Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI - 07

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altre confraternite di Roma. Narra la fama, che il Cincio, vescovo di
Sabina, nel 1113 ne consacrasse l'altare. Giulio III la concedeva in
giuspatronato a Rocco Cènci nel 1554, con obbligo di restaurarla; cosa
che, per essere soprappreso dalla morte, egli non potè adempire;
laonde Pio IV nel 1565 spedì nuovamente la Bolla d'investitura a
favore di Francesco Cènci figlio di Cristofano, imponendogli il
medesimo carico; al quale egli soddisfece, secondo che attesta la
seguente iscrizione poeta sopra i muri esterni della chiesa:
_Franciscus Cincius Christophori filìus
Et Ecclesiae patronus, Templam hoc
Rebus ad divinum cultum et ornatum
Necessariis ad perpetuam
Rei memorìam exornari ac perfici
Curavit. Anno Jubilei 1575[1]_.
Quel marmo attestava a chiunque passasse quale, e quanta fosse la
pietà di Francesco Conte dei Cènci!--Cosi quasi sempre riscontriamo
sinceri gli epitaffi, le iscrizioni, le gazzette officiali, e le
orazioni funebri dei cappellani di Corte.
La chiesa ha forma, a un dipresso, quadrata. Condotta di un miscuglio
di ordine dorico, presenta cotesta sconcia depravazione dell'arte, che
gli artisti costumano significare col nome di _barocco_. Contiene
cinque cappelle; ha soffitto a crociere, dove anche nei giorni che
corrono possiamo osservare l'arme dei Cènci, che fa per impresa campo
squartato di bianco e di rosso, con tre lune rosse in campo bianco, e
tre lune bianche in campo rosso.
All'altare maggiore si vede un quadro dipinto a olio della maniera del
secolo sesto, o di poco anteriore: è di buona scuola, e rappresenta
san Tommaso che tocca la piaga a Gesù. A sinistra dello altare stesso
venerano un Crocifisso dipinto, opera del secolo decimo secondo, e a
questo alludeva Virgilio nel suo colloquio con Beatrice.
Intorno a lui raccontami mirabilissime cose. Certo manoscritto antico
conservato una volta, e forse anche adesso, nel Campidoglio (non però
commesso alla custodia delle oche che salvarono la rupe Tarpeia),
firmato da Giacomo Cènci, dichiara come il padre Guardiano in Araceli
donasse la prefata devota immagine al medesimo Giacomo, e con
giuramento gli affermasse avere davanti a quella più e più volte fatta
orazione san Gregorio Magno: nè il buon padre Guardiano si fermava
qui; che, proseguendo nella narrazione, attestavagli, cotesto Cristo
avere usanza tratto tratto operare miracoli. Se anche di presente la
immagine ritenga siffatta virtù, o se l'abbia trasferita in altre,
come sarebbe la immagine di Nostra Donna di Rimini, che apre e chiude
gli occhi, o l'altra di Tredozio, che piange a un punto e ride[2], io
non saprei accertare per ora; ma quando prima sarò, se piace a Dio,
liberato dal carcere, mi propongo raccogliere più ampie notizie, e
ragguagliarne i miei devoti lettori. Quello però che conosco di certo
si è, che il Cristo di san Gregorio Magno per tutto il tempo che durò
la vita di Giacomo Cènci si ostinò a non fare miracoli; ed ecco come
andò la faccenda.
