Il Libro Nero - 05

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Roccamàla e aver nome Aporèma, aggiungendo non aver mai voluto lasciare
il castello a cagione di sacramento fatto al predetto conte Ugo, in suo
vivente, che mai sempre avrebbe protetta la sua stirpe. E da capo
scongiuratolo, con le efficaci parole della Scrittura, mi ha risposto
eziandio non aver egli difficoltà a partirsene, e poter anzi ciò fare
senza mancamento alla data fede, purchè potesse tornarvi quantunque
volte fosse un discendente del conte Ugo che nella comune estimazione si
tenesse felice, od altrimenti nelle sue faccende beato; imperocchè il
suo primo nome era Lucifero, epperò l’ufficio suo era di portar luce, e
a cotesto suo debito e’ non avrebbe mai potuto fallire. Che cosa si
nasconda sotto questa condizione m’è oscuro, ma ciò solo ho ottenuto, e
dovrò contentarmene. Iddio protegga me e i conti di Roccamàla, che non
ce n’abbia a derivare alcun danno.» Tu vedi, c’è il nome del vescovo
accompagnato dalla croce e scritto d’inchiostro nero, e c’è quest’altro
sgorbio che vuol dire Aporèma, fatto con inchiostro rosso, giusta la mia
consuetudine.
— Ma che vuol dir ciò? — chiese Ugo ammirato. — Che fine riposto è egli
questo tuo, che il vescovo Gualberto non ha potuto penetrare?
— Ah, si! — disse ridendo Aporèma. — Il sant’uomo non sapeva capacitarsi
di quel mio disegno, che egli anzi non si peritò di chiamare stramberia.
E’ giunse perfino a dirmi che quella condizione tornava tutta a mio
danno, dappoichè veramente sulla terra nessuno era avventurato, e la
felicità risiedeva soltanto nella città di Dio, nella Gerusalemme
celeste, ed altre storielle di quella fatta. Ma, comunque e’ rigirasse i
periodi, non gli venne fatto cavarmi il segreto di corpo. — Tanto peggio
per me, vescovo Gualberto! — gli dissi; — tanto peggio per me se non
potrò più tornare; intanto scrivi il patto sulla tua pergamena, e ti
basti sapere che io manterrò la promessa.
— E tu mi rispondi ora — soggiunse Ugo — come hai risposto al vescovo
Gualberto!...
— No, in fede mia, — rispose Aporèma; — e vo’ dirti ogni cosa, sebbene
con quella riserbatezza che si addice a così scabroso argomento. Sappi
che il tuo antenato era un uomo felice, poichè tale si credea veramente.
La sorte aveva arriso alle sue armi: il suo valore lo avea fatto padrone
di assai più terra che a te non ne sia rimasta in dominio; Roccamàla era
il lieto ritrovo di nobilissimi baroni che a lui facevano corteggio e
alla bionda Gerberga, la figliuola del marchese di Monferrato che gli
era stata data in isposa. Come avvenisse, non istarò a dirti per filo e
per segno; ma un giorno il conte Ugo dubitò della sua felicità. Giù in
fondo al burrone su cui pende questa torre, taluno andò a sfracellarsi
la cervice; ma nulla parve mutato nelle consuetudini del castello.
Soltanto, fu detto di un barone Anselmo di Leuca, che egli fosse andato
pellegrino in Terra Santa, e di questo barone Anselmo più non si ebbe
novella, e nessun ciglio parve aggrottarsi, nessun volto soave
arrossire, quando il nome di lui era pronunziato in Roccamàla. Un volto
soave incominciò bensì a scolorarsi lentamente, fino a tanto nol
racchiuse la tomba qualche anno di poi, e ci fu un magnifico funerale, e
i frati del convento vicino venerarono una santa di più. Un’altra fronte
andò a mano a mano rannuvolandosi, e non ci fu più verso di spianarne le
rughe. Fu in quel torno che Aporèma, il maestro della scienza che non
inganna, pose dimora in questa torre; fu egli che chiuse le ciglia
all’amico, con la promessa che le avrebbe aperte a qualunque dei suoi
discendenti avesse amato di tenerle chiuse alla luce faticosa, ma utile,
della verità.
