Il Libro Nero - 03

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Quanto la vostra mano dispone
Per me segreti, sire, non ha:
So quanto valgono cose e persone,
E niun sul prezzo gabbo mi fa.
La ballata del pellegrino, e la sarcastica chiusa, fecero una grande
impressione sulla nobile comitiva. Gli amici del conte Ugo e i suoi
vassalli si guardarono in viso trasognati; indi tornarono a guardare il
pellegrino, sulle cui labbra scorgevasi ancora il sogghigno di Aporèma.
A mastro Benedicite, allora più che mai ricaduto in balìa delle sue
superstiziose paure, venne in mente che fosse proprio lui quello spirito
maligno del quale aveva cantate le imprese; epperò il degno strozziere
se ne rimase mutolo, a capo chino, fantasticando sulle conseguenze di
quella visita notturna, e non badando punto a citazioni latine; segno
che il suo turbamento era grave.
Anche il conte Ugo era muto, sebbene non partecipasse alle ubbìe del suo
fidato vassallo e non vedesse nell’ospite di Roccamàla che un uomo come
tutti gli altri suoi commensali. La filosofia dello sconosciuto lo aveva
profondamente commosso, ed egli era rimasto inerte sulla scranna, con lo
sguardo fiso ma disattento, come di chi sembra aguzzar l’occhio verso un
punto dello spazio, e non fa in quella vece che seguire il corso
vagabondo d’immagini confuse, le quali non hanno per anche presa la
forma di un pensiero.
Il primo a rompere quel silenzio, e direi quasi quell’incantesimo, fu il
biondo Fiordaliso, pieno il cuore della sua giovanile baldanza.
— Leggiadra è la vostra ballata, messer pellegrino; ma egli mi sembra
che la storia da voi narrata non sia molto d’accordo con la Bibbia,
segnatamente nella chiusa. —
La nota del paggio era girata per la mente a tutti i commensali; epperò
eglino, udendola espressa dalle parole dell’adolescente, gli tennero
bordone con un cenno del capo.
Ma il pellegrino non era uomo da darsi vinto per simili frasche. Crollò
le spalle, fece una smorfia e rispose con aria benigna e
compassionevole:
— Ah! perchè voi non avete letto che la Volgata, messer Fiordaliso. La
storia vera è quella che v’ho raccontata io, e si legge nel testo
caldaico della Vaticana. Nella Volgata s’è tenuto altro metro, per tema
che la lettura avesse a riuscire troppo sconsolante; della quale
sollecitudine per le coscienze timorate vuolsi saper grado alla Chiesa.
— Per ventura le sono finzioni poetiche dei tempi andati! — disse Ottone
di Cosseria.
— Sì, e non possono mutare il verace aspetto delle cose; — soggiunse
Enrico Corradengo. — L’amicizia, a malgrado dei vostri biblici esempi, è
un alto e durevole affetto.
— Giobbe lo sa, mio nobil sere! — esclamò il pellegrino.
— Ah, lasciamolo in pace! — rispose il Corradengo. — Io, per me, tengo
che se egli avesse vissuto ai tempi nostri, tra cavalieri, nessuno degli
amici suoi lo avrebbe abbandonato nella disgrazia, e ognuno si sarebbe
recato a ventura di spartire con lui. —
Il sogghigno di Aporèma si dipinse anco una volta sulle labbra del
pellegrino. Il Corradengo, turbato, non disse più altro.
