Il Libro Nero - 06

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Le lancie si fermarono in uno spazioso cortile, dove smontarono da
cavallo, e da’ famigli e palafrenieri di Torrespina furono condotti nei
loro alloggiamenti, insieme coi fanti del cortèo.
Morello e gli altri gentiluomini, guidati da messere Corrado, salirono
per una larga scala, lungo i gradini della quale era steso un magnifico
tappeto di Balsòra, fino alla gran sala del castello.
Appena furono sul pianerottolo, Morello ebbe come un capogiro e sentì
mancarsi il cuore; ma Rambaldo di Verrùa, che gli era venuto da fianco,
fu sollecito a sostenerlo, senza che altri se ne addasse, e a
susurrargli alcune parole misteriose. Le quali certamente ebbero
possanza di rinfrancarlo, dappoichè il giovine signore ripigliò tosto la
sua pronta andatura.
Entrarono per tal modo nella gran sala, e si offerse ai loro sguardi
madonna Giovanna, la contessa di Torrespina.


CAPITOLO IX.

Nel quale l’autore si prova a ritrarre la migliore tra tutte le donne.
Ella era adagiata su d’un seggiolone alla foggia romana, tutto
incrostato a minuzzoli di avorio e metallo, secondo l’arte genovese e
veneziana di quei tempi. Le stava vicina una tavola rotonda, sulla cui
lastra marmorea era steso un drappo di tela di argento, e sul drappo uno
scrigno gentilmente lavorato e sparso di gemme, con alcuni volumi legati
in carte di cuoio cordovano ed ornati di bei fermagli d’argento dorato.
La luce riflessa di due ampie finestre da ponente, rischiarava, senza
offenderlo, il suo viso stupendamente bello e stupendamente bianco.
La contessa Giovanna era vestita con maestosa semplicità. Una gonna di
candida lana di Provenza, aggiustata alla vita, scendeva con poche
pieghe da una cintura di verde zendado mollemente rigirata sui fianchi.
I capegli di un bel castagno scuro, uscivano vagamente crespati di sotto
una sottil corona d’oro, ornata di smeraldi, andando a raccogliersi alla
nuca dopo aver nascosto alcun poco il sommo degli orecchi. Le maniche
della veste, soppanate di zendado dello stesso colore della cintura,
pendevano aperte fin dal cominciamento dell’omero, lasciando trapelare
un braccio mirabilmente tornito, attraverso il tessuto di una camicia di
finissimo lino. Raro ornamento era questo per una dama di que’ tempi, e
quelle d’oltralpi, le celebrate Isotte e le Isabelle, che pur vestivano
di sciamito e di broccato, forse non n’avevano mai udito parlare.
Ed era bella, così modestamente vestita; tanto più bella in quanto che i
contorni severi del volto e delle membra, degni d’essere espressi nel
marmo, a riscontro della Venere di Milo, spiccavano mirabilmente da
quella semplice acconciatura e da quella foggia modesta. E quella sua
bellezza maestosa, veduta a prima giunta, comandava il rispetto, anzi
che ispirare il desiderio. Era in lei alcun che della Beatrice di Dante,
dinanzi alla quale ammutoliva tremando ogni labbro, e gli occhi non
ardivano pure di guardarla, imperocchè la era cosa venuta «di cielo in
terra a miracol mostrare.»
La natura, creando Giovanna di Torrespina, aveva fatto una delle sue
meraviglie, ahi troppo rare, se pure l’infrequenza non ha a reputarsi
maggior ventura per gli uomini; e, creatala bellissima tra tutte, le
aveva conferito un segno di particolar leggiadria, tingendole i grandi
occhi di un verde che pareva smeraldo.
