «My curse shall be forgiveness». Byron, _Child Harold, C. IV._
CAPITOLO I.
FRANCESCO CÈNCI
Per tutti i cerchi dello Inferno oscuri
Spirto non vidi in Dio tanto superbo.
DANTE
Non so se più soave, ma certamente simile alla Madonna della Seggiola
di Raffaello avrebbe dipinto un quadro colui, che avesse tolto a
imitare per via di colori il gruppo, che stava aspettando Francesco
Cènci nella sala del suo palazzo. Una sposa di forse venti anni,
seduta sopra i gradini di un finestrone, teneva al petto il suo
pargolo; e dietro alla sposa un giovane di egregie sembianze, col
volto basso, contemplava cotesto spettacolo di amore: egli solleva le
mani giunte e alquanto piegate verso la spalla sinistra, per
ringraziare Dio di tanta prosperità che gli manda. La sembianza e lo
atteggiamento dimostrano come in quel punto lo commuovano tre affetti,
che fanno l'uomo divino. Le mani erano a Dio, lo sguardo al figlio, il
sorriso alla sposa.--Però la donna non vedeva cotesto sorriso, chè lei
assorbivano intera i doveri e la dignità di madre. Il fanciullo
sembrava un angiolo, il quale avesse smarrita la via per tornarsene in
cielo.
Ma dall'altra parie della sala stava disteso sopra un pancone un uomo,
che sembrava avesse fornito a Michelangiolo il modello di taluno de'
suoi famosi crepuscoli. Appena mostrava il volto, celato sotto il
cappello di larghe falde e conico di forma. La barba avea lunga,
rabbuffata e grigia; la pelle, simile a quella che Geremia deplora nei
figliuoli di Sion, tinta di cenere come il pavimento del forno[1]. Si
avviluppava dentro un ampio tabarro: le gambe e i piedi, l'uno
soprammesso all'altro, aveva calzati di sandali, giusta il costume
degli uomini del contado di Roma. Forse egli era armato, ma teneva le
armi nascoste; però che la Corte Romana, dopo papa Sisto V, procedesse
molto rigidamente in simile faccenda.
Chiunque, in mezzo della sala, avesse posto mente prima al gruppo
dell'amorosa famiglia e poi a quell'uomo, avrebbe ricordato il detto
della Scrittura: _divise le tenebre dalla luce_[2].
Due giovani gentiluomini passeggiavano per la sala, taluni con veloci
e talora con tardi passi, ricambiando parole a voce alta, o sommessa.
Il primo aveva la pelle chiazzata di vermiglio come macchie di erpete;
dalle pupille nere, luccicanti traverso i cigli infiammati, traluceva
la ferocia, mescolata ad un certo smarrimento mentale: rari ed irti i
capelli: sozzi i denti: il naso camuso e le guance flosce lo
arieggiavano col cane da presa. Le vesti, comecchè nobilissime, erano
scomposte: la parola usciva impetuosa e roca dai labbri riarsi:
accenti impuri, cui forse natura per rendere più laidi volle
accompagnati con fetido fiato: rotti e continui i moti delle spalle,
dei bracci e del capo. Il delitto stava là dentro come un vulcano
prossimo a prorompere.
L'altro poi era pallido, e di aspetto gentile: copiosa e ben composta
la chioma bionda, tardo e mesto a guardare e a parlare: sovente
distratto: qualche volta sospiroso: si fermava, trasaliva, la
commozione interna svelava col tremito del labbro superiore, e
coll'agitarsi degli estremi peli dei baffi. Le vesti, i nastri, le
trine del colletto e delle maniche elegantissime. Chiunque lo avesse
veduto avrebbe esclamato a prima giunta: _costui sospira_.
