Il Libro Nero - 07

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di non scegliere una sposa tra le molte bellissime che gli erano
profferte da orrevoli famiglie, desiderose d’imparentarsi con lui. Io
gliene dissi più volte, ma e’ non volle saperne. Mi rispondeva sempre
sorridendo: c’è tempo, c’è tempo! E il tempo è passato e la sua stirpe
si è spenta con lui. Ahimè, messere Morello! Il buon seme si va
miseramente perdendo; oggi i Roccamàla; domani forse i Torrespina!... —
Così dicendo messer Corrado s’era fatto cupo. Morello avrebbe potuto
rispondergli com’egli ancor fosse di buona età e come potesse avere un
erede degno di lui, solito complimento che si fa ai vecchi, deserti di
figliuolanza; ma non disse nulla di ciò, e volse in quella vece il
discorso a Roccamàla, donde messer Corrado lo aveva distolto con la sua
malinconica osservazione.
— E ditemi ora, messere, a chi toccherà la signorìa di Roccamàla?
— Ruberto il taciturno, — rispose il conte Corrado, — aveva un fratello
che andò a morire in Lamagna. Si dice ch’egli abbia lasciato un figlio,
ed è voce che quest’ultimo rampollo di così nobile pianta sia per
ascriversi alla milizia del glorioso san Bernardo, in un monistero di
quelle parti là. Altri dice che egli sia morto; ma io non potrei
parlarne con sicurtà. Questo so che furono mandati corrieri in Lamagna,
per cercare di lui.
— Ma se fosse morto davvero, o la sua deliberazione di ritrarsi dal
mondo fosse irrevocabile....
— Oh, allora, — soggiunse messer Corrado, — il dominio di Roccamàla
potrebbe essere rivendicato dal vostro gran genitore, che novera tra’
suoi maggiori quel Guglielmo V, detto il Lungaspada, il quale ebbe
appunto in moglie una donna dei Roccamàla, siccome ho rilevato dal
notulario della nostra famiglia.
— Voi siete buon intendente di genealogie! — disse Morello, inchinandosi
con atto leggiadro ai suo ospite.
— Baie, cugino! egli bisogna pur fare alcun che, in questi ozii
campestri! Qui poi non abbiamo araldi, come in Francia e nelle corti più
reputate, i quali possano tener memoria di queste cose; epperò ogni
castellano ha le sue carte, dove nota le discendenze, le agnazioni, i
parentadi, e tutte l’altre cose memorabili delle famiglie. Voi vedete
che ad esser dotto in cosiffatta materia non ci vuol poi molta fatica. —
Durante questo discorso col Torrespina, Morello aveva sospinto più e più
volte gli occhi da un lato, sogguardando madonna. Ma egli non s’era
accorto di nessun mutamento che in lei fosse avvenuto al ricordo dei
Roccamàla. Tranquilla in apparenza come prima, ella teneva un libro tra
mani e ne andava sbadatamente svolgendo le pagine.
Ansaldo, che le stava seduto daccanto, venìa tratto tratto bisbigliando
a lei motti leggiadri, ai quali, bisogna pur confessarlo, ella
rispondeva a mala pena.
Quel giorno Morello di Monferrato si ritrasse più presto nelle sue
stanze e gettatosi bocconi sul letto si diede a piangere amaramente.
Rambaldo di Verrùa s’era fatto daccanto a lui per consolarlo.
— Suvvia, Morello, amico mio, fatti animo non piangere come una
femminetta! Ciò disdice ai virili propositi che t’hanno condotto a
questo sperimento della vita. Vedi, io, io medesimo, non accuso quella
donna, come tu fai ora con le tue lagrime dirotte. Che volevi tu che
facesse, o dicesse? Presente il marito, presente tutta la brigata che
aveva gli occhi su lei, doveva ella lasciarsi scorgere, mostrarsi
turbata, svelare l’interna ed assidua cura dell’anima?
