Il Libro Nero - 04

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porta, da intendervi e da obbedirvi in ogni cosa che a voi piaccia.
— Invero, messere, io non vo’ altro se non ch’ei faccia mai sempre il
piacer mio; — rispose ella sorridendo, — ch’ei non si dolga del
cappello, quando mi torni a grado di farlo star cheto; che si tolga in
pazienza la lunga per amor mio, e non si becchi i geti per disdegno di
servitù.
— Madonna, — disse Ugo, proseguendo sul medesimo metro, — a cotesto l’ha
avvezzo così bene mastro Benedicite, senza esser altro che un povero e
rozzo strozziere, che io mi penso non debba a voi riuscir malagevole il
fare, non pur quello ch’ei fa, ma i dieci cotanti di più. Cionondimeno,
sappiate che egli, per averlo così obbediente, ha pur dovuto scegliere
tra le svariate qualità di carne uno spicchio particolare, e darglielo,
quasi a ricompensa di sua fedeltà e leal vassallaggio.
— Quale? — dimandò Giovanna di Torrespina.
— Il cuore, madonna, il cuore! — fu pronto a rispondere Ugo.
Or questo dialogo, avvenuto la mattina nel bosco, si ripeteva la notte
nella fantasia del signore di Roccamàla. E pensando al suo motto, ei
ricordava eziandio che madonna era rimasta silenziosa.
Ma invero, come avrebbe ella potuto rispondergli? Appunto in quel mezzo,
tornava a spron battuto, per cercar di loro, il conte Corrado di
Torrespina.
Sì, la ragione era grave; ma se la venuta del Torrespina aveva
interrotto il discorso e tolto a madonna di rispondere, ella ben poteva
volgergli uno sguardo nel quale egli avesse a leggere quella dolce
promessa, che da tanto tempo implorava con tutte le potenze dell’anima
sua.
Ah! e perchè non aveva egli ottenuto quello sguardo da lei?...
Dimanda che uscitagli appena dal cuore gli si voltò contro, a guisa di
aspide calpestato, e lo morse; dubbio che mandò un lampo di luce
sinistra nelle tenebre della sua mente, e gli fe’ credere di avere
indovinato il perchè quella notte e’ non avesse potuto pigliar sonno pur
anco.
Pensare cotesto e balzar dal letto gittando le coltri lunge da sè, fu un
punto solo.
— La mia anima è triste! — diss’egli ad alta voce, come se avesse altri
nella camera che dovesse udirlo. — Non dormirò questa notte! —
E sceso il gradino del letto, si diede da capo a passeggiare per la
stanza. Ma la testa gli ardeva; il sangue martellava alle tempie; però,
come fu giunto alla strombatura di una finestra, aperse le imposte e si
affacciò sul verone a respirare l’aria fredda della notte.
Il cielo era buio; un soffio gelido, che intirizzì le membra di Ugo, gli
fe’ sentire i nuvoloni della tempesta addensati su quelle montagne, e
glieli fe’ scorgere, paurosamente pendenti sul capo, un solco di luce
che improvviso guizzando poco lunge da lui, rischiarò un denso strato di
vapori che stringevano in un cerchio i bastioni e le torri merlate di
Roccamàla.
Quello avvicinarsi della tempesta piacque all’animo travagliato
dell’insonne. La gran massa del castello gli appariva dall’alto del suo
verone, al bagliore di un lampo e spariva; s’imbiancavano di repente le
mura digradanti in prospettiva, poi tosto si celavano, ricadendo nella
notte. Parea quella una battaglia di spiriti, tanto più paurosa in
quanto che non s’udiva cozzo di lance e di scudi, e solo un lontano
brontolìo testimoniava il furore degli assalitori.
Gli occhi d’Ugo, poi ch’ebbero avidamente contemplata quella scena
stupenda di orrore notturno, corsero di muro in muro, di bastione in
bastione, fino alla torre più in fondo, dalla parte del burrone, la
torre del Negromante, che mostrava tratto tratto alla luce del temporale
la sua alta merlatura e le sue svelte bertesche.