In tonacella senza ferraiolo, simile ad una gazza che inquieta ed
obliqua saltella per casa, ecco un prete guizzare qua e là, dandosi la
maggior pena del mondo per trarre a se l'attenzione degli astanti, o
almeno di taluno fra loro. Egli favellava della state e del verno, del
caldo e del freddo, della sementa e della raccolta, ma nessuno gli
attendeva: talora domandava se in quel giorno avrebbe potuto avere la
degnazione di parlare con sua Eccellenza il clarissimo signor Conte;
tal altra a quale ora egli soleva levarsi, e a quale asciolvere; se
costumava spendere molto tempo attorno alle mondizie della persona, e
se tutti i giorni desse udienza;--era fiato gettato: nessuno gli
rispondeva, però che gli sposi rimanessero estatici nella loro
letizia; il villano paresse una statua di bronzo; il gentiluomo dal
volto vermiglio lo avesse squadrato così di traverso, da mettergli i
brividi addosso; il gentiluomo dal volto pallido lo fissasse come uomo
piovuto dalle nuvole. Il povero prete stava per dare del capo nei
muri: proprio per disperazione, di tanto in tanto apriva il breviario
e leggeva; ma col sembiante di chi trangugia medicine amare: gli occhi
gli sdrucciolavano giù per le pagine: avresti detto che avesse recato
seco cotesto libro, come colui che va ad annegarsi si porta il sasso
per legarselo al collo.
Il volto dello sciagurato prete, per ordinario tinto del giallo
pallido dei mozziconi di cera avanzati al servizio dell'altare, quasi
per impazienza si era fatto acceso: non poteva darsi pace che nessuno
gli porgesse ascolto; e sì ch'ei meritava essere avvertito, non fosse
altro per indovinare se avesse più logora la tonacella veste del suo
corpo, o il corpo veste della sua anima: logori entrambi, amici vecchi
fra loro, e, con rammarico grande del loro padrone, testimoni che
nulla ha da durare eterno nel mondo.--
Il curato (dacchè il prete fosse proprio un curato) dopo aver fatto
esperimento come non si verifichi sempre la sentenza della Scrittura
«_picchiate, e vi sarà aperto_,» si era indirizzato per la terza o
quarta volta a certo staffiere di sala, il quale sembrava finalmente
disposto a dargli retta, quando il gentiluomo dalla trista figura
chiamò con voce arrogante:
--Cammillo!
La natura dei servi è, che quando non hanno motivo peggiore per
incurvarsi, obbediscono a cui comanda più superbo; e Cammillo
staffiere, comecchè tra la famiglia ampissima dei servi non fosse dei
più tristi davvero, tuttavolta, girando quasi per iscatto di molla su
i talloni, mutò la faccia per le spalle davanti al prete; e, fatto
arco della persona verso il gentiluomo, con voce ossequiosissima
rispose:
--Eccellenza!
--Avrebbe il nobil Conte per avventura mal dormito stanotte?
--Non lo so--ma non credo. Gli furono portate parecchie lettere sul
fare del giorno, massime di Spagna e del Regno:--potrebbe darsi, ma
non lo so, che adesso stesse attorno a riscontrarle.
In questo punto un latrato infernale intronò le orecchie degli
astanti: poco dopo si aprono con impeto furiosissimo le imposte della
stanza del Conte, e ne prorompe fuori un mastino di enorme grandezza
tra spaventato e inferocito.
Il villano, giacente accanto la porta, in meno che si dice _amen_ è
balzato su ritto; e, sviluppatosi dal tabarro, dà di mano a un pugnale
largo, e lungo bene due palmi, atteggiandosi a difesa. La giovane
madre si strinse il figlio al seno, cuoprendolo con ambe le braccia.
Il padre si parò dinanzi al figlio e alla sposa schermendoli col
proprio corpo. I gentiluomini si scansarono con fretta decente, come
chi non vuole a un punto incontrare il pericolo, e non mostrar paura.
Il curato poi si mise a fuggire.
