Il Libro Nero - 10

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muto del pari. Il giovine innamorato cadde alle ginocchia di lei, e
rimase a lungo in quella postura, estatico a contemplarla. Dalle prime
angosce di un colloquio, da que’ naturali ritegni del pudore che è
l’ultimo ad abbandonare la donna, la sciolse un nembo di baci, o più
veramente un bacio solo, ma lungo, errabondo, che volea dirle: perdonate
a me, perdonate a voi stessa. L’adorazione vince la vergogna della
caduta. La donna non è più angelo; ma che importa, se, in cambio
d’angelo, è dea?
O voluttà, voluttà dell’anima, che precorri e fai più divina,
ritardandola, quella dei sensi! In queste ore celesti, la donna è sulla
terra quello che la divinità sull’altare. Soventi volte, l’amante è
Pigmalione che adora l’opera delle sue mani; altre volte è un felice,
che, giunto a sollevare il lembo del velo d’Iside, aspetta animoso la
morte, pur d’essersi inebbriato nella contemplazione di ciò che non
videro mai gli occhi del volgo profano. Ma, comunque sia, quella donna
si vede, si ode, si sente adorata, nella forma e nella sostanza; dea sul
piedestallo, scorge un giovine ed amato sacerdote che le si prostra, le
inonda il piè divino di baci e di lagrime, e le riflette nella sua
l’adorazione di una moltitudine che il suo sguardo trapela fra mezzo una
nube d’incenso. I desiderii s’innalzano a lei, soavi odori di mirra
eletta, e la inebbriano; ogni sguardo di quegli occhi peritosi ma
ardenti, ogni tocco di quelle mani paurose ma dardeggianti elettriche
scintille, dice a lei che è la divina delle donne, che nessun’altra al
mondo è amata, adorata, venerata al pari di lei. Ardono i ceri
tutt’intorno; l’incenso sale in fumanti spire fino alla volta del
sacrario; le canne di un organo invisibile sciolgono celesti armonie;
come potrebb’ella ravvisarsi angiolo caduto, in quell’oceano di
splendori, di fragranze e di suoni?
Nè manco felice, nè manco inebbriato è il sacerdote. Ogni parola che
esca dalle labbra della dea, è una musica ineffabile; ogni sguardo che
si posi su di lui, è un raggio di luce; l’alito che scende a carezzargli
la fronte, è un’aura di paradiso; da tutta quella persona, dai veli che
l’adornano, dall’aria stessa che la circonda, si svolge un incognito
indistinto di mille odori, una soavità di promesse, una novità di arcane
attrazioni, che fanno raggiar gli occhi, precipitare il sangue,
sprigionarsi tutte quante le forze dell’esistenza e sciogliersi dintorno
a lei in un palpito di solenne agonia.
Ore dolci, ore divine di un colloquio che nulla turba, nè sguardo
importuno, nè minaccioso rumore di passi vicini! Ore in cui l’anima,
sciolta d’ogni sospetto, si espande rigogliosa e distende i rami
flessuosi, all’ombra de’ quali due vite confidenti riposano! È sonno o
veglia? È vita o visione? E quei nonnulla che labbro mormora a labbro,
che l’orecchio non ode e che la bocca respira! E il bacio traditore che
improvviso scocca e confonde le due esistenze!...
Angioli del domestico lare, celatevi il volto!...
Giunse l’alba, e con l’alba un gran dolore nell’anima del felice.
Sollevandosi per condurre la donna a respirare la fragranza del nascente
mattino, vide la faccia sua riflessa nella spera metallica che pendeva
dalla parete. E’ ricordò per quale inganno fosse penetrato lassù, e qual
virtù vendicatrice in lui fosse.
Il volto del felice garzone non era ancora quello di Ugo, ma non era già
più quello di Fiordaliso.
E allora gli scese nel cuore una immensa pietà per quella donna, che
perduta pendeva dal suo braccio. Sentì quel cuore palpitare di rincontro
al suo braccio. Quella bocca, che egli aveva divorata coi suoi baci,
sospesa al suo omero, ripeteva ancora sommessamente: ti amo!
— La ucciderò io, discoprendomi a lei? Ugo di Roccamàla, giustiziero di
uomini, fulminerà il suo sdegno contro una donna? contro questa creatura
così fragile, ma pur così bella? —
E mentalmente chiese una grazia ad Aporèma.