— Il mio ospite dorme! — disse Ugo, guardando la finestra della torre. —
Egli, il triste cantore, riposa tranquillo, mentre io veglio, io, l’uomo
felice dei canti di Fiordaliso! —
Non aveva anche finito di parlare, che uno sprazzo di luce rossiccia
balenò dal vano di quella finestra. A tutta prima pensò che fosse
l’effetto di un lampo; ma il suo errore non durò lungamente. Un lampo
venne e non illuminò soltanto la torre, sibbene tutto quanto egli poteva
scorgere dall’alto del suo verone. Oltre di che, la luce del lampo era
biancastra, e quella dalla torre era rossa come di fuoco vivo.
Gli corse allora alla mente la leggenda di Roccamàla. Quasi in risposta
al suo dubbio, la finestra si rischiarò di bel nuovo, e, la luce rossa
rimase, durando per tutto l’intervallo che correva tra un lampo e
l’altro del cielo. Nè bastava ancora; una smilza e lunga figura d’uomo
comparve nel mezzo.
Ugo era prode d’animo, come forte di mano, ma v’hanno di tali cose
contro le quali non prova nulla il valore, ed egli, a quella doppia
apparizione, sentì corrersi un sudor freddo per tutte le membra.
— Che è ciò? — diss’egli. — Che vuol dire quella luce? Roccamàla è
dunque per fermo la dimora di uno spirito maligno? Ma se la leggenda non
mente, l’ospite della torre deve dormire nel suo letto e non addarsi di
nulla. Or dunque, perchè quella forma umana in mezzo a quello sprazzo di
luce sinistra? Chi sarà mai?... —
E allora gli venne in mente un sospetto. Le paure dello strozziere, la
scena del ponte calato, il piglio scherzevole del romèo, la sua
sconsolata e sconsolante canzone, tutto si affacciò incontanente allo
spirito.
Rientrò nella camera, non sapendo bene ciò che egli volesse fare.
Anzitutto ripigliò le sue vesti in fretta, cinse la sua spada e raffermò
alla cintura il pugnale.
In quella che era per finire, un suono fievole gli venne udito dalle
camere vicine. Aperse l’uscio, entrò con passo deliberato, e come fu
giunto fino alla camera di Fiordaliso, sorrise, vedendo il biondo paggio
che dormiva supino sul suo letticciuolo e sognava.
— Ah! — diss’egli. — Era Fiordaliso! Il mio paggio va seguendo adesso
qualche ventura amorosa: medita una cobla, o una serventese, per qualche
beltà borghigiana. —
Ha le parole che uscivano rotte e confuse dalle labbra dell’adolescente
non erano di amore. Pallido, ansante, e cogli occhi mezzo aperti, egli
andava dicendo:
— Messere... Benedicite avea pur ragione di temere di voi... Una ballata
migliore a gran pezza della mia.... Sì, certo.... Bel vanto, vincere un
giovinetto inesperto, voi vecchio maestro d’ogni scienza... voi Aporèma
in persona... —
— Aporèma! — esclamò il conte Ugo. — Aporèma, lo spirito del male!...
Sarebbe egli vero?... —
Si avanzò per destare il paggio, ma tosto mutando pensiero si rattenne,
e rientrato nella sua camera, tornò sul verone. La luce rossiccia
appariva sempre dalla torre del Negromante, e in quello sprazzo di luce
appariva sempre quella lunga figura umana. Conte Ugo tese l’orecchio, e
tra gli ululati del vento gli parve di udire il riso stridulo e beffardo
del pellegrino.
Prese allora una determinazione; messe la mano sull’elsa della spada;
tastò la guaina del pugnale, come per sincerarsi che non gli mancavano
le armi, ed uscì speditamente dalle sue camere.
