Il Libro Nero - 01

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IL
LIBRO NERO
LEGGENDA
DI
ANTON GIULIO BARRILI

_Quarta edizione_
RIVEDUTA DALL’AUTORE.

_MILANO_
FRATELLI TREVES, EDITORI

1882
————
PROPRIETÀ LETTERARIA
Tip. Treves
————


INDICE

I. Nel quale si racconta di mastro Benedicite, strozziere, e della
gran paura che avea.
II. Dove si legge della felicità di conte Folco, come fosse
celebrata dal biondo Fiordaliso.
III. Come il biondo Fiordaliso fu vinto in tenzone poetica, e del
rammarico ch’ei n’ebbe.
IV. Che cosa fosse, e perchè temuta, la torre del Negromante.
V. Nel quale è detto di ciò che vide il conte Ugo guardando la torre
del Negromante.
VI. Nel quale si legge come il romèo non fosse altrimenti un romèo.
VII. Dove si legge del patto che il vescovo Gualberto aveva fermato
col diavolo.
VIII. Nel quale si racconta di una gualdana che fa al castello di
Torrespina.
IX. Nel quale l’autore si prova a ritrarre la migliore tra tutte le
donne.
X. Dello elogio funebre che fece Ansaldo di Leuca ad un amico
diletto.
XI. Qui si conta di un cavaliere che ebbe il premio innanzi alla
giostra.
XII. Nel quale si legge della differenza che corre fra astori e
barbagianni.
XIII. Dove si stilla in dieci pagine ciò che potrebbe stemperarsi in
cento.
XIV. Nel quale si legge di mastro Benedicite, come tornasse ad aver
paura del diavolo.
XV. De’ progressi che avea fatto il biondo Fiordaliso nell’arte di
poetare.
XVI. Qui si conta di un angelo, il quale aveva perdute le ali.
XVII. Come il conte Ugo ragionasse della sua felicità senza pari.
XVIII. Nel quale è dimostrato che il diavolo non è così brutto come
lo si dipinge.
XIX. Qui si narra dell’ultima sbevazzata di frate Gualdo
cisterciense.
XX. Come espiasse il suo fallo la dama di Torrespina.


IL LIBRO NERO


CAPITOLO I.

Nel quale si racconta di mastro Benedicite, strozziere, e della gran
paura che avea.
Il sole era tramontato in mezzo a certi nuvoloni neri neri che
ingombravano l’orizzonte marino, minacciando, dopo una molto bellissima
giornata, una notte burrascosa. Gli ultimi riflessi dell’astro,
costretti sotto quella cappa di piombo, accendevano come una striscia di
fuoco lunghesso il mare, che si vedeva nereggiare in lontananza, di là
da parecchi ordini di monti e colline, che sono i contrafforti
dell’Apennino ligustico.
Le giornate, essendo sul finire d’autunno, riuscivano brevi; l’aria, già
fresca per la stagione, si raffreddava sempre più per l’accostarsi del
temporale e per il calar della notte. E già nascosto nell’ombra, sebbene
fosse murato su in alto, era il castello di Roccamàla, severo edifizio
tra il monastico e il feudale, siccome era dimostrato da un campanile,
vecchio avanzo di chiesa, dimenticato in mezzo a torrioni e mura
merlate, le quali avevano da due lati l’abisso, e un largo fosso dagli
altri due, dov’era più dolce il pendìo.
Se la memoria non mi tradisce, questo castello di Roccamàla era stato da
principio un convento di frati cirsterciensi, ordine il quale, fondato
appena da S. Bernardo, si propagò alla lesta come una nidiata di
conigli, e corse in pochi anni a popolare i paesi vicini. In Italia,
segnatamente, e’ furono come le cavallette d’Egitto. Dappertutto
edificarono monasteri, e in parecchi luoghi (poichè allora, a quanto
sembra, la novità delle fogge presiedeva eziandio alla prevalenza di
questo o di quel sodalizio di frati) si allogarono in que’ conventi che
altri ordini più non potevano far prosperare, tanto erano andati giù nel
concetto delle anime timorate.
