Il Libro Nero - 08

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— O che vuol dire, messeri, — gridò Rambaldo, salutando con una arguzia
i nuovi venuti, — che il sole di questi Appennini è tanto scortese con
voi?
— Perchè dite voi ciò? — chiese ruvidamente il Corradengo.
— Perchè egli mi sembra, — rispose Rambaldo, — che non voglia punto
saperne di ammirar le prodezze de’ barbagianni delle Langhe contro i
poveri astori del Monferrato. —
Il Corradengo si morse il labbro e non rispose; ma per lui rispose il
braccio, crollando fieramente la lancia in atto di minaccia.
— Ah! ah! Sta bene; — soggiunse Rambaldo ghignando, giusta il costume, —
che cosa intendete di dire con quel vostro giunco in aria? Calatelo alla
misura della mia testa, e vedremo! —
Fu quello il segnale del combattimento. Ficcati gli sproni ne’ fianchi
ai destrieri, corsero tutti e quattro, rovinarono gli uni sugli altri,
con le visiere calate, il corpo piegato sul dinanzi, lo scudo raccolto
sul petto e la lancia bassa. A que’ tempi non era anche inventata la
resta, grosso ferro saldato alla corazza, su cui poggiare l’impugnatura
della lancia perchè il colpo riuscisse meglio assestato, epperò
l’antenna si volgeva diritta al petto dell’avversario tenendola a gran
forza di braccio raccomandata sotto l’ascella.
Le lance dei due maggiori combattenti si scontrarono con tutta la
veemenza che era loro conferita dall’impeto delle cavalcature. Ma la
lancia di Ansaldo colse di sguancio un lato dello scudo di Morello, e il
colpo andò a vuoto; laddove il ferro della lancia avversaria imbroccò il
suo così forte che essa si piegò ad arco, e, rimanendo egli saldo in
arcioni, andò in ischegge fin quasi all’impugnatura. S’impennò a quel
cozzo il cavallo di Ansaldo, e fe’ cadergli la lancia di pugno. Ambedue
allora, seguendo l’impeto dei destrieri, trascorsero il campo, andando a
fermarsi più lunge, l’uno al posto dell’altro.
Morello intanto era stato sollecito a gittar via l’inutile troncone,
dando in quella vece di piglio alla sua mazza, arma poderosa la quale
portava ad uno dei capi, raccomandata ad una breve e solida catena, una
grossa palla di ferro, armata di aculei, che dovevano essere la
misericordia di Dio per quelle membra sulle quali andassero a cadere. E
già fornita la carriera, il valoroso giovane avea voltato il cavallo per
muover da capo sull’avversario; ma ciò ch’egli vide accadere in mezzo al
campo, tra gli altri due combattenti, lo fe’ rimanere ammirato a
guardare.
Ansaldo di Leuca, s’era fermato del pari, ma con animo ben diverso,
imperocchè aveva veduto il suo compagno a mal partito, disteso a terra
supino, con un piede ancor nella staffa e le mani aggrappate alle redini
del suo destriero, che sparava calci per liberarsi da quella stretta, e
frattanto, ne’ suoi sbalzi a dritta e a manca, lo trascinava dietro di
sè.
Ora, ecco come era andato il negozio. La lancia del Corradengo era
passata tra i due corni dell’elmetto di Rambaldo, che per cansare il
colpo s’era prontamente curvato fin sul collo del suo destriero, intanto
che la sua lancia, più fortunata, coglieva l’avversario sotto la
gorgiera, e lo balzava a dirittura di sella. Tardo delle membra com’era,
e per giunta stordito dal colpo, il Corradengo era rovinato a terra, e,
non potendo rimettersi sulle gambe, stringeva per moto istintivo le
redini del cavallo, in quella medesima guisa che l’affogato s’aggrappa
ad ogni cosa che gli venga tra mani.