— Anselmo di Leuca!... — sclamò il giovine signore di Roccamàla. — Io
dunque....
— No, non temere per la bontà del tuo sangue! — interruppe Aporèma. — I
signori di Leuca sono di nobil legnaggio, e Ansaldo, l’amico tuo
fedelissimo, può andarne superbo; ma tu sei un Roccamàla davvero, e
nelle vene del secondo Ugo scorre qualche goccia di sangue del primo.
— E dov’è egli ora, il mio nobile antenato? — chiese Ugo.
— Nol so, — disse Aporèma; — o, per dirla col vescovo Gualberto, _haud
mihi clarum est_; ma egli ben potrebbe essere qui presso di noi, per
vedere com’io gli abbia tenuta la fede. —
Un improvviso bagliore rischiarò in quel punto la camera, facendo
impallidire il lume della lucerna, e tosto gli tenne dietro l’orribile
frastuono della folgore.
— To’ vedi! — soggiunse Aporèma. — Sembra ch’ei ci abbia uditi a parlare
di lui e che ti conforti ad essere un uomo della sua tempra.
— L’anello, Aporèma; porgi l’anello!
— Eccolo! —
Ugo prese l’anello dalle mani di Aporèma e si diede a considerarne
minutamente il castone, facendo girare il diamante sulla cerniera. Poche
gocce di liquore color di fuoco gli apparvero nella piccola cavità che
era rimasta scoverta, ed egli, poichè l’ebbe guardate, cadde in una
profonda meditazione.
— A che pensi tu ora? — gli chiese Aporèma.
— A lei! — disse Ugo. — O non le fo oltraggio, forse, tentando una
simile prova?
— Non ti mettere a questa impresa, se ciò temi; — soggiunse Aporèma. —
Io già te l’ho detto: non vo’ nulla per violenza da te. Inoltre, odimi
bene, Ugo di Roccamàla! Io non ti pongo alcun patto; l’esperimento
durerà quanto ti aggradi, e tornerai Ugo ogni qual volta ti piaccia. Non
ti chiedo l’anima tua; non ti pungerò una vena perchè tu abbia a
sottoscrivere una carta; Aporèma è cavaliero e non un giudeo che presti
ad usura.
— Oh, egli non è di ciò che m’importa! — gridò conte Ugo. — Se tu di’ il
vero, se nulla resiste o sopravvive alla morte, nè la vita di questo
mondo, nè la ignota che ci promettono, francano la spesa di essere
vissute. Orbene, eccoti contento, ho bevuto! —
E così dicendo, pose le labbra intorno al castone dell’anello, e
avidamente succhiò il rosso liquore.
— Ah! che mi hai tu dato? — sclamò egli, a mala pena ebbe finito.
— Guarda! — gli disse Aporèma, accennandogli col dito a’ suoi piedi.
Ugo guardò e mise un grido di spavento. Un corpo morto giaceva a terra,
disposto per modo che i piedi del cadavere toccavano i suoi.
— Guardalo, — prosegui Aporèma, — guardalo, il tuo sozio fedele, il tuo
unico amico verace, quantunque un tal po’ prepotente; quello che non ti
ha mai abbandonato un istante, dacchè hai aperto gli occhi alla luce;
quegli che ha sempre sorriso e pianto, goduto e patito con te; guardalo
ed usagli la cortesia di qualche carezza; stringi fra le tue braccia
quel petto rilevato e robusto, appariscente sotto una maglia aggiustata
d’acciaio, come sotto un giustacuore di seta di Bagdad; metti le mani su
quelle chiome nere e lucenti che svolazzavano in aria con superba
leggiadria quando serravi Aquilante tra le vigorose ginocchia e lo
spingevi a galoppo; bacia quella fronte bianca, ahi troppo immemore
d’altri baci e pur mo’ desiosa di nuovi; tanto è vero che l’uomo
desidera ciò che egli non ha avuto ancora, e ciò ch’egli ebbe facilmente
dimentica. —
In quella che Aporèma così parlava tra grave e beffardo, secondo il
costume, Ugo si era curvato su quel corpo morto e l’avea riconosciuto
per la sua spoglia mortale. Lo contemplò un tratto e non senza mestizia;
quindi, come percosso da un pensiero improvviso, si alzò per guardarsi
la persona.