Questo regal colore è assai raro a trovarsi negli occhi, ma non è
altrimenti fuori di natura. E questo va detto per taluni, i quali hanno
notato d’inverosimiglianza un ritratto di donna, già fatto in qualche
altro libro dall’autore di questo gramo racconto. Egli ha veduto di
simili occhi, li ha amati (quand’era giovine, s’intende), e sa benissimo
quel che dice. E molto prima di lui lo seppero i greci, che fecero
Minerva _glaucopide_. Un latinista che sapeva il fatto suo, tradusse
_cæsios oculos habens_, e un italiano che forse non aveva mai veduto
occhi verdi, tradusse _occhiazzurra_. Ma egli non sarebbe caduto in
errore se avesse letto il Calepino, dove dice che il _cæsius «est color
subviridis igneo quodam splendore intermicans»_ e non avrebbe mutato il
verde in azzurro, se avesse ricordato quel che dice Cicerone nel suo
libro intorno alla natura degli Dei: «_cæsios oculos Minervæ cæruleos
Neptuni_».
Non avendo il povero scrittore altra ringhiera che questa per dire le
sue ragioni contro i suoi avversarii, gli si condoni questa filologica
tantafèra, la quale dimostra incontrastabilmente che gli occhi verdi
erano conosciuti dagli antichi, e chi non ne ha veduti a’ tempi nostri,
suo danno.
Ora, gli occhi verdi della castellana di Torrespina erano del più bel
verde marino che si potesse vedere, e sfolgoravano alla luce, come fa
per lo appunto l’onda marina, quando la penetrano i primi raggi del
sole. E la bella Giovanna, a cui lo specchio non aveva taciuto il pregio
singolare delle sue grandi pupille, amava il verde sopra ogni altro
colore; smeraldi erano le sue gemme predilette; verde zendado la
cintura; il verde era maritato mai sempre al bianco delle sue vesti; e
il verde dava risalto alla morbida bianchezza delle sue carni.
Torno a’ miei greci con una breve digressione. Questi sacerdoti del buon
gusto, questi felici interpreti della natura nelle sue forme più elette,
ci hanno tramandato due tipi di bellezza femminea, la Venere de’ Medici
e la Venere di Milo. La prima di esse è giunta intera fino a noi, vo’
dire con tutte le sue membra, epperò si mostra all’universale in tutta
la leggiadria delle sue forme, in tutto lo splendore delle sue
attrattive. La Venere di Milo è guasta; non ha più ciò che attira e
trattiene; cionondimeno è stupenda a vedersi, e l’amore si mescola
nell’ammirazione. Tutta la sua persona spira una divina maestà, ma i più
dolci pensieri si destano alla sua vista; la si guarda riverenti, e
frattanto un non so che ci bisbiglia nel cuore che l’essere amati da lei
sarebbe la somma felicità. Che avverrebbe egli mai del riguardante, se a
quella divina non mancassero le braccia? Nol so; ma so bene che ho
contemplato la Venere de’ Medici, ed ho adorato la Venere di Milo; che
quella mi è piaciuta, e questa mi ha soggiogato.
La più bella delle Veneri stava seduta, leggendo uno di quei volumi
dalle carte miniate che erano sulla tavola daccanto alla sua scranna
intarsiata; ma come gli ospiti di Torrespina comparvero sul limitare, si
alzò, e la sua svelta persona, cui aggiungevano dignità le severe pieghe
della sua lunga e stretta veste di candida lana, apparve a Morello di
Monferrato in tutta la sua regale maestà.
Il giovine s’inoltrò verso la gentildonna, che lo accolse con un
inchino, ma con gli occhi bassi, senza averlo guardato nel volto. Egli,
come le fu giunto vicino, curvò leggiadramente il ginocchio e le prese
la bella mano, che era bianca e fredda come di donna morta.