— E non si dirà nulla della donna del principe d’Idumea? — entrò Ansaldo
di Leuca. — Io mi penso che questa dama, se pure c’è stata, ed ha
operato secondo il detto della vostra canzone, messer pellegrino, non
era donna di gentil sangue. L’amore è fortissimo e nobilissimo affetto,
che vince ogni ostacolo, che sopravvive ad ogni sciagura, come
c’insegnano esempi molti e recenti. Io vi prego, messere, se avete caro
il vostro buon nome di trovatore, a non farvi udire nè da Matilde,
contessa di Sciampagna, nè dalla marchesina di Monferrato, nè da
Giovanna di Torrespina, la più savia come la più leggiadra gentildonna
di cui cavaliero portasse mai i colori. —
Al nome della castellana di Torrespina, l’ospite sconosciuto fece un
volto più umano, come chi intenda ad entrare nelle grazie di
qualcheduno, o non voglia, per cortesia, far contro a giudizii che
risguardano le persone.
— Tolga il buon sire Iddio, — rispose quindi ad Ansaldo, — che io voglia
farmi udire a cantar sul liuto fuori di questa nobil brigata. Vi ho poi
detto, messeri, che io non sono trovatore. La canzone di quel biondo
alunno delle Muse mi ha messo in vena, e mi sono provato anch’io a dirvi
la mia, tanto per fargli intendere quello che una lunga esperienza ha
insegnato ad un povero vecchio; che tale io mi sono da lunga pezza, e
abbandonato da tutte quelle dolci fantasie che illeggiadriscono la vita
ai giovani cavalieri. Ma io so bene che i miei canti non potrebbero
andare a grado di tutti, come so che la verità non è mai bella, nè lieta
ad udirsi. —
Il conte Ugo uscì finalmente allora dal suo silenzio.
— Messer pellegrino, — diss’egli con molta gravità, — la vostra ballata
è triste assai, ma bella del pari, e vi pone così alto nella mia
estimazione che io non saprei dirvi di più. Voi siete il mio ospite per
tutto quel tempo che a voi piacerà, e quando la mia casa vi riesca
troppo uggiosa dimora, della qual cosa io sarò dolentissimo, il miglior
ronzino, o palafreno di Roccamàla rimarrà vostro, e vostro il migliore
de’ miei falconi, se il passatempo di sant’Uberto v’è grato.
— Voi siete, messer lo conte, — disse il pellegrino inchinandosi
profondamente, — il più magnifico e liberal cavaliero che al mondo
sia. —
A Fiordaliso si sbiancarono le guancie; delle labbra non saprei dirvi,
perchè il biondo adolescente, vinto nella sua poetica tenzone al
cospetto e per sentenza di conte Ugo, le aveva raccolte tra i denti, e
premea forte, in atto dispettoso. Era quello il primo giorno di sua vita
che cosa alcuna gli avesse a dolere; e il cominciamento fu amaro.
Tanto per fare alcun che, e per non addimostrare il suo broncio, il
povero paggio andò a togliere il liuto dalle mani del pellegrino e lo
recò fuor della sala.
— Va, stromento d’inferno! — gridò egli stizzito, buttandolo su d’una
cassapanca che era nella sua camera. — E adesso aspetta che io ti
ripigli!
Il povero liuto, che non ci avea colpa, risuonò alla percossa; le corde
mandarono un gemito, quasi un accento di rimprovero. Ma il paggio non si
pentì dell’opera sua, e chiusosi l’uscio dietro le spalle, se ne andò a
parare il vento su d’un terrazzo, molto lunge dalla sala dov’erano i
convitati del conte.


CAPITOLO IV.

Che cosa fosse, e perchè temuta, la torre del Negromante.
Levate le mense a notte alta, conte Ugo accomiatò gli amici, non già dal
castello, perchè erano ospiti suoi, ma dalla sala del convito. Allora si
fecero innanzi i famigli, che già stavano pronti con le torce di resina
in mano, e scortarono ognuno dei nobili cavalieri nelle stanze a lui
assegnate.
Per tal modo, non rimasero presso il conte Ugo che il pellegrino e
mastro Benedicite, strozziere, maggiordomo, ser faccenda di Roccamàla.
Ugo era sopra pensieri, poichè la conversazione e il canto del suo nuovo
ospite lo avevano fortemente turbato; ma siccome egli era gentil
cavaliere, la mestizia non poteva fargli dimenticare il debito suo verso
gli ospiti.