Senonchè, i cisterciensi, o bernardoni, come erano chiamati dalle
popolazioni ligustiche dal nome del fondatore, fortunatissimi altrove,
nol furono del pari nel loro ricovero di Roccamàla. Nocque loro la
fortezza naturale del sito e il comandar che faceva a due ottime strade
(ottime, s’intende, per i tempi d’allora); laonde, corsi e ricorsi quei
monti da gente strana, Roccamàla fu presa e divenne feudo di un valoroso
conte, il quale non aveva altro che la sua spada, ma sapeva con quella
tagliarsi dalla pezza la sua parte di tela. E intorno a Roccamàla il
conte Ugo si tagliò di siffatta guisa un largo dominio, donde appariva,
come tanti suoi pari, avvoltoio appollaiato sulla rupe, pronto a calare,
se le discordie altrui gliene porgessero il destro, sulla marinaresca
riviera. I frati, messi fuori di sella, dovettero quindi andarsene a
dimorare più giù, verso il paesello che dipendeva dalla rocca, ma dove
furono sempre a disagio, e intisichirono, come una pianta in luogo
uggioso, sebbene il conte Ugo non li molestasse per nulla. Il fiero
castellano non badava ad altro che a rafforzare e munire la sua rocca;
la quale, pochi anni di poi, per una di quelle contese così facili a
nascere tra vicini, sostenne valorosamente l’assedio di uno dei signori
Del Carretto, e lo rimandò con Dio, conciato, lui e la sua gente, per il
dì delle feste.
Ma egli non è di questo conte Ugo, capo stipite dei signori di
Roccamàla, che io debbo narrar le gesta ai lettori, sebbene talfiata e’
dovrà essere ricordato con distesi ragionari. Narro di forse cento
trent’anni dopo di lui, quando quel forte legnaggio faceva bella
testimonianza di sè in un altro conte Ugo prode e gentil cavaliere,
amante delle giostre, delle cacce, delle tenzoni, dei trovadori e de’
geniali convegni, per le quali cose era quasi sempre calato il ponte di
Roccamàla e risuonavano le spaziosi arcate di festevoli risa e di liete
canzoni.
Gaia gente, allegre mura! Il giovine conte era ricco, potente e bello
come un eroe da romanzo, e felice per sovrammercato, come gli eroi da
romanzo non sogliono essere.
Il papa lo aveva benedetto, sul nascere, mandando al conte Ruberto suo
padre, per sì fausto evento domestico, un sacco d’indulgenze, che
potevano bastare al neonato per tutto il tempo della sua vita, e
avanzarne ancora un bel gruzzolo per uso della sua gente di casa.
Nella sua rocca convenivano d’ogni parte i più fedeli amici che uomo
vedesse mai, innamorati dei modi suoi cortesi, liberali e magnifici; ed
erano tali per nobiltà di sangue, e per alto valore e prodezze, da poter
rinfrescare intorno a lui, nuovo Artù, l’onorata memoria dei cavalieri
della Tavola rotonda.
Egli aveva i più bei falconi d’Europa, che gli erano stati donati da un
suo zio materno, gran maestro de’ cavalieri di Malta. Della qual cosa
era giunta voce perfino al re di Francia, il quale, avvezzo per lo
innanzi a ricevere ogni anno da Malta i migliori falconi pellegrini, e
non gli parendo più che il gran maestro dell’ordine facesse il debito
suo con la usata larghezza, ebbe a tenerne parola co’ suoi gentiluomini.
E uno di costoro gli rispose: — _Sire, j’ai oui dire que le Grand
Maistre a un sien neveu, de fort bonne noblesse, qu’ il a en grande
affection, et c’est lui qui reçoit les plus beaux faucons et les plus
gentils que l’on puisse voir._ — A cui il re di rimando: — _M’est avis
que ce jeune homme, puisque il est d’aussi bonne noblesse que vous le
dites, vienne chez nous, et nous le ferons notre grand fauconnier, et
l’aurons en haute estime, tel éstant notre bon plaisir. Aussi nous ne
perarone pas de si nobles et gentilles bêtes, si chères à monseigneur
Saint-Hubert, et gagnerons un vaillant chevalier pour notre joyeuse
maison de France._ —
Ma il conte Ugo non potè, siccome pur era desiderio dello zio, tenere lo
invito, in modo tanto cortese a lui fatto dai reali di Francia. Di fama,
di potenza e di onore, egli aveva quanto bastasse ad orrevole cavaliero
del suo tempo; e poi, conte Ugo non avrebbe lasciata l’Italia per il
trono del mondo se mai Domineddio glielo avesse profferto; imperocchè
egli era amato dalla più bella tra le creature umane, da Giovanna di
Torrespina, da colei che celebravano per leggiadria e valore quanti
erano cultori della gaia scienza, e che lasciò ella stessa, a
testimonianza del suo ingegno, le più graziose ballate in quella lingua
provenzale, che era in fiore per tutta Italia, innanzi che l’amante
della bellissima Avignonese facesse della lingua italiana l’idioma
d’amore.
