Il Libro Nero - 02

Total number of words is 4426
Total number of unique words is 1651
38.7 of words are in the 2000 most common words
52.0 of words are in the 5000 most common words
58.9 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
avea dritto a portare il nome mascolino di Fiordaliso, col quale era
chiamato a Roccamàla, e conosciuto da tutte le graziose femmine della
contèa, nel giro di venticinque miglia, ed anche più oltre.
Il conte Ugo sorrise con aria affettuosa alle parole dell’adolescente.
— Che vuoi dir tu, Fiordaliso?
— Dico, messere, che con mastro Benedicite non si può uscir mai, quando
s’è dentro, nè entrare, quando s’è fuori. Egli è sospettoso come una
lepre, e mal per noi se gli somiglia san Pietro, o se va egli un giorno
a far da portinaio in sua vece.
— Per ora, — soggiunse il Conte, — e’ bisognerà che se la tolga in pace
e metta mano alle chiavi. Roccamàla non è un paradiso; ma essa non è mai
stata chiusa a nessun viandante che domandasse ospizio per amor di Dio,
o del valoroso barone san Giorgio che l’ha in guardia. I miei antichi
furono gente melanconica e contegnosa, ma a questo debito non hanno
fallito mai, e non lo dimentica di certo il mio vecchio strozziere, che
è il cronista della famiglia.
— Ah! gli è dunque un uomo di dottrina, il vostro Benedicite? — chiese
Ansaldo di Leuca.
— Altro ci è! Non parlo dei suoi testi latini, che n’ha sempre una
serqua tra i denti, parati ad uscirne fuori. Ma e’ vi sa dire quando e
come fu murato il castello, e poi giù giù una infilzata di storielle,
che a udirne la metà v’intronerebbero il capo per un giorno e non vi
lascerebbero più dormire la notte. Ma lo so ben io, che da bambino gli
ero sempre sulle ginocchia e pendevo dalle sue labbra; lo stuzzicavo
sempre a narrarne di nuove, e poi non c’era più verso che potessi
pigliar sonno, tante erano le immagini del tempo antico, che scendevano
a popolare la solitudine della mia camera. Ma questo ospite non
giunge....
— Io ve l’ho detto, messere; mastro Benedicite vorrà sapere anzitutto il
nome, la patria e la condizione, se scapolo o ammogliato, e Dio sa
quant’altre cose di quella fatta.
— Se egli fa ciò, vuol levarmi il mio buon nome, e noi dovremo dargli
una strapazzata, appena ei venga quassù. Messeri, questo vin di
Cipro.... Ma che diamine fa egli, quel vecchio scimunito? Ho io ad esser
chiamato per cagion sua il più tristo cavaliero d’Italia?
Questa sfuriata del conte Ugo era cagionata, siccome i lettori hanno
indovinato per fermo, dai tre squilli di corno che metteva il
forastiere, stanco di attendere e di piatire con mastro Benedicite.
— Al nome di Dio! — esclamò Ansaldo di Leuca. — Questi è uomo di vaglia.
— E quel vecchio pazzo non se ne dà per inteso! Suvvia, Fiordaliso,
scendi tu alla porta, e vedi che cos’è egli mai che ha intorpidite le
gambe al nostro falconiere. —
Fiordaliso corse con quella baldanza che è propria de’ giovani e che a
lui era accresciuta dieci cotanti dalla amorevolezza del suo signore. Ma
egli era appena sulle scale, che vide giungere ansante, trafelato,
mastro Benedicite; laonde, aspettatolo sul pianerottolo, rientrò con
esso lui nella sala, con una curiosità in corpo da lasciarsi indietro
una dozzina di femmine. Intendiamoci bene, di femmine e non di donne,
poichè tra queste e quelle, sebbene non ammessa dal vocabolario, corre
una differenza grandissima.
— Orbene, mastro Benedicite, — gridò conte Ugo, appena ebbe scorto da
lunge lo strozziere, — e come va che i forastieri chiedono ospitalità e
non l’ottengono, a Roccamàla? —
Senonchè, fatto questo rimprovero in forma di domanda, egli vide la
faccia dello strozziere, e, buono com’era, tosto raddolcì la sua voce
per dirgli:
— Ma che è, Benedicite? Che cosa sono quegli occhi stralunati, e quel
viso smorto?