— Messer pellegrino — diss’egli — a me duole di non potere usarvi tutta
quella cortesia che si vorrebbe per un uomo della vostra levatura.
Roccamàla è un ampio maniero, ma pieno d’amici, ed io non posso
offerirvi che un alloggiamento indegno di voi... salvo il caso che vi
acconciate a riposare nella torre del Negromante.
— Che dite voi, messer lo conte? — gridò mastro Benedicite. — Farlo
alloggiar nella torre....
— No, io non ho detto questo; sibbene ho voluto far intendere al nostro
ospite come io non possa offerirgli una stanza degna di lui.
— Che cos’è questa torre del Negromante? — domandò il pellegrino.
— Ah, per darvene una giusta notizia, mi bisognerebbe raccontarvi una
storia troppo lunga, e tale da farvi addormentare sulla scranna.
Roccamàla, messer pellegrino, è un triste luogo, ed io mi penso che la
tristezza sua entri in gran parte nell’umor nero che ha regnato su sette
generazioni de’ miei antenati. Si narrano di questo castello le più
paurose leggende.... Figuratevi! Il conte Ugo, primo dei Roccamàla,
nella sua vecchiaia si era dato anima e corpo allo studio delle scienze
naturali, e la buona gente dei dintorni fantasticò che egli avesse
commercio con lo spirito maligno. Quando egli venne a morte, quella
torre, dov’egli era uso dimorare, e che ha tolto da lui il nome di
Negromante, fu argomento di terrore per tutti, e pochi ardirono d’allora
in poi di passarvi la notte.
— Ah, ah! — disse, ridendo, il pellegrino. — Storielle da metter paura
ai bambini!...
— Lo dico anch’io, — rispose il conte — ma tant’è; la cosa è passata in
consuetudine, e non si può levar dal capo a nessuno de’ miei vassalli
che in quella torre ci sia un incantesimo, un diavoleto e che so io....
Ma che cosa volete dir voi, mastro Benedicite, che mi fate quegli occhi
da spiritato?
— Dico, messer lo conte, che voi mi sembrate pigliare a scherno la cosa
più vera del mondo; dico che il diavoleto c’è, e che la storia non
mente....
— Sì, la storia.... tutto quello che vorrete, ma intanto il libro nero
non s’è mai potuto trovare.
— Che prova ciò, messere?
— Prova che le sono ubbie da bambini, o da vecchi rimbambiti; e ciò sia
detto senza far torto a voi, che siete un uomo a modo, quantunque troppo
facile a credere certe stramberie della gente volgare.
— Ah! ci abbiamo dunque a Roccamàla una vecchia leggenda? — soggiunse il
pellegrino. — Io son ghiotto di simili novità. Narratemi questa
leggenda, Benedicite _mi dilectissime_! Se debbo andare a dormir nella
torre, è pur ragionevole che io sappia....
— Ci andrete? — dimandò lo strozziere, guardando il pellegrino con atto
di maraviglia.
— Se ci andrò? Lo chiedo per grazia profumata dal conte di Roccamàla. E
chi sa che io, con le sante reliquie e le indulgenze che porto da Roma,
non venga a capo di togliere dalla torre del Negromante...
— Ah! così voi diceste il vero! — interruppe mastro Benedicite. — Io,
per me, con buona pace del magnifico conte Ugo, credo che ne sia grande
il bisogno.
— Ma raccontatemi dunque, ve ne prego in nome dei vostri diletti
falconi, o nobile _accipitrario_ — disse il pellegrino, alludendo alla
professione del falconiere — che cosa avviene egli in quella torre del
Negromante?
— La è una storia lunga — rispose mastro Benedicite — siccome vi ha
detto messer lo conte pur mo’, ed ha cominciato da Ugo il Negromante,
che dopo aver preso il convento ai monaci di San Bernardo, per farne una
rocca, si trasse il diavolo in casa con le sue stregonerie.