— Lasciate le redini, messer barbagianni, lasciate le redini! —
Il Corradengo, che già più non sapeva a qual santo votarsi, seguì il
consiglio dell’avversario, il cavallo fatto per tal guisa padrone di sè
medesimo, scappò via spaventato, non senza aver ricevuto sulla groppa la
puntura della lancia di Rambaldo, che continuava a ridere senza
misericordia.
Tutto indolenzito dalla caduta, ma furibondo pe’ motteggi
dell’avversario, il Corradengo si rizzò in piedi, mentre Rambaldo, sceso
giù da cavallo e lasciate le redini al donzello, mettea mano alla spada.
— Io mi penso, messer barbagianni, — disse quest’ultimo, — che noi
possiamo far capo a quest’arma. La vostra mazza se l’ha portata via il
destriero, ahi poco fedele! ed io rinunzio a far uso della mia, sebbene
sarei in diritto di giovarmene e pettinarvi con essa quel po’ di
cervello che avete. —
Il Corradengo, che mal poteva schermire di lingua col trovatore di
Monferrato, non rispose; ma al piglio con cui si fece a cavare la sua
pesante spada dal fodero, era agevole argomentare che la rabbia tendesse
i nervi del gigante.
Egli era, siccome ho detto, di membra poderose, e la mezzana statura di
Rambaldo, messa a raffronto con la sua, non avrebbe certamente tenuto in
sospeso il giudizio di uno spettatore. Al Corradengo parve allora di
potersi rifare in un tratto del suo primo svantaggio e di tutti i
sarcasmi del suo avversario.
— Astore del Monferrato, prendi questa! — gridò, precipitandosi con un
fendente su lui.
Ma Rambaldo non s’era tolto nemmeno il fastidio di parare il colpo.
Agile e pronto come una lucertola, egli era guizzato da un fianco, e il
Corradengo, non avendo altro a tagliare che l’aria, era andato bocconi
sul terreno a contare la sua seconda caduta.
— Ah, ah! il barbagianni! — Ma se la dicevo io, che se il sole non ha
voluto comparire quest’oggi e’ doveva averci le sue gravi ragioni! —
Furibondo, il Corradengo fe’ per alzarsi, ma la spada di Rambaldo fu più
pronta di lui e gli piovve addosso una tempesta di colpi. Il povero
gigante ricadde, sotto quella rovina, per non sollevarsi più, e per la
rotta gorgiera, per le spezzate piastre che custodivano l’omero,
spicciarono rivi di sangue.
Pigliatasi quella satolla, Rambaldo si fermò, e al cenno ch’ei fece di
averne abbastanza, accorsero i donzelli del Corradengo, per trarre il
loro semivivo padrone fuori del campo.
— Che ne dite voi, messere Ansaldo di Leuca? Vi par egli che fosse tanto
l’ippocrasto cioncato da Ugo di Roccamàla, quant’è il sangue spillato
dalla botte del vostro compare bugiardo?
— Non cantate così presto vittoria! — gridò Ansaldo di Leuca. — I
valorosi possono cadere, ed essere vendicati eziandio! A voi, Morello di
Monferrato, e fate buona custodia delle vostre membra leggiadre! —
Così disse, e, rotando la mazza sopra l’elmetto, spinse il cavallo a
carriera. L’animoso Morello non volle dal canto suo rimanersi ad
attenderlo e galoppò del pari verso di lui, andando a ricevere sullo
scudo la prima mazzata di Ansaldo. Qui spesseggiarono i colpi, come le
martellate dei favolosi Ciclopi nelle fucine dell’Etna, facendo balzar
scintille dalle armature percosse.
— Bene! — gridava Rambaldo dall’alto del ciglione, dov’era andato a
piantarsi, come un mastro di combattimento; — questo è un colpo che val
quanto pesa; e non badate al bisticcio, che è di sovra mercato. Ah,
benissimo quest’altro! Morello, amico mio, tu me lo conci pel dì delle
feste, il leggiadro garzone! Ohè, bada a’ fatti tuoi! Gitta lo scudo,
che ormai non serve che ad impacciarti. Ottimamente! Ve’ ve’ quest’altra
mazzata! Fischia la palla e va a battere l’elmetto. Addio, roba mia!