Ma la vita fu pronta a mostrarsi, se non in quelle vene, in que’ muscoli
delicati, imperocchè la castellana, vedendo l’atto inusitato, fe’ per
ritrarre la mano. Morello la rattenne, e, baciandole il sommo delle
dita, temprò l’atto con queste cortesi parole:
— Regale onoranza è dovuta a madonna Giovanna di Torrespina da quanti
hanno in pregio bellezza e cortesia. —
Quando Giovanna, costretta dal dialogo, sollevò gli occhi a guardarlo,
Morello notò come fossero smorti. In quelle due iridi verdeggianti più
non risplendeva la fiamma; anche il viso era dell’usato più bianco; la
voce medesima, armonica voce, quando la udì, non gli parve più quella.
— Messere, — disse Giovanna, con molta lentezza d’accento, che
dimostrava lo sforzo — voi volete farmi andar troppo superba; e la
superbia disdice ad una povera castellana di queste squallide
montagne. —
Morello fu turbato da quel malinconico accento; quello «_squallide
montagne_» gli andò diritto al cuore. Tuttavia, facendo forza a sè
medesimo, rispose:
— Chi non conosce Torrespina? Gentile è il sangue, se non è vasto il
reame; e fosse pure il più grande, la sua cerchia sarebbe angusta mai
sempre al nome della figlia di Lionello del Cengio, la quale ha fama per
tutta Europa di alto ingegno e di sovrana bellezza. —
Madonna non rispose; ma con gesto leggiadro accennò a lui e a tutta la
comitiva le scranne che erano disposte in giro. Morello si assise su
quella che era più vicina alla gentildonna, e si assisero del pari i
compagni, dopo che messer Corrado li ebbe presentati a Giovanna,
chiamandoli per nome.
— Voi leggevate, madonna? — chiese Morello, guardando il volume che
stava ancora aperto daccanto a lei sull’orlo della tavola.
— Sì, messere; per conforto a queste lunghe ore del giorno.
— Le canzoni de’ trovatori forse? O il _San Graal_ di Filippo di
Fiandra, che di presente è in voga per la traduzione francese di
Cristiano di Troyes?
— No, messere; gli è un libro manco lieto, ma molto più utile: _Les
pélerinages de l’âme séparée du corps_, di Hardouin de Blancheville.
— Il famoso trovatore che si chiuse in un monistero, poichè la sua dama
fu morta? — disse Rambaldo di Verrùa.
— Lo conoscete voi? — chiese la dama.
— Sì madonna, conosco i suoi mirabili scritti, ed ho goduto della sua
amabile compagnia, l’anno scorso, all’abbazia di Citeaux.
— Un uomo di molta dottrina! — soggiunse ella.
— Sì certo, madonna, e pochi mesi prima che io andassi in Francia, si
era appunto trattato di farlo abate; ma egli non volle a nissun patto
saperne; il pover uomo è in uno stato veramente compassionevole; l’età
non lo tormenta, ma l’adipe....
— Ah! che dite voi mai, messer Rambaldo! — esclamò il conte Corrado,
ridendo. — Voi ora guastate con siffatti particolari il bel romanzo
della sua vita.
— Intendo benissimo tutto ciò, — rispose il Verrùa; — ma non è colpa mia
se la storia soverchia il romanzo. Io pure, andando all’abbazia e
sapendo la vita di messere Arduino, immaginavo di trovare un povero
frate macilento e scarno, una di quelle figure che fanno pensare a
quelle lame irruginite le quali corrodono la guaina, e argomentate la
mia meraviglia quando mi vidi dinanzi un frate rubizzo, co’ bargiglioni
sotto il mento, e costretto a sciogliere tratto tratto il cingolo della
pazienza. Egli è là, il biondo Arduino di Biancavilla, pasciuto e
tranquillo come un gaudente cavalier di Maria. Ora io non posso leggere
una pagina dei suoi malinconici _Pélerinages_ senza ricordare, a guisa
di contrapposto, quell’altra di un suo libro, ancora inedito, ch’egli mi
lesse, intitolato: «_Des hauts faits de messire Jean Nitouche_» che è
tale da sbellicarsi dalle risa. —
Giovanna s’era grandemente rattristata all’udire quel racconto del
trovatore.