— E sei tu che parli in tal guisa? tu, Aporèma?
— Io, perchè no? Non amo trionfare di te con la menzogna, ed ogni mio
ragionamento è condotto a filo di logica. Tu, uomo, disperi oggi così
facilmente e senza ragione, come ieri facilmente e senza ragione
credevi. Ora, l’una cosa e l’altra debbono esser fatte con piena
cognizione di causa. —
Morello non lo ascoltava già più, e continuava tra i singhiozzi a
sfogare la piena delle sue amarezze.
— Povero Ugo di Roccamàla! povero stolto! Ecco, tu se’ morto appena da
un mese, e gli è già come se l’eternità fosse passata sul tuo sepolcro.
Gli amici tuoi.... ve’ come pensano a te! La morte d’un falco randione,
o d’un can da giugnere, avrebbe lasciato più ricordanza in quelle anime
sciocche e malvagie. E quello sciagurato che tu amasti sopra tutti gli
altri, tranquillo, sorridente, superbo, desidera la donna tua, intende
senza rimorso a succederti, coglie il momento che si ricorda il tuo
nome, per dirle forse: vi amo! Va, traditore! va, Giuda! Alla croce di
Dio, ho a bere il tuo sangue! —
Rambaldo sorrise a queste parole di Morello, e gli chiese:
— Sei tu guarito dell’amicizia?
— Sì.
— Guarirai dell’amore.
— Taci, taci! esso mi ucciderà. —
Il giorno appresso, madonna Giovanna, come vide Morello, fu pronta a
chiedergli se avesse sofferto, e perchè. La bellissima donna parve molto
sollecita della salute del suo ospite, e curante della persona di lui.
Ma cotesto, che dovea far lieto Morello, gli riuscì per un altro verso
doglioso.
A quelli atti della castellana, il viso di Ansaldo si rabbuiò. Tutto
quel giorno stette imbronciato; a mensa fu di pessimo umore. Ed ella
intanto, più cortese che mai con Morello, non diede pure uno sguardo
alle furie d’Ansaldo.
S’era ella finalmente avveduta dell’amor di costui? Le aveva egli detto
parola che non le consentisse d’ignorare più oltre? E, ciò sapendo, le
si era forse appalesato, in tutta la orridezza sua, l’animo ingrato del
secondogenito di Leuca? Queste erano le domande che Morello andava
rivolgendo tra sè, mentre ella si dava tanta cura di lui, e mentre il
volto di Ansaldo si rannuvolava sempre più.
Alle seconde mense, e in quell’ora che i più lieti ragionari si
alternavano con le tazze ricolme di vini aromatici, volle fortuna che si
riparlasse di Roccamàla.
— È egli vero, — disse messer Corrado, volgendo il discorso ad Ansaldo
di Leuca, — è egli vero ciò che mi fu riferito stamane, che lo
strozziere di Roccamàla....
— Sì, — rispose quegli; — mastro Benedicite si è fitto in capo che il
castello, i campi, i boschi ed ogni diritto di dominio su quella vasta
contèa, gli appartengano.
— Ma non si tratta di un testamento?...
— Per l’appunto, e’ dice di aver trovato in fondo ad uno stipo, nella
camera del suo signore, una pergamena con la quale il conte Ugo lo
chiama suo erede nel possesso della contèa e ne raccomanda
l’investitura. Però lascio argomentare a voi, messer Corrado, com’egli
sia salito in superbia, e come già si vada pigliando una satolla di
padronanza feudale.
— Egli dunque, — disse Corrado, — aveva il presentimento di una morte
vicina, il nostro povero amico?
— O non morì egli, — disse uno dei convitati, — per veleno che gli avea
dato a bere un pellegrino misterioso?