— La mia è anima tua, demonio, ma non uccider costei, ma lasciami ancora
un istante il volto di Fiordaliso!
— Fanciullo! — mormorò una voce nell’aria.
Egli crollò le spalle al sarcasmo; si guardò da capo nella spera, e mise
un respiro.
Ella alzò gli occhi turbati, e, mettendogli le braccia al collo, gli
disse:
— Che hai tu, mio dolce signore?
— Nulla; io penso che tu sei bella, divinamente bella. Vedi, guarda là
dentro! —
E le accennava la spera.
Ella rivolse da quel lato la faccia ridente, ma senza toglier le braccia
dal collo di lui.
E la spera, illuminata dolcemente dai barlumi dell’alba, riflesse un
sorriso, un amplesso ed un bacio.


CAPITOLO XVII.

Come il conte Ugo ragionasse della sua felicità senza pari.
La sera del 29 novembre, sesto anniversario dello arrivo del romèo alla
mensa di Ugo il felice, era giunta.
Il cielo buio incombeva come una cappa di piombo sui bastioni di
Roccamàla. Il tuono brontolava nell’aria; spessi lampi solcavano
quell’ammasso di negri vapori; la tempesta era vicina.
Nella torre del Negromante nulla era mutato. Lo stipo dalla fascia di
ferro, il letto dalle nere colonne, il seggiolone di velluto dalle
borchie dorate, ogni cosa, insomma, era al suo posto consueto.
Senonchè, cosa inusitata e non più vista da sei anni, nella triste
camera la lucerna era accesa, e nel seggiolone di velluto era assiso, o,
a dire più veramente, sprofondato, un giovine pensieroso.
Giovine! Tale almeno appariva dalla snellezza delle membra e dal lampo
degli occhi. Ma i capegli erano imbiancati da un verno precoce; ma un
fascio di rughe gli solcava il mezzo della fronte, mostrando
sopracciglio raccostato a sopracciglio per effetto di interna
convulsione; il suo viso pallido e smunto era d’uomo pur mo’ uscito
dalla tomba, anzichè vissuto nel consorzio dei suoi simili.
E bello cionondimeno era quel viso; bello per la severa nobiltà dei
contorni, bello per l’aria di profonda inconsolabile tristezza onde era
come velato, bello per il raggio della mente che traluceva dagli occhi,
e tutt’intorno appariva giustamente diffuso.
Il labbro inferiore proteso in atteggiamento d’infinita amarezza, i
pugni stretti sui bracciuoli della scranna, gli occhi fisi in un punto
ignoto, egli pensava. Ed ecco i suoi pensieri quali erano:
«Nessuno è felice quaggiù.
«L’uomo nasce maledetto: le sacre carte dissero il vero. Egli è plasmato
di fango; e di ciò non si dubita. Egli è avvivato da una particella
dello spirito di Dio; e ciò non è vero, le sacre carte hanno mentito.
«Invero, se l’invisibile nume avesse spirato in questa sordida creta
alcuna parte di sè, ei non l’avrebbe fatta in pari tempo malvagia; le
avrebbe dato un’anima per intendere il vero, non per vagar di continuo
d’errore in errore; le avrebbe dato un cuore da affinarsi nell’amore e
nella ricordanza, non da invilirsi nell’odio e nell’oblio.
«O non saremmo noi piuttosto lo effetto di una grande baldoria d’ignote
possanze? Ecco, in apparenza, ci ha fatti germogliar dalla terra il
caso, quegli che è quel che non è, quel negativo eterno male divinizzato
dagli antichi, il quale ha fatto volare il germe della pratellina
accanto a quello della parietaria nel crepaccio d’un muro. E forse, non
dissimilmente da me, non previsto nè meditato frutto di un istante
d’ebbrezza, il cielo, la terra, e tutto quanto essa contiene, non sono
che il frutto degli amori del nume ignoto con la nota, ahi! troppo nota
materia, frutto a cui egli non avrà badato più che tanto, dopo la sua
apparizione nel vuoto.
«Comunque ciò sia, la materia ci è madre, noi riteniamo di lei!