Fra Brancazio, (tale era il nome del Guardiano di Araceli) senza che
faccia nemmeno mestieri dichiararlo, non donava mica il Cristo per
nulla; all'opposto egli imponeva al donatario: _primo_, che
restaurasse a sue spese la facciata della chiesa dei reverendi Padri
Francescani in Araceli, il che fu adempito; _secondo_ a rifornire la
sacrestia di pianete, piviali, dalmatiche, ammitti, roccetti e simili
altri arredi, ed anche questo fu fatto; _terzo_ a fondare una messa
quotidiana perpetua all'altare di san Francesco con la elemosina di un
ducato, ed anche la messa quotidiana fu fondata: e così i dabbene
Padri, avendo trovato il terreno morvido, presero ad avviarsi alla
casa di Giacomo spessi ed oscuri, simili in tutto alla schiera delle
formiche quando s'imbattono in un mucchio di grano lasciato su l'aia,
e non rifinivano mai di cavargli di sotto ora questo, ed ora
quell'altro benefizio: dandogli ad intendere, che per quanto ei
donasse, già non presumesse risarcire il Convento per la perdita
inestimabile del Crocifisso, davanti al quale aveva pregato san
Gregorio Magno; imperciocchè, senza contare il pregio del dipinto,
ch'era pure d'illustre magistero, gl'infiniti miracoli che soleva
operare procacciavano elemosine abbondantissime, e reputazione di
santità al luogo e a chi l'abitava non meno proficua. Messere Giacomo
Cènci, con tutto che santissimo uomo si fosse, preso nonostante da
stizza per la pretesa improntitudine, certo giorno gli disse: «Padre
Brancazio, che il Crocifisso di san Gregorio Magno alle sue mani abbia
operato miracoli, sarà: lo dice _lei_, e non ho motivo per dubitarne;
però dopo ch'è entrato nella mia cappella le posso giurare da
gentiluomo di onore, che non ne ha fatti più». E il Frate, voltandogli
bruscamente le spalle, gli rispose: «Mi rincresce dirglielo,
spettabile signor Conte; ma questo è segno, che nè _lei_ nè la sua
casa sono degni di ricevere queste grazie.» E così messer Giacomo
rimase saldato da fra Brancazio.
Di reliquie poi cotesta chiesa non pativa difetto, e tutti questi
tesori ecclesiastici si conservavano dentro un'urna di marmo posta
sotto l'altare maggiore. Lascio dei Santi di seconda qualità, chè
troppo ci vorrebbe a favellare di tutti, e ricorderò soltanto la
piegatura del collo di san Felice dove venne trafitto da un colpo di
lancia in Calamina, ora detta Madapor, ed anche Città di san Tommaso,
nella India: _de pandone circa collum eius in percussione ipsius_,
come ne fa fede la iscrizione posta sopra la porta minore della
medesima chiesa. Ma vedete dove quel benedetto Santo girava per
cercare la morte, mentre questa è sicuro che sarebbe andata a trovarlo
anche standosene quieto e tranquillo a casa sua![3]
Chiedo licenza ai miei lettori (i quali so che non me la negheranno)
di passare sotto silenzio le altre cappelle; molto più che, gli
assicuro io, non meritano speciale menzione. Non pertanto piacemi
ricordare come la chiesa e le case dei Cènci fossero erette sopra le
rovine del Teatro Balbo...
Una chiesa sopra un teatro! I secoli trapassano come i vetri dipinti
della lanterna magica; il mondo è la parete dove si riflettono le
immagini loro, e nel continuo passaggio le cose più strane si
succedono senza dar tempo a compire un pianto, o un riso. Noi
fabbrichiamo sopra i sepolcri dei nostri padri; le generazioni future
s'impazientano di fabbricare su quelli di noi. Cenere sopra cenere; e
l'universo si allarga e si feconda per queste incessanti alluvioni
della morte. Dove gli umani sollazzavansi un giorno, oggi pregano;
forse vi decapiteranno domani, domani l'altro danzeranno. La Fortuna,
gittata via la benda, all'antica follia aggiunse la ebbrezza nuova; e,
fatta Menade, percuote orribilmente un suo crotalo infernale,
eccitando al ballo tondo Grazie, Furie, Satiri e Muse. Marte balla
anch'egli; Nemesi co' flagelli di vipere batte la misura. E l'uomo
presume mettere il chiodo a questa ruota, che affatica il cielo e la
terra? Ah! ella è pretensione cotesta da far morire di riso lo stesso
dio del Riso, il vecchio Momo.