La sala era deserta, fredda e presso che buia. Solo un famiglio dormiva
sdraiato su d’una panca; una fioca lucerna strideva in un cantuccio. Ugo
la tolse, e di tal guisa si rischiarò la via per un lungo corridoio che
ripercuoteva cupamente il suono dei suoi passi, e in capo al quale era
una porta ferrata.
Quella porta metteva alla torre del Negromante. Conte Ugo si fermò un
tratto, depose la lucerna a terra e stette ad udire. Nessun rumore
veniva di là entro. Scosse il capo, come per cacciare da sè l’ultimo
avanzo di paura, e stese la mano per picchiare alla porta.
Ma innanzi che egli avesse poste le nocche sulla lastra di ferro, la
porta girò sui cardini, e il pellegrino si affacciò nel vano, per dirgli
col suo consueto piglio tra umile e beffardo:
— Entrate, messer lo conte! Voi siete in casa mia, e mi sa grado di
potervi rendere quella ospitalità di che mi foste cortese stasera. —


CAPITOLO VI.

Nel quale si legge come il romèo non fosse altrimenti un romèo.
Il conte Ugo entrò allora nella camera, e il primo suo atto fu quello di
volger gli occhi in giro, quasi cercando le tracce di quel bagliore che
avea visto da fuori. Ma nulla era mutato in quel luogo; nulla ei potè
scorgervi di nuovo. Il letto, di legno di quercia, era nascosto
nell’ombra, in fondo alla camera; un grosso stipo ferrato s’innalzava
alla parete di rincontro all’uscio; tutt’intorno si vedevano grandi
seggioloni neri, con le spalliere di legno rozzamente intagliate a
fogliami, coi sedili e i bracciuoli di velluto, fermato agli orli da
borchie di ottone. Le pareti, poi, erano coperte di cordovano; ma qua e
là le ingiurie del tempo avevano fatte larghe fenditure nel cuoio, e gli
strambelli pendevano arrovesciati, fida stazione ai ragni che tra essi e
la parete andavano filettando le lor tele ingannatrici.
Una lucerna di bronzo sorgeva, avanzo d’altri tempi, su d’un canterano
di fianco all’uscio, mandando una luce fioca a pochi passi discosto.
Tutto era quiete e silenzio nella famosa camera del Negromante.
Dopo aver considerate tutte queste cose e dopo esser giunto fino al
letto, i cui guanciali non apparivano neanche toccati, il conte Ugo si
volse al pellegrino che si era fermato presso l’uscio, e col braccio
appoggiato sul canterano, la persona appoggiata sul braccio, le gambe
incrocicchiate, lo stava attentamente guardando.
Egli v’ebbe tra i due un istante di muta contemplazione, o, a dirla più
veramente, d’interrogazione scambievole. Ma il pellegrino fu più forte
del conte, poichè seguitò a tenergli addosso le ciglia senza far motto;
laddove Ugo, non potendo sostenere più oltre quella strana guardatura,
entrò turbato a chiedergli:
— Chi sei tu? perchè ho io veduto uno sprazzo di luce da questa
finestra?
— Messer lo conte, io non so dirvene nulla; — rispose sorridendo a suo
modo il pellegrino — e penso piuttosto che quella luce di cui parlate si
sia fatta nella vostra mente, e vi sia parso di vederla apparire di
fuori. —
A questa speciosa argomentazione il conte Ugo non seppe come rispondere,
e si voltò in quella vece a muovergli un’altra dimanda:
— E come hai tu saputo che io venissi da te, poichè hai aperto
quest’uscio?
— Voi dimenticate i vostri piedi, messer lo conte — rispose il
pellegrino sul medesimo metro — e dimenticate eziandio gli echi del
vostro corridoio.
— Sia pure; ma qual è questa ospitalità che tu hai detto di volermi
rendere? Per che modo puoi tu dire d’esser qui in casa tua?
— Voi volete saper troppo, messer lo conte! — disse ridendo il
pellegrino.