— Che! di simiglianti storielle ne corsero molte nel volgo, e molto
giovò a propagarle la stoltezza del vecchio Benedicite, il quale vedeva
diavolerie dappertutto. Il pellegrino era un povero giullare, tocco nel
_nomine patris_, che non avrebbe fatto male ad una mosca, e che se ne
andò la mattina con Dio. Ugo di Roccamàla era chiuso nella sua stanza,
disteso nel suo letto, dove non lo aveva certamente ucciso il veleno.
— E che cosa, dunque? — dimandò sogghignando Rambaldo di Verrùa.
— Chiedetene ad Enrico Corradengo qui presente, il quale era stato quel
giorno commensale del povero Ugo, e potrà dirvi quante volte la coppa
d’oro fosse andata in giro, colma di ippocrasso....
Qui Morello di Monferrato, che fino allora aveva durato una gran fatica
a contenersi, balzò in piedi, percuotendo con le pugna strette la
tavola.
— Voi mentite, Ansaldo di Leuca!
A quella improvvisa sfuriata di Morello, si fe’ un grande silenzio per
tutta la sala.
Ansaldo, che era diventato pallido come la morte, si alzò in piedi a sua
volta.
— Morello di Monferrato, — rispose egli freddamente, — nessuno mi ha
detto mai villania, che non ne pagasse il fio, pel ferro della mia
lancia se cavaliero, pel piatto della mia spada se insolente plebeo. —
Morello rispose anzitutto con un sorriso di compassione.
— Noi vedremo, — soggiunse egli poscia, — se gli atti risponderanno ai
vanti vostri, messere. Ho notato a due tiri di balestra dal ponte di
Torrespina un bel piano, presso una gran quercia, che mi par luogo
acconcio ad un passo d’armi. Colà, con licenza di messere Corrado, io
cavalcherò domattina con lancia, mazza e spada, e tristo chi verrà a
contendermi la via.
— Messer Corrado, — disse Ansaldo di Leuca, — vorrete essermi compagno
domani, all’usanza di Lamagna.
— No, o messere, — rispose con molta dignità il castellano di
Torrespina. — Morello di Monferrato è mio consanguineo, e se io pure
avessi a trovarmi sotto la quercia di Marenda, come quel luogo è detto
dalla gente del contado, e’ sarebbe piuttosto quale avversario vostro,
imperocchè io non avrei dovuto patire che voi diceste cosa contraria
alla onorata ricordanza di un cavaliero che era altamente pregiato a
Torrespina. Ma voi siete mio ospite, messere Ansaldo, ed altro non vi
dirò, che renda più triste la memoria di questa giornata. —
Ansaldo si morse le labbra e non rispose più verbo.
— Grazie, messer Corrado! — soggiunse allora Morello. — Io debbo ora
chiedere perdonanza a madonna dello aver qui troppo facilmente ascoltata
la mia collera. Come voi mi avete pur ricordato, qualche goccia di
sangue dei Roccamàla scorre nelle mie vene.... E voi, messere Ansaldo,
sappiate che mi sarà compagno alla quercia di Marenda il mio leale amico
e pro’ cavaliere Rambaldo di Verrùa. Amici non mancheranno a voi per
sostenere le vostre ragioni, e come testè mi avete nomato taluno che
saprebbe far testimonianza della sconcia morte di un Roccamàla, voi
potrete condurlo domattina con voi.
— E’ ci sarà, astori del Monferrato! — esclamò il Corradengo, tocco sul
vivo.


CAPITOLO XI.

Qui si conta di un cavaliere che ebbe il premio innanzi alla giostra.
Dirvi come si rimanesse Giovanna di Torrespina a que’ concitati
discorsi, mi sarebbe troppo malagevole ufficio. Una penna così mal
destra, come la mia, non verrebbe certamente a capo di ritrarvi quella
delicatezza di pensieri e di sentimenti onde fu agitato l’animo della
leggiadra castellana, fino al momento che ella, inavvertita quasi, si
ritrasse dalla sala del banchetto, accompagnata dalle sue damigelle.