— Egli è, messer lo Conte.... — balbettò il vecchio — egli è.... ho
calato il ponte.... cioè, l’avevo alzato e poi lo rinvenni calato.... Un
pellegrino, che afferma giunger da Roma.... e mi pare che venga
piuttosto da casa il diavolo....
— Potrebb’esser tutt’uno! — esclamò Ansaldo di Leuca.
— Sarà come voi dite, messere Ansaldo; ma io penso che questo forastiero
del malanno... insomma, io so quel che mi dico....
— Sì, sì! — interruppe ridendo il conte Ugo, dopo aver fatto cenno degli
occhi a Fiordaliso, il quale fu sollecito ad uscire da capo. — Ma voi
avete a sapere eziandio, mastro Benedicite, che il nostro castello, anco
a voler partecipare alle vostre superstizioni, non ha paura del diavolo.
Qui c’è stato parecchi giorni il santissimo Bernardo di Chiaravalle,
quando Roccamàla era convento del suo ordine, e la benedizione di un
tanto uomo non basta ella a raffidarvi?
— Essa, con vostra licenza, messer lo Conte, non ha impedito....
— Ah, ah! vecchie storielle da raccontarsi quest’inverno accanto al
fuoco. Ma dove lasciate voi, uomo di salda memoria, le benedizioni di
due papi? Dove la visita del vescovo Gualberto? _Macte animo, generose
senex!_ vi dirò io, imitandovi; noi siamo armati di bolle, d’indulgenze
e d’acqua santa, per ricevere anco una visita dello spirito maligno.
_Portae inferi_... come dite voi, che io non lo ricordo più, il vostro
latino?
— _Non praevalebunt_, messer lo Conte; e così Dio v’ascolti! — soggiunse
mastro Benedicite, che, vedendosi là, al cospetto del suo signore e di
tanti allegri cavalieri, incominciava a stupirsi d’avere avuto paura.
— Ben venga il diavolo, se pure è egli che giunge! — disse Ansaldo di
Leuca.
— Egli è alla perfine un cavaliero di alto legnaggio, sebbene caduto in
disgrazia del più possente barone del mondo, — soggiunse Enrico
Corradengo, — e noi ci terremo ad onore di averlo commensale.
— Ecco un forastiero che fa parlar molto di sè, — conchiuse il conte
Ugo, — e noi vedremo se la persona sua risponderà alla nostra
aspettazione. Ad ogni modo, sia il benvenuto tra noi. Mastro Benedicite,
aprite, vi prego, al vostro spauracchio. —
Il falconiere andò verso l’uscio della sala e la spalancò. Frattanto si
udiva lo scalpiccìo dei piedi nel corridoio, e la gaia voce di
Fiordaliso.
— Entrate, messere pellegrino; venite a scaldarvi e a rifocillarvi un
tratto in buona compagnia. —
Allora fu veduto entrar nella sala un uomo smilzo e lungo come.... dove
pescherò io il paragone? come le speranze dell’autore di questo
racconto.
Egli si fece innanzi, rasentando una ricca mensa, intorno alla quale
erano seduti dieci o dodici convitati. La sua cappa di bigello, tutta
sgualcita e rattoppata in più luoghi, il sarrocchino coperto di nicchi
marini e il largo cappello che s’era lasciato ricadere dietro le spalle,
facevano contrasto co’ farsetti e giustacuori di velluto variopinto, con
le berrette piumate, e le collane d’oro alle quali accresceva splendore
la luce riflessa dei doppieri. Ma più assai che le vesti, contrastava la
sua pallida faccia coi volti allegri degli ospiti di Roccamàla.
Chi era costui? Un romèo, cioè un pellegrino che veniva da Roma.
Pellegrini si dicevano coloro i quali andavano a sciogliere il voto ai
luoghi santi, e segnatamente al sepolcro di Cristo; romèi più
propriamente coloro i quali andavano alla eterna città, per baciare il
piede al Giove di bronzo, ribattezzato San Pietro, e per ottenere la
benedizione del papa. Ma quello del romèo non era un mestiero, sibbene
uno stato accidentale e transitorio dell’uomo; ora, che altro fosse, e a
qual ceto appartenesse il nuovo venuto, non era dato d’intendere. Poteva
essere un povero diavolo, che, stanco di servire gli uomini, si fosse
accomodato ai servigi di Dio, od anco un barone, carico di peccati, che
fosse andato a pentirsene a Roma, col cilicio alle reni e col bordone
tra mani.