L’ha tocco: _habet, habet!_ direbbe mastro Benedicite, che sa di latino.
Compare Ansaldo, come vi sentite voi ora? —
Il compare Ansaldo, pesto e sanguinante per tutte le membra, sbalordito
dall’ultimo colpo di Morello, che gli avea rotto sul viso la ventaglia
dell’elmetto, andava riverso sulla groppa del suo destriero, e,
brancicando l’aria con le mani irrigidite, cadeva sul terreno, dove
Morello di Monferrato, balzando da cavallo, gli fu subitamente col
ginocchio sul petto.
— Ansaldo di Leuca, mi conosci tu? — disse egli con voce bassa ma
concitata, in quella che, alzata la visiera, metteva i suoi occhi contro
gli occhi del caduto.
Ansaldo lo guardò, e mise un grido di orrore. Egli aveva conosciuto
sotto quella visiera la pallida figura di Ugo di Roccamàla.
— Ansaldo di Leuca, — prosegui Morello, col medesimo accento di prima, —
chiedi perdonanza delle tue scellerate menzogne!
— No! no! — urlò Ansaldo di Leuca; e, tratto il pugnale, cercava di
piantarlo nel fianco del suo nemico.
— No? no? e tenti ancora di ferirmi? aspetta a me, e va in tua malora! —
Alle parole di Morello andarono gli atti compagni. Cavato egli pure il
pugnale che gli pendeva dal fianco, lo immerse tre volte nella gola
dello sleale cavaliero. Gli occhi si ottenebrarono ad Ansaldo; tentò
parlare, e gli sgorgò dalle labbra un fiotto di sangue; volle alzare la
fronte, ma tosto ricadde, coi denti stretti e gli occhi sbarrati; era
morto.
— Ora, a noi! disse Rambaldo, saltando nel campo, e prendendo pel
braccio l’amico. — Il furfante t’aveva ammaccato per bene, ma tu hai
picchiato più forte di lui, e me ne congratulo teco, tanto più
schiettamente in quanto che Aporèma è rimasto affatto neutrale. Su, in
arcioni, adesso, e ognuno seppellisca i suoi morti! —


CAPITOLO XIII.

Dove si stilla in dieci pagine ciò che potrebbe stemperarsi in cento.
Ho letto, non so più in qual libro, di un filosofo che sudò di molte
camicie a cercare se il tempo fosse un gran veneno, come l’ha dichiarato
il Petrarca, o un gran rimedio, siccome è dimostrato da tanti e tanti
casi della vita. Inutile studio, a parer mio! Spesso i veleni più
possenti riescono farmachi, e i farmachi più blandi riescon veleni. La
scienza vi discorre e vi spiega queste apparenti contraddizioni della
natura; e a me l’esperienza, questa durissima scienza della vita, ha
insegnato che il tempo, rimedio e veleno, non rammargina le antiche
piaghe se non per aprirne di nuove, che la immagine di un alto dolore
scorre impunemente su quelle fibre che nel tempo antico avea fatte
frizzare, e un lieve rammarico, fresco di quel dì, fa metter grida e
guaiti più forti che non ne mettesse Prometeo sulla rupe, ai colpi di
rostro del vorace avoltoio.
Ahi, Ugo di Roccamàla! ahi, povero martire d’un dubbio! Tu volevi
sapere, e non ti peritasti di mettere la posta più grossa nel tuo
esperimento doloroso. Ora ecco che noi, senza fatica, senza stregonerie,
riusciamo a saperne altrettanto; poniamo a sindacato gli affetti del
cuore, tiriamo giù la sua brava equazione, troviamo la formola che li
crea e quella che li distrugge. La vita, per tal modo considerata, ci si
dimostra una cosa assai più da ridere che da piangere, e da non francar
sempre la spesa d’esser vissuta.