Pochi istanti dopo la sua dipartita, si fece innanzi un paggio, per dire
a messer Corrado e agli ospiti suoi, come madonna Giovanna, sentendosi
alquanto stanca, si fosse ridotta nel suo appartamento; l’avessero per
iscusata, se quella sera non sarebbe venuta a godere di così gentil
compagnia.
Intesero tutti la scusa, e Ansaldo di Leuca ed Enrico Corradengo furono
i primi ad uscire dalla sala, togliendo anzi commiato da Torrespina pel
giorno vegnente.
Strana condizione di quattro cavalieri, i quali avevano stanza nel
medesimo castello, ospiti di un medesimo signore, e che dovevano la
mattina appresso uscire dalla medesima porta per combattere ad oltranza
gli uni cogli altri!
Ma in que’ tempi non si badava più che tanto a simili cose, chè le
consuetudini sociali non avevano ancora, come di presente, tante
sottigliezze e lisciature, e come le parole erano pronte alle labbra,
così le mani erano pronte alle spade, e il sangue si spandeva
allegramente per cose da nulla. Le dame assistevano di lieto animo alle
tenzoni, e in loro onore solea farsi l’ultimo colpo e il più pericoloso
d’ogni torneo, che dicevasi «correr la lancia delle dame.»
Questo di Morello con Ansaldo era uno scontro all’antica maniera de’
Paladini, e non dovea farsi in campo chiuso, ove potessero andar
spettatrici e giudichesse le dame. Esso tuttavia non usciva punto dalle
costumanze cavalleresche, come non era insolito che due cavalieri seduti
alla medesima mensa si disfidassero a combattimento per loro private
ragioni, od anche semplicemente per qualche sconsiderata parola;
imperocchè la misuratezza del dire, e la rispettosa cortesia delle
frasi, non si riserbavano che per parlare alle dame, ed era notato
d’infamia chiunque ad una donna rivolgesse un manco riverente discorso.
Era migliore la costumanza d’allora, o la nostra odierna? Io, per me,
m’attengo all’antica. Abbiamo ora mille vincoli di galateo così per gli
uomini come per le donne, e non è chiaro se siamo più riguardosi per
osservanza della legge comune, o per vero sentimento di cavalleresca
devozione al bel sesso. V’ha poi di peggio nel secolo nostro. Il
giovanotto che può vantare un maggior numero di conquiste amorose e che
ha lasciato più Olimpie sullo scoglio, è più invidiato che biasimato
dall’universale, e v’ha anzi chi lo pregia di più. Ma a’ tempi antichi,
Bireno era notato di slealtà; chiunque avesse mancato alla fede verso la
sua donna, n’aveva il biasimo universale, ed ella non era punto fatta
argomento di riso, come oggi si suole; chè anzi, ogni dama ed ogni
cavaliero parteggiava per lei, e il disleale amatore non poteva più
assidersi a mensa, nè entrare in giostra con gentiluomini, fino a tanto
la dama sua, commossa dal suo pentimento, non l’avesse in mercè, e non
gli perdonasse il suo fallo.
Ma gli è tempo oramai di tornare al racconto. Uscito Ansaldo di Leuca
col Corradengo, anche Morello e Rambaldo chiesero licenza di andarsene
nelle loro stanze, per prepararsi (diceva Rambaldo) cristianamente alla
pugna del dimani.
Morello era chiuso in sè stesso e non diceva parola; solo l’aggrottar
delle ciglia faceva fede di non soavi pensieri.
— Morello, amico mio! — gli disse Rambaldo, scuotendolo, — non ti dar
pensiero oggi di quello che farai domani. La rabbia accieca, ma non so
di verun caso in cui essa abbia fatto calare più forte un colpo di
mazza, o di spada. E poi, che cosa vuol dire questo centellarti fin
d’ora il piacere che berrai a larghi sorsi domattina, correndo il
saracino contro il tuo tenero amico, il tuo Eurialo diletto?