Per simiglianti venture il conte Ugo non saliva punto in superbia, che
borioso non era, nè sciocco. Prode in armi, aveva combattuto daccanto al
padre, e non ne menava alcun vanto; era misurato ne’ modi, schietto,
umano e gentile. Ed ognuno, ricordando come una indovina, chiamata dalla
buona contessa Alda sua madre alla culla del bambino, avesse
pronosticato: «tuo figlio sarà un uomo felice», ripeteva che il conte
Ugo era felice davvero, e, quel che più monta, era degno di esserlo.
Ma cotesto per l’appunto faceva venire i brividi, ogni qual volta se ne
parlasse, a mastro Benedicite, lo strozziere, o falconiere che dir si
voglia, dei signori di Roccamàla.
E perchè mo’? Nato e cresciuto nel castello, il vecchio mastro
Benedicite amava il signor suo, sto per dire più dei suoi falconi, i
quali falconi egli amava più dei suoi occhi medesimi. Egli era un _quid_
tra il servo e il maggiordomo, tra il castaldo e il comandante del
presidio; era insomma il ser faccenda di casa; il vecchio arnese della
rocca, che aveva libertà di parola come un pazzo. Stato particolare che
si spiegherà agevolmente col dire che egli era fratello di latte del
vecchio conte Ruberto; che aveva salvata la vita, o quasi, alla contessa
Alda, un giorno che il suo ronzino le aveva vinta la mano, e che, nato
strozziere, perchè tale era suo padre, e tale suo avolo, aveva pure
studiato un po’ di latino sui vecchi messali dei frati del paese, tanto
da essere creduto uomo di dottrina da tutto il vicinato, e degno di
intuonare il _benedicite_ alla mensa dei suoi padroni, alla quale era
ammesso, sebbene ad un desco più basso. Ora che i lettori sanno anche
per qual ragione il nostro valentuomo si chiamasse mastro Benedicite,
noi finiremo il bozzetto col dire che egli sapeva il mestier suo a
menadito, e (poichè bisogna confessar tutto, il male come il bene) ne
andava superbo assai più che non fosse consentito dalla cristiana
umiltà.
E adesso che lo si conosce _intus et in cute_, co’ suoi vizi e con le
sue virtù, e non si può dubitare che non amasse il conte Ugo, come va,
chiederete, che a mastro Benedicite venissero i brividi, ogni qual volta
si toccasse della felicità del padrone?
Qui giace nocco, lettori amorevoli, e se vorrete tirare innanzi a
leggere con quella pazienza medesima che io a scrivere, farò di
chiarirvi il negozio tra breve, senza guastar l’ordine del racconto, il
quale ora mi costringe a prendere una viottola di fianco. Parrà una
digressione, un perditempo, e non è che una scorciatoia, per la quale
faremo un viaggio e due servizi.
Il dotto strozziere se ne stava nella sua falconeria, comodo edifizio
accanto alla seconda porta della rocca, dove erano tutte le generazioni
di falchi e d’astori, ed ogni altro arnese attinente alla caccia. Quella
nobile famiglia di bestie aveva faticato di molto nella giornata, poichè
il conte di Roccamàla era andato con numerosa brigata a falconare, ed
aveva cavalcato per una ventina di miglia, fino al castello di
Torrespina, facendo gran caccia di uccellame e selvaggina. Il buon nome
degli alati cacciatori di Malta era stato nobilmente sostenuto al
cospetto di leggiadre dame e cavalieri, e mastro Benedicite raddoppiava
il cibo a’ suoi figliuoli, com’egli soleva chiamarli, dando loro le
interiora, cuori e fegatelli di starne, lepri, ed altri volatili e
quadrupedi, che erano stati feriti a morte dai rostri di quelle bestie
valorose.