— Ed io... io... chi sono io mai, se il mio corpo è costì?
— Va, quello è uno specchio; — disse Aporèma. — Conte Ugo corse difilato
ad una larga spera di terso metallo, che era sospesa alla parete
daccanto alla finestra; il demone taumaturgo prese la lucerna e l’alzò
fino presso il volto del giovine.
Ugo vide allora l’immagine sua, che era quella d’un bel cavaliero, dagli
occhi azzurri, dalla florida carnagione a cui dava più risalto una fina
capigliatura bionda, dalla svelta statura, e sfarzosamente vestito. Si
contemplò ammirato, mosse gli occhi, il capo, il petto e le braccia;
quindi si volse a cercare l’antica spoglia: ma essa non era più nella
camera.
— Dov’è andato il mio corpo? — chiese allora ad Aporèma.
— O che? pensi tu forse ch’io non sappia fare le cose a dovere? Esso è
già nella tua camera, disteso nel tuo letto e porta i segni di una morte
avvenuta per riflusso di sangue al cervello. Tra due o tre ore entrerà
il biondo Fiordaliso a svegliarti. Immagina le grida del trovatore
adolescente! Tosto il castello sarà a soqquadro; gli amici e i famigli
che correranno di qua e di là all’impazzata; mastro Benedicite che
griderà di aver tutto presagito, e che, se a lui si fosse aggiustato
fede, non si sarebbe lasciato entrare il romèo. Allora si penserà a
venire nella torre del negromante; ma un certo odore di zolfo che a
taluno parrà di sentire, li manderà tutti indietro sbigottiti, e non si
avrà coraggio di mettervi il piede, se non dietro all’orme di frate
Alberto, monaco tenuto in concetto di santità, il quale starà qui lunga
pezza in preghiera. Poscia, spruzzato non so bene quante volte d’acqua
santa, avrai esequie degne del tuo alto stato, e sarai sepolto fra le
tombe de’ tuoi maggiori. _Amen!_
— E lei.... — chiese Ugo peritoso — e lei che dirà?
— Questo non vo’ raccontarti fin d’ora, ma non andrà molto che tu ne
saprai quanto io, imperocchè la vedrai coi tuoi occhi medesimi.... vo’
dire con quelli che hai tolti a prestanza da me.
— E quando la vedrò?
— Non oggi, nè domani per fermo, imperocchè tu vai cavalcando con grossa
e nobil masnada verso il suo castello, dal quale sei ancora cinque
giornate lontano.
— Ma dimmi, chi sono io ora, qual personaggio rappresento?
— Non lo senti? Sei Morello, il secondogenito del marchese di
Monferrato, e ti rechi a Genova per chiedere le galere che dovranno
condurre a Costantinopoli la tua bellissima sorella, disposata
all’imperatore Andronico, al figlio di Michele Paleologo.
— Ah, sì, comincio a ricordarmene; ho la mia gente che m’aspetta a
Falconara.... E tu, chi sei?
— Non mi riconosci più? Sono il tuo giovine amico, il trovatore Rambaldo
di Verrùa.
— Sì, sì, lo rammento. Iersera, alla nostra fermata presso il castellano
del Bormio, tu m’hai cantata una leggiadra servantese intorno alle
bellezze più riputate dell’oriente e dell’occidente.
— Sulle quali porta la palma la genovese Elena Ascheria, la figlia di
Orlando Aschero, uno de’ più valenti capitani della repubblica; Elena
che tu vedrai ed amerai, se pure ti piacerà di proseguire il viaggio
fino al mare.