— Cioè — soggiunse il conte — furono i monaci che inventarono questa
storia del diavolo, per vendicarsi della perdita del convento. Ma basti,
ve la dirò io, questa leggenda, poichè il mio falconiere ci menerebbe
troppo per le lunghe. Si narra adunque che, dopo la morte di Ugo il
Negromante, in certe notti dell’anno si vedessero apparir fiamme dalle
finestre della torre che sta sul burrone; che poi queste fiamme si
vedessero ogni notte; e v’ebbe chi giurò d’aver veduto nel bagliore il
profilo del mio antenato. Altri disse del diavolo; altri di tutt’e due,
che stessero amichevolmente a colloquio. Comunque sia, cose strane si
vedevano; e frattanto, chi dormiva nelle stanze della torre non udiva
mai nulla, non si addava di nulla; che anzi, appena postosi a letto, era
côlto da sonno così profondo che fino a giorno inoltrato non c’era più
verso di svegliarlo. Notate, messer pellegrino; non sono io che vi narro
queste cose; è la cronaca di Roccamàla. Ed essa narra eziandio che, dopo
molti anni di queste paurose apparizioni, uno dei miei maggiori, Aleramo
il _biancamano_, mandò pei monaci, e con donativi alla loro comunità
cercò di renderseli benevoli, affinchè cacciassero il demonio dalla
torre del Negromante. Ma, o fosse che i loro scongiuri non approdassero,
o che non bastassero i presenti del mio trisavolo, fatto sta che il
demonio non volle uscir fuori, e bisognò chiamare quassù il santo
vescovo Gualberto, uscito dall’ordine de’ Cisterciensi medesimi, il
quale una notte si chiuse nel luogo maledetto, dopo essersi fatto dare
un foglio di pergamena, chiuso in una fascia di pelle nera, e non
ricomparve che la mattina seguente. Ma egli pare che il santo vescovo
avesse sfruttato per bene il suo tempo, imperocchè corse la voce che
egli avesse parlato con lo spirito maligno, e trovatolo duro anzichè no,
avesse pure ottenuto da lui la promessa di non rimetter più piede in
Roccamàla, sotto certe condizioni, le quali furono scritte nella
pergamena e sottoscritte dai due _in formis ed modis_. Dico bene, mastro
Benedicite?
— Benissimo, messer lo conte, benissimo!
— E queste condizioni, — disse il pellegrino, che aveva mostrato di
udire con molta attenzione la leggenda del suo ospite — quali erano
esse?
— Affè, ch’io non saprei dirvele ora! — rispose il conte. — Ma egli mi
par di aver udito che tra l’altre ci fosse questa di rinunziare a’ suoi
diritti di possesso su Roccamàla, fino a tanto non ci fosse tra i suoi
signori un uomo contento. —
— Bizzarro, quel demonio! — esclamò il pellegrino.
— Ve l’ho detto, messere; questa favola deve essere stata messa fuori
dai nostri ottimi frati, e resa poi più credibile dal fatto che tutti i
signori di Roccamàla furono gente malinconica oltremodo. — Che ha il
castellano che non lo si vede mai a sorridere? — Non sapete? i signori
della rocca non possono essere lieti mai; il santo vescovo Gualberto
sapeva pure il fatto suo, quando accettò il patto del diavolo. O come
volete che faccia egli a tornare, se questi castellani, di padre in
figlio, son sempre così rannuvolati? E così, una storia siffatta ha
potuto essere creduta, e sopra tutto accresciuta dalle superstizioni del
volgo.
— E il libro?...
— Ah, il libro nero? Benedicite vi potrà raccontare com’è scritto, come
legato, e quante borchie, quanti fermagli ci avesse sulla negra coperta;
ma ohimè, vedete leggenda sciagurata! nè egli l’ha visto, nè altri al
mondo.