— Oh, bene hai detto, il saracino! — esclamò il giovine Morello. — Ma io
ferirò, te lo giuro, nel bel mezzo della quintana.
— E per questo, — prosegui Rambaldo, — ti bisogna non aver le
traveggole. Ma, a proposito di vedere, hai tu veduto gli occhi della
castellana?
— No, io non guardavo che lui!
— Male! Io l’ho guardata a mio bell’agio. La s’era sbiancata in viso
come la sua veste di lana bianca. Seguì con molta attenzione il tuo
dialogo coll’amico prediletto di conte Ugo, e quanto tu dicesti:
«orbene, messere, vedremo se gli atti risponderanno alle parole» si alzò
a stento da sedere e fe’ per andarsene, ma certo sarebbe stramazzata sul
pavimento, se le sue damigelle non erano pronte a sostenerla.
— E che argomenti da ciò? — disse Morello, pensieroso.
— Nulla, in fede mia! Gli è naturale che una gentildonna non possa
reggere ad una giostra di parole minacciose, come quella che tu hai
regalato a così nobile udienza.
— Potevo io operare diverso? Dovevo io contenermi?
— No, per.... l’anima mia! Amo la pugna, io; sebbene, mentre tu, già
salito in arcioni, mediti i fendenti, i manrovesci e le stoccate, io,
più modesto, vagheggio gli sberleffi e le piattonate sulle spalle di
quel tristanzuolo del Corradengo. Ah! ah! Egli ci ha chiamati _astori
del Monferrato_, come se credesse di dirci villania. Li vedrà lui, gli
astori del Monferrato, questo barbagianni delle Langhe! — E Rambaldo di
Verrùa, sostenendo coscienziosamente la parte del personaggio che
rappresentava, proseguì allegramente di questa conformità, fino a tanto
che giunsero al loro appartamento e, congedati i donzelli, ognuno di
essi si chiuse nella sua camera.
Esacerbato ancora dalle parole del suo avversario, e con l’animo
travolto in una grande tempesta di feroci pensieri, Morello non fece
altro che slacciar la cintura e deporre il pugnale: indi si diede a
passeggiar concitato per la stanza. Ma egli non aveva ancor rifatto
cinque volte il suo breve cammino, che un lieve picchiar di nocche
sull’uscio di quercia venne a distoglierlo dalla sua occupazione.
Egli andò all’uscio, lo aperse, e gli comparve dinanzi un grazioso
paggetto, il quale con aria misteriosa gli susurrò queste parole:
— Cavaliere, una gentil damigella di Torrespina che ha in gran pregio il
vostro valore, vi prega a muovervi per amor suo e lasciarvi guidare da
me, fin dove ella m’ha comandato che io vi conduca. —
Quella misteriosa imbasciata fe’ strabiliare Morello.
Siffatte avventure, a dir vero, non erano strane nè rare a quei tempi,
in cui il bel sesso, con assai più voce in capitolo, aveva eziandio più
arditezza di spirito e più prontezza di partiti, che non di presente; ma
per intender quella, bisognava a Morello avere almeno dato uno sguardo
alle damigelle di Torrespina, imperocchè non gli pareva naturale che,
senza pure aver fatto omaggio degli occhi alla loro leggiadria, dovesse
venirgli un invito di quella fatta. Ora questo sguardo fuggevole non si
ricordava egli aver dato, nè questo tacito omaggio aver fatto a Peretta
di Montezemolo, o ad Agnese de’ Ferreri, che così si chiamavano le
damigelle di Torrespina.
In questi pensieri, Morello era già per rispondere al paggio com’egli
non potesse tenere lo invito. Ma la gentilezza cavalleresca, non
lasciandogli trovare una scusa dicevole al rifiuto, gli porse un
migliore consiglio, e senza risponder verbo, si fece a seguitare
l’adolescente, che per un gran giro di sale lo condusse dalla parte
opposta del castello, fino agli appartamenti delle donne.