Pensanti! come? perchè? più, forse, e meglio della bestia? No,
diversamente; ecco tutto. L’uomo non è il leone, per ciò solo che il
leone non è uomo. Siamo i migliori, sì veramente; ce ne fa accorti il
soffrire. La virtù del pensiero e della parola, congenita in noi, ci fu
aguzzata via via dalla turpe necessità. La guerra per la vita è
l’origine del verbo; il quale in principio _non era_.
«Viviamo, siccome la farfalla, la nostra vita d’un giorno; ieri
vermicciuolo, oggi larva, domani crisalide, quindi verme da capo, senza
curarci del giorno di poi; cercando talvolta e non trovando mai il
perchè.
«Siamo tristi? Forse neppure cotesto; siamo soltanto figli della
materia, fragili al pari di lei. E v’hanno forse eccezioni? Nemmanco;
vasi meglio costrutti, di più delicata fattura, può essere; perfetti no.
Tutti abbiamo l’egoismo nel mezzo del cuore, coi sette peccati capitali
che gli fanno onorato cortèo. Temperati, paion virtù; appunto come
avviene di lui, sovrano di tutti.
«La virtù! Donde è nata? È ella una forma della nostra mente? No, gli è
assurdo. Noi i quali non sappiamo far altro che copiare, o raffazzonare
in altre guise ciò che è in noi o si specchia in noi, non possiamo di
certo aver tratto una forma nuova, assoluta, da ciò che è relativo; nè
mai potremmo far sorgere ad esemplare della vita quello che in noi non
esistesse e non comandasse dapprima. Esiste, sorride a noi l’esemplare
della virtù; essa dunque non è una nostra finzione.
«Il filosofante la negherà, argomentando ch’ella non è un concetto
assoluto; che qui assume una forma, là un’altra, per conseguenza non è
che un modo di vivere, mutevole secondo i luoghi, i tempi, i costumi.
Egli vi ebbe infatti una gente che soleva ardere i cadaveri dei parenti;
un’altra che solea seppellirli; un’altra ancora che li uccideva, per
sottrarli ai mali della vecchiezza; e tutte operavano per reverenza ai
maggiori, e quella che in un modo faceva, gli altri reputava inumani.
L’argomentazione non regge. Tutti quei modi svariati concordavano in
cotesto, di rendere omaggio agli antichi; il concetto era dunque uno,
superiore alle forme diverse della sua manifestazione.
«Contraddico a me stesso? Non mi pare. Io non ho già negato Dio; ho
detto che non lo intendo, e che non intendo le cagioni dell’esser mio.
«Ma se la virtù esiste, perchè non c’è egli un uomo, un sol uomo che si
conformi a lei? Se Dio ci ha creati, se ci ha spirato il suo soffio,
perchè non ci ha fatti migliori? Questa virtù, è specchio di un passato
distrutto da una colpa nostra? È adombramento di un atteso e preparato
futuro? Giungeremo al vertice, o tutto è infinito, anche il nostro andar
tentoni nei secoli?
«Ah, povero spirito, che cerchi? Ecco, io non so ancora quel che io mi
sia, e già chieggo quel che sarò!
«Intanto, io soffro; intanto io sto per morire. La fede, questa fallace
compagna della vita, mi ha preceduto nell’abisso. Credevo, ed ho
veduto.... ho veduto! E avventurato ancora tra gli altri, i quali vivono
nell’inganno, stolti! e non ardiscono guardare più oltre, simili al
fanciullo che in una notte tempestosa si rimpiatta sotto le coltri, per
non iscorgere il bagliore dei lampi!
«L’esperimento ha trascorso i confini segnati alla umana natura. È un
male? Forse. Noi siamo dannati all’apparenza delle cose. Ma perchè si
svegliò in me questa sete di verità? Perchè, sire Iddio, m’avete indotto
in tentazione, per modo che io volessi scrutare i cuori e le reni di
coloro che io proseguiva della mia amicizia, del mio amore e dei miei
benefizi? Ecco ora, li ho conosciuti alla prova; erano fragili e tristi.
E poi? Sono forte io? sono migliore? Altro mistero! Mistero! sempre
mistero!...
«Aporèma, che ne sai tu?...» —
— Nulla! — rispose una voce, che, quantunque invocata, fe’ trasaltare
Ugo di Roccamàla.