Il conte Ugo, che non era punto ingannato da quell’infinto candore del
suo ospite, si lasciò cadere su d’un seggiolone, e fissando in volto il
pellegrino, proseguì il discorso in tal guisa:
— Sì, v’hanno di molte cose ch’io vorrei sapere. Molto hai detto, e
assai più m’hai lasciato nel dubbio. Tu sei dotto, romèo, e la tua
scienza, sebbene non sia gaia, mi tira ad udirti. Parla dunque; non
t’infingere con me, non ti schermire dalle mie dimande; dissipa i dubbi
che hai fatti nascere nell’anima mia!
— La mia scienza, messere, si restringe in poche massime; — rispose dopo
una breve sosta il romèo; — ma non ogni stomaco è fatto per digerire un
tal cibo. Ora, sarete voi così forte, da potermi udire senza corruccio?
— Parla, parla, nè ti dar pensiero di ciò. Vedi, pellegrino, io non so
chi tu sia, ma credo di avere indovinato l’esser tuo....
— Da senno?
— Sì, e tuttavia non tremo dinanzi a te, ti guardo tranquillamente in
viso; ascolto senza turbamento tutto quello che vorrai dirmi.
— Cotesto non prova ancor nulla, messere; voi non siete una donnicciuola
paurosa come il vostro falconiere, ed io non sono poi quell’orrido ceffo
che metta in fuga i bambini. Sono un povero vagabondo, carico di
peccata, che porto del resto senza curvarmi soverchiamente sotto il
fardello. Non ho mai recato danno a persona, più di quanto volesse
averne di per sè; più spesso ho cercato di sovvenire agli uomini con
quel po’ di esperienza che m’hanno fruttato tanti anni di vita randagia.
Or dunque, di che avreste voi a temere? E non basta ancora. Voi siete
per tal modo catafratto, da potervi commettere sicuramente in ogni più
arrisicata intrapresa. Siete felice; questa è almeno la voce che corre,
ed io non so tacervi che ho mutato a bella posta la mia strada per
passare da queste parti a vedere questo miracolo d’uomo. Vedere un uomo
felice! Cotesto, a mio credere, franca la spesa del viaggio, assai più
che la vista del papa, coperto di gemme e di porpora, in mezzo al
collegio dei cardinali. Felice invero! Voi siete giovine, possente e
bello... sì bello; non v’incresca, o messere. La bellezza non guasta
mai; anzi, e’ v’ha chi la pregia su tutte le altre venture del mondo.
Uno stuolo di amici divoti vi circonda; sempre feste, gualdane, tornèi,
cacce, conviti; dapertutto il primo, dapertutto il prescelto... perfino
in un castello non molto lunge di qui....
— Dici tu il vero?
— Sì, messere, e l’ho di buon luogo.
— E come lo sai tu? parla; io voglio....
— Adagio a’ ma’ passi, messer lo conte! Questo è un mio segreto, e il
conoscerlo non vi potrebbe giovare in alcun modo; ma siate certo che
ella vi ama.
— Orbene, — soggiunse Ugo, — e perchè neghi tu la felicità sulla terra?
Tu stesso or vedi....
— Sì, vedo; ma vedo altresì....
— Che cosa?
— Vedo, — continuò il pellegrino, contando le parole ad una ad una come
il cristiano divoto le pallottoline della sua coroncina, e guardando
fiso ad ogni parola il suo interlocutore — vedo altresì che voi rimanete
pur sempre indietro; che le vostre labbra non le hanno pure sfiorato il
sommo delle dita; che madonna è severa ed ha cura di sè, più assai che a
donna innamorata non si convenga; che infine....
— Taci, — interruppe Ugo, — non proseguire in tal guisa!
— E perchè dunque invitarmi a parlare? Io ho a mala pena incominciato, e
la verità vi riesce molesta! —
Ugo crollò sdegnosamente le spalle, a queste parole del pellegrino;
quindi prosegui:
— Io mi penso che tu voglia prenderti spasso dei fatti miei. Tuttavia,
una cosa non hai potuto negare; ella mi ama.