Il cuore gli batteva forte allo entrare nella camera dove il paggio gli
disse di fermarsi e di attendere; ma ben più forte ebbe ad essere la sua
commozione, allorquando, invece di Peretta o di Agnese, e’ vide venirgli
incontro quella che il cuor suo desiderava, ma che mai avrebbe ardito
sperare, la stessa Giovanna, la divina Giovanna.
La vista della donna amata ha in sè (chi lo ignora?) alcun che di così
forte, di così acuto, che a prima giunta non torna neppure a diletto.
Siccome avviene di certi fiori più odorosi, che la loro fragranza va
diritta al cervello, quell’«incognito indistinto» di splendori e di
fragranze che si sprigiona dal volto e da tutta la persona di lei,
t’investe il cuore per guisa, che il sangue bolle e sollecito rifluisce
alle tempie, lo sguardo si offusca, e pare che la forza di reggerti in
piedi sia per fuggire da te.
— Messere, — disse Giovanna con voce tremante, — non vi fate meraviglia
del mio ardimento....
— Oh, che dite voi, madonna? Vedervi è ventura che il cielo non saprebbe
mandar la migliore, e non lascia luogo ad altri pensieri. Io, poi, bene
intendo come tutto ciò che oggi è avvenuto....
— Sì, per l’appunto di ciò volevo parlarvi.
— Vi ascolto, madonna! — disse Morello, sedendosi sull’orlo della
scranna che la bella castellana gli aveva additata, nell’atto di sedersi
ella stessa daccanto a lui.
Non era quello il tempo di pigliar la strada più lunga, e Giovanna di
Torrespina, guardando fiso in volto il giovine Morello, gli volse questa
dimanda:
— Conoscevate voi Ugo di Roccamàla?
— No, madonna; — rispose il giovine, — di lui seppi, soltanto l’altro
dì, che mi era congiunto di sangue.
— E allora.... — disse ella, con una sospensione che pareva compendiar
tutto l’accaduto della giornata.
— Madonna, — fu pronto a soggiungere Morello, con una di quelle frasi
improvvise, rapide ed efficaci come il lampo, — io odio Ansaldo di
Leuca!
— Ah! e perchè?
— Perchè egli vi ama; — proruppe Morello.
Giovanna non soggiunse parola; stette a lungo muta, ed egli del pari,
ambidue cogli occhi bassi.
Quando ella finalmente li alzò, fu per dirgli soavemente:
— Messere, quello che voi avete scoverto, io medesima non ho saputo mai,
fino all’altro dì, che mi parve accorgermi di qualche cosa e ancora non
ne avevo certezza.
— Ed ora che v’è noto, madonna, — disse Morello incalzando, — ora vi
duole di ciò che avverrà domattina....
— Sì, mi duole; — rispose Giovanna, senza badare allo intendimento
riposto delle parole di Morello, — mi duole per voi, che mettete a tal
repentaglio la vostra utile vita; mi duole, poichè voi lo diceste pur
mo’, che io mi sia la cagione di questo combattimento; ma ho speranza
che Iddio v’aiuti, messere, perchè la buona causa è quella che voi
sostenete.
— Ahimè, madonna, a che mi approderà il vincere? — disse Morello,
chinando mestamente il capo sul petto.
— Che dite voi ora, messere?
— Che voi non mi amate, — gridò egli, tendendo le palme verso di lei, —
e che, non amato da voi, mi sarà forse miglior sorte il morire. —
Queste di Morello erano parole che volevano una pensata risposta,
imperocchè da essa dipendeva, non pure il dialogo di quella sera, ma la
sorte sua presso di lei.
Madonna lo guardò, ma senza sdegno; chinò i grandi occhi di smeraldo;
tornò a volgerli su lui; quindi con piglio solenne, stendendo la mano in
atto di far giuramento, gli disse:
— Morello di Monferrato, se uomo al mondo potessi amare tuttavia, voi
sareste quel desso. —
Egli cadde ginocchioni, afferrò quella mano, e la cosperse di baci e di
lagrime, senza che ella pensasse a ritrarla.