— Messere.... — esclamò Benedicite, con accento di rispettoso
rimprovero.
— Sì, sì, — ripigliò il conte sorridendo — la nota cronaca racconta che
il libro nero fosse chiuso in un armadio di legno, rivestito di ferro,
che sta ancor di presente nella torre. Ma si è rovistato ogni
cassettone, ogni ripostiglio, e il libro non è comparso. S’è picchiato
su per le pareti, cercando se si sentisse alcun vuoto, ma le furono
novelle. Chi vi dirò io di vantaggio? Da Aleramo biancamano in poi,
nessuno mai seppe di questo negozio, chè certo ha da essere stato
inventato più tardi dal convento vicino. Infatti il mio trisavolo non ne
tramandò memoria veruna, e non ne seppero nulla, almeno per diretta via,
nè Corrado senza paura, nè Ingone il rosso, nè Roberto il taciturno, che
fu mio padre. Ora, voi sapete tutto, cioè quanto rileva, della leggenda
di mastro Benedicite, la quale vuol essere compiuta col dirvi che nella
stanza della torre, e sempre a cagione di questa favola, non ci dorme
più alcuno, sebbene ella sia una delle migliori di Roccamàla.
— Orbene, con vostra licenza, messer lo conte, andrò io a dormire colà;
— disse il pellegrino; — per dove ci si va egli?
— Benedicite vi accompagnerà, che ben vi è debitore di tanto, dopo
avervi fatto aspettare così lungamente alla entrata del castello.
— Oh, io non gli tengo il broncio per cotesto! — soggiunse l’ospite,
mettendo con dimestichezza una mano sulla spalla del falconiere. — Ma
che avete voi, mastro Benedicite? Si direbbe che un povero pellegrino vi
fa paura! Non son bello, lo so, ma non avrei creduto mai che voi, _vir
sapiens_, giudicaste gli uomini dalla loro apparenza.
— Diminguardi, messere! _Quod Deus avertat_.... — rispose lo strozziere,
provandosi a ridere.
E intanto tremava a verghe. La torcia di resina gli ballava la danza
macabra nel pugno.
Qui, fatta riverenza al conte Ugo, il pellegrino si ritirò, accompagnato
dal povero strozziere.
Rimasto solo, il conte si diede a passeggiare per la sala, senza
ricordarsi dell’ora tarda e dei famigli che lo attendevano sul limitare,
per rischiarargli la via fino alle sue stanze. Egli, già se n’è accorto
il lettore, non era più di quel gaio umore, col quale si era seduto a
mensa; molte cose erano avvenute nel picciol mondo della sua mente,
molti e svariati pensieri vi turbinavano per entro.
Per la prima volta in sua vita, Ugo di Roccamàla incominciava a dubitare
del lieto aspetto in cui solevano apparirgli le cose; il sottile veleno
della filosofia d’Aporèma gli si era filtrato nel cuore, ed egli già
sentiva quell’interno disagio, quel turbamento, quella inquietudine, che
sono i segni precursori di tutte le infermità, siano esse del corpo o
dell’anima.
Nel canto del pellegrino, a dir vero, non era nulla che egli già non
avesse udito, o fatto argomento di controversia nella sua mente; chè
anzi, discusse tra sè, o con altri, le ragioni del dubbio e quelle della
fede, già da lunga pezza egli aveva data la palma a quest’ultima, e non
era uomo da mutarsi così facilmente per ragionamento d’altrui. Ma egli
bisogna pur dire che strane oltremodo erano le circostanze tra cui gli
era apparso il pellegrino. Quello smilzo personaggio, che non si sapeva
chi fosse, che parea contraddirsi ad ogni istante, che diceva le cose
più gravi e malinconiche con bocca da ridere e che rideva con cera da
funerale, gli aveva fortemente colpita la mente. Egli poi non se ne era
anche fatto accorto, ma le paure del suo falconiere gli giravano
confusamente per la fantasia: e tutte queste cose, mettendo l’animo suo
in uno stato particolare, davano risalto ad una tesi che gli si offriva
per la prima volta armata di beffardi sillogismi, di cupi dilemmi e di
paurose interrogazioni.