— Mai sì, messere, ella vi ama, e che prova ciò? Ella potrebbe disamarvi
poi.
— Sì certamente, se sarò disleal cavaliero, se mi chiarirò indegno di
lei.
— Ah, messer lo conte! La fede cieca vi condurrà forse in paradiso; ma
ella per fermo non vi farà andare diritto in mezzo agli uomini ed alle
donne. Quale affetto sopravvive alla morte? Credete a vostra posta nella
divozione di coloro che vi circondano, e mettete pure in non cale la
sentenza dei vecchi: _tempore felici multi numerantur amici_. Fidate il
cuor vostro ad una donna e sognate la eternità dell’affetto; io vi dirò
con tale che ancor non è nato: _souvent femme varie; bien fol est qui
s’y fie_.
— Tu menti! — gridò Ugo, balzando dalla seggiola.
— Ah, ah! — rispose il pellegrino con piglio beffardo. — E voi vi
scaldate il sangue, messer lo conte; ma tutto ciò non muterà d’un punto
la verità. Godetevi in pace la vostra felicità; io vi aspetto a Filippi,
io, il quale, con vostra licenza, so _quanto valgono cose e persone, — e
niun sul prezzo gabbo mi fa_. —
Lo scherno, rivolto contro la donna amata, irritò il conte Ugo per modo
che non conobbe più ritegno. Le vampe dell’ira gli salsero al capo; gli
si offuscarono gli occhi, e sguainata la spada, si scagliò sul
pellegrino.
Ma, sebbene tutto ciò fosse avvenuto in un batter d’occhio, il colpo
andò a vuoto. Ugo non trafisse che l’aria; il pellegrino era sparito.
Com’egli rimanesse a quella vista, argomenti il lettore.
— Codardo! — gridò egli, nell’impeto dello sdegno. — Tu insulti la donna
mia e ti nascondi nell’ombra! —
Aveva appena ciò detto, che un riso beffardo gli suonò dalle spalle. Si
volse improvviso, ma rimase di sasso, cogli occhi sbarrati, le braccia
tese, e la spada gli cadde dal pugno.
Colui che rideva, era un bel cavaliere, non molto aitante della persona,
ma di membra giuste e di gentil portamento. Aveva neri i capegli e
ravviati con artistica sprezzatura sulla cervice; vasta la fronte e
nitida a guisa d’avorio; aperti lineamenti, il labbro superiore, un tal
po’ rialzato ad espressione di sarcasmo, era ornato da due sottili
basette che guardavano superbamente all’insù; il viso alto, e gli occhi
sfavillanti sotto l’arco delle sopracciglia raccolte, aggiungevano
efficacia al piglio sarcastico delle labbra.
Lo sconosciuto era coperto d’un rosso mantello, le cui larghe pieghe
andavano a raccogliersi sotto le braccia, che erano conserte al petto e
tenevano mezzo nascosta una berretta di velluto nero, da cui pendevano
due penne lucenti e sottili. E in quel regale atteggiamento, lo
sconosciuto rimase un tratto a guardare il conte Ugo e a sorridere della
sua maraviglia.
— Orbene, conte Ugo, questa è l’ospitalità di casa tua? Roccamàla è
dunque una ladronaia, dove si scannano i forestieri? —
Furono queste le prime parole del cavaliere dal rosso mantello.
— Hai ragione a dolerti! — disse Ugo, chinando la fronte in atto di
pentimento. — L’ira mi aveva acciecato. Straniero, io ti chieggo
perdonanza.
— Che di’ tu, ora? — ripigliò quel’altro, stendendogli amorevolmente le
braccia e facendo il viso altrettanto soave quant’era stato severo da
prima. — Non pensiamo più a cotesto. D’altra parte, simiglianti
puntaglie non fanno che raffermar l’amicizia, ed io t’amo davvero,
imperocchè ciò non mi avviene pel tuo oro, né per la tua possanza, né
per le delizie di cui tu circondi i tuoi ospiti.