— Ma voi non morrete, — proseguì ella, — voi non morrete, cavaliero
gentile, nato alle grandi imprese, per cui va giustamente famoso il
vostro legnaggio. Il mondo ha dovizia di donne, più di me a gran pezza
leggiadre, ed ognuna di esse sarà superba dell’amor vostro. Che potrei
darvi io, in quella vece? Il mio cuore, divorato da una profonda
amarezza, non ha più luogo per l’affetto. —
L’anima di Ugo di Roccamàla suggeva avidamente quelle meste parole; ma
il cuor di Morello era triste; e Morello ed Ugo, la carne nuova e lo
spirito antico, furono ad una per dire a Giovanna:
— Oh, io non amerò mai altra donna che voi!
— Mai! — ripetè Giovanna, sorridendo malinconicamente. — La è una grave
parola. Chi ardisce dir «mai» quando non è alcuna fidanza del futuro, e
nulla è durevol quaggiù?
— Voi stessa, — rispose prontamente Morello, — voi stessa che dite nel
vostro cuore non essere più luogo all’affetto, come se la carne inferma
non potesse risanare, come se....
— Tacete, messer Morello, tacete! E per ricordarvi di me, togliete
questa sciarpa di verde zendado, che cingerete, se pur l’avete in
qualche pregio, intorno al vostro giaco di maglia, e che io desidero
abbia a portarvi ventura. —
Il giovine non trovò parole da rispondere; strinse la sciarpa sul seno,
e rimase ginocchioni, estatico a guardar lei, che, con un leggiadro
gesto di commiato, si era mossa per andarsene. I suoi occhi la seguirono
fino all’uscio interno per dove era venuta dapprima; colà, innanzi di
sparire, ella mandò al cavaliero un altro saluto amorevole.
Quando tornò nel suo appartamento, Morello fu meravigliato di scorgere
il lume acceso nella camera di Rambaldo.
— Che fai tu? — chiese egli, affacciandosi sul limitare.
— Non vedi, Morello? Forbisco e metto in assetto i pezzi delle nostre
armature.
— Fatica rubata agli scudieri! — disse Morello.
— No, — rispose Rambaldo, — io penso che in questi negozi assai meglio
vedano gli occhi del cavaliero. Egli ha da indossare le armi, egli ha da
esser sicuro del fatto suo, segnatamente allorquando, com’io ora, egli
non ha certe guarentigie...
— Che vuoi tu dire?
— Che io non ho, — soggiunse Rambaldo ghignando, — favori di dame da
sospendermi al collo, nè cuori innamorati a palpitare per me. —
Morello non rispose nulla ai motti di Rambaldo; voltò le spalle, e andò
nella sua camera a coricarsi sul letto.


CAPITOLO XII.

Nel quale si legge della differenza che corre fra astori e barbagianni.
I primi albori del giorno rischiaravano appena la morta campagna, e già
gli arcieri di Torrespina erano costretti a calare il ponte, per dare
uscita a due cavalieri che andavano alla quercia di Marenda, seguiti da
loro scudieri e donzelli.
Quantunque vestiti di pesante armatura, essi cavalcavano due palafreni.
Ma gli scudieri che venivano dietro a loro conducevano per le redini due
poderosi destrieri, bardati sulla cervice e sul collo con lamine di
ferro, e coperti di sotto all’arcione con ricche gualdrappe di tela
d’argento e di rosso. Ciascheduno de’ donzelli, poi, recava sulle spalle
la lunga lancia di ferro e la mazza ferrata del suo signore.
Gli arcieri salutarono i due gentiluomini con l’aria di persone le quali
sapevano la cagione di quella gita mattutina. Infatti, fin dalla sera
innanzi, la voce della disfida era corsa e ognuno facea voti pel giovine
cavaliero del Monferrato. Tanto era amato a Torrespina messere Ansaldo
di Leuca!