— No, no, io non porrò piede sul territorio della repubblica genovese —
gridò Ugo, a cui Aporèma andava ispirando grado a grado la memoria e i
concetti del suo nuovo stato. — Giungerà colà lo ambasciator di mio
padre; io mi fermerò in qualche luogo ad aspettar l’esito
dell’ambasceria.
— A Torrespina, non è egli vero?... — chiese ghignando Aporèma.
— A Torrespina, perchè no? Cortese è il castellano, e il figlio del
marchese di Monferrato è così orrevole personaggio, che ognuno abbia a
tenersi d’avergli potuto dare ospitalità.
— Oh, se ne terrà, non dubitare, e se ne terrà eziandio non poco la
castellana. —
A queste parole del demonio, che gli entrarono come la punta di un
verrettone nel petto, Ugo di Roccamàla sobbalzò, scagliando al compagno
un’occhiata sdegnosa.
— Suvvia! Vedremo tutti alla prova, e chi avrà il torto sarà tanto buon
cavaliero da confessarlo. Vieni dunque; la tempesta s’è racchetata di
fuori; tra poco a Falconara si sveglierà il campo, e se i tuoi cavalieri
non ti vedono, penseranno un subisso di male venture. —
Così disse Aporèma, e preso per mano il conte Ugo, si dileguò con esso
lui ne’ vapori del nascente mattino.


CAPITOLO VIII.

Nel quale si racconta di una gualdana che fa al castello di Torrespina.
Pochi conoscono que’ paesi appenninici, che si stendono in lunga e
frastagliata zona tra i greppi del versante ligustico e le Langhe
dell’alto Monferrato, nelle quali si confondono, creando come una stirpe
nuova, se pure non è più acconcio il dire che qui veramente si abbia a
trovare incorrotto l’antico sangue dei liguri, e dando vita ad una
parlata, genovese nella struttura, piemontese nelle desinenze, che
giunge all’orecchio piena di agreste leggiadria. Pochi, ho detto,
conoscono que’ paesi, e tuttavia non so d’alcun luogo che li vinca in
montanina e silvestre bellezza.
La gente ricca va a consolar gli occhi in Isvizzera, e non sa di avere
una Svizzera in casa sua, degna di esser veduta e studiata; va a
rinfrescar le fonti dell’immaginazione sulle sponde leggendarie del
Reno, e non sa di avere un altro Reno, anzi più d’uno a due giornate
discosto, vo’ dire la Bormida, il Tanaro, e gli altri fiumi minori che
hanno sorgente nei liguri Appennini.
Qui orride balze nevose donde lo sguardo specola tutto intorno per lunga
distesa di terre fino alla capitale lombarda; qui balze dove l’orizzonte
si stringe e l’acque rinchiuse rumoreggiano, cercandosi stentatamente
una via tra i massi; qui splendida verdura di pascoli e lunga sequela di
fitte boscaglie, che vanno scendendo per varia vicenda di larici,
quercie, faggi e castagni, fino alle regioni del salcio e del pioppo;
dappertutto rigogliosa vegetazione, imperocchè il benefico sole non
dimentica alcuna parte della terra italiana. E tutto lungo quelle creste
di monti, sia che digradino verso il mare, sia che accennino alle
Langhe, vedete star ritti ancora e minacciosi gli avanzi dei castelli
feudali, veri nidi di sparviero, donde non esce più e dove non va a
posarsi l’uccello di rapina, ma che tuttavia lo stuolo dei pennuti
minori non sa guardar senza tema.
Andate nei piccoli borghi, che paiono starsi ancora muti e paurosi sotto
la vigilanza di quei giganti dalle ossa sgretolate e dalle occhiaie
vuote, e troverete la gente più schiettamente cortese, i discendenti di
quella forte e semplice schiatta che la possanza romana non seppe
vincere del tutto; donne leggiadre che vi sorrideranno senza malizia;
uomini tagliati alla buona che non vi spoglieranno all’insegna dei tre
Re, nè a quella del Cannon d’oro; e un notaio, o un vecchio prete, i
quali non avran letto Alessandro Dumas e vi daranno per nulla, insieme
co’ liquidi topazii di una vecchia bottiglia sturata in onore
dell’ospite, le commoventi leggende del castello vicino.