— Voi mi dite cosa, messere, — soggiunse ella dopo una breve pausa, —
che mi disavvezzerà dal leggere più oltre questi suoi _Pélerinages_!
— Ah, madonna! la vita è cosiffatta; i morti si piangono qualche volta,
ma si dimenticano sempre. —
E così dicendo, Rambaldo di Verrùa, torse cortesemente lo sguardo da
lei, per dare un’occhiata in giro ad Ansaldo di Leuca e agli altri amici
del conte Ugo di Roccamàla. Arrossirono costoro, e turbati chinarono gli
occhi sul pavimento.
Giovanna era rimasta sovra pensieri, e non badava al senso riposto della
sentenza del trovatore. I suoi grandi occhi di smeraldo erravano, senza
guardare, lunghesso le tappezzerie di cuoio dorato che decoravano la
parete. — A che pensa ella ora? — chiedeva angosciato a sè stesso il
giovane Morello. E la spina d’un rimorso lo pungeva nel cuore, e gli
doleva amaramente che Ugo di Roccamàla avesse accettato il patto di
Aporèma.
Per metter fine ad una conversazione che aveva così dato nel grave,
giunse in buon punto la proposta di messer Corrado: i suoi ospiti, dopo
una lunga cavalcata, aver mestieri di scuotere la polvere e di mutar
panni; si riducessero dunque a’ loro appartamenti, dove, come la povertà
del castellano consentiva, avrebbero avuto ogni cosa ad essi
bisognevole.
Egli stesso condusse Morello di Monferrato nella stanza a lui assegnata.
Quivi il giovine signore, deposta la maglia d’acciaio, indossò una
leggiadra saracina, specie di farsetto bene aggiustato alla vita, che
era del suo prediletto color amaranto, con liste di tela d’argento.
Indi, dopo una breve refezione, andò con la brigata a visitare in ogni
sua parte il castello, e, intendente com’era di cose militari, ebbe a
commendare di molto le difese naturali ed artificiali del luogo.
In questi discorrimenti venne l’ora del pranzo, che fu squisito
daddovero e sontuoso pe’ tempi d’allora. Io, per non parer digiuno, e
perchè l’occasione di ragionare intorno a simiglianti materie non mi si
potrebbe di frequente offerire, farò di dirne loro quel tanto che basti
a conciliarmi la benevolenza dei dilettanti d’archeologia gastronomica.
Spazioso era il tinello, e potea fare un degno riscontro alla gran sala
della corte. Il solaio era di grosse travi di quercia, disposte a
cassettoni, leggiadramente intagliate; le pareti dipinte di grandi rose
vermiglie sopra un fondo turchiniccio; le finestre alte e a sesto acuto,
ma spartite, nel fondo della strombatura, da agili colonnette, sulle
quali giravano due archetti a tutto sesto, e custodite dall’aria esterna
con quadrelli di vetro colorato, insieme commessi e saldati da liste di
piombo. Questa era gran novità per quei tempi, e segnatamente per quei
luoghi dentro terra, dove era comune l’uso delle impannate bianche, e
soltanto i più ricchi costumavano farle dipingere a fiori, rabeschi,
animali favolosi, ed altre simiglianti capestrerie.
Sorgeva da una parete un gran camino di pietra rossa, sulla cui cappa
ornata di sculture si ammirava lo stemma dei Torrespina, e nel cui
focolare crepitava la stipa, rallegrando del suo calore le membra dei
convenuti alle mensa. Per contro, rallegrava gli occhi, facendo bella
mostra di sè dall’opposta parete, una credenza a scaglioni, coperta d’un
ricco tappeto; la quale portava sui gradini più alti, vagamente
ordinato, il vasellame, i taglieri, le idrie, ed altri arredi d’argento
per bastare ai bisogni della tavola, e negli inferiori sorreggeva certi
barlozzi e fiaschi, col ventre colmo dei preziosi topazii di Candia, di
Cipro e di Metelino.