— Viva Morello di Monferrato, e il barone San Giorgio gli dia vittoria
de’ suoi nemici! — gridò il capo degli arcieri, scuotendo la berretta
col braccio teso sopra la testa.
Morello rispose con un sorriso e con un cenno della mano all’augurio del
soldato, ed uscì galoppando all’aperto. Egli portava il suo ghiazzerino,
armatura di cuoio cotto, contesta di lamine di ferro. Sul ghiazzerino
scendeva il sorcotto, del suo prediletto colore amaranto. L’elmo non
aveva corona, poichè il secondogenito di Guglielmo il grande, non
esercitava ancora il comando di terre e castella, ma era in quella vece
sormontato da due grand’ali spiegate, le quali, crescendo maestà alla
sua bella figura, significavano voler egli innalzarsi piuttosto col suo
valore che con la casuale nobiltà dei natali.
Rambaldo di Verrùa, vestito anch’egli di ferro, appariva di fuori tutto
rosso come un cardinale, o come un gambero cotto. Il suo elmo portava
due magnifiche corna, o trombe di torneo, contrassegni allora di chi era
stato riconosciuto nobile e _blasonato_ due volte nei torneamenti, cioè
pubblicato due volte a suon di tromba dagli araldi.
I due amici cavalcarono silenziosi fino alla quercia di Marenda, luogo
molto acconcio ad un combattimento, siccome aveva notato Morello, e che
già più volte doveva aver servito ad uso di giostra o torneo. Era esso
un campo assai lungo e di conveniente larghezza, pulito e piano come
un’aia, fiancheggiato da un ciglione, sul cui declivio sorgeva una gran
quercia, stendendo i lunghi e nodosi rami, a guisa di padiglione, fino a
mezzo l’arringo.
Il sole non era anco spuntato, e certe nuvole che coprivano il cielo
lasciavano intendere ch’egli per tutto quel giorno non si sarebbe
mostrato. L’aria mite faceva presagire un’altra nevicata imminente.
Morello, come fu giunto sotto la quercia, scese d’arcione, e lasciato il
palafreno ai donzelli, si fermò con le braccia incrociate sul petto a
contemplare la campagna e i monti lontani.
— Che guardi tu, ora? — gli chiese Rambaldo.
— Di là da que’ greppi, verso Roccamàla, dov’è morta e sepolta la
felicità di conte Ugo....
— Ahi poca fortezza d’animo! — disse Rambaldo. — La mesta sapienza di
Morello non val forse la sciocca felicità del cieco signore di
Roccamàla?
— Sarà, — rispose il giovine, mettendo un sospiro, — ma io ero
felice!...
— Sì, — soggiunse l’altro ghignando, — col tuo fedele Ansaldo di
Leuca....
— Ah! non mi parlare di lui!
— Sto zitto; eccolo appunto col sozio, che viene a questa volta. Ve’ i
capi scarichi! E’ stancano fin d’ora i destrieri. —
Infatti Ansaldo di Leuca e il Corradengo venivano di buon trotto al
luogo del convegno sui loro destrieri di battaglia, e con le lance
sull’arresto della staffa.
Appena li ebbe veduti, Morello, che già era smontato dal palafreno,
siccome s’è detto, fu sollecito a salire sul destriero. Raffermatosi in
sella, volle sincerarsi che la sua mazza d’armi pendeva dall’arcione.
Calò la visiera, imbracciò lo scudo e tolse la lancia dalle mani del
donzello; si curvò un tratto per carezzare con la manopola le nari del
cavallo, e il generoso animale rispose a quel tocco amorevole del suo
signore, con un dolce nitrito; quindi, dato di sproni, lo fe’ voltare
indietro per pigliar campo, intanto che gli avversarii giungevano.
Rambaldo, da esperto cavaliere, lo aveva prontamente imitato.
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