E dopo quella parola, insieme con la luce di un lampo e col fragor d’un
tuono, comparve nella camera del Negromante il fido Aporèma, non sotto
la forma del romèo, nè di Rambaldo di Verrùa, nè di frate Gualdo,
sibbene sotto quella splendidissima, abbagliante, dell’arcangelo
fulminato nei cieli.


CAPITOLO XVIII.

Nel quale è dimostrato che il diavolo non è così brutto come lo si
dipinge.
— Anzitutto, diss’egli, — tu non mi chiamerai più con questo misero nome
di Aporèma.
— E perchè? — dimandò conte Ugo.
— Perchè così sogliono chiamarmi i profani. Aporèma (_sive dubium_,
direbbe un commentatore) è nome mondano, che mi serve per viaggiare
incognito. Il vecchio di lassù me lo ha imposto, dopo una certa
puntaglia che abbiamo avuto a sostenere tra noi, e nella quale egli, in
cambio di buone ragioni, m’ha risposto saette. Il nome che piace a me,
che ho avuto da principio, e che riavrò un giorno per fermo, è quello di
Helel.
— Helel! Non significa dubbio?
— No, significa luce, apportatore di luce.
— Ah, invero, tu l’hai portata, la luce! — esclamò conte Ugo. — Lo
sperimento è stato fatto, ed hai vinto.
— Ed ora tu maledici al mondo?
— Perchè lo conosco, e posso ripetere oramai con re Salomone: vanità
delle vanità, ed ogni cosa è vanità.
— Or bene, segui l’esempio di Salomone, vivi e sorridi; ammetti ogni
cosa e non credere a nulla; godi di sapere, e di comandare agli
elementi; disprezza gli uomini e adoprali a procacciarti quel che ti
giova; non metter tua fede nell’amor di una donna ed amane mille.
— Vivere pel senso? Affè, non mi garba! — rispose Ugo, crollando la
testa. — C’è la sazietà in fondo alla coppa di tal piacere a cui la
voluttà dell’anima non conferisca il suo pregio. Sapere che una cappa è
sconcia, e seguitare ad indossarla; passeggiare nel fango e
inzaccherarmi i calzari.... nauseabonda esistenza! Odimi; o che io non
sono più saldamente convinto del re sapiente, o ch’io non son così forte
da reggere al paragone; in ogni modo non vo’ durarla com’egli. —
Ciò detto, conte Ugo si sprofondò vie più nella gran seggiola di velluto
e vi rimase taciturno, col mento sul petto e gli occhi a terra.
Lo spirito gli si accostò, si curvò amorevolmente sulla spalliera e gli
parlò in questa guisa:
— Ti ho fatto un triste dono, e adesso l’hai contro di me!
— No, Helel, no, alla croce di Dio! — rispose conte Ugo, volgendosi a
lui concitato. — Io rendo grazie a te, che m’hai mostra la verità,
qualunque ella sia. Ho a dirti di più? Fossimo pure sei anni addietro,
in questa notte medesima, io tuttavia sarei pronto a bere il rosso
liquore dell’anello di Aporèma. —
A queste parole, Helel atteggiò le labbra ad un dolce sorriso.
— Mi gode l’animo, — ei disse, — nello udirmi a ringraziare da alcuno.
Ciò m’accade ogni cent’anni una volta. I tuoi simili, per solito, non
sanno che maledirmi. Fatico per essi come un bue sotto il giogo:
vogliono ad ogni costo che io li faccia sapienti; poi; quando hanno
capito il giuoco, mi gridano la croce addosso, come se fosse colpa mia
che il giuoco è siffatto. Tu sei un uomo, Ugo di Roccamàla; dovresti
vivere e sorridere.
— Non posso, ed amo meglio darti ciò che ormai ti appartiene.
— Ah, baie! Tu m’hai profferto la tua vita per pietà della vita di
quella donna.... Ma io non la voglio; io mi contento ad ammirare la tua
magnanimità. Tu hai regalmente pagato una notte di gioie avvelenate.
— Helel!...
— Orbene, dimmi di no! Non eri tu per diventare, al primo lume
dell’alba, Ugo il vendicatore, una vera testa di Medusa, che avrebbe
fatto rimanere quella donna di pietra? Eri per farlo; il dovevi; questi
erano i patti. Non l’hai voluto; il tuo sdegno, implacato cogli altri,
s’è sciolto dinanzi al rossore di una donna, e mi hai chiesto una
grazia....