— _Optime, fili mi!_ Tu non hai nessuno che possa starti a paro. _Nullus
tibi se conferet heros_, sebbene tu abbia già i sessanta suonati. Tò,
mio dolce amico, questo è per te. —
Queste parole, erano rivolte ad un bel falco randione, che mastro
Benedicite s’era recato amorosamente sul pugno, offrendo alle sue
allegre beccate uno spicchio di carne sanguinolenta. Era quello il
beniamino dello strozziere, e degnamente rispondeva alla preferenza
affettuosa di mastro Benedicite, facendo il fatto suo per modo da non
toccargli neppure il sommo delle dita, e interrompendo ad ogni tratto il
suo pasto (notate gran tenerezza) con un picciol grido di gioia e di
gratitudine.
— E tu, che fai costì, manigoldo? — borbottò poco stante mastro
Benedicite, facendo la voce tanto ruvida, quanto era stata dolce
dapprima. — Metto pegno che ancora non sarà nulla a suo posto, nè
lunghe, nè cappelli.
— C’è tutto, zio, ed ho anche ripulito per bene il pavimento; — rispose,
senza scomporsi punto per quella infinita ruvidezza, un biondo
adolescente, che era venuto allora a stringersi ai fianchi del vecchio
falconiere.
— E la lezione?
— La so.
— Tanto meglio per te, se tu di’ il vero, fannullone. Orvia, sentiamo un
tratto.... Quante sono le generazioni de’ falchi? —
Il fanciullo stette un po’ sopra pensiero; quindi rispose a mezza voce:
— Sono sei....
— Ah, ah! — gridò mastro Benedicite, in quella che proseguiva a dare il
pasto alle sue bestie — certuni lo dicono, ma cotestoro, ragazzo mio,
non sanno neanco l’abbicì della falconeria.
— Sono sette; — si provò a dire il fanciullo.
— Sette, sì certamente, sette e non sei. La prima?
— Il randione.
— Adagio, adagio a’ ma’ passi e non mettiamo il carro davanti a’ buoi.
Si va dal minore al maggiore, _de minore ad majorem_. Il primo legnaggio
sono lanieri, che sono i più vani: molta apparenza e poca sostanza. E il
secondo?
— Il secondo, son quelli chiamati pellegrini.
— Sta bene, e perchè?
— Perchè persona non può trovare il loro nido; anzi sono presi come in
pellegrinaggio, e sono molto leggeri a nutrire, cortesi e di buon’aria,
e valenti e arditi.
— Bene, bene! — borbottò il falconiere — e il terzo?
— Il terzo sono falconi montanini, che si nascondono dappertutto, e
quando son nascosti non fuggono più; il quarto falconi gentili; il
quinto....
— Non correr già a precipizio! _Festina lente_, ragazzo mio! Che cosa
sono anzitutto i falconi gentili?
Il fanciullo era rimasto a secco. La voglia di far presto gli aveva
fatto perdere il filo.
— Ma.... — disse egli — i falconi gentili sono.... sono....
— Sono quel che tu non sai, per quanto io vedo. E quello che tu non sai,
gli è che i falconi gentili sono nobilissimi, prendono la gru, e non
hanno che un male, cioè di volar troppo lungo, per modo che si bisogna
averne buon cavallo per seguirli, e quassù per i nostri greppi non
approderebbero. Ora al quinto, e bada a non incespicare.
— Il quinto — proseguì il nipote — son gerfalchi, li quali passano tutti
gli uccelli della loro grandezza, e sono forti, fieri, ingegnosi e bene
avventurati in cacciare e in prendere; il sesto è il sagro, molto grande
e somigliante allo sparviero.
— All’aquila! all’aquila! — interruppe mastro Benedicite. — Vedi mo’,
Anselmuccio, questo è appunto un sagro; o dove ti sembra egli che
rassomigli allo sparviero? Quello che tu di’ è l’astore, non già il
falco sagro.
— All’aquila; — soggiunse il ragazzo, risovvenendosi, — ma, degli occhi,
del becco, delle ali e dell’orgoglio somigliante al gerfalco. Il
settimo....
Mastro Benedicite non aveva messo a tortura il nipote, che per farlo
giungere a quel settimo.