Il cane, seguendo suo istinto, si avventa contro il fuggitivo, lo
azzanna per gli svolazzi della tonaca, e gliene strappa un lembo; e
gli faceva peggio, se due staffieri correndo non lo avessero
trattenuto a gran pena afferrandolo pel collare. Il breviario era
rotolato per terra. Il povero prete traeva dolorosi guai; e, stretto
dalla medesima smania che spingeva lo ebreo Sylock a gridare «_la mia
figlia! i miei danari!_», esclamava:
--La mia tonaca! il mio breviario!--
Il cane infellonito abbaiava più forte che mai.
Sopra la soglia apparve un vecchio. Questo vecchio era Francesco
Cènci.
Francesco Cènci, sangue latino dell'antichissima famiglia Cincia,
annoverava fra i suoi antenati il pontefice Giovanni X, quel sì famoso
drudo della bella Teodora, la quale per virtù di amore lo condusse
vescovo prima a Bologna, poi a Ravenna, e finalmente lo fece papa. E
come nel tempo, così era cotesta famiglia nel delitto vetusta;
imperocchè, se la storia porge il vero, Marozia sorella a Teodora,
intendendo torre a lei e al Papa amante il dominio di Roma, occupa
proditoriamente la mole Adriana: invaso con molta torma di ribaldi il
Laterano, uccide di ferro Piero fratello di Giovanni, e Giovanni
stesso chiude in carcere; dove, o per veleno o altramente, rimase
morto. Corre fama eziandio, che lo rinvenissero cadavere nel letto di
Teodora; e la superstizione immaginò lo avesse strangolato il diavolo,
in pena dei suoi delitti. Morte obbrobriosa a vita di vituperio!
Francesco Cènci possedè copiosissimi beni di fortuna, chè la sua
entrata si stimò meglio di centomila scudi; la quale per quei tempi
era infinito, ed anche ai nostri sarebbe non ordinario tesoro. Glielo
lasciava il padre, che, tenendo il camarlingato della Chiesa sotto Pio
V, mentre questi vigilava a rinettare il mondo dalle eresie, il
vecchio Cènci attendeva a rinettargli dagli scudi l'erario: egregi
entrambi nel diverso mestiere. Intorno al conte Francesco, male
sapevasi che cosa si avesse a pensare: forse sopra alcun uomo mai
corse così diverso il grido come sopra di lui. Chi lo predicava pio,
liberale, mansueto e cortese: altri, all'opposto, lo dicevano avaro,
villano e crudele. Fatto sta, che in conferma così dell'una come
dell'altra fama potevansi addurre riscontri. Aveva sostenuto parecchi
processi, ma n'era uscito sempre assoluto _ex capite innocentiæ_:
molti però non si acquietavano punto a siffatti giudicati, e andavano
sussurrando dintorno, che fino allora non avevano veduto mai la Ruota
Romana condannare uomini ricchi per centomila scudi di rendita. Ma se
la vita sua compariva al pubblico misteriosa, troppo palesemente ebbe
a provarla senza fine spietata la sua misera famiglia, la quale per
pudore, e molto più per paura, non ardiva profferire parola. La sua
famiglia troppo bene sapeva com'egli si compiacesse immaginare trovati
terribili, e quanto più paurosi, ed alla opinione dello universale
contrarii, tanto a lui maggiormente graditi; e appena immaginati
dovevano mandarsi ad esecuzione, e ad ogni costo; avesse a spendersi
un tesoro, o commettere incendio, od omicidii. Il suo volere, era il
lampo; il fare, tuono. Costumava (a tanto egli giunse di audacia!)
tenere conto esattissimo dello speso in delitti; ed in certo suo libro
di _Ricordi_ si trovarono registrate le seguenti partite:--_Per le
avventure, e peripezie di Toscanella 3500 zecchini, e non fu caro. Per
la impresa dei sicarii di Terni zecchini 2000, e furono
rubati_.--Viaggiava a cavallo e solo: quando sentiva il cavallo stanco
scendeva, e comperavane un altro: se ricusavano venderglielo ei se lo
toglieva, dando qualche pugnalata per giunta. Paura di banditi nol
tratteneva da passare soletto le foreste di san Germano e della
Faiola; e spesso ancora, senza punto posare, fu visto condursi a
cavallo da Roma a Napoli. Quando appariva in un luogo, egli era certo
che o ratto, o incendio, o assassinamento, od altro funestissimo caso
stava per succedere. Forte fu della persona, e destro in ogni maniera
di esercizii maneschi, così che provocava sovente i suoi nemici con
soprusi e dileggi: ma di questi, palesi ne aveva pochi; chè lo
temevano assai, e a cimentarsi con lui ci pensavano due volte.