La cera del pellegrino non lasciava intendere se egli fosse di questa o
di quell’altra specie; ma certo non era d’uomo da poco. Il viso, un tal
po’ allungato e scarno, mostrava que’ fini contorni che non sono oggi, e
per fermo non erano allora, di gente rozza e villana. Assai meno poteva
indovinarsi l’età, imperocchè quel suo viso era tale da rispondere ad
ogni congettura, e si poteva dargli trenta come sessant’anni; privilegio
dei vecchi e dei giovani invecchiati, allorquando gli uni e gli altri
abbiano membra asciutte, e carni e peli senza un colore spiccato.
Per farla finita con le dipinture, diremo ch’egli era aitante della
persona, e per avventura oltre la comune degli uomini, che infine i suoi
modi erano d’uomo punto impacciato nel farsi innanzi ad una nobile
brigata.
Egli entrò diffatti con passo fermo e sicuro, affrontando gli sguardi
curiosi; e rasentando, come ho già detto, la mensa, andò difilato verso
il conte Ugo, che al suo apparire s’era cortesemente alzato da sedere,
per farglisi incontro.
— Entrate, messer pellegrino; — aveva detto quest’ultimo, accompagnando
le parole con atti graziosi. — Deponete il vostro bordone e il cappello,
e sedete qui daccanto a me. Il nostro Fiordaliso cederà di grand’animo
il suo posto al nuovo ospite che la nostra buona ventura ci manda.
— E non gli chiede nemmanco il suo nome! — borbottò fra i denti mastro
Benedicite, in quella che andava a sedersi al suo posto consueto, nel
basso, della tavola. — Già, egli è sempre stato così, come tutti i suoi
vecchi! Suo padre, il taciturno, non apriva la bocca che cinque o sei
volte all’anno, e ci volevano proprio i forastieri, per fargliele metter
fuori, quelle quattro parole! —
Il pellegrino, intanto, si era seduto a fianco del conte Ugo, e dalle
sue mani aveva ricevuto la coppa ospitale; ma in cambio di recarsela
alle labbra, stava curiosamente a guardarla.
— Vi piace questa coppa, messer pellegrino? — ripigliò a dire il conte
Ugo. — A me duole di non potervela offerire in presente, dacchè essa è
la coppa dei signori di Roccamàla, la coppa di un mio famoso antenato,
che portava appunto il mio nome, or sono forse cento e trent’anni. Non è
egli vero, mastro Benedicite?
— Sì, messere; — rispose il vecchio, — Ugo il negromante mori nel 1150.
E la coppa, narrano le cronache, fosse quella di Borman, gigante che i
Liguri adorarono poscia come un dio, la quale fu donata al conte Ugo
dalla fata Melusina. Il santo vescovo Gualberto voleva buttarla giù nel
torrente, ma il vostro trisavo Aleramo....
— Basta, basta! — interruppe il Conte. — Ecco già un monte di parole per
una coppa che non ne franca la spesa, quantunque sia d’oro. Ella ha un
sol pregio, messer pellegrino; vo’ dire l’amorevolezza con la quale io
la presento a’ miei ospiti.
— Lo so, messer lo Conte, lo so; — rispose il romèo. — Questa è la fama
che di voi corre nel mondo.
Quindi, rivoltosi alla brigata, soggiunse, innanzi di recar la coppa
alle labbra:
— Nobili messeri, io bevo alla vostra felicità, se pure è possibile che
un uomo sia al mondo felice.
— Grazie dell’augurio, messer pellegrino; — disse Ansaldo di Leuca; — ma
voi m’avete l’aria di dubitarne. O perchè non potrebbe uomo esser felice
in questo mondo?
— _In hac lacrymarum valle_; — borbottò mastro Benedicite. — Ora vediamo
che cosa gli sa risponder costui. A’ suoi pari non hanno di certo a
mancar le ragioni! —
Ma il pellegrino li lasciò a bocca asciutta ambedue, contentandosi a
rispondere:
— Messere, a chiarirvi cotesto per bene, si vorrebbe una troppo lunga
dissertazione.