— Chi sei tu? — disse Ugo.
— Una parte dell’anima tua, che stava appiattata, e balza fuori di
presente, al lampo di una prima tempesta.
— Uno spirito malvagio! — soggiunse Ugo, in quella che ricadeva sul suo
seggiolone, e, appuntellato il gomito sul bracciuolo, il mento nella
palma della mano, si disponeva ad una lunga meditazione.
— Malvagio! — ripetè il cavaliere dal rosso mantello. — Come ti aggrada.
Ma considera un tratto; voglio io forse acciuffarti e trascinarti con me
nel vano di quella finestra? Poveri uomini! ve n’hanno pur date a bere,
questi calunniatori di Aporèma! Vedi, Ugo di Roccamàla; io vo’ dare a te
la scienza, quella che i nostri santi padri si tennero gelosamente per
sè, bandendo la croce addosso a questo povero spirito che ti parla, e
non ha altro intento fuor quello di far uomini, uomini veri, questo
branco di creature bipedi e pecorine. Sono Aporèma; ti spaventa per
avventura cotesto? Mutami il nome; sono il dubbio della tua mente, sono
lo studio, sono la scienza del bene e del male.
— Tu sei — disse Ugo — colui che ha perduto Eva, la madre degli uomini.
— Ah ah!... storielle! — rispose Aporèma. — Lo scrittore della Genesi mi
ha attribuito questa parte nelle sue invenzioni; ma io non me ne ricordo
punto. Bene ho conosciuta la vostra prima madre, messeri; ma costei non
meritava che il diavolo si scomodasse per lei, o le insegnasse la strada
degli alberi fruttiferi. Era piccina, panciuta, vellosa, stretta la
fronte, e i primi ciuffi di capegli nascenti sull’orlo delle
sopracciglia; la faccia ringhiosa; le braccia lunghe e scarne, i pugni
grossi, i piedi adunchi; talfiata si lasciava ire ad istinti non bene
ancora sopiti nella sua nuova natura e andava saltabellando su quattro
piante, la qual cosa non la illeggiadriva di certo; in quanto al pomo,
di cui s’è tanto chiacchierato, essa era donna da arrampicarsi
bravamente sui rami e spiccarlo, giusta il costume di tanti altri
digitigradi. Ma lasciamola li; se s’ha da intendere quella storiella pel
suo verso, cavarne il senso vero dal mito, se infine si vuol dire che ci
ho avuto mano a dirozzare la creatura, gli è vero e me ne glorio,
imperocchè a me solo, e non altrui, l’uomo è debitore di quel tanto che
può e di quel tanto che sa. Ho detto. —
E fatte queste parole, Aporèma spiccò leggiadramente un salto e andò a
sedersi, con le gambe penzoloni in aria, sullo stipo ferrato che era di
costa alla parete.
— Aporèma, — disse Ugo, dopo aver meditato un tratto sulle parole
dell’interlocutore, — puoi tu darmi la certa conoscenza delle cose?
— Anzitutto dimmi di quali, e ti risponderò.
— Che cosa rimane di noi, dopo la tomba?
— Ah! quivi è il nodo, e non si va più innanzi.
— Perchè?
— Non saprei dirtelo. Gli è un gran mistero, un arcano di Stato, e il
vecchio di lassù lo custodisce così segretamente, che metto pegno non
l’abbia detto nemmanco a suo figlio. Se avessi a metter qui una mia
congettura.... Ma a che pro’? Tu chiedi scienza e non ti giovan le
ipotesi. Ti basti dunque sapere che il segreto è sotto chiave ed io non
ho trovato grimaldelli che girassero in quella toppa. Imperocchè tu devi
considerare che la mia possanza è ristretta in certi confini; che io non
sono eterno, quantunque sia immortale....
— O come? — sclamò Ugo trasognato.