Assicurano taluni, che quando la fede rimane vedova convoli facilmente
a seconde nozze; e dicono ancora, che abbia dato il medesimo anello a
parecchi mariti. Io per me mi astengo da simili argomenti, che putono
di abbrustolito... per fuoco infernale di certissimo, e per fiamme di
Santo Offizio non lo sappiamo per ora di certo, ma in breve lo
sperano. Intanto i reverendi Padri Gesuiti s'insinuano piamente fra i
Popoli ad apparecchiare i fornelli.--Quello, che a me pare poter dire,
senza pericolo della salvazione dell'anima nell'altra vita e del Regio
Procuratore in questa (però che si tratti di pretta storia) si è, che
parecchi dei nuovi Numi s'introdussero nel tempio degli antichi; nè
più nè meno come gli Austriaci, col biglietto di alloggio, in casa dei
buoni borghesi toscani. _Veteres migrate coloni!_ Molti altri
inquilini dell'Olimpo di Giove migrarono con armi e bagaglio nel
Paradiso di Santa Madre Chiesa; e, offrendo esempio da imitarsi agli
uomini politici dei nostri tempi, voltato mantello continuarono a
deliziarsi nel profumo delle adorazioni[4]. Anche su i riti accaddero,
più che non si crede, transazioni, e per opera degli stessi Pontefici.
Nè in ciò sembra che meritino punto biasimo, perchè, i più astuti
scrittori affermano pericoloso stravincere, e doversi accettare
qualunque accomodamento: basta che si assicuri un guadagno (pei Numi,
bene inteso); però che, in quanto ai Sacerdoti, se ne stieno contenti
a quello che loro invia la Provvidenza: e questo sanno tutti,
insegnandolo il Vangelo di Cristo... Svergognati! Quando mai fu fatta
penuria di moneta spirituale per acquistare beni temporali? Lo
spirito, predicato più nobile della materia, in diritto le ha sempre
ceduto nel fatto. La Chiesa, donna e madonna del Paradiso celeste, si
accinse a cercare anche il terrestre. La investigazione non sembrava
difficile. solo che avesse badato e perlustrare il paese che giace tra
i fiumi Pisone, Ghilone, Hiddechel, e l'Eufrate[5]; ma non le venne
fatto, o non potè trovarlo. Allora si mise con maggior profitto a
cercarlo fra le spoglie di guerra dei Franchi e dei Normanni, o nelle
transazioni tra l'Inferno (di cui è procuratrice del pari, o per lo
meno ne tratta i negozii senza mandato) e il rimorso e la paura dei
peccatori, _perchè coll'oro si fanno anche arrivare l'anime in
paradiso_, come affermava Cristofano Colombo scrivendo a Ferdinando e
ad Isabella cattolicissimi regnanti[6]; e così dicendo non iscuopriva
l'America. Affermano eziandio, che la Chiesa per mettersi in possesso
del Paradiso terrestre si avvantaggiasse a fabbricare carte false; ma
queste sono cose che non si devono credere: almeno io non le credo.
Nel mille predicavano i Chierici la fine del mondo, e nonostante ciò
facevansi instituire eredi. I beni terreni di cui dovevano astenersi,
tanto, all'opposto, piacquero loro, che pretesero ritenerli anche dopo
la fine del mondo! _Considerata a dovere questa clericale
improntitudine, farà meno maraviglia l'avaro Ermocrate, che instituì
erede se stesso_.