Il suo raziocinio non s’era anche ficcato in quel ginepreto; sto per
dire che gli occhi della sua mente non avevano ancora misurato il
pericolo. Sentiva, non pensava per anco, o, per dire più veramente, i
pensieri gli erravano ancora nel cervello, incerti, pallidi, senza
contorni, sformandosi ad ogni tratto e in cento guise, a mo’ di quelle
fantastiche immagini che visitano i sogni dell’uomo, allorquando la
febbre scorre nel sangue ed agita i polsi.
A toglierlo da quello stato, giunse in buon punto la voce di un
famiglio. Veduto che il conte non pensava ad uscire, egli si era
affacciato sul limitare, con la sua torcia in mano, per chiedergli se
volesse ritirarsi nelle sue stanze.
— Ah! gli è vero! — disse Ugo, risovvenendosi dell’ora tarda e
dell’esser solo oramai nella sala.
E portatasi una mano nei capegli, come per ravvivarli sulla fronte e
cacciare nel tempo medesimo un importuno pensiero dal capo, conte Ugo
s’innoltrò tra due file di servitori fino al suo appartamento.
— Era tardi davvero! — esclamò egli, vedendo nella camera innanzi alla
sua il paggio Fiordaliso, che si era addormentato vestito daccanto al
suo letticciuolo.
— Questo povero ragazzo non ha potuto aspettarmi più oltre. Svegliatelo,
e ditegli che vada a letto e dorma a suo bell’agio, ch’io sono già nelle
mie stanze e non ho bisogno di lui. —


CAPITOLO V.

Nel quale è detto di ciò che vide il conte Ugo guardando la torre del
Negromante.
Il giovine signore di Roccamàla, come fu giunto nella sua camera,
licenziò i famigli e andò difilato verso il letto, superba mole di legno
intagliato, con un largo padiglione di damasco rabescato, che era
sorretto da quattro svelte colonne.
I letti antichi erano più sapientemente foggiati al sonno e ai gravi
raccoglimenti della notte, che i nostri odierni non siano. Quel vasto e
soffice strato a cui si saliva per un largo gradino che lo separava
affatto dalla camera stessa in cui era collocato, quelle ampie cortine
che scendevano in grandi pieghe a racchiuderlo da tre lati, lasciando
anche dal quarto poco spazio alla luce, appartavano l’uomo dalle cose
tutte e dai negozi della vita, celavano gli occhi suoi e lo spirito in
una penombra particolare, su cui regnava la profonda quiete ristoratrice
delle membra ed aleggiava Morfeo, il benefico nume.
Ma la quiete non era quella notte nella camera d’Ugo, e non poteva
scender su lui, che portava il turbamento nell’anima; Morfeo non era ad
aspettarlo tra le vaste pieghe del damasco rabescato, e non scese dal
padiglione, quando Ugo andò sotto le coltri.
Il giovane pensava, pensava sempre, e le sue palpebre asciutte non
sentivano il sonno. La ballata di Aporèma gli suonava ancora
all’orecchio; le strofe, con molesta vicenda, gli si offrivano spiccate
allo sguardo. Vedeva il convito degli angeli celesti, il venerando Sire
e il beffardo tentatore degli uomini, vedeva Giobbe felice, poi caduto
in basso stato, infermo e reietto; e udiva fischiare dinanzi all’Eterno
questa amara sentenza:
Felice è l’uomo finchè la fede
Inviolata nel cor gli stà,
E il primo intonaco di ciò che vede
A brani a brani non se ne va.