— Sottigliezze teologiche; non ci badar più che tanto — rispose Aporèma.
— Cotesto vuol dire che io son nato con l’uomo, non so se prima o dopo,
ma a un dipresso nella stessa olimpiade.
— E che puoi tu dunque per me?
— Mostrarti il presente, quello che non esce dai sensi.
— Gran mercè! Questo io lo vedo con gli occhi miei, senza mestieri di
aiuto.
— No, i tuoi occhi s’ingannano, i cinque sensi sono una congiura ordita
di continuo contro di te, un laccio teso alla tua carne, un trabocchello
preparato sotto i tuoi passi.
— E potrò io spogliarmi di questa mala compagnia di traditori? potrò io
gettarli lungi da me, come fa della scoglia il serpente?
— Perchè no?
— Di’ tu il vero? puoi tu farmi altr’uomo da quello che io sono?
— Sì, posso, e, dove tu il voglia, posso anche farti spettatore del tuo
funerale.
— E vedere.... e sapere....
— Sì, ogni cosa; ma ti darà l’animo di cominciare, di separarti per tal
guisa da te medesimo? —
Ugo rimase un istante sovra pensieri. Il sì e il no gli tenzonavano in
mente.
— Domani a notte! — rispose egli, dopo aver meditato.
— Perchè domani e non ora?
— Perchè... non ardisco....
— Uomo di poca fede! — gridò Aporèma, con accento di amarezza
ineffabile. — Uomo! uomo! io ti conosco da un pezzo; sempre così, da che
hai cominciato a fraintendere te stesso; sempre tentennante; impastato
di _se_ e di _ma_, non acconcio ad altro che a fare il bene a mezzo, e
il male del pari!
— Tu sei molto severo, Aporèma!
— No, non io severo, tu fiacco; tu che non sai distogliere lo spirito da
questo tuo sogno fanciullesco. Egli si direbbe per mia fe’ che tu bene
intenda aver io ragione, e non sappia determinarti a scorgere il pauroso
vero! Ora io ben so tutto quello che hai in mente di fare. Tu vuoi
ritemprarti ancora una volta nella festosa compagnia e nelle piaggerie
degli amici; tu vuoi rivedere la donna che t’ama, ma che non è tua, e
che intende esser teco quello che sarà tra non molto una superba o
sciocca Avignonese, col più gentile e col più illustre italiano del suo
tempo. —
Ugo chinò tristamente il capo a quella ràffica di parole con cui lo
flagellava Aporèma.
— Orbene, io parto! — ripigliò questi dopo una breve sosta. — Andrò a
sellare Lutero, il mio fido ronzino e lascerò questa rocca dove s’è
bastionata la cecità, la fiacchezza umana. Papa Leon X è ancora di là da
venire; ho dugent’anni e più in mia balìa per andargli a preparare il
terreno in Lamagna, dove sono assai più filosofi e buoni loici di qui, e
l’opera mia tornerà certo più utile che non a guastarmi la mano quassù,
intorno ad un uomo che ha occhi e non vuol vedere, orecchi e non vuole
udire. E tuttavia, vedi debolezza di demonio, io m’ero innamorato di te,
Ugo di Roccamàla; per te volevo fare un esperimento senza mio utile
alcuno, per te violare le leggi dominatrici della materia, per te
insomma.... Orvia, gli era scritto che tu pure fossi un uomo della fatta
di tutti gli altri. Addio, dunque, e sta sano di membra, se esserlo di
mente non vuoi.
— No, non partire, Aporèma, non lasciarmi così! Ugo di Roccamàla non è
un codardo come tu pensi. Che debbo io fare?
— Ber questo! — disse Aporèma.
E trattosi dal dito un anello di metallo nero, su cui luccicava un
grosso diamante, fe’ scattare, con un lieve tocco dell’unghie, la pietra
preziosa dalla sua incastonatura.
— Che c’è egli qui dentro?