— Per la quale ti ho profferto l’anima mia! — interruppe Ugo.
— Sta bene, — soggiunse Helel, — e fu mercede regale. Perchè ti duole
che io lo ponga in sodo, se è vero? —
Ugo non seppe risponder più verbo; ma il suo labbro, seguendo un intimo
pensiero, mormorò sommessamente: — povera donna!
— Sì, povera donna, tu l’hai detto! — continuò lo spirito. — Povera
donna, invero, poiché oggi ella vedrà Fiordaliso, Fiordaliso che non si
è mosso fino all’alba dal luogo ove cadde svenuto, Fiordaliso che ha
riconosciuto il suo diabolico competitore nella gaia scienza, Fiordaliso
che ha letto, poichè io gliel’ho lasciato da’ piedi, il messaggio di
lei, e le chiederà perdonanza di non avere scalato il verone....
— Ah! — sclamò Ugo atterrito. — Ed ella?...
— Ella! — sentenziò lo spirito della luce. — Il morir subito le sarebbe
ventura.
— Helel! te ne supplico!... Vedi, io stringo le tue ginocchia. Non ho
più nulla a profferirti; ma se avessi cento vite e cento anime, io le
porrei a’ tuoi piedi. Helel, non uccidere quella donna, non fare ch’ella
abbia ad arrossire di sè!
— Che mi domandi tu ora? — rispose Helel. — Vedi, io non posso mutar
nulla quaggiù. Quello che avvenne tu l’hai voluto. Io ti ho mostrata la
verità; ti ho fatto scorgere, sceverare l’apparenza dalla realtà, oltre
il costato de’ tuoi simili, come si scorge la luce, scomposta in sette
colori, attraverso le facce d’un prisma. Per te ho potuto rinnovare
l’inganno delle forme mentite; altro non è in mio potere. Torniamo a
noi. Vivi, e tienti l’anima tua! Ricordi quel ch’io t’ho detto, la prima
notte, in questo luogo medesimo? «Io non ti pongo alcun patto; non ti
chieggo l’anima tua; non ti pungerò una vena perchè tu abbia a
sottoscrivere una carta; Aporèma è cavaliere, e non un giudeo che presti
ad usura.» Io, insomma, ho adoperato con te come col primo Ugo, col tuo
grande antenato; ti ho servito senza mercede; ti ho dato la sapienza;
fanne tuo pro’; sei forte, e l’uomo forte può dominar l’universo.
— No, mille volte no! — disse Ugo ricisamente; — tornar nella vita, dopo
tutto ciò che ho veduto, non franca la spesa.
— E scegli dunque il morire? —
Meravigliato, Ugo guardò fiso in volto il suo interlocutore.
— Helel, — diss’egli — io non ti riconosco più. Sei tu, lo spirito
familiare di Roccamàla, tu lo scongiurato dal vescovo Gualberto, che mi
parli in tal guisa e ricusi l’anima mia?
— Io, sì, io! — rispose lo spirito della luce. — M’hanno calunniato, e
tu ora, tu, animo forte, aggiusti fede alle panzane del volgo. Vedi,
m’hanno messo in voce di nimico dell’uomo, e non è punto vero.
Sbalestrato nel mondo, confesso di averlo amato da principio assai poco;
ma la necessità e la consuetudine m’hanno mutato per modo, che io mi
sono avvezzo a questa dimora e l’amo come si finisce mai sempre ad amare
una terra d’esilio. Gli uomini erano ciechi; io mi son fitto in capo di
restituir loro la potenza visiva e di insegnar loro a leggere nel gran
libro della vita. Ho gittato dapprima, e per molti sèguito a gittare la
semente in un gramo terreno. Dò loro la scienza del bene e del male; che
fanno eglino, i tristanzuoli? S’appigliano al male. Taluno m’intende; la
più parte, o mi fuggono, o venendo con me, mi passano il segno. Hanno
sempre passioni che la mia scienza accarezza, raramente virtù che ella
fortifichi. Laonde io mi sono già fatto parecchie volte a pensare se non
sia per avventura miglior consiglio, ed uso migliore del mio tempo,
lasciarli in balìa di sè medesimi e non darmi pensiero che di alcune
schiatte più nobili, di alcuni spiriti eletti, i quali, per le tarde ma
sicure vie del progresso, conducano al meglio l’umanità bambina, e me
vadano facendo migliore del pari. Ti sa di strano? Orbene, sappilo, la
mia virtù spirituale si accresce, col crescere, col progredire degli
uomini. Per tal guisa, Helel fu un tempo lo spirito malvagio, lo spirito
che turba; fu poscia lo spirito dubitatore, lo spirito che indaga, e non
andrà molto ch’egli diventi, non pure per pochi, ma per la umanità tutta
quanta, lo spirito della luce, lo spirito che consola.