— Eccolo, il settimo, — interruppe egli con aria di trionfo — eccolo, il
randione, cioè, il signore e re di tutti gli uccelli, che non è niuno
che osi volare appresso di lui, nè dinanzi. Vedi, figliuol mio, tu
_lasci_ il randione contro qualsivoglia uccello munito di poderose ali,
e non c’è verso di fuggirgli; cadono tutti tramortiti in tal guisa, che
l’uomo li può prendere, come fossero morti. —
E ciò detto, essendo finito con la lezione il pasto delle sue bestie
nobilissime, mastro Benedicite si volse da capo al beniamino randione:
— Non è egli vero, _fili mi dilectissime_, che voi siete uccello da
cosiffatte prodezze? Or via, pigliate il cappello e buona notte. _Salve
tandem!_
Il falcone, con la mansuetudine di tutti i suoi pari, quando siano
manieri, e stati da gran pezza a scuola sotto un buon maestro d’arte
_aucuparia_, raffermò con moti quasi soavi le palpebre, si lasciò
incappellare come un membro della confraternita della Morte, e coi geti
annodati ai piedi si pose chetamente sul bastone a dormire.
Ora, in quella che mastro Benedicite si metteva attorno agli altri
falconi per far loro il medesimo uffizio, si affacciò sull’uscio della
falconeria un famiglio.
— Ohè, mastro Benedicite, s’ha egli da alzare il ponte, questa sera?
— Che ponte mi vai tu pontando ora? — gridò stizzito il falconiere.
— Sì, il ponte, il ponte! — disse di rimando quell’altro. — Messer lo
Conte e tutta la sua gente sono per andare a mensa, e credo non
aspettino più altri da fuori.
— Questo sapevo; e poi?
— E poi, mastro Benedicite, io non c’entro. Se a voi piace che il ponte
rimanga calato, accomodatevi pure. Voi avete da messer lo Conte ogni
autorità, per far questo ed altro....
— Sì certo, e me ne vanto; — rispose lo strozziere, che parlava allora
da comandante della guardia — e penso di non essere venuto meno alla
fiducia di messere Ugo. Il ponte è alzato.
— È calato, — s’impuntava a dir l’altro — qui siete in errore; è calato.
— Amico, — esclamò mastro Benedicite, dopo aver bene squadrato in viso
il famiglio, alla luce di una lanterna che aveva accesa durante quel po’
di conversazione, — _bibisti quam maxime_, a quel che pare.
— Che cosa dite? io non intendo il vostro latino.
— Dico che tu t’impacci de’ fatti tuoi, e non mi venga a far l’omo; dico
infine che tu se’ pazzo, o ubbriaco. —
Quell’altro si strinse nelle spalle, facendo con le labbra l’atto di chi
alla perfine non ci ha nè sal nè pepe da metter su. E mentre il vecchio,
presa la lanterna, esciva dalla falconeria per avviarsi alla porta della
rocca, si fece in tal guisa a proseguire il discorso:
— Io non volevo far altro che darvi un cenno della cosa. Per me, poi,
stia calato, o si alzi, non me ne importa un frullo. Ad altri, in
cambio, può talentare che l’escita sia libera, e non c’è nissun male.
Già, chi ha da venire a darci molestia quassù? Nemici molti, si
farebbero scorgere troppo tempo prima. Pochi, avrebbero degna
accoglienza. E se pure non si ha paura del diavolo.... il quale del
resto non ha bisogno....
— Sta zitto là, manigoldo! — gridò Benedicite, e fu ad un pelo di
mettergli la palma della mano sui denti. — Tu non sai quel che ti dica,
e meno ancora di quello che hai detto poc’anzi del ponte calato.
— Orbene, vedete di per voi; è alzato o calato? Erano allora per
l’appunto alla porta, e i buffi dell’aria esterna s’ingolfavano
rumorosamente sotto l’androne. Mastro Benedicite non rispose, che non
avea tempo da schermire di lingua col famiglio, e con passo deliberato
corse da un lato dell’androne a cercare un uscio socchiuso, donde usciva
un po’ di luce fumosa e un suon di voci avvinazzate.
— Che fate voi qui, pendagli da forca? Giuocate a zara? Avrete tempo a
giuocare, quando sarete con Satanasso, che il malanno vi ci porti
_illico et immediate!_ Chi ha calato il ponte, che è stato levato pur
mo’ sotto i miei occhi?
— Mastro Benedicite, — rispose uno degli arcieri, alzandosi dalla panca,
— noi non ci siam mossi di qui. Se il ponte era alzato, come voi dite,
penso che lo sarà tuttavia.
— No, vi dico; è calato.