Conduceva in ogni tempo al suo soldo una masnada di bravi; il cortile
del suo palazzo offriva infame asilo ad ogni maniera di banditi. Tra i
feroci baroni romani ferocissimo.
Sisto V, che fu pontefice (ed avrebbe potuto anche essere carnefice)
di Roma, certa volta invitati al Vaticano gli Orsini, i Colonna, i
Savelli, i Conti Cènci, ed altri fra i più potenti dei nobili romani,
dopo averli trattenuti alquanto in piacevoli ragionamenti si accostava
agli aperti balconi, donde, volgendo gli occhi alla sottoposta città,
disse ai circostanti: «O la mia vista, siccome suole per vecchiezza, è
diventata fosca, o di qualche strano apparecchio vanno ornati
stamattina i merli dei palazzi delle Signorie vostre eccellentissime:
andate a riscontrare, e in cortesia fatemi assapere quello ch'è.»
Erano i cadaveri penzoloni dei banditi, che nei palazzi di cotesti
signori riparavano. Il Papa aveva ordinato si prendessero, e tutti,
senza misericordia, ai merli del palazzo s'impiccassero.
Francesco Cènci, per questo e per altri successi avendo ottimamente
conosciuta la natura del Papa, reputò opportuno di tirarsi al largo; e
finchè ei visse stette a Rocca Petrella, chiamata ancora Rocca
Ribalda. Il serpe aveva trovato a mordere la lima.
Di persona, aiutante era molto; e, comunque in là con gli anni, pure
bene di salute disposto; se non che, offeso nella diritta gamba,
zoppicava. Copioso d'idee e facondo di eloquio, avrebbe acquistato
fama di oratore egregio se glielo avessero conceduto i tempi e la
lingua, che, ad ogni più leggiera alterazione inciampandogli fra i
denti, lasciava adito alla voce come acqua rotta fra i sassi. Di laide
sembianze non poteva estimarsi per certo; e non pertanto sinistre
così, che giammai seppero ispirare amore, talvolta reverenza, troppo
spesso paura. Se togli il colore dei capelli e dei peli, di neri
mutati in bianchi; se alcuna ruga di più; se una magrezza maggiore, e
una tinta più gialla e biliosa, il suo volto presentava la medesima
aria della sua giovanezza. La fronte, mentr'ei posava, appariva
segnata appena di una ruga non profonda quale o il rimorso o la cura
sogliono imprimere; ma sì sfumata, leggiera, come l'amore descrive,
esitando, con la punta estrema dell'ale sopra la fronte della bellezza
che declina. Gli occhi, mesti per ordinario, colore del piombo simili
a quelli del pesce morto, privi affatto di splendore, contornati da
cerchi cenerini, e reticolati di vene violette e sanguigne--pareano
cadaveri dentro casse di piombo. La bocca sottile perdevasi fra le
rughe delle guance. Cotesto volto sarebbesi adattato ugualmente bene a
un santo e ad un bandito: cupo, inesplicabile come quello della
sfinge, o come la fama dello stesso Conte Cènci.
Della persona e dei costumi di lui parmi aver detto abbastanza: più
tardi m'ingegnerò esporre uno studio psicologico intorno a questo
prodigioso personaggio.
Il Conte la sera precedente erasi ritirato di buon'ora nelle sue
stanze, insalutati moglie e figliuoli. A Marzio, che gli profferiva i
consueti uffici, aveva risposto:
--Va' via: mi basta Nerone.