I miei pochi benevoli, quelli, io vo’ dire, che vanno leggendo, a mano a
mano ch’io le scrivo, le mie povere storie paesane, conoscono già queste
alture, dai malinconici luoghi in cui a Calisto Caselli si maturarono i
germi della pazzia e dove la bella figura della giovane castellana di
Villacervia si mutò agli occhi suoi nella santa Cecilia del calendario
romano. Costoro io condurrò oggi a Torrespina, altro castello di quei
luoghi, ma facendo far loro un viaggio a ritroso di cinquecento ottanta
e più anni.
Giovinetto, io fui su quel poggio dove la gran mole sorgeva; mi
arrampicai, non senza danno delle mie vestimenta, tra i prunai della
ripida costiera, qua e là seminata di grossi macigni e dei ruderi enormi
de’ bastioni sfranati. Le mille svariate erbe dei prati crescevano
rigogliose nel fosso colmato; la vispa lucertola correva liberamente su
per quelle pareti dove l’attento famiglio non avrebbe patito una
ragnatela; la serpe si scaldava al sole sopra un mucchio di rottami,
nell’angolo superstite di un torrione crollato dalle fondamenta. Io
colsi un ramoscello di menta selvatica lunghesso le mura maestre
dell’androne; col mio temperino da scolaro recisi una bacchetta di
nocciuolo nella gran sala, e mi foggiai una specie di flauto nella
fresca corteccia d’un ramo di castagno, tagliato colà, dov’erano forse
gli appartamenti dei signori del luogo. Poscia, con uno di quei felici
trapassi che arridono soltanto alle menti giovanili, mi diedi a pensare;
sognai che ero il padrone di quelle rovine, che avevo fatto restaurare
il castello, munitolo di feritoie tutt’intorno pe’ miei balestrieri, e
resolo dentro un luogo di delizie, per darvi onorato ricetto alla donna
dei miei pensieri, che era ancora di là da venire.
Perchè dicevasi Torrespina? Gli archeologi dozzinali parlavano di una
famiglia Spina, la quale doveva essere alcun che di simigliante agli
Spinola; ma il notaio, uomo di sbardellata dottrina, che andava a
cercare ogni etimologia nel latino o nel greco, asseriva doversi
ripetere quel nome da _Turris poena_, fantasticando non so che fermata
di Annibale, allorquando discese in Italia. Con buona pace del notaio, e
dell’anima sua, imperocchè egli è di presente tra i più, io m’attengo ad
una vecchia cronaca dei signori Del Carretto, la quale ci narra essere
stata così battezzata la torre da Enrico il Guercio, che fiorì nel 1140,
e fu contemporaneo di Ugo il Negromante, imperocchè quella torre, o
castello, era una spina per lui, cioè un ostacolo all’accrescimento dei
suoi dominii da quel lato.
Non s’ha per cotesto a credere che i conti che l’abitavano fossero gente
di molta possanza. Destri erano in quella vece non poco, ed avevano
inteso il tornaconto di allearsi al valoroso signore di Roccamàla, per
far argine uniti allo strapotente marchese. Questa alleanza era poi
quasi una necessità politica; dappoichè Torrespina si trovava appunto in
mezzo ai due avversarli, e il manco forte dei due non sarebbe riuscito
mai un troppo pericoloso vicino. Donde poi venissero i Torrespina non
so; probabilmente ebbero una origine somigliante a quella dei Roccamàla,
il cui capo stipite veniva di Lamagna, o a quella dei marchesi di
Monferrato, derivati da un conte Guglielmo, condottiero giunto con
trecento uomini dalla Francia, in compagnia di quel Guido che fu poscia
duca di Spoleto e che premiò quella sua lancia spezzata con largo
presente di borghi e castella sul territorio conquistato.