— Sarà qualche paggio, — entrò a dire un altro della brigata, in quella
che tutti uscivano dalla camera per tener dietro allo strozziere, — sarà
qualche paggio randagio, che ne fa qualcuna delle sue.
— Baie! Questi manigoldi si calano giù nel fosso dalle finestre, quando
loro metta conto di uscire a far le scorribande nel vicinato. E così si
fiaccasse una volta il collo, messer Fiordaliso, che ha introdotto il
costume di appendersi alle scale di corda! Ma qui, vivaddio, gatta ci
cova, o voi altri avete calato il ponte, ed ora che siete alticci dal
vino, non ve ne ricordate più altro. —
Gli arcieri, che ben sapevano di non averci messo mano, ma che pure
volevano farla finita con le sfuriate di quell’autorevole personaggio,
non risposero verbo. Chi tace acconsente; e per tal guisa fu tacitamente
ammesso che il ponte di Roccamàla, la sera del 29 novembre, giorno di
san Saturnino, dell’anno del Signore 1284, era stato levato e calato.
Ma quel ch’era stato disfatto bisognava rifare. E già si appigliavano
alle manovelle per trarre le catene, allorquando si udì dall’altro lato
del fosso lo scalpito di un cavallo che risaliva galoppando il pendìo,
e, subito dopo, lo squillo di un corno che domandava ospitalità al conte
Ugo di Roccamàla.
— Chi diamine giunge a quest’ora? — esclamò uno degli arcieri.
— Proprio a tempo, — soggiunse un altro, — per farci risparmiar la
fatica!
— E come ha fretta, il sere! E’ suona alla disperata.
— Su, su, tirate, alla croce di Dio, e non mi state a far chiacchiere! —
interruppe lo strozziere.
— O perchè volete voi che si alzi il ponte, ora, per calarlo da capo? E
l’ospite che giunge, per dove volete che passi?
— Che ospite del malanno! Vada a farsi impiccare per la gola....
— Ma.... e messer lo Conte, se giunge a risaperlo....
— Messer lo Conte.... messer lo Conte.... vi comando io, e pagherò io
per tutti. —
E dicendo queste parole, il vecchio strozziere tremava a verghe.
— Poffarbacco! — esclamò uno degli arcieri — si direbbe che avete paura
di una visita di messer Satanasso in persona. Basta, sia come vi
talenta, o, per parlar latino alla vostra guisa, _fiat volontas tua_,
mastro Benedicite. Orsù, figliuoli, alle manovelle!
— Sì, sì, alle manovelle! — ripetè lo strozziere, più morto che vivo,
senza stare a piatire coll’arciere, e mettendosi all’opera egli stesso
con le braccia tremanti.
— Ohè! ohè! messeri! In tal guisa si ricevono gli ospiti, dalla gente
costumata?
Queste parole, accompagnate da un riso sarcastico, venivano dall’altra
banda del fosso. Mastro Benedicite non poteva scorgere chi fosse,
essendo egli sotto la luce della lanterna, e il nuovo capitato fermo di
là dal ponte nella oscurità della notte; ma tant’è, gli parve di
scorgere un paio d’occhiacci fiammeggianti, e per moto naturale si recò
le dita alla fronte, per farsi il segno della croce.
— _Domine salvum fac.... Vade retro Satana_.... — borbottò egli tra i
denti. — Alzate, alzate, in nome di Dio!
Intanto il riso sarcastico si faceva udire da capo, e la voce con esso.
— Ah! ah! grazie, grazie, per mia fe’, mastro Benedicite! Un povero
romèo è egli dunque un cane tignoso, che gli si chiudano le porte sul
muso? In verità ch’io mi facevo più ospitali i signori di Roccamàla. —
Tocco nel vivo, lo strozziere si fe’ qualche passo innanzi, ma senza por
piede sul tavolato del ponte, e tirando intorno a sè tutti gli arcieri,
perchè gli facessero buona difesa; quindi, con voce che si provava a far
parere sicura, rispose:
— I signori di Roccamàla furono sempre e saranno i più ospitali
cavalieri della cristianità, messer pellegrino, e cotesto abbiatevelo
per fermo. Appunto in quest’ora c’è corte bandita a tutti i più riputati
che portino spada e cappa in questi dintorni, e scorre il vin di Cipro,
che alla mensa del serenissimo doge di Venezia non se ne bee del
migliore. Ma gli ospiti del magnifico conte Ugo son persone a modo, e
non hanno la vostra meschina figura, messer pellegrino, sebbene io la
scorgo attraverso questa mezza oscurità.