— E voi sarete stanco; — entrò a dire il conte Ugo.
— Oh, non già, messer lo Conte! — rispose il pellegrino. — Vengo da Roma
a piccole giornate, e non fo molta fatica. Oltre di che, il còmpito
ch’io m’ho preso laggiù, mi ha consentito di giovarmi dell’opera di un
ronzino; e Lutero, comunque non faccia gran mostra di membra, è un
animale che sa il debito suo.
— Che nome! Lutero! — esclamò Enrico Corradengo.
— Un nome greco; — rispose il pellegrino — a Roma si studia molto il
greco, oggidì.
— Gran città, quella Roma! non è egli vero, messer pellegrino?
— Sì, davvero, gran città; e chi non l’ha veduta, sia detto con vostra
licenza, nobili messeri, non ha veduto nulla. E dire che di presente
ella non è ancor giunta a quel tanto di grandezza che papa Leone X ha in
mente!
— Leone X! — non potè rattenersi dallo interrompere mastro Benedicite. —
O non è più papa Onorio IV?
— Ah! voi siete forte di cronologia, a quel che pare, mastro Benedicite!
— rispose il pellegrino. — Onorio IV se ne è salito diritto al cielo,
dove sta pregando per la conservazione di Santa Madre Chiesa e pel suo
trionfo sui tristi che le fan guerra. Ora abbiamo pontefice il sant’uomo
Leone X, munificentissimo principe, il quale dà opera a grandi e
laudabili novità. Vedrete la basilica di San Pietro, quando sarà
riedificata, e mi saprete dire s’ella non sarà divenuta la più gran
meraviglia del mondo cattolico. —
Così dicendo, il pellegrino fece col capo il cenno di chi ha nominato
una cosa sacra. Mastro Benedicite non aggiustava fede a’ suoi orecchi
medesimi. Quell’umile e costumato pellegrino, che parlava con tanta
reverenza cristiana, era egli colui che di là dal ponte levatoio di
Roccamàla gli aveva pur dianzi parlato, a lui mastro Benedicite, in sì
beffarda maniera? Un uomo avveduto avrebbe, a dir vero, notate sulla
faccia del pellegrino, segnatamente ai lati delle labbra, alcune rughe,
nelle quali usa nascondersi l’ironia, e in certe guardature, che
accompagnavano le parole, sarebbe colto _in flagranti_ lo scherno. Ma il
buon falconiere, quantunque sapesse di latino, non era uomo da intendere
questi nonnulla; argomentate poi se potesse coglierli a volo! Egli era
come trasognato, e già si pentiva in cuor suo di aver così male inteso,
e peggio giudicato, un uomo che faceva testimonianza di tanta religione.
— E come si vive a Roma? — domandò Fiordaliso. — Chi non ha sulle spalle
i gravi carichi della santa religione, non ci morrà mica di noia?
— Dio ne guardi, messere! Roma è l’Atene d’Italia. Sua Santità è un uomo
co’ fiocchi; vo’ dire un degno vicario di Dio. Il redentore del mondo è
rappresentato laggiù come si addice a così alto barone. E il
Machiavelli, con la sua _Mandragora_! Quella è una commedia! Il papa ha
già voluto udirla recitare due volte. E il Bembo! Che piacevole uomo e
che latinista di vaglia! Figuratevi, nobili messeri, ch’egli ha scritto
ad un amico suo, non avesse a leggere le epistole di san Paolo, per non
guastarsi la buona latinità! La mercè di questo valentuomo, che è
segretario ai brevi, gli oracoli del Vaticano sono espressi con una
eleganza, che non fu mai la maggiore. La vergine Maria si chiama _Dea
Lauretana_; papa Leone è assunto al pontificato _jussu deorum
immortalium_; celebrar la messa da morto si chiama _litari Diis
manibus_, ed altre frasche simiglianti, che capirà per bene mastro
Benedicite, il quale ho udito essere molto intendente della lingua del
Lazio. —
Lo strozziere, toccato nel suo debole, chinò gli occhi modestamente sul
tagliere. La diffidenza, che gli era nata in petto contro il forastiero,
incominciava ad andarsene in fumo.