Nerone era un cane enorme di mole e di ferocia.--Così lo nominò il
Cènci, meno in memoria del truce imperatore, che per significare, nel
vetusto linguaggio de' Sanniti, forte, o gagliardo.
Coricato appena, prese a dare di volta pel letto: incominciò a gemere
d'impazienza: a mano a mano la impazienza diventò furore, e si pose a
ruggire. Nerone gli rispondeva ruggendo. Indi a breve il Conte,
balzando dalle odiate piume, esclamò:
--Abbiano avvelenato le lenzuola!--Questo si è pur dato altra volta,
ed io l'ho letto in qualche libro. Olimpia! Ah! mi sei fuggita, ma io
ti arriverò:--nessuno ha da scapparmi di mano--nessuno.--Quale
silenzio è questo accanto a me! Che pace qui in casa mia!
Riposano:...--dunque non gli atterrisco io?--Marzio.
Il cameriere chiamato accorreva prontissimo.
--Marzio, riprese il Conte, la famiglia che fa?
--Dorme.
--Tutti?
--Tutti; almeno sembra, poichè ogni cosa sia tranquilla in casa.
--E quando io non posso dormire ardiscono riposare in casa mia?--Va',
guarda se veramente dormono; oreglia alle stanze, in ispecie quella di
Virgilio; sprangale pianamente per di fuori, e torna.
Marzio andò.
--Costui, continuava il Conte, sopra gli altri aborrisco; sotto quella
superficie di ghiacciata mansuetudine non iscorrono meno veloci le
acque della ribellione: aspide senza lingua, non però senza veleno.
Quanto mi tarda, che tu muoia!--
Marzio, tornando, confermava:
--Dormono tutti, anche don Virgilio; ma di sonno travagliato, per
quanto può giudicarsi dall'anelito febbrile.
--L'hai sprangata fuori?
Marzio col capo accennò affermativamente.
--Bene; prendi questo archibugio, sparalo traverso l'uscio della
stanza di Virgilio, e poi urla con quanto hai di fiato nella gola:--al
fuoco! al fuoco!--Così insegnerò a costoro dormire mentre io veglio.
--Eccellenza....
--Che hai?
--Io non le dirò: pietà del ragazzo, che pare ridotto _in
extremis_....
--Continua....
--Ma la è cosa da mettere sottosopra il vicinato.
Il Conte, senza punto turbarsi, pose chetamente la mano sotto al
capezzale; e, trattane fuori una pistola, la spiana improvviso contro
il cameriere, che tramutò in volto per terrore, e con voce soave gli
disse:
--Marzio, se un'altra volta invece di obbedire attenterai contradirmi,
io ti ammazzerò come un cane:---va'.
Marzio andò più che di passo ad eseguire il comando.
È impossibile descrivere con quanto terrore fossero destati le donne e
il fanciullo. Balzano da letto, si avventano contro gli usci; ma non
li potendo aprire urlano, pregano si dica loro lo accaduto, per amore
di Dio aprano, dalla tremenda ansietà gli liberino. Nessuna risposta:
spossati tornano a gittarsi sul letto, travagliandosi per un sonno
affannoso.
Dopo forse due ore il Conte chiama di nuovo il cameriere, e lo
interroga:
--Fa giorno?....
--Eccellenza no.
--Perchè non fa giorno?...
Marzio si strinse nelle spalle. Il Conte tentennando il capo, quasi
per irridere se stesso della domanda strana, riprese:
--E quanto tarderà ancora a spuntare l'alba?
--Un'ora.--
--Un'ora!--Ma un'ora è un secolo, è una eternità per chi non può dormire,
o mio... sta a vedere, che per poco non aggiungeva--Dio.--Dicono il sonno
amico dei santi: se questo fosse, io avrei a dormire quanto i sette
dormienti insieme! Che fare adesso? Ah! spendiamo questo avanzo di notte
in qualche opera meritoria;--educhiamo Nerone.--
E ordinava a Marzio prendesse certo uomo di paglia, e lo portasse in
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