Qui dentro, e mi si può credere, non vi sono biblioteche per comporre
dotti discorsi; ed anche libri vi fossero, io non ho avuto tempo per
leggerli: pure ricordo che in Roma, il tempio che fu di Vesta la Dea
del _fuoco_, oggi è consacrato alla Madonna del _sole_; quello di Remo
e Romolo _gemelli_, ai santi Cosimo e Damiano _gemelli_; l'altro della
_Salute_, a Santo _Vitale_: su l'orlo del lago Numicio, dov'è fama che
si precipitasse la sorella di Didone _Anna Perenna_, adesso si venera
la cappella di santa _Anna Petronilla_: ed oggi ancora, a Messina nel
giorno dell'Assunzione, come la Cerere sicula andava in traccia della
sua figlia Proserpina rapita da Pluto, la Madonna, tratta in
processione, va per le strade cercando il suo divino figliuolo: quando
poi, dopo un lungo errare, le mostrano la immagine del Salvatore, ella
trema, storna, e dodici uccelletti proromponle dal seno spandendo pel
cielo la esultanza del suo cuore materno. Nel foro Boario, presso
l'ara massima dove i Romani pronunziavano il giuramento solenne, ora
sorge la chiesa di _santa Maria Rocca della verità. Il Panteon è
diventato _Santa Maria della Minerva_. Qui fra noi, _San Giovanni_ era
il _tempio di Marte_: la Cattedrale di Pisa, il _palazzo di Adriano_
fabbricato di ruderi di case e di tempii. Uno dei pilastri della
parete esterna da mezzogiorno notai composto in parte d'un architrave
di granito col nome di _Cerere Eleusina_. Del monte _Soracte_ hanno
fatto il monte _Santo Oreste_, e a canto la cassa di _Santo Ranieri_
ho veduto una statua di _Marte_ convertita in _San Potito_ (il quale,
insieme a Santo Efeso, fu solennissimo operatore di miracoli) con la
lieve variante di torle dalla destra la spada, e sostituirvi un libro.
I Gesuiti nell'Indie consentivano l'adorazione degl'Idoli si
continuasse; solo a piè dei mostri ponessero o crocellina, o cuore di
Gesù, o altro segno della religione nostra; anzi nella China giunsero
perfino a velare la immagine di Cristo confitto in croce, per paura
che i popoli si scandalizzassero di un Dio morto coll'ultimo
supplizio: e Gregorio VII manda lettera a Santo Agostino apostolo
della Brittania, con la quale lo conforta a sopportare i sagrificii di
vittime co' riti pagani per acquistare a mano a mano terreno[7]. Gesù
Cristo predicò non potersi servire a Dio ed a Mammone, e cacciò via
risoluto i profanatori dal tempio. I suoi vicarii hanno proceduto più
blandamente; bene o male abbiano fatto, ne renderanno conto al
Mandante. A me basta aver detto la verità quando affermai, che i
Chierici andarono corrivi anche troppo per acquistare impero... Ahi
tristo aere del carcere! non mancherebbe altro, ch'ei mi facesse
diventare teologo. Io mi affretto a tornare più che di passo alla
storia, lasciando molte cose per via che furono dette, e che sono
state dimenticate con iscandalo di tutti i professori del progresso
umano.
La cappella di san Tommaso dei Cènci nel giorno dieci di agosto
compariva parata a lutto: lungo le pareti pendevano lugubri gramaglie:
da per tutto si vedevano ghirlande di fiori intrecciate con rami di
cipresso: sette sepolcri di marmo nero scoperchiati aspettavano i
morti, a guisa di bocche co' labbri aperti ansiose di bevanda: avevano
tutti una iscrizione medesima, ed era questa:
_Mors parata, vita contempta_[8].
E più oltre un ottavo sepolcro sopra gli altri cospicuo, di marmo
bianco finissimo, con quest'altra iscrizione:
_Si charitem, caritatemque quaeris
Hinc intus jacent
Non ingratus haerus
Neroni cani benemerentissimo
Franciscus de Cinciis hoc titulum
Ponere curavit....._[9].
In mezzo alla chiesa stava collocata una bara coperta di velluto
chermisino ricamato di oro, cosparsa anch'essa di freschi fiori.
Intorno alla bara ardevano sei ceri sopra candelabri d'argento
lavorati con artifizio mirabile.