— Ah, voi giudicate l’uomo dalla apparenza? Io dovrei pigliarvi allora
per un otre, se bene vi scorgo a mia volta. Andate là, mastro
Benedicite... e non vi faccia meraviglia ch’io vi chiami col vostro
nome, poichè l’hanno pur mo’ gridato gli uomini vostri. Andate là, ed
annunziate al magnifico conte Ugo la venuta di un povero pellegrino di
Roma.
— Di Roma! — ripetè con piglio d’incredulità lo strozziere, in quella
che dentro di sè si raccomandava a tutti i santi del calendario.
— Ne dubitate? Ci ho gusto. L’uomo che dubita è l’uomo che pensa. Ma io
ci ho di buone testimonianze a mettervi fuori, che potranno acquetare la
vostra timorata coscienza. Vengo da Roma, dove ho visto il Papa e la
Santa Madre Chiesa, che fanno insieme una buonissima vita. Peccato che
non abbiano figliuoli! Basta, io porto qui, sulla sella del mio magro
ronzino, una gerla di coroncine benedette e d’indulgenze plenarie, e poi
le più succose dispense che ogni buon cristiano possa desiderare;
dispense di sgravarsi senza dolore, checchè sia stato decretato in
contrario; dispense di mangiare il proprio simile, quando si abbiano
buoni denti, e di bere senza ubriacarsi, mettendo acqua nel vino. Che ve
ne pare, mastro Benedicite? son io degno di entrare?
— Su, su, arcieri! — urlò il vecchio strozziere. — Alle catene, alle
catene!
Ma sì, a persuaderli che gli tenessero bordone! Gli arcieri erano
rimasti stregati dalle bizzarrie del pellegrino, e sghignazzavano
ereticamente, senza badare alle furie di mastro Benedicite. Ed egli a
gridare, a tempestare, a pigliarli pel collo (che la paura gli
raddoppiava le forze), fino a tanto non li ebbe ridotti all’obbedienza.
Ma, sebbene ci si mettessero tutti, ed egli medesimo si provasse ad
aiutarli, le catene non iscorrevano punto.
— Voi non fate il debito vostro, manigoldi; tirate a voi con quanta
forza avete!
— Mastro Benedicite le catene hanno la ruggine. Intanto quell’altro
continuava a ridere.
— Mastro Benedicite, la ruggine è molto più cortese dama che voi non
siate cavaliero. Ora, voi vedete, già venti volte, non una, avrei potuto
passare, e nol fo, per non usare villania al vostro signore. Ma se egli
non è malnato castellano, udrà i tre squilli di corno che si mandano
alle porte della sua rocca. —
Così parlò il pellegrino di Roma, e, posto mano al corno che gli pendeva
da fianco, suonò con esso tre volte.
— Misericordia! — esclamarono gli arcieri. — Questa è la tromba del
giudizio universale.


CAPITOLO II.

Dove si legge della felicità di conte Folco, come fosse celebrata dal
biondo Fiordaliso.
Al primo squillo di corno, quel tale squillo che avea fatti rimanere
sospesi con le braccia in aria gli arcieri, conte Ugo stette egli pure
sospeso, con la coppa d’oro alle labbra.
— Un ospite! — esclamò egli, voltandosi alla brigata. — Sia il ben
venuto a Roccamàla.
E bevuto un sorso, mandò attorno la tazza, quella tazza d’oro lavorato
con la quale i suoi antenati, da Ugo il negromante, fino a Ruberto il
taciturno, avevano avuto costume di far le loro libazioni ospitali.
— Messere, — disse Fiordaliso, — io mi penso che questo sconosciuto
visitatore rimarrà un pezzo alla porta e morrà anche a ghiado, se
aspetta che gli apra mastro Benedicite. —
Colui che parlava in tal guisa era un giovine sui vent’anni, vestito di
un farsetto azzurrognolo listato di bianco e di vermiglio, e con una
zazzera bionda le cui ciocche scompigliate scendevano a nascondergli
mezza la fronte e le guancie. Il viso roseo e la delicatezza dei
contorni lo avrebbero fatto togliere agevolmente per una leggiadra donna
travestita da paggio, se certi peli vani che ombreggiavano il labbro
superiore e il basso delle guance, non avessero fatto manifesto che egli
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