— Voi dicevate, messer pellegrino, della basilica di San Pietro.
— Affè, sarà quella un’opera stupenda. Figlio di Lorenzo il Magnifico,
Leone X non farà che cose magnifiche. Ma ci bisognan danari.
— _Nulla res sine pecunia!_ — sentenziò Benedicite.
— Sì, veramente, e a cotesto si pensa per l’appunto ora, e chiunque
aiuterà alla grand’opera avrà indulgenze a macca.
— E voi, messer pellegrino, — entrò a dire il Conte, — se ben m’appongo,
ne avete in buon dato.
— Sì, messer lo Conte, ne porto attorno per cui piacciono. Vo in
Monferrato; di là passerò in Lamagna, dove spero il negozio abbia a
prosperare più assai che in ogni altra parte d’Europa. Ahimè, sono stato
un grande scioperato fino ad ora, e mi bisogna racquistare il tempo
sprecato, con qualche opera buona. Ma già questi non sono discorsi da
farsi a mensa, e in compagnia di tanti orrevoli cavalieri. Proseguite,
di grazia, i vostri interrotti ragionari, se pure ad un forastiero è
permesso di udirli.
— Che diamine! Noi stavamo appunto per chiedere una ballata a
Fiordaliso, il nostro bel paggio, che la pretende a poeta, e, in fede
mia, non senza ragione.
— Mi sarà grato udire ciò che bisbigliano le Muse nell’orecchio di un sì
leggiadro garzone.
— Oh, non vi aspettate grandi cose, messer pellegrino! — rispose
Fiordaliso, che si era fatto rosso come una brace. — Io non ho studiato
d’arte poetica, e vo strimpellando il liuto come un menestrello
villereccio.
— Suvvia, Fiordaliso, non ci buttiamo giù di questa guisa! Il nostro
ospite avrà forse udito più valorosi trovatori che tu non sia; ma io
metto pegno che egli non rimarrà al tutto scontento dei fatti tuoi.
Sentiamo dunque la tua ballata! —
Il paggio non si fece pregare più oltre, e andato a pigliare in un
cantuccio il liuto, incominciò a trarne parecchi accordi, i quali
volevano proprio dimostrare come il suonatore fosse stato troppo
modesto, paragonandosi ad un menestrello giramondo. Quindi, giusta il
costume degli antichi trovatori, non ancora perduto in que’ paesi
feudali, si fece a cantare in questa maniera:
— Conte Folco è prode e bello,
Esemplar de’ cavalieri.
Fido albergo è il suo castello
Di dugento balestrieri.
Cento lance ei mette in guerra.
È possente e paventato;
Ma più ancora avventurato
Dell’affetto d’ogni cor.
S’è felici in sulla terra
Fin che regni in terra amor. —
— Bene, Fiordaliso, bene! — gridò Ansaldo di Leuca.
E tutti in coro ripeterono il ritornello:
S’è felici in sulla terra
Fin che regni in terra amor.
Il giovinetto proseguì, accompagnandosi cogli accordi del suo liuto:
— Sulla preda all’aure scaglia
I falcon più peregrini;
Pronti in giostra ed in battaglia
Ha cavalli saracini.
Lieto il fan di censo opimo
Le vitifere pendici;
Ma più lieto i fidi amici
Che gli fan corona ognor.
L’uom felice in terra estimo
Fin che regni in terra amor. —
— Gli amici, Ugo, tu l’hai udito, gli amici! — disse Enrico Corradengo,
dopo che ebbero ripetuto il ritornello.
— Sì! — rispose Ugo. — L’amicizia è la più bella cosa e la più cara che
al mondo sia.
— Adagio, messere! — gridò Fiordaliso. — Io non ho anche finito.
— Tira innanzi, dunque, da bravo!
Incuorato dal plauso della brigata il paggio intuonò la terza strofa:
— Carlomagno invidia a lui
Così dolce e lieto stato;
Ch’ei non è tra’ prodi sui
Più securo e più beato.
Conte Folco a regio impero
Ben potria levar le brame;
Ma più grato a lui reame
Parve ognora un fido cor.