Un coro di preti, parati di pianete e di dalmatiche di damasco nero,
aspettavano un morto per recitargli le ricche esequie. Nè stette
guari, che si fecero sentire passi misurati; e poco dopo, alzata la
tenda della porta laterale, comparve una barella portata da due uomini
e da due donne.
Giacomo e Bernardino Cènci tenevano le stanghe davanti, le posteriori
Lucrezia Petroni e Beatrice.
Il morto era Virgilio. Dio aveva accolto la seconda parte della
preghiera dello sventurato fanciullo: egli dormiva nella sua pace.
Seguivano alcuni servi di casa vestiti magnificamente a lutto, con
torcie accese. Non senza dolore misto a maraviglia poteva osservarsi,
come le vesti dei famigli fossero troppo meglio in punto, che quelle
di Giacomo e di Bernardino: segnatamente di Giacomo, squallido così,
da disgradarne il più povero gentiluomo di Roma. Scarmigliati aveva i
capelli, lunga la barba, le maniche e il colletto luridissimi: portava
bassa la faccia umiliata, la fronte aveva rugosa, le guance pallide e
macilenti: dagli occhi accesi versava lacrime amare, e gli si vedeva
il palpito del cuore di sopra il farsetto. Dal suo volto tralucevano
due passioni contrarie: pietà, e rabbia male repressa. Bernardino
anch'egli piangeva. ma così per imitazione, piuttosto che per impulso
spontaneo; imperciocchè se non era diventato affatto stupido di cuore,
la sua mente era ottenebrata dalla paura del padre, e dalla ignoranza
di tutte le cose, nella quale costui compiacevasi conservarlo.
Lucrezia, quantunque matrigna si fosse, lasciava l'adito al
pianto:--però, essendo piuttosto pinzochera che devota, si rassegnava
facilmente e presto; togliendosi le sciagure in pazienza, e
attribuendo al santo volere di Dio ogni evento così buono come tristo
della vita. Io per me lodo la costanza, ch'è quasi zavorra, la quale
fa stare in equilibrio la nave nelle procelle della vita; credo ancora
io, che delle cose che avvengono in giornata molte dovessero per
necessità succedere: ma quando le idee religiose si adoprano a
insugherire il cuore, allora cotesta insensibilità non è virtù; si
rassomiglia troppo al vestibolo della morte: l'uomo, finchè vivo, ha
da vivere con le sue passioni. Io so che alcuni chiamano le passioni
venti contrarii alla vita serena, e jene e lioni e simili altri
animali ruggenti, e cercanti cui si abbiano a divorare. Marco Antonio
per le vie d'Alessandria fu visto seduto su di un carro tratto da
lioni. Se le similitudini addotte sieno acconce, o no, poco importa
conoscere; di questo si persuada la gente, che se l'uomo può domare le
belve, e governare la procella, molto più potrà le passioni; egli ha
da reggere, non lasciarsi impietrire.
Francesco Cènci condusse in moglie cotesta femmina appunto perchè
gliela dissero tenerissima della religione, e perchè certa volta,
avendo ella udito favellare della empietà di lui, aveva esclamato:
«Signore! io terrei piuttosto maritarmi col diavolo, che col Conte
Cènci[10].--Egli allora le si pose dintorno; finse costumi esemplari;
frequentò chiese, imparò a piegare il collo, e a levare in molto
commuovente maniera gli occhi e le mani al cielo: sopra tutto si
mostrò largo donatore ai preti, degni guardaportoni del paradiso.