Ma lasciamo l’algebra del cuore in disparte. Perchè parlavamo noi del
tempo? Volevamo chiedergli cinque anni, da farli trascorrere in un
batter d’ali, per comodo del nostro racconto. Ed ecco, i cinque anni
sono passati, mie belle lettrici, e quel che più monta, senza mescolare
un filo d’argento nei vostri capegli, senza scavarvi una ruga traditora
alle tempie. Se così fosse mai sempre, se gli anni passassero, senza
avvizzirci sulle guance il fiore della gioventù, senza raffreddarci a
gradi a gradi il lago del cuore, chi non amerebbe invecchiare, poichè lo
andare innanzi negli anni non è altro che vivere? Ma ohimè, il tempo
passa e, non pure ogni anno, ogni giorno ci ruba qualcosa; il miracolo
di far volare il tempo senza danno d’alcuno, non ve lo fa che un
romanziero, e pur troppo gli è un miracolo per celia!
Basta, sono trascorsi cinque anni dalla morte di Ansaldo di Leuca. Il
savio lettore ha già capito che Morello ha tolto commiato quel dì
medesimo dalla corte di Torrespina. Non si sta accanto ad una donna con
le mani tinte del sangue di chi pure l’amò. Il combattimento era leale,
necessario; la vostra vittoria desiderata; ma guai a rimanere dopo quel
combattimento e dopo quella vittoria!
Tutto ciò aveva inteso Morello, anche prima di sentirselo a dire dal suo
fedel consigliero. Inoltre, che cosa poteva egli sperare di ottenere
eziandio? Quella donna aveva fatto per lui tutto ciò che le era concesso
dal suo stato d’allora. Egli portava sul petto una sciarpa di verde
zendado, testimonio, se non d’amore, di benevolenza singolare, e
scolpite nel cuore queste gravi parole: «se uomo al mondo potessi amar
tuttavia, voi sareste quel desso.» Chieder di più in quel momento,
fermarsi a mendicare un quotidiano sorriso, sarebbe stato un cadere in
quella mediocrità, che può parer d’oro a molti, ma che non ha uscita, nè
speranza di fortuna migliore. Savio consiglio il partire; un amore che
vicino spaventa, o infastidisce, lontano si vagheggia senza timore,
cresce quasi inavvertito e soggioga.
In tal guisa e con tali propositi, Morello si partì da Torrespina, nè
per cinque anni più vide quei luoghi. Dormì egli cinque anni in una
notte, o gli passarono dinanzi agli occhi rapidi come un baleno? Questo
ed altro potea fare Aporèma.
Comunque ciò fosse, la storia dice che Morello di Monferrato fu alla
corte paterna; quindi, per la via di Lamagna, fino a Tessalonica, reame
di sua famiglia, e di là navigò a Costantinopoli e corse molta terra
d’Asia, dappertutto celebrando la bellezza sovrumana della figliuola del
Lionello del Cengio, e rompendo in onor suo molte lance contro francesi
e saracini.
E Giovanna, nella solitudine del suo maniero, udiva di frequente il nome
di Morello. Talfiata gli era un povero monaco, che se ne tornava
pedestre dal sepolcro di Cristo, e le recava novelle del prode e memore
cavaliero, insieme con un pezzettino del santo legno; tal altra un gaio
menestrello, che le ripeteva d’udita i versi, divenuti famosi, del
giovine innamorato.
Ma che sapeva egli del cuore di lei? Aporèma gli aveva chiesto di dar
tempo al tempo, ed egli assaporava la triste voluttà di un mutamento,
lontano o vicino, ma certo; spiava ansioso e tremante il giorno che la
memoria di Ugo di Roccamàla fosse tradita nel cuor di Giovanna.
E già forse non era? Che cosa avea ottenuto Ugo in suo vivente, da lei?
Ciò che ebbe a dire più tardi un altro martire del dubbio: _parole,
parole, parole!_ Morello potea dunque, e ragionevolmente, argomentare di
esser giunto ad uguale ventura, e il suo sperimento avrebbe potuto
credersi finito, se un nuovo dubbio non fosse nato nell’anima sua.