Al tempo di cui narro, i Torrespina non erano degli ultimi signori che
tenessero corte tra la Liguria e le Langhe; ma il loro lustro, lo
splendor del casato, più ancora che alla feudale possanza, era da
attribuirsi a quella Giovanna, figliuola del marchese di Cengio,
celebrata per divina bellezza ed altissimo ingegno, moglie al conte
Corrado, ed amata, siccome già sanno i lettori, da Ugo di Roccamàla.
Torrespina era murata su in alto del monte, dove la sua triplice
merlatura e le sue svelte bertesche si dipingevano leggiadramente
nell’azzurro del cielo; ma a mezza costa scorgevasi il grosso del
castello, dove era l’abitazione della famiglia, congiunto all’edifizio
più in alto da una via coperta e da altre opere di fortificazione. Uno
spesso muro, intorno al quale correva da entro un ballatoio assai largo
per tenere gli arcadori all’altezza delle feritoie, scendeva fino alla
riva del fiume, dov’era una porta, ben difesa da due torrioni
tondeggianti, la quale portava scolpite in marmo, sul cordone dell’arco
a sesto acuto, le armi dei Torrespina; una torre su cui sorgeva un
prunaio, coll’impresa in lingua di oltre Alpi: «_qui s’y frotte s’y
pique_.»
Qualche mordace borsiero (che così chiamavansi italianamente i giullari)
aveva detto il castello di Torrespina esser troppo grande per una così
magra contea; la qual cosa ripeteano, sebbene con frase più misurata,
gli uomini d’arme, dicendo che a ben sostenere il motto, in così largo
giro di mura e di torri, sarebbe bisognato assai più di gente che il
conte Corrado non potesse raunare.
Ma cotesta era una chiacchiera e nulla più, pel tempo in cui si vivea.
Qual possente nemico avevano a temere i castellani di Torrespina? La
signoria Del Carretto, divisa fin da cent’anni addietro in quattro
marchesati, s’era da capo e più volte sminuzzata pel moltiplicarsi di
quella stirpe, ed aveva inoltre perduto grandemente di sua possanza per
molte concessioni dovute fare ai nascenti comuni; uno de’ quali. il più
ragguardevole, aveva anzi rivendicata la sua libertà.
Nè vuolsi tacere che Torrespina durava da un pezzo in buona pace ed
amicizia con tutta quella pleiade di marchesi e conti delle Langhe.
Giovanna, la divina Giovanna, era figlia di uno di loro, che abbiamo già
nominato, il marchese del Cengio; epperò l’amicizia si stringeva ad
alleanza. Amici erano i Roccamàla; i marchesi del Monferrato, poi, gli
unici strapotenti dei quali si avesse per cosa alcuna a temere, a ben
altre imprese tendevano l’arco; i re di Tessalonica, i cognati degli
imperatori d’Oriente, non avevano per fermo ad invogliarsi di quelle
piccoli corti vicine, alle quali anzi amavano essere amici, poichè
riuscivano ad essere, anche senza addarsene, le loro scolte e le loro
vedette.
Così raffidata per ogni verso, Torrespina era divenuta un convegno
gradito di ozi nobileschi, di cacce, di giostre e di tenzoni poetiche.
La presenza di una gentildonna colta e leggiadra come la contessa
Giovanna, l’aveva tramutata in una vera _corte d’amore_, famosa quanto
quelle di Provenza nelle canzoni dei trovatori e nella ricordanza de’
cavalieri. Cotesto liberava il conte Corrado dalla necessità dispendiosa
di un grosso presidio, e gli consentiva di impinguare lo scrigno di bei
bisanti d’oro, per i quali egli serbava tutta la sua tenerezza.