Sapeva raccontare leggende dei Santi, discuteva della _gratia gratis
data_, e della _forma e della sostanza_ dei sacramenti meglio del
Definitore sinodale dei Padri Francescani. La donna incominciò a
credere lo avessero calunniato. In ogni caso, o non poteva essersi
convertito? Non poteva avere la Beata Vergine impartito a lei la virtù
di strappare cotesta anima dagli artigli del demonio? Oh! è così
dolce, così altera cosa per donna devota guadagnare un'anima in
contrasto col demonio, che, parlando generalmente, le femmine pie
davvero non si contentano della prima conversione, che con lodevole
zelo si affaticano per la seconda, e questa diventa impulso alla
terza; e se durasse in loro la potenza come la volontà, non è da
dubitarsi che sagrificherebbero la vita intera in opera tanto
meritoria[11]. Tra per queste ragioni e i conforti dei parenti, le
ricchezze grandi e la nobiltà di casa Cènci, la donna condiscese ad
accettare il Conte Francesco per suo secondo marito.
Appena il Conte ebbe menato a casa Lucrezia, come per ischerzo, le
disse: «Voi volevate maritarvi col demonio piuttosto che con me: io vi
ho presa per provarvi che avevate ragione»;--e le tenne parola.
Ogni giorno le si poneva accanto su lo inginocchiatoio; e mentre ella
recitava responsorii e rosarii, egli cantava versi osceni, od empii:
ella sfogliava un libro di orazioni, ed egli le incisioni turpissime
di Marcantonio Raimondi commentate da Pietro Aretino: si studiò
sovvertire in lei ogni idea di religione e di morale, a empirle
l'anima di dubbio e di paure; ma Lucrezia di coteste diavolerie non
intendeva niente, e spesso non vi attendeva nemmeno. Talora, quando il
tristo marito stanco di favellare taceva, incominciava ella, o
riprendeva a recitare il rosario: per la qual cosa avvenne che
Francesco Cènci, invece di aspreggiare altrui, se medesimo
tormentasse; invece di spingerla alla disperazione mordesse le sue
labbra di rabbia, e stesse per impazzare di furore. Riuscito invano
questo partito, scelse altro disegno. Prese a costringerla di
ascoltare i suoi quotidiani adulterii: nè ciò valendo punto a
irritarla, empì la casa di cortigiane; non si astenne da parole e da
atti capaci di offendere la sua dignità di donna e di sposa; ma ella
con inalterabile dolcezza gli diceva: «Dio vi ravveda, e vi perdoni
come io vi ho perdonato». Francesco non trovava maniera di commuovere
cotesta fredda, ed ineccitabile natura. Spesso, acciecato dalla ira,
ei la umiliò al cospetto dei servi; la bistrattò, la percosse; le fece
patire penuria di vesti e di cibo; le fece portare in volto i segni di
furore, peggio che bestiale. Tempo perduto: tutto ella soffriva con
rassegnazione, tutto ella presentava al sacro cuore di Gesù in isconto
dei suoi peccati. Francesco, per non darsi della testa nel muro, cessò
di perseguitarla, essendosi (cosa a dirsi incredibile) più presto
stancato il talento di tormentare in lui, che in lei la pazienza:
ond'è che reputandola stupida, la lasciò da parte come natura morta,
che non merita essere straziata nè blandita.
Beatrice sola non lacrimava; teneva gli occhi fitti sul morticino, e
immemore seguiva i passi altrui con moto macchinale.
Quando giunsero al catafalco Beatrice si recò lo estinto fanciullo
nelle braccia, ed ella fu che con le proprie mani ve lo acconciò
sopra, gli assestò i capelli, gli pose sul petto il crocifisso, e il
mazzetto delle viole; poi, remosso alquanto uno dei candelabri, con la
faccia declinata nel palmo della destra appoggiò il gomito sul canto
della bara, tenendo sempre fisso lo sguardo sul morto.
Un famiglio puntava Beatrice con gli occhi come due lingue di fiamma,
e talora trasaliva: il famiglio era Marzio.