Più felice è l’uomo invero
Se gli arrida in terra amor. —
— Hai ragione, Fiordaliso! — esclamò conte Ugo. — L’amore accanto
all’amicizia, ma un grado più in su. Questo è nella natura delle cose, e
voi non ve ne dorrete, amici miei, non è egli vero?
— No, per mia fè! — rispose Ansaldo di Leuca. — E’ bisognerebbe essere
egoisti di tre cotte, per dolersene. Le dame anzitutto! Ma ci ha da
essere ancora una strofa....
— Sì, messere; — soggiunse il paggio, — ed eccola appunto:
— Per lui sol non disumana,
Disdegnò d’un re l’omaggio
Valorosa castellana
Di gran cor, d’alto legnaggio.
È regina e imperatrice,
Se tien Folco in suo governo,
Se per lei d’affetto eterno
Per lei palpita il suo cor.
Sulla terra è l’uom felice
Fin che regni in terra amor.
— Bene! benissimo! — gridarono tutti, e ripeterono in coro, siccome
avevano fatto per l’altre strofe:
Sulla terra è l’uom felice
Fin che regni in terra amor.
— Questo conte Folco era un uomo felice davvero — disse Ugo, in quella
che si toglieva dal collo la sua collana d’oro, per cingerne il suo
paggio prediletto. — Felice davvero! e a tutte le sue venture s’aggiunge
questa, di essere cantato da sì gentile poeta. Che ne dite voi, messer
pellegrino?
— Che avete ragione, per quanto si riguarda al poeta. I suoi versi sono
graziosi, e meritano il presente che avete sì nobilmente fatto
all’artefice. Ma il concetto, con sua e vostra licenza, non mi par
giusto del pari.
— Oh! oh! — sclamò Fiordaliso, turbato nel suo trionfo poetico.
— Non c’è _oh_ che tenga! soggiunse il pellegrino. — Recatevelo in santa
pace; voi non avete, messer Fiordaliso, fatto prova di molta filosofia;
laonde io mi fo’ lecito di consigliarvi a studiare qualche buon libro
intorno a questa materia, e in particolar modo il libro della vita, che
le Sacre Carte hanno simboleggiato nell’albero della scienza del bene e
del male.
— Fiordaliso, tu se’ spacciato! — gridò Ottone di Cosseria.
— _Periisti!_ — aggiunse il latinista Benedicite, dal fondo della
tavola.
— Orbene, — disse, dopo una breve sosta il poeta, messo in puntiglio —
correggete voi con la vostra scienza, messer pellegrino, quel che c’è di
errato nei miei grami concetti!
— E perchè no? Tengo la giostra. Date qua il vostro liuto e vedremo di
cavarne un costrutto. —


CAPITOLO III.

Come il biondo Fiordaliso fu vinto in tenzone poetica, e del rammarico
ch’ei n’ebbe.
Allora, in mezzo alla aspettazione universale, lo strano ospite di
Roccamàla pose le mani sullo stromento di Fiordaliso, che più non parve
lo stesso. Le sue dita, adunche come gli artigli d’un falco, cavarono
dalle corde una tempesta di suoni, striduli e sto per dire non umani;
strano preludio che fece correre un brivido di terrore per l’ossa a
quella nobile udienza.
— O come suonate voi, messer pellegrino? — chiese Enrico Corradengo.
— Come il Paganini.
— E chi è il Paganini? — dimandò un altro della brigata.
— Un gran trovatore, messeri, un gran trovatore.
— E.... — si provò a dire Fiordaliso, che udiva toccato il liuto da mano
maestra e già si sentiva una spina nel cuore, — e vi ha insegnato
egli?....
— No, io a lui; — rispose asciuttamente il pellegrino.
— Ah! noi siamo dunque al cospetto di un maestro.... — disse il conte
Ugo.
— Oh, questo poi no, messer lo Conte! Pizzico un tratto, per mio
logorare, ma non la pretendo a maestro nella gaia scienza, come fa
qualcun altro. Ora, ecco, magnifici messeri, vi canterò la ballata
dell’uom felice, la ballata di Giobbe.
— Vuol essere allegra! — disse mastro Benedicite fra i denti; e
frattanto di sotto alla tavola fece il segno della croce, imperocchè,
dopo quel preludio indiavolato, gli era tornata la paura in corpo.