La mensa era nel mezzo, disposta a ferro di cavallo, ma coi posti da un
lato solo, per modo che gli scalchi, i coppieri e i donzelli, potessero
correre lungo il lato interno e servire i convitati. Una bianca
tovaglia, i cui lembi scendevano fino a terra, correva lungo la mensa,
nel mezzo della quale si vedevano a giusti intervalli candelabri e
salsiere di pregevole lavoro, e sul margine esterno, a doppia distanza
di quello che oggidì si costuma, i piccoli taglieri, o piatti di
argento; presso ognuno dei quali sorgeva una coppa, e si notavano due
coltelli e due cucchiai dello stesso metallo. Le forchette a que’ tempi
erano arnesi sconosciuti, e i due coltelli co’ due cucchiai intorno ad
un medesimo tondo, significavano che due persone usavano mangiare ad un
solo tagliere. Anche una sola tazza bastava per due; cosa che di
presente appare disdicevole, ma allora non era, ed anzi aveva il suo
pregio. Oh buona usanza del tempo antico! E chi poi non ricorda con
desiderio i lieti desinari del campo, fatti con cinque o sei cucchiai
intorno ad una medesima scodella, che si chiamava la scodella
dell’amicizia? E chi non amerebbe metter le labbra sugli orli di quel
bicchiere che s’accostò alle labbra della donna amata?
Innanzi che il conte Corrado e i suoi convitati si mettessero a tavola,
i donzelli andarono in giro con guastade e catini di argento cesellato,
per dare acqua alle mani, acqua stillata con odori di rosa e di mammole.
Sedutasi poscia la comitiva, Morello ad un tagliere con la gentil
castellana e gli altri a coppie del pari, vennero le prime imbandigioni;
semolino in brodo fortemente pepato; vitelli, capretti, cinghiali,
salsiccie e carni salate. Tutte queste vivande erano recate in grosse
pile su vasti piatti d’argento. Lo scalco, ad ogni portata, traeva un
lungo coltello dalla sua guaina di metallo, e trinciava la vivanda con
quella pronta sicurezza che è data dal lungo uso; quindi i più eletti
spicchi erano posti sui taglieri, dove, la mercè di una stiacciata di
pane che stava tra la carne e il metallo, erano agevolmente fatti a
minuzzoli.
Un gastronomo de’ tempi nostri farebbe le boccacce alle salse, ai
guazzetti, ai condimenti, onde erano accompagnate le vivande d’allora.
Ma i gastronomi di quei tempi le farebbero del pari, se tornassero in
vita, ai condimenti, ai guazzetti e alle salse odierne. Io dunque non mi
curo dei gusti mutati, e racconto che le prime mense del pranzo dei
Torrespina erano di carni lesse ed arrostite, parte inorpellate con
torte e galantine, altre rotte in salse, nelle quali entravano alla
mescolata il pepe, il garofano, la cannella, la noce moscata, il cubebbe
e lo zenzero. Si notavano inoltre certi pasticci di pollo in salsa
bianca, la quale era composta di zucchero, mandorle e capperi, battuti
insieme con albume d’uovo. Una cosa che anco i buongustai nel tempo
nostro avrebbero mandato giù senza controversia, era il vino; ma di
questo s’è già detto più sopra.
Così finite le prime mense, si sparecchiò; i donzelli vennero da capo
con le guastade e i catini, per dar l’acqua odorosa alle mani; quindi si
venne alle seconde mense, che erano giuncate, formaggi, datteri di
Catalogna, mandorle di Liguria, uva passa e fichi secchi di Grecia,
miele, confetti, zuccherini di ogni sorta, ippocrasso ed altri vini
aromatici.
Giovanna di Torrespina assaggiò a mala pena delle vivande che le erano
imbandite e che Morello, da cortese servente, le andava sminuzzolando
sul tagliere. La sua mente era altrove; egli tal fiata era costretto a
ripeterle una frase, poiché ella la udiva senza ascoltarlo, e la
cortesia comandava di chiedergli che cosa avesse egli detto.