Oltre i quattro rammentati, nacquero a Francesco Cènci tre altri
figli; Cristofano e Felice, ch'egli mandò a studio in Salamanca, e
Olimpia. Questa fanciulla, che destra era molto ed animosa, non
potendo più reggere alle paterne persecuzioni scrisse un memoriale,
dove espose molto accomodatamente i carichi del padre suo; e poi,
nonostante il carcere domestico nel quale si trovava ristretta, seppe
così bene industriarsi, che lo fece pervenire nelle mani di Sua
Santità, supplicandola che si degnasse collocarla in convento finchè
non l'avesse provveduta di onesto matrimonio. L'accorta fanciulla
delle infamie paterne rivelò le più credibili, e facili a verificarsi;
delle altre tacque, avvisandosi che l'enormezze quanto più superano
l'ordinario tanto meno si conciliano fede: sicchè le inverosimili,
quantunque vere, screditano le verosimili; e pensò inoltre che un
figlio, ricorrendo contro il padre per propria salvezza, non deve
oltrepassare i termini del bisogno; imperciocchè, in questo caso, la
difesa troppo ardente degenerando in offesa manifesta, faccia nascere
il sospetto che l'accusatore sia condotto da odio snaturato contro il
suo sangue. Il Papa pertanto, ammirando la moderazione della giovane,
deliberò venire in soccorso di lei; e, fattala trarre dalla casa
paterna e mettere in convento, non andò guari che la maritò col Conte
Carlo Gabbrielli gentiluomo onoratissimo di Gubbio, a cui il Papa
costrinse don Francesco Cènci sborsare conveniente dote. I ricordi dei
tempi narrano come il Cènci, furibondo per questo successo, giunse
perfino a promettere centomila scudi a chiunque, viva o morta, la
odiata figliuola nelle sue mani riportasse: ma il Pontefice poteva
troppo più di lui; ed anche per questa volta egli ebbe a mordere il
freno. Non si potendo sfogare contro la fuggitiva, moltiplicò la
rabbia della persecuzione contro ai figliuoli rimasti in casa; e tanto
cotesto cordoglio gli cuoceva il riposto animo, che sovente, come
Augusto quando ebbe perduto le legioni di Varo[12], fu visto aggirarsi
per le camere del suo palazzo; e battendo palma a palma, od
appoggiando la fronte febbricitante a qualche stipite, esclamava:
--Ahi! Papa, Papa, rendimi Olimpia. Principi, Preti, e Padri hanno a
sostenersi ad ogni costo, e sempre, se vogliono mantenere l'autorità
nel mondo reverita e temuta...
I Sacerdoti celebrarono gli ufficii divini con la esattezza dei nostri
soldati quando fanno la carica in dodici tempi, e presso a poco col
medesimo entusiasmo. Beatrice a nulla badò, nulla intese: solo quando
il sacerdote asperse la bara di acqua benedetta, uno spruzzo dalla
fronte del morticino le rimbalzò sopra la faccia. Rabbrividì, diventò
più cupa, poi sospirò queste parole:
--Accetto lo augurio!
--Morire... non tocca a voi...
Tali accenti percossero improvvisi le orecchie di Beatrice, come se si
fossero dipartiti dalla bara del morto: volse subito il capo, ma non
vide alcuno prossimo a lei. La calca dei famigli e degli incappucciati
si allontanò dalla chiesa seguitando i sacerdoti; poi a mano a mano
quella dei cristiani accorsi dal vicinato. I Cènci rimasero soli col
morto. Il popolo di buone viscere piange facilmente alle sventure
altrui; ma dura poco, perchè le proprie gli consumano tutto il suo
pianto, e qualche volta non basta.
Stavano tutti genuflessi, riposando il corpo sopra le calcagna, col
capo dimesso, e le braccia, con le mani incrocicchiate, pendenti giù
lungo le cosce. Beatrice sola, che non aveva lasciata un momento la
pristina sua positura, scuote ad un tratto la testa, guarda con occhi
torvi quei miseri, e con gesto imperioso esclama:
--A che piangete voi? Alzatevi! Sapete voi chi ci ha ucciso questo
fratello? Lo sapete voi? Voi lo sapete, sì; ma tremate di pensarne
perfino il nome dentro il vostro cervello. Quello, che non ardite
pensare nel vostro segreto voi, io lo rivelerò a voce alta: lo ha
ucciso suo padre... il padre nostro... Francesco Cènci.