Per tutta la comitiva si fece un gran silenzio, appena il pellegrino
ebbe annunziato il titolo della sua ballata. E l’ospite di Roccamàla,
con voce ingrata, ma che costringeva ad ascoltare, così diede principio
al suo canto:
Era su in alto splendida festa,
Chè avea l’Eterno corte bandita.
Calici in mano; corone in testa;
Tocche le cetre da rosee dita.
Tutti raccolti nel ciel natio
Eran gli alati figli di Dio.
— Il cominciamento è bello! — gridò Ansaldo di Leuca. — Pare una copia
della nostra brigata, salvo che noi non abbiamo corona in testa e non
siamo figli di Dio, e voi non avete le dita rosee, messer pellegrino! —
Il cantore rispose alla celia di Ansaldo con un sorriso che mise in
mostra trentadue denti nitidi ed acuti come quei d’una sega, e,
ripigliato l’arpeggio, prosegui:
C’eran tutti, chè in lieto accordo
Venner da’ chiari regni e da’ bui;
E quell’astuto, cui non fu sordo
D’Eva l’orecchio, c’era pur lui,
Da Dio colpito già d’anatema,
D’alta scienza mastro Aporèma.
— Aporèma! È un nome saracino? — esclamò Ansaldo di Leuca.
— No, — soggiunse Corradengo — un nome greco.
— Greco, o saracino, — borbottò mastro Benedicite, — gli ha da essere
sinonimo di Satanasso. —
Il pellegrino rispose con un altro dei suoi tetri sorrisi, e continuò
cantando:
Spirto del dubbio, spirto che indaga,
Che viver sdegna contento al quia,
Nè di fallaci larve s’appaga,
E l’uom da’ stolti sogni disvia.
Com’ei da sezzo giunto s’assise,
Lo vide il vecchio Sire e sorrise.
— Che vuoi Satanno? — Buon sire Iddio,
Un posto al vostro gaio banchetto!
Vostra fattura, padre, son io,
Sebben m’abbiate poi maledetto,
E qual maestro lasciato all’uomo
Dopo la biblica scena del pomo.
— Sì veramente, spirto malnato,
E aver ciò fatto mi seppe reo!
Ma non hai tutti pure ingannato....
Ti sfugge il giusto prence Idumeo....
— Ve’ gran fatica! Voi lo volete....
Ma lo lasciate solo, e vedrete! —
— Sì, tenta! io tolgo da lui la mano....
Ma inver sovr’esso fai mala prova,
— Perchè? fors’egli fuor dell’umano,
Oltre la terra sue gioie trova?
Hollo a far tristo, buon sire Iddio,
O ch’io, Satanno, non son più io! —
Qui il pellegrino fece una sosta, che nessuno degli astanti volle
turbare co’ suoi ragionari, tanto erano ansiosi di udire la
continuazione. E questa non si fece attender molto, poichè, dopo un
altro arpeggio più cupo del primo, e con voce più stridula, il cantore
di Aporèma venne alla seconda parte della ballata.
Il vecchio di lassù tenne la fede,
Perchè sillaba sua non si cancella,
E l’uom felice in potestà gli diede.
Ratta sui vanni allor d’atra procella,
Scende sventura all’idumee pendici,
Strugge i campi, gli armenti e le castella.
Ve’ subito oscurarsi i dì felici
Del prence, e ve’ dalle dolenti case
Ad uno ad uno disparir gli amici!
Nè il vinse ciò, nè l’ira al cor süase.
Guardò la donna sua, baciolla, al core
Forte la strinse, e impavido rimase.
Ma passa ancora il nembo struggitore
E a lui, che nulla sembra aver sofferto,
Della salute inaridisce il fiore.
Già bellezza e vigor l’hanno deserto,
E tabe ria da cento piaghe stilla
Onde apparisce il corpo suo coverto.
Ve’ donna innamorata! Amor vacilla.
Ve’ cor cui l’uomo non mutevol creda!
Torse il piede ad un tempo e la pupilla.
Solo, ognor solo, parta il giorno o rieda,
Alla brina gelata, al sol cocente,
Solitario carcame a’ vermi in preda!
Pur gli rimase il raggio della mente....