Orrevole cavaliere, del resto, e punto nimico dello spendere, quando
occorresse. A lui per fermo non avrebbe potuto andare lo scherno di
Guglielmo borsiere, del quale racconta il Boccaccio, che essendo a
Genova in casa di Erminio Grimaldo, universalmente chiamato messere
Erminio Avarizia, e avendone avuta la preghiera ch’ei volesse
insegnargli com’ei potesse far dipingere in sala alcuna cosa non prima
veduta, prontamente rispose: _Fateci dipingere la Cortesia_. Siffatti
insegnamenti non bisognavano al conte Corrado; e di vero, appena fu
giunto in gran sollecitudine da lui il trovatore Rambaldo di Verrùa, per
annunziargli l’arrivo di Morello, secondogenito del marchese di
Monferrato, tosto per suo comandamento fu sossopra il castello, affinchè
ogni cosa fosse in pronto per ricevere un ospite così ragguardevole, con
tutta la gualdana che gli faceva cortèo.
Intanto Morello di Monferrato si avanzava con la sua gente, argomento di
curiosità per tutti i terrazzani, che si avanzavano stupefatti sugli
usci de’ casolari a veder passare quella numerosa cavalcata.
Erano sessanta lance; ogni cavaliere accompagnato da’ suoi fantaccini;
tutti orrevolmente vestiti, i cavalieri d’acciaio, con cappe di lana, i
fantaccini con succinti farsetti, anche essi di lana, e di colore
amaranto, come le cappe dei cavalieri. Tutta questa gente procedeva in
bell’ordine, che la era una meraviglia a vedersi; i cavalli, muovendosi
in cadenza, faceano svolazzare i lembi delle sopravvesti e i cimieri
piumati; le maglie d’acciaio, i ferri delle lance scintillavano al sole.
Ma sopra tutti attirava gli sguardi della gente il marchese Morello,
bellissimo garzone, dai capegli biondi e dal volto roseo, allora sui
ventiquattr’anni, cioè nel fior dell’età, felice trapasso dalla balda
gioventù alla fermezza virile. Egli era vestito d’una finissima maglia
d’acciaio che lo stringeva alla vita; ma sulla maglia gli ricadeva un
sorcotto di seta, di colore amaranto, fatto a guisa di quelle antiche
sopravvesti chiamate dalmatiche, le quali coprono il petto e le spalle,
lasciando liberi i movimenti delle braccia e de’ fianchi. Quel sorcotto
portava ricamato sul dinanzi lo stemma dei signori di Monferrato,
d’argento, col capo di rosso, ed altri fregi tutt’intorno, mirabilmente
condotti.
Il giovine signore cavalcava un magnifico destriero, morello come il suo
nome, vo’ dire di manto nero, a cui faceva contrapposto il bianco
cavallo di Rambaldo di Verrùa, altro nobilissimo animale. Ambedue pronti
al passo, ed impazienti di freno; ma più di loro a gran pezza impaziente
il biondo signore, che, giunto ad una svolta della strada dove
s’incominciavano a scorgere le mura merlate di Torrespina, ficcò gli
sproni nel ventre al destriero. Questi, rispondendo obbediente allo
stimolo del suo signore, inarcò il collo, squassò la folta criniera e si
messe al galoppo, quantunque in discesa, per la via che conduceva al
fiume. E tutta la gente di Morello, mossa dall’esempio, lo seguitò di
quel metro, con alto fragore di passi e di armature, e sollevando lungo
il cammino percorso un nembo di polvere.
— Bello e nobil maniere è Torrespina! — esclamò messer Brandalino di
Cocconato, che galoppava al fianco del marchese Morello. — E’ merita
invero che si corra a precipizio per giungervi. —
Morello non rispose verbo, ma strinse più forte ne’ fianchi la sua
cavalcatura. Il cuore gli batteva; gli occhi correvano desiosi innanzi,
divorando la strada.
— Adagio! adagio! — gli susurrò dall’altro lato all’orecchio Rambaldo di
Verrùa. — Tu la vedrai tra breve. Ecco il conte Corrado, che già si
mostra sul ponte. —
Diffatti, gli arcieri posti alle vedette sul ponte, avevano già fatto
avvisato il conte Corrado dell’avvicinarsi della gualdana, e il
castellano era sceso fin là, per attendere al varco il suo ospite.