Per tal guisa, a malgrado del tagliere e della coppa comune, il pranzo
durò troppo a lungo per Morello di Monferrato. Come fu notte ed egli si
trovò solo nelle sue stanze con Rambaldo di Verrùa, così volse la parola
al compagno:
— Or bene, Aporèma, tu il vedi; costei non dimentica.
— Ah sì, non lo nego; — rispose lo spirito del dubbio. — Ella è
addolorata, e tanto più fortemente, in quanto che dura un orribil
supplizio per nascondere il suo dolore a messer Corrado; e tuttavia....
— Tuttavia, che cosa?
— Tuttavia, dà tempo al tempo, e vedrai!


CAPITOLO X.

Dello elogio funebre che fece Ansaldo di Leuca ad un amico diletto.
Venti giorni erano passati dopo l’arrivo di Morello a Torrespina, ed
egli ancora non s’era disposto alla partenza.
Gianni da Montiglio e Brandalino di Cocconato erano andati ambasciatori
alla repubblica genovese ed avevano ottenuto tre galere per condurre
allo imperatore Andronico la sua novella sposa, Jolanda di Monferrato.
Il naviglio doveva essere allestito per il febbraio dell’anno vegnente,
cioè due mesi dopo; e Genova, per usar cortesia a così nobili famiglie,
non pure ricusava ogni mercede, ma prometteva di mandare, insieme con la
leggiadra Jolanda, una orrevole ambasceria ad Andronico, per
congratularsi seco lui delle felicissime nozze.
Questo avevano riferito i due gentiluomini monferrini tornando a
Torrespina, e Morello li aveva rimandati, con tutti i cavalieri ed
uomini d’arme del suo cortèo, non ritenendo altri con sè che Rambaldo di
Verrùa.
Messer Corrado era felice di poter trattenere in sua casa, la mercè di
una dolce violenza, un ospite cotanto ragguardevole. Nobilissimo era il
sangue e sterminata la possanza dei signori di Monferrato; già fin da
Rainerio, fratello al trisavo di Morello, essi erano imparentati cogli
imperatori bisantini (Rainerio aveva impalmata Chiromaria, sorella di
Emanuele Commeno) e possedevano in Oriente il reame di Tessalonica. Il
padre poi di Morello, era quel Guglielmo VII detto il grande, che fe’
costar cara a Carlo d’Angiò la sua dimora in Italia, e di Beatrice,
figliuola ad Alfonso re di Castiglia.
Argomentate se non dovesse esser lieto, e se non dovessero parergli
lievi le splendidezze che s’era dato a fare, per rendere più gradevole
all’ospite suo la dimora di Torrespina. Egli aveva cavato fuori dalle
pergamene domestiche un matrimonio di Guglielmo VI di Monferrato con
Berta di Clavesana, del cui sangue era eziandio sua madre, e cotesto gli
dava il diritto di chiamare il giovane Morello col nome di cugino. Di
sovente si compiaceva a notare come il parente suo fosse cortese a voler
dimenticare, per quella malinconica bicocca delle Langhe, gli splendidi
ozii di Acqui e d’Ivrea, le cacce, i tornei, le dame ed ogni altro più
gradito sollazzo della corte paterna. Di questo, ch’egli soleva chiamare
sacrifizio superiore all’età, messer Corrado s’industriava a compensare
il cugino, ordinando nuovi passatempi, i quali avevano mai sempre, a
loro principale ornamento, le grazie della contessa Giovanna.