— Amerà me finalmente.... Aporèma lo giura. Ma, se pure ciò avvenga, che
vorrà dire? potrò io farne colpa a lei e crederla dimentica dell’amato
estinto? Se lo spirito che muove queste membra è quel desso di prima,
non potrà dirsi che ella, amando Morello, obbedisca all’arcana possanza
dello spirito di Ugo?...
E qui nuove incertezze, ed una tenerezza ineffabile per quella donna. E
con questo pensiero, vagheggiato nella mente senza farne motto al
compagno, un cavaliero, male in arnese e stanco in apparenza come chi
abbia fornito assai lungo cammino, saliva l’erta di Roccamàla, una
mattina di novembre, sei anni dopo la morte di Ugo, andando a chiedere
ospitalità al nuovo signore del castello.
Ora il nuovo signore del castello non era altri che quel burlesco
personaggio, già noto ai lettori, di mastro Benedicite, il vecchio
strozziere.
Com’egli di vassallo fosse giunto a quell’alto stato s’è detto, e son
note le grasse risa che ne erano state fatte a Torrespina. Ma ben più
avrebbe riso la corte di messere Corrado, se avesse saputo in qual modo
l’antico falconiere di Ugo rispondesse al nobile ufficio di successore.
A me, per dipingervi a modo questo ridevole castellano, bisognerebbe la
penna e il buon umore di Rabelais; _ma poi ch’io non l’abbo_ (direbbe
Dante) mi ridurrò al più modesto ufficio di raccontarvi come il nuovo
signore passasse i suoi giorni feudali.
Anzitutto ei dormiva, oh! dormiva come un ghiro, e non c’era verso che
il ponte di Roccamàla si calasse prima delle undici del mattino, ora in
cui l’ottimo gaudente si alzava dal suo letto comitale. Chiunque avesse
bisogno di entrare, era cortesemente pregato di attendere, foss’anco
stato Carlomagno redivivo. Que’ che volevano uscire innanzi l’ora ci
avevano la scappatoia delle scale di corda; ma qui bisognava farla
netta; se no, guai al trasgressore della comune disciplina; il
castellano non lasciava correre lo scherzo!
I negozi del castello andavano innanzi, come al tempo di Ugo il felice,
con questo solo divario che i parassiti dell’estinto signore erano stati
con bel garbo messi fuori e che lo stesso Fiordaliso, il quale era di
nobil sangue, non volendo stare ai servigi di un villan rifatto, se
n’era andato, _sua sponte_, da Roccamàla, per cercarsi ventura altrove.
— Buon viaggio! — aveva detto Benedicite. — _I in malam crucem!_ — aveva
soggiunto tra’ denti.
Ma se il paggio era andato, il castellano non era altrimenti rimasto
senza un fedele compagno. Un certo fra Gualdo, buon bernardone del
monistero vicino (ho detto fin dal principio di questo racconto che cosa
fossero i bernardoni e perchè chiamati in tal guisa), faceva compagnia
quotidiana a messer lo conte. E se il castello non risuonava più degli
accordi del liuto e delle gaie canzoni del biondo Fiordaliso, echeggiava
per contro delle nasali salmodie del cirsterciense e del suo protettore,
_arcades ambo_, e così bene pasciuti, che l’uno pareva sant’Antonio, e
l’altro.... quel suo collega che sapete.
Il conte Benedicite s’incamminava di buon passo sulla via della santità.
Egli e fra Gualdo recitavano ogni giorno insieme il breviario, e tra un
salmo e l’altro, tra un’antifona ed un _oremus_, solevano bagnarsi
l’ugola, per rinfrescare la voce. Cominciavano a centellare, a
sorseggiare quel famoso vin di Cipro, che l’uguale (giusta la nota frase
di Benedicite) non si beveva alla mensa del serenissimo doge di Venezia;
poi tracannavano addirittura le ciòtole; e finivano ogni sera col
disfidarsi a chi bevesse meglio a garganella, senza imbrodolarsi la
giubba.