I prostrati non si mossero, ma raddoppiarono i singhiozzi.
--Levatevi su, vi comando; qui ci vuole altro, che pianto! Bisogna
provvedere alla nostra salute, e subito, se non vogliamo che nostro
padre ci ammazzi tutti.
--Pace, figliuola mia, pace; che è peccato lasciarsi vincere dalla
collera, rispose Lucrezia: vieni, inginocchiati anche tu, e
sottomettiti al santo volere di Dio.
--Che dite voi, signora Lucrezia? Credete servire Dio, e lo
bestemmiate. A sentirvi, Dio avrebbe creato l'acqua per annegarci, il
fuoco per arderci, il ferro per tagliarci? Dove avete letto che il
dovere dei padri sta nel tormentare i figliuoli, quello dei figliuoli
nel lasciarsi tormentare?--Dunque non vi è limite, oltre il quale
venga concesso di opporci? Qualunque ribellione è illegittima? La
natura ha segnato le generazioni degli uomini col marchio in fronte:
_soffri, e taci?_ Vi ha qualche cosa peggio del parricidio? Ditemelo,
perchè io conosco molte, ma per avventura non tutte le iniquità, che
si commettono sotto il sole. Tre cose io comprendo che non si possono
annoverare: le stelle nel firmamento, i pensieri maligni nel cuore
dell'uomo, e le angosce dei disperati...; forse sono più... ditemelo.
Signora Lucrezia, come amavate poco il povero Virgilio!...
--Come! non l'amava io? Questo caro figliuolo mi era diletto come se
fosse nato di me.
--Davvero? Queste parole presto sono pronunziate, ma in fatto non è
così. Amore di madre non s'immagina. Se voi lo aveste portato nelle
viscere, se partorito con dolore, non piangereste, ruggireste adesso.
Ma qual maraviglia se la voce del sangue non è più ascoltata dagli
uomini, mentre non la intende neanche il cielo? Il grido di Abele oggi
non arriverebbe più al cospetto del Vendicatore: perchè questo? Forse
l'Eterno infastidito si tura le orecchie, o il grido del sangue si
fece più fioco?--Ma se il cielo è diventato di bronzo, il mio cuore si
mantiene di carne, e geme e freme e palpita come il cuore vergine di
uno dei primi viventi... E voi, Giacomo, che pure siete uomo, o non
sentite voi nulla qui dentro?--E la donzella si percosse il seno dal
lato manco.
--O Beatrice, rispose una voce dal pavimento, e la profferiva Giacomo
Cènci, io non sono più quello di prima: la parte migliore di me
periva: io paio appena un'ombra, una memoria di me medesimo.
Guardami... ti pare egli questo il sembiante d'uomo di venticinque
anni? Che cosa posso io contro il destino? Mi sono dibattuto, più che
non pensi, dentro la catena della necessità; l'ho morsa finchè non mi
ha stritolato i denti; tu la vedessi! Ella è affatto nera pel mio
sangue rappreso...
--Ma la mano trova un legno, ed ecco una leva capace a rovesciare una
torre;--trova anche un ferro, ed ecco un martello per rompere, una
spada per isgombrarci il cammino davanti; e poi l'amicizia moltiplica
i capi e le mani...
--La sventura, sorella mia, è come una notte di dicembre; t'investe
delle sue tenebre in guisa, che tu non vedi più alcuno, nè alcuno vede
più te.
--Alza la voce nel buio; la conosceranno almeno i parenti: ho inteso
dire che il peggior parente vale l'amico migliore.
--Vi sono sventure, come vi sono infermi a cui non vale virtù di
senno, nè virtù di farmaco. Io non nego la pietà, la parentela,
l'amore... io nulla nego; ma tutto in mano al potente diventa arme
atta a percuotere, e in mano del debole diventa vetro per ferirlo.
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