Ed ella? Cortese ognora con tutti; ma il suo pensiero era altrove. Chi
non l’avesse conosciuta dapprima forse non se ne sarebbe avveduto; ma
allo sguardo esercitato di Morello non poteva per fermo sfuggire che
tutta quella serenità esteriore, quella gentilezza di atti e di parole,
erano l’opera di uno sforzo continuo. Bianca e fredda come una statua,
ella si mostrava dovunque a messer Corrado piacesse, ed appariva
facilmente regina; ma in quella che gli altri invitava a godere, ella
non pigliava diletto di nulla.
Morello, dal canto suo, non s’inoltrava a proferirle amore; chè non gli
dava l’animo, o, per dire più veramente, aveva paura di sè medesimo. Il
re Mida, quando gli fu concesso da Bacco il triste privilegio di
trasmutare in oro tutto ciò che toccasse, non ebbe certo maggior ritegno
ad accostarsi alla bocca il tozzo di pane che doveva sfamarlo, di quello
che il giovine Morello a dimostrare l’affetto suo alla donna adorata. Ei
non ardiva scendere nella propria coscienza e confessarlo a sè stesso,
ma aveva paura. E se ella un giorno venisse ad amarmi! Questo pensiero,
a mala pena formato nella mente, faceva rabbrividire lo spirito d’Ugo: e
intanto il giovine Morello amava Giovanna con tutte le forze dell’anima,
ardeva dal desiderio di palesarlo a lei, e si struggeva ch’ella non lo
avesse inteso. Triste stato dell’anima sua! triste dono di Aporèma!
Ma ciò che egli non sapeva indursi a fare, ardiva in quella sua vece
Ansaldo di Leuca. Il primo e il più caro degli amici dell’estinto Ugo di
Roccamàla, era sempre vicino a lei, le diceva ad ogni tratto le più
leggiadre cose, arrossiva quando ella gli volgea la parola, si
atteggiava a mestizia quando ella era altrove, parlava poco o nulla con
Morello e voleva farlo scorgere, e s’imbronciava a dirittura quando la
castellana, per il maggior conto in cui era tenuto il figlio del
marchese di Monferrato, era costretta, a mensa, nella conversazione, o
nelle gite fuori del castello, a intrattenersi in particolar modo con
lui.
Ora, come avveniva egli che madonna gli concedesse di potere assumere
quell’aria di amante geloso? Gli è presto detto; madonna non s’era
addata di alcuna novità. Ansaldo, agli occhi suoi, non appariva diverso
dagli altri cavalieri, che erano, o che venivano a Torrespina, e lo
pregiava del pari. Ma ciò metteva conto ad Ansaldo. Egli era uno di
quegli sciocchi (e ce ne son tanti in questa valle di lagrime e di
furfanterie!) i quali si contentano a non esser nulla presso una donna,
pur di sembrare all’universale i prescelti e di riuscire molesti a
taluno che l’ami.
Ella, dico, non s’era addata di questi maneggi, imperocchè la sua mente
era altrove. Spesso le avveniva di rimanere lunga pezza, segnatamente
nell’ora del tramonto, a contemplare il sole che si nascondeva dietro i
monti vicini, o a guardare attentamente dal suo verone verso la strada
che, costeggiando i pioppi del fiume, facea capo al ponte di Torrespina,
in atto di persona che aspetti qualcuno. Il sole tramontava, e madonna
era ancora al suo posto, nel medesimo atteggiamento di prima. Che
contemplava ella? Chi aspettava? Nulla e nessuno; la sua anima era come
la ròcca adamantina delle _Mille ed una notte_, dove non erano porte, e
dove nessuno avea modo di penetrare, se il castellano non gli svelava il
segreto.
Morello, a cui era dato di scorgere molto agevolmente cotesto, la mercè
di quella maggiore penetrazione, e direi quasi seconda vista che
conferisce l’amore, poteva essere al tutto raffidato intorno ai pericoli
d’una rivalità simigliante. Ma d’altra parte pensando ai diportamenti di
Ansaldo, non poteva far sì che non gli cuocesse aspramente di costui, il
quale aveva aspettato la morte dell’amico per farsi innanzi, caldo
ancora il cadavere, ad amoreggiare la donna sua. Qui, senza parlare
della malaccortezza, che era pur grande, si notava il dispregio d’ogni
gentil sentimento, ed una ingratitudine senza pari.