Per tal modo non riusciva strano che ogni notte fossero in cimberli, e
il più delle volte i famigli fossero costretti a raccappezzarli sotto la
tavola, per levarli di peso e portarli a dormire.
Il conte Benedicite! Notate rotondità di nome! Ma al castellano non gli
andava ai versi. Diventato padrone, egli s’era affrettato a
ribattezzarsi col suo antico nome di Anacleto, comandando, sotto pena di
andare a marcire nei sotterranei della rocca, che nessuno fosse tanto
ardito da dimenticarselo.
Ma le furon novelle. A nessuno veniva fatto di chiamarlo conte Anacleto;
e qualche esempio da lui dato a’ trasgressori fece sì che nel
rivolgergli il discorso non gli si desse più verun nome. Lui assente,
del resto, non si diceva altro che conte Benedicite, ed anzi v’era
taluno la cui lingua ribelle non sapeva dir «conte» e tirava innanzi a
dir mastro Benedicite, come nel tempo passato.
Il solo che lo chiamasse col suo vero nome, troppo tardi svecchiato, era
lo strozziere di Roccamàla, persona nuova, e successore del nuovo
padrone in quella aucuparia dignità. Conte Anacleto (lo storico
imparziale gli farà anch’egli il torto di non chiamarlo a modo?), conte
Anacleto avea fatto venire assai da lontano quel personaggio, perchè
avesse cura delle sue nobilissime bestie.
Di insegnare il mestiero all’Anselmuccio non gli era infatti più nulla.
Quel biondo nipotino, che i lettori conoscono per la sua lezione sulle
varie generazioni di falchi, poteva essere allora sui diciassett’anni, e
nato, come era, da una sorella di Benedicite, il quale non aveva
figliuoli, diventava per conseguenza il contino, l’erede della corona,
salvo (s’intende) il caso d’una rivoluzione, od altro accidente che
avesse a turbare il prestabilito ordine dinastico.
Lassù si andava bisbigliando che l’Anselmo fosse un figlio _extra torum_
di Roberto il taciturno e fratellino carnale di conte Ugo. Benedicite,
che in ogni altra occasione si sarebbe recato di questa diceria come di
ingiuria gravissima alla memoria della sorella, or la lasciava correre,
come quella che gli pareva una consacrazione del diritto di successione.
Onore umano, come cangi spesso di nome e di luogo!
Ma, il lettore dirà, e non c’era il testamento per raffidarlo? Ahimè,
nessuno lo aveva veduto, quel testamento, e non se ne parlava che
d’udita, perchè lo avea detto egli...
Così il conte Anacleto passava il suo tempo abbastanza felice. Egli era
una specie di Macbeth, senza i delitti, ma con tutte le sperticate
ambizioni e con la più sperticata ingratitudine verso la memoria del suo
estinto signore.
Al nuovo feudatario non mancava che una cosa, la castellana. Talfiata,
nelle sue bacchiche conversazioni con frate Gualdo, e quando il vino gli
dava nell’elegiaco, il conte Anacleto Benedicite si lasciava ire alla
tristezza di questo pensiero.
— _Vae soli_, frate Gualdo, _vae soli!_ lo ha detto re Salomone; ed egli
doveva intendersene, che, pel timore di rimaner solo, s’era tolto
settecento mogli, e trecento... ausiliarie. Or dove ne troverò io una?
— Che dite voi, messere? — rispondeva frate Gualdo, il quale aveva un
altissimo concetto del vino di conte Anacleto. — Qual donna non si
recherebbe a ventura di avervi in marito, _felicem adire thalamum_?
— Voi non direste male, _pater reverendissime_, se io fossi giovane, _si
mihi rideret ætas_. Ma oramai la è passata, l’età degli amori
onnipossenti, e qual Sabina di queste castella si lascierebbe rapire da
un vecchio par mio?