Ma udite qual ne fece uso sennato;
Maledisse all’Eterno, e irriverente
Gli domandò: «perchè m’hai tu creato?»
Giunto alla fine della seconda parte, la quale, anzi che un canto, fu
una recitazione drammatica, accompagnata da rauchi suoni di corde, il
pellegrino fece la seconda sosta.
La brigata non fiatava; ma il suo silenzio non era per fermo
testimonianza di freddezza; chè ben dimostravano il contrario gli
sguardi fisi e le labbra ansiosamente tese verso il cantore.
La imprecazione di Giobbe era stata resa con un accento da mettere i
brividi, e più paurosa l’avea fatta il liuto, con un suo accompagnamento
beffardo. Poco stante, il pellegrino, facendosi da capo alla cantilena
delle prime strofe, ripigliò in questa guisa a cantare:
Era su in alto splendida festa
Ed Aporèma fu del cortèo.
— Orben, signore, dite, che resta
Del vostro lieto prence Idumèo?
Povero, infermo, solo, reietto,
Al suo fattore grida così:
«Perchè mi desti core e ’ntelletto?
«Perchè m’apristi le luci al dì?»
Affè, gran cosa l’esser felice
Se un sogno all’uomo la vita infiori,
E raggio d’iride l’ingannatrice
Zona vi stenda de’ suoi colori!
Felice è l’uomo fin che la fede
Inviolata nel cor gli sta,
E il primo intonaco di ciò che vede
A brani a brani non se ne va. —
— E tu, Aporèma, forse più lieto
Sei tu che ’l negro dubbio diffondi,
Tu che turbandomi l’alto secreto
Ogni parvenza scuoti e disfrondi?
Dimmi, te stesso non hai dannato
A lutto eterno fin da quel dì
Che in questo sogno viver beato
Sdegnasti e l’ira mia ti colpì?
— Il ver parlate, buon sire Iddio;
In cor non sente gioie Aporèma.
Nel duol mi cruccio, ma il duolo mio
Non può speranza vincer, nè tema.
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Il Libro Nero - 03
  • Parts
  • Il Libro Nero - 01
    Total number of words is 4449
    Total number of unique words is 1694
    38.5 of words are in the 2000 most common words
    52.3 of words are in the 5000 most common words
    60.0 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il Libro Nero - 02
    Total number of words is 4426
    Total number of unique words is 1651
    38.7 of words are in the 2000 most common words
    52.0 of words are in the 5000 most common words
    58.9 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il Libro Nero - 03
    Total number of words is 4610
    Total number of unique words is 1651
    37.8 of words are in the 2000 most common words
    52.9 of words are in the 5000 most common words
    60.1 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il Libro Nero - 04
    Total number of words is 4551
    Total number of unique words is 1739
    35.1 of words are in the 2000 most common words
    49.6 of words are in the 5000 most common words
    56.6 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il Libro Nero - 05
    Total number of words is 4517
    Total number of unique words is 1813
    36.1 of words are in the 2000 most common words
    49.0 of words are in the 5000 most common words
    56.4 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il Libro Nero - 06
    Total number of words is 4525
    Total number of unique words is 1782
    36.9 of words are in the 2000 most common words
    52.6 of words are in the 5000 most common words
    59.5 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il Libro Nero - 07
    Total number of words is 4478
    Total number of unique words is 1643
    38.2 of words are in the 2000 most common words
    53.4 of words are in the 5000 most common words
    61.5 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il Libro Nero - 08
    Total number of words is 4488
    Total number of unique words is 1750
    38.3 of words are in the 2000 most common words
    52.3 of words are in the 5000 most common words
    58.9 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il Libro Nero - 09
    Total number of words is 4478
    Total number of unique words is 1765
    35.6 of words are in the 2000 most common words
    49.9 of words are in the 5000 most common words
    57.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il Libro Nero - 10
    Total number of words is 4593
    Total number of unique words is 1823
    33.3 of words are in the 2000 most common words
    47.4 of words are in the 5000 most common words
    54.8 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Il Libro Nero - 11
    Total number of words is 3256
    Total number of unique words is 1399
    37.6 of words are in the 2000 most common words
    52.6 of words are in the 5000 most common words
    59.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.