— Due gocce di un liquore che non fa male, stillato dall’albero non
favoloso della scienza, e che a te darà la conoscenza vera del cuore
umano....
— Porgi! — gridò conte Ugo.
E preso l’anello dalle mani di Aporèma, fe’ per accostarlo alle labbra.
Ma questi non gliene lasciò il tempo, ed afferratogli il braccio per
ripigliarsi l’anello, gli disse rabbonito:
— Sta bene, flgliuol mio! Tu sei un prode cavaliere, ed io ben voglio
che tu beva il liquore della scienza. Ma cortesia per cortesia;
_noblesse oblige_, come dicono i cavalieri di Francia e Navarra. Tu hai
a leggere, innanzi di bere, una pergamena che si conserva in questo
stipo ferrato.


CAPITOLO VII.

Dove si legge del patto che il vescovo Gualberto aveva fermato col
diavolo.
Così dicendo, Aporèma si accostò allo stipo, da cui era già disceso,
innanzi la minaccia di andarsene via dal castello, e toccata leggermente
una delle cento borchie ond’era fregiata l’esterna fasciatura
dell’armadio, fe’ scattare una molla. A quel colpo, una sbarra
orizzontale, che parea semplice ornamento dello stipo, si mosse, e per
la fessura che lasciò scoverta, Aporèma ficcò destramente le dita,
facendone balzar fuori un libro grande e sottile, dalle carte di cuoio
lavorato a rilievo.
— Ah! — sclamò conte Ugo. — Il libro nero non era dunque una favola?
— No; la leggenda diceva il vero; — rispose Aporèma — eccolo, il libro
che i tuoi maggiori hanno sempre vanamente cercato. Apri il fermaglio di
ottone; vedi la pergamena, com’è intatta e pulita! —
Ugo afferrò il libro, e corse al lume della lucerna per leggere. Sulle
prime gli occhi abbacinati non distinsero nulla in quella fitta
scrittura, le cui parole erano la più parte abbreviate, giusta il
costume del tempo; ma a poco a poco, chetandosi lo spirito confuso, e
avvezzandosi gli occhi allo scritto, incominciò a cogliere il senso di
quello scarabocchio. Ora ecco ciò che egli lesse:
In nomine Domini, amen.
_In hac die novembris XXIX, anno a nativitate Domini MCLXIII,
ego Gualbertus episcopus veni ad hanc turrim quae dicitur
nigromantis in Arce mala et diabolum adjuravi qui eam inhabitat.
Et mihi respondit ille, se dæmonem, famulunque comitis Hugonis
de Arce mala fuisse, et sibi nomen Aporèma. Addidit se nunquam
castrum hoc deserere voluisse, juramenti caussa, quod fecerat
prædicto comiti Hugoni, dum ille vivebat, se sobolem ejus
assidue protecturum. Et iterum adjurans eum efficacibus
scripturae verbis, mihi etiam respondit se libenter discessurum
esse et hoc sine perfidia facere posse, dummodo redire posset
quotiescumque aliquis praedicti Hugonis nepos felix aut aliter
in re sua beatus haberetur; nam sibi nomen antea Lucifer, ideo
lucem ferendi officium sibi, cui numquam deesse poterit per
tempora. Quid lateat sub hac conditione haud mihi clarum est, et
hoc tantum obtinui et huic foederi accedere debeam. Deus mihi
adsit et comitibus de Arce mala, ne quid detrimenti ex hoc nobis
adveniat._
† _Gualbertus_
_Aporèma._
— Intendi tu dunque? — disse Aporèma, facendosi cortesemente a
volgarizzargli il latino del vescovo Gualberto. — «Al nome di Dio,
_amen_! In questo dì 29 novembre dell’anno 1163 dalla fruttifera
incarnazione, io Gualberto vescovo son venuto nella torre che è detta
del negromante, in Roccamàla, ed ho scongiurato il demonio che l’abita.
Egli mi ha risposto essere stato lo spirito familiare del conte Ugo di
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