— Mi viene in mente una bella pensata; — disse fra Gualdo. — O non
potreste sposare la figlia dell’armaiuolo? Quella è una bellissima
femmina, _mulier formosissima_, non troppo giovine....
— Ah, ah! — gridò mastro Benedicite, cioè scusate, il conte Anacleto. —
_Bibisti quam maxime, pater reverendissime!_ Voi mi proponete di far
casaccia....
— O come, casaccia?
— Maisì, un gramo parentado. O che, vi par egli dicevole? Un signore di
Roccamàla.... la figlia d’un fabbro.... Ella è belloccia, _mehercle!_ e
non nego che se fossi il re Salomone, non avrei nessuna difficoltà a
farla la millesima prima....
— Messer Anacleto! — interruppe scandolezzato il monaco. — Re Salomone
cadde per questi suoi peccati in disgrazia di Dio.
— Ah, me n’ero scordato; ma basta, io non corro di simiglianti pericoli,
a questi lumi di luna. Io volevo dirvi soltanto che un signore di
Roccamàla non può scender di condizione, e che i vostri argomenti
peccano contro il senso comune.
— Io dicevo così per dire; — rispose fra Gualdo. — Non ne parliamo
più. —
«Non ne parliamo più» gli era presto detto! Cotesto era in quella vece
il discorso che veniva in tavola ogni giorno, poichè il pensiero del
matrimonio era l’unica spina del conte Anacleto.
Per ventura, ogni sera, il vin di Cipro veniva pietoso ad affogare il
dolore del conte.
E adesso che abbiamo rifatta conoscenza, con gli abitanti di Roccamàla,
ripigliamo il filo del nostro racconto, torniamo al forastiero, che ha
avuto tempo a salir l’erta, agio ad aspettare la calata del ponte, e
modo di giungere fino alla gran sala del castello, dove il conte
Anacleto, _quondam_ strozziere, seduto sulla scranna feudale, riceveva i
cavalieri e rendeva giustizia ai vassalli.


CAPITOLO XIV.

Nel quale si legge di mastro Benedicite, come tornasse ad aver paura del
diavolo.
— Che vuoi tu? — chiese l’antico strozziere, dopo che ebbe squadrato dal
capo alle piante il nuovo venuto. — In qual tuo bisogno può egli
giovarti il conte Anacleto di Roccamàla! —
Il conte di Roccamàla! E’ bisognava vedere come egli si gonfiasse,
mettendo fuori quel nome, che aveva (così pensava egli) ad abbacinare il
nuovo testimone della sua grandezza. Ma ohimè, nulla è durevole quaggiù,
e quell’impeto di felice superbia aveva ad essergli ricacciato in gola.
— Voi? — esclamò il nuovo venuto, con atto di beffarda incredulità. —
Vive egli forse un conte di Roccamàla, poiché messer Ugo il felice ha
pagato il suo tributo alla gran madre antica? —
Il conte Anacleto (conte per grazia sua, come i lettori già sanno) fu ad
un pelo di uscire dai gangheri. Un’occhiata di frate Gualdo, che era lì
presso e gli mostrava il cielo con le palme tese, giunse in tempo a
trattenerlo. Si morse il labbro e quindi, sorridendo a malincorpo, uscì
in queste parole:
— Tu vieni da lunge?
— Sì, messere; vengo da terre assai lontane, e diverse eziandio di
costume da questa, imperocchè laggiù non si usa favellare così alla
domestica coi forastieri, come voi fate ora, dando del tu a cui non
conoscete.
— O che? — rispose lo strozziere ghignando. — Sareste per avventura il
duca Namo di Baviera?
— Lasciate le arguzie da banda; io mi son cavaliero e basta, se pure non
ce n’è d’avanzo.
— Sia, messere; ma, in verità, il vostro arnese....
— L’abito non fa il monaco! — sentenziò il nuovo venuto. — Chiedetene al
vostro reverendissimo sozio.