Il primo intonaco! Viviamo noi dunque in un inganno continuo, non pure
de’ sensi nostri, ma eziandio della nostra ragione? Quello che io vedo
non è sempre il vero; ma quando è esso il vero? E come potrò io
sincerarmene? Ora, è egli buono, o franca la spesa il vivere, quando la
vita non abbia altro pregio, fuorchè la fede che vive in noi, e non ha
altro fondamento che in noi? No, certamente, una vita siffatta è diletto
di sciocca gioventù, o necessità di paurosa vecchiaia, non degno ufficio
dell’uomo che pensa.
Chi può rassegnarsi a vivere, se tale è la vita? Aporèma soltanto; egli,
l’eterno filosofo, egli che preferisce il sapere al godere, egli che è
entrato nel segreto del creatore, egli che vede i congegni da vicino, e
ride, egli che sta beffardo a cavalcioni sull’arcobaleno e ne considera
il nulla, egli che può dire all’eterno vecchio di lassù:
Quanto la vostra mano dispone,
Per me segreti, Sire, non ha;
So quanto valgono cose e persone,
E niun sul prezzo gabbo mi fa!
Chi è questo pellegrino che sa tante cose, e fa cantar Satana non
dissimilmente da ciò che canterebbe egli stesso, se venisse a trovare il
suono ed il motto al mio desco ospitale? Certo, gli è un uomo che ha
molto patito, e oramai non crede più in nulla. Ma che prova cotesto?
Uomini tristi e donne senza cuore ce n’ha in copia nel mondo, ed egli
può essere capitato tra i peggiori... Sì, ma intanto chi di noi può
asserire: io metterò lo sguardo sopra i migliori? E perchè siamo noi
condannati, nella ricerca della felicità, ad andare sempre tentoni,
incespicando ad ogni piè sospinto e fallando così di sovente la
strada?...
Su questa china correva a precipizio lo spirito d’Ugo, e per tal guisa
correndo, giunse molto più lunge che io non racconto, fino a che non si
fermò sbigottito sull’orlo di un abisso, in fondo al quale non erano già
più le teoriche vaporose, ma le spiccate immagini degli amici e di tutte
le cose più caramente dilette al cuor suo. Si fermò, dico, e volendo
distoglier la mente da quelle moleste fantasie, si voltò sull’altro
fianco, innalzando il pensiero ad altre immagini più leggiadre, a quel
sogno d’uom desto ch’egli soleva procacciarsi ogni sera, anello consueto
tra la veglia ed il sonno.
Ognuno dei nati alla mestizia, ognuno ha questo sogno prediletto, questo
castello in aria, a cui consacra l’ora più solitaria e più soavemente
tranquilla delle sue tristi giornate. Per taluni questo sogno è
d’ambizione soddisfatta; per altri è d’amore; comunque sia, per un
istante le ree necessità del vivere quotidiano spariscono; gli ostacoli
si sormontano; gli abissi si colmano; Prometeo giunge al sole, rapisce
la scintilla ed anima la creta più ribelle ai suoi voti. Non è visione
di dormente; è speranza, è potenza di desiderio che foggia a sua posta
il futuro; o si direbbe piuttosto che la mente additi al cervello, al
suo organo obbediente, quello ch’ei dovrà raffigurarle come vero tra
un’ora, i sorrisi, le carezze, le gioie superbe che egli dovrà recarle
in tributo.
Ora il conte Ugo, rifacendosi al suo leggiadro vaneggiamento d’ogni
notte, pensò alla donna de’ suoi pensieri, a Giovanna di Torrespina.
Quel giorno, siccome si è detto, egli era andato a falconare, ed aveva
cavalcato una ventina di miglia più lunge, fino al castello dei
Torrespina. Quel giorno la bellissima donna aveva rallegrata di sua
presenza la caccia, ed egli era stato lung’ora al suo fianco, misurando
il passo del suo generoso Aquilante su quello di Mirza, la bella
giumenta saracina, che portava il dolcissimo peso della donna adorata.