Il conte Corrado si potea scorgere da lontano, con la sua cappa di
velluto verde scuro foderata di saio e il berretto sormontato da una
piuma bianca, fermata da una rosetta di smeraldi. A’ fianchi suoi si
notavano inoltre cinque o sei gentiluomini, assai bene in arnese, che
stavano, com’egli, aspettando i nuovi venuti.
— Ah! ah! — disse Rambaldo di Verrùa all’orecchio del suo signore. —
Que’ cavalieri m’hanno aria di gente che tu conosca per bene. O non ti
sembra egli, Morello, che siano i tuoi nobilissimi e fedelissimi amici
di Roccamàla?
— Sì, per mia fe’! — gridò Morello. — Bene essi mi sembrano al
portamento. E sono poi molto leggiadramente vestiti....
— Non badare a cotesto! — rispose l’altro, ghignando. — Vestono le
gramaglie per la morte di un loro dilettissimo amico. —
Morello si volse con grave cipiglio a guardare il suo interlocutore.
— E sono appena cinque giorni!... — diss’egli poscia, chinando le
ciglia.
— No, t’inganni, Morello. In una notte tu hai dormito trenta giorni; Ugo
di Roccamàla è già da un mese nelle tombe dei suoi maggiori.
— Ah! — sclamò il giovine. — Tu non sei stato a’ patti.
— Chi lo dice? Tu devi sapermi grado dello averti tolto il fastidio
maggiore, imperocchè oramai gli è un negozio avviato, quello che avremo
alle mani. Io del resto ti giuro, in fede d’Aporèma, che il giungere un
mese prima alla prova, sarebbe stato un vantaggio per me.
— Gli è ciò che vedremo; — rispose Morello, rannuvolandosi in viso — e
se tu dici il vero... —
Così parlando erano giunti all’ingresso del ponte, e la frase del
giovine era interrotta dal saluto del conte Corrado, che si faceva
incontro a’ suoi ospiti.
— Ben venga Morello di Monferrato! — diss’egli, mettendo cortesemente la
mano alle redini del destriero. — Ben venga egli e ben vengano gli amici
e vassalli suoi nella povera corte di Torrespina.
— Voi dite povera, messere? — soggiunse Morello, in quella che scendeva
d’arcioni. — Essa m’ha aspetto di bello e forte arnese, e i gentiluomini
che l’abitano hanno fama tra i migliori e i più liberali della Marca
Aleramica. —
Con queste parole il vecchio e il giovine signore vennero ad
abbracciarsi e baciarsi amorevolmente sulle guance, giusta il costume
dei tempi.
— Ora, — ripigliò il conte Corrado, — eccovi, o messere, alcuni amici
che la fama di vostra venuta ha tratti fuori dalle loro castella a farvi
onoranza; Ansaldo di Leuca, Enrico Corradengo, Ottone di Cosseria,
Berlingieri di Camporosso...
— Orrevoli nomi! — rispose Morello, guardando in giro tutti quei
cavalieri, a mano a mano che il Torrespina li venìa nominando. — La voce
di loro gesta è giunta da buona pezza alla corte di Guglielmo VII, mio
glorioso genitore: appo il quale e’ saranno i benvenuti, quantunque
volte lor piaccia. Ora, eccovi, messer Corrado, gli amici miei; Rambaldo
di Verrùa....
— Che già conosco da due ore; — interruppe messer Corrado, inchinandosi.
— Brandolino di Cocconato, mio fedele compagno, — proseguì Morello, — e
Gianni da Montiglio, ambasciator di mio padre presso la Repubblica
genovese. —
Qui, dopo i consueti inchini scambievoli, la comitiva prese la via del
castello, preceduta da messer Corrado, che dava cortesemente la diritta
a Morello di Monferrato.
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