— _Eheu nimirum!_ — soggiunse fra Gualdo, facendo occhi da santo. — Sì,
certamente, voi dite il vero, messer cavaliero; siamo tutti peccatori, e
il glorioso san Bernardo, nostro patrono, fu il primo a dire....
— Ma insomma, — gridò il castellano, dando sulla voce a frate Gualdo e
al suo glorioso patrono, — che chiedete voi, messer cavaliero, al nome
di Dio?
— Ah! — disse tranquillamente l’interrogato. — Ciò che mi ha condotto
quassù, risguarda un vecchio strozziere, e mi vedo in quella vece
dinanzi ad un conte. Me ne duole, per verità, dappoichè gli è un negozio
d’alto rilievo.... —
Benedicite, che già stava per mandarlo in falconeria, mutò subitamente
consiglio a quelle parole dello sconosciuto.
— Messere, — diss’egli, andando, come suol dirsi, a cercar le frasi col
fuscellino, — io veramente.... poichè ciò che avete a dirci è cosa
d’alto rilievo.... non vi sarà ignoto quali siano, e come variabili, i
giuochi della fortuna.... _Tempora mutantur, et nos mutamur in illis_.
— _Oh dictum bene!_ — soggiunse fra Gualdo, con la sua arietta beata.
— Che vuol dir ciò? — chiese lo sconosciuto. — Io non v’intendo....
— Non sapete di latino, a quel che pare! Orrevole idioma, il latino; e
bisognerebbe non parlarne mai altro, perchè avesse finalmente a
rifiorire da noi. Io, vedete, vecchio qual sono, ho ripigliato a
studiarlo, insieme con questo reverendo amico.... Ma lasciamola lì, se
non vi garba. Volevo dirvi, con quella mia citazione, che io sono....
quel tale di cui cercate, e sono altresì il signore di Roccamàla. La
qual cosa vi sarebbe chiarissima da un pezzo, se non veniste, come dite,
_a longinquis regionibus_; e sapreste del pari che di questo dominio
avrò tra non molto l’investitura dallo imperator di Lamagna, al quale ho
mandato....
— Sì, sì! — interruppe lo sconosciuto. — Questo io so bene, quantunque
venga _a longinquis_.... come voi dite. Gli avete fatto il presente, per
renderlo propizio alla vostra dimanda, de’ più leggiadri e destri
randioni che il gran maestro de’ cavalieri di Malta avesse mandato a suo
nipote, il conte Ugo, che Domineddio l’abbia in gloria! Ma egli sarà un
donativo sprecato, ed io vi giuro per la mia fede di cavaliero, che non
avrete il diploma di Cesare.
— Domine, fallo tristo! — urlò Benedicite, facendosi pavonazzo dalla
rabbia, e balzando dalla seggiola, come per avventarglisi contro.
— Chetatevi, messere Anacleto! — disse fra Gualdo, a mani giunte. —
_Esto prudens!_
— Che _prudens!_ che _prudens!_ Le mani, le mani mi prudono ora, e non
so chi mi tenga ch’io non lo faccia balzare da quella finestra....
— Provate! — disse lo sconosciuto, incrocicchiando superbamente le
braccia sul petto.
— Che sì.... che sì.... — seguitò Benedicite, sempre più riscaldandosi;
ma fra Gualdo, levatosi da sedere, a malgrado del ventre, andò a
trattenerlo, e non senza fatica lo ridusse da capo sulla sua scranna di
cuoio cordovano.
— _Pax tibi_, messere Anacleto! E voi, — aggiunse il rubicondo
bernardone, voltandosi a dare la parte sua allo sconosciuto, — non
dovreste uscire in cosiffatte sentenze, o metterle fuori con un po’ più
di garbo. _Est modus in rebus...._
— La mia gente! — gridava intanto Benedicite. — La mia gente! e sia
messo fuor del castello lo sciagurato!
— No, neppur questo! — soggiunse il paciere, — non si usa tal villania
ad un forastiero, per una cosa mal detta. Oltre di che, vi bisogna
sapere chi egli sia...
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