Per un tratto la comitiva s’era sparpagliata qua e là, seguendo ognuno
le fasi della caccia e il desìo naturale del correre; e conte Ugo era
sempre a fianco di lei, col suo randione sul pugno.
Egli amava Giovanna come donna non fu amata mai sulla terra, con
veemenza di passione e ritegno ad un tempo. Il desiderio gli lampeggiava
dagli occhi, e le sue labbra, che timide non erano per fermo, si
contentavano a dirle: «vi amo, madonna.» Un affetto vigoroso e profondo
ha di cosiffatte soste, pari alle calme oceaniche, le quali rattengono
per mesi interi, e quasi nel punto medesimo dell’onda tranquilla, il
legno paziente, che poi, al primo soffio di un’aura seconda, naviga a
golfo lanciato, per trovar nuova terra o affogare.
E Giovanna di Torrespina non era sorda all’affetto di Ugo. Sebbene ella
non avesse mai risposto parola a quelle frasi che gli prorompevano dalle
labbra nell’impeto delle sue adorazioni, egli bene intendeva d’esser
ricambiato da lei, e ciò poteva bastargli, fino a tanto durasse quel
periodo di calma oceanica che sopra s’è detto.
Cavalcavano ambedue silenziosi, ma di quel silenzio che è pieno di tante
cose soavi; di quel silenzio che confida un bacio ad un soffio d’aura
leggiera che passi, e che muove gli occhi a guardare se quel soffio e
quel bacio son giunti sulla guancia vermiglia di lei, e se ella se n’è
pure avveduta, di quel silenzio che ama, nel curvarsi lieve lieve della
persona, far parlare un’arcana favella all’incontrarsi d’un braccio e di
una piega di veste; di quel silenzio che sforza due volti a fissarsi ad
un punto istesso l’uno nell’altro, quasi fossero mossi da una medesima
volontà, mentre essi non sono che attratti da un sottilissimo spirito
magnetico, il quale è nato dalla vicinanza di due creature, nutrito
dalla compenetrazione di tutto il meglio che svapora dalle loro
simpatiche forme, che raggia dai loro occhi, che si sprigiona dai loro
cuori, ed è quello che inavvertito ravvicina il braccio a sfiorare la
veste, che consiglia il moto simultaneo dei volti, che porta le mute
dimande e le mute risposte, e trasforma in un bacio scambievole il lieve
soffio dell’aura che passa.
In uno di questi momenti che santificano la passione e divinizzano il
senso, momento reso più solenne dalla quiete meridiana che regnava
d’intorno, e dalla dolce ombrìa dei fitti rami delle querce giganti,
che, incurvandosi sulla strada, chiudevano ogni adito alla spera del
sole, madonna avea sporta la mano rivestita dal guanto, verso il
randione del suo cavaliere. Questi s’era affrettato a levargli il
cappello, e il nobile animale, vedendo l’invito cortese della dama, fece
quel doppio atto, così maestrevolmente descritto più tardi dal divino
Allighieri in questi tre versi:
Quasi falcon che uscendo di cappello
Muove la testa e con l’ale s’applaude,
Voglia mostrando e facendosi bello;
quindi volò sul pugno della gentil donna, mettendo un grido di gioia
presso che umana.
Un grido simigliante proruppe dal petto del conte Ugo. Si fè vermiglio
in volto per la gioia improvvisa; spronò il suo palafreno più accosto a
lei, per modo che il ginocchio sentì il tocco dei suoi piedi sotto lo
strascico della lunga veste pendente, e con voce tutta tremante le
disse:
— Avventurato è Febo, madonna, che vi posa sul pugno. Vedete come egli
vi guarda amorevolmente coi suoi grand’occhi lucenti! Egli ora è vostro;
lo amerete?
— Mai sì, messere, ma ad un patto.
— Ditelo, in vostra mercè, madonna; che egli è tale, per l’amore che vi
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