Ansaldo di Leuca non era interamente ospite dei Torrespina. Egli,
secondogenito dei Leuca, viveva presso la corte paterna; ma da gran
pezza amico e commensale di Ugo, aveva posto quasi continua dimora a
Roccamàla e seguitava a rimanervi dopo la morte del giovine conte, in
nome del quale mastro Benedicite gli dava ospitalità, sebbene a
malincorpo, e sospirando il giorno che gli venisse in mente di andarsene
con Dio.
— Sono costoro, — borbottava sempre tra’ denti il vecchio strozziere, —
sono costoro la cagione della felicità di messer lo Conte, e n’abbiam
visto il bel frutto! —
Ed ecco per che modo Ansaldo di Leuca, rimanendo a Roccamàla, come se
nulla fosse mutato colà, poteva essere di frequente a Torrespina e fare
omaggio alla leggiadra contessa, come se Ugo di Roccamàla foss’egli, ed
altro non facesse che proseguire la consuetudine antica.
Nobile Ansaldo! Così egli intendeva l’amicizia! Vivo Ugo, e’ gli era
sempre ai panni, geloso dell’affetto suo come una donna innamorata,
sempre disposto a secondarlo in ogni sua pensata e superbo che ognuno
credesse e dicesse non poter Ugo muover passo che Ansaldo non movesse
del pari. Oreste era morto, e Pilade lo aveva dimenticato; ospite in
casa sua, tradiva la sua memoria e tentava di occupare il suo posto in
quell’unico cuore che doveva essere sacro per lui.
Intanto le settimane erano scorse, e dell’estinto non s’era mai fatto
cenno alla corte di Torrespina. Morello avrebbe voluto entrare a
parlarne, facendo accortamente cadere il discorso sulle castella del
vicinato; ma non gli era mai venuto il destro di mettere l’addentellato
alla conversazione, e, quando era per ragionarne _ex abrupto_, quello
stesso timore che sentiva di profferire un detto d’amore alla contegnosa
gentildonna, gli ricacciava in gola le frasi.
Ma l’occasione, che egli non ardiva far nascere, venne un bel giorno
incontro a lui. Una mattina che tutti gli ospiti di messer Corrado erano
raccolti nella gran sala, intorno a madonna Giovanna, intesi a
discorrere di que’ cento nonnulla che formano la trama dei conversari
d’una nobile brigata, si venne a dir della neve che era caduta in gran
copia nella notte e imbiancava tutto intorno i colli e le montagne.
— Buon per voi, messere Ansaldo! — esclamò il conte Corrado, che era
andato a contemplare quello spettacolo della campagna biancheggiante
attraverso le invetriate d’una finestra. — Buon per voi, che siete
rimasto iersera a Torrespina!
— Perchè mi dite voi questo, messere?
— Perchè la neve vi avrebbe oggi impedito di essere con noi. Vedete come
è nevicato forte dalla parte di Roccamàla!
— Dov’è Roccamàla? — chiese Morello, andando nella strombatura della
finestra presso il conte Corrado.
— Laggiù, ad ostro, dietro quella montagna che pare un gigante
raggomitolato. Di qui alla rocca vi saranno forse venti miglia.
— Ed è forte arnese? — dimandò Morello.
— Sì certamente, un vero nido d’aquile; ma le aquile più non sono là
entro....
— E come, messere? forse un castello disabitato?
— No, c’è buona guardia tuttavia, e messer Ansaldo può darvene contezza,
egli che v’abita ancora. Ma l’ultimo dei Roccamàla è morto
improvvisamente, e fu un rammarico universale, poichè egli era un prode
e gentil cavaliero, amato da quanti lo conoscevano. Egli ebbe il torto
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