— Che dici tu mai? — interruppe Ugo. — Anche tu segui la legge
dell’uomo?
— Sì certamente. Non sono io disceso? Posso adunque risalire. Per le
donnicciuole e pe’ monaci ignoranti, sono sempre quel desso, Satana,
l’avversario, il tentatore. Pei violenti, pei tristi, sono il
compiacente consigliero, la chiave del male. Ma è colpa mia, se uno
strumento di bene anco al male si adopera? I venturi ne vedranno di
belle! Vedranno, verbigrazia, le armi forbite e scintillanti del
progresso impugnate dalla rugginosa manopola della tirannide. Ma la
contraddizione non sarà che apparente. L’arma gioverà a lei, ma l’elsa
fatata corroderà la manopola e brucierà la mano che l’avrà impugnata. Il
bene vince il male; la vittoria è dei meno. Ugo di Roccamàla, io ho
amata la tua schiatta, amo te senza fine; vuoi tu essere uno di costoro?
Egli c’è molto da operare ai dì nostri. Il nuovo Olimpo e il nuovo
Tartaro sono già anch’essi tarlati: l’edifizio minaccia rovina. Sì,
figliuol mio,
Tempo verrà che il grande iliaco regno
E Priamo e tutta la sua gente cada!
Non vedi? già il vecchio sire ha spartito col figlio, e chi sa che non
abbia anco a venire il nipote? Anche il diavolo, brutta copia del Pane
dei campi, lascierà dietro una siepe le corna e le unghie caprine, per
ridiventare il gran Pane, quegli che fu gridato morto dalla voce
misteriosa sulle acque del Tirreno. Oggi, io Satana, io Aporèma, non
sono che un concetto di questa età: ma cangerò, mi trasformerò senza
morire; morrà in cambio questa età di violenza, di superstizione; il
raggio di poche anime divinatrici muterà la faccia dell’universo. Anco a
loro malgrado io farò gli uomini migliori; per la storia dell’errore io
filtrerò loro la verità. Mi crederanno la pietra filosofale, la polvere
d’oro, l’elisire della vita, ed io insegnerò loro la chimica, che scopre
e sommette gli elementi del mondo. Mi chiederanno l’oroscopo, le
influenze dei pianeti sulle loro passioni, ed io insegnerò loro
l’astronomia, che descrive a fondo tutto l’universo. Il favoleggiato
prete Janni, la sognata Antilla e l’inganno ottico dell’Isola di San
Brandano, scopriranno un nuovo mondo, e la sete dell’oro sfrutterà la
scoperta. Intanto, io l’ho già fatta vaticinare da Seneca. Ai monaci poi
ed ai tormentatori della coscienza io serbo tal cosa che li manderà a
rotoli, la stampa, che toglierà dalle loro mani il traffico del libro, e
il privilegio di tenere sospeso lo spegnitoio sul lucignolo della
ragione. Altro ed altro farò, che il narrarti partitamente troppo mi
menerebbe ora a dilungo. Io t’amo, Ugo di Roccamàla, perchè tu sei forte
e gentil cavaliero; perchè mi hai guardato in volto senza tremare;
perchè mi hai profferto l’anima tua. Ma che ne farebbe il vecchio
diavolo, di questa, dato e non concesso che sia un’eredità sicura oltre
i confini della vita, e un patrimonio di cui si possa far donazione
_inter vivos_? Helel ha mestieri di uomini in questo mondo, non d’anime
ignude e disutili nei regni della morte. Suvvia, poichè un doloroso
esperimento t’ha sollevato sopra le illusioni della vita, vuoi tu essere
un gigante? Vuoi tu adombrare in un _Novum organon_ il progresso d’altri
tempi? Vuoi tu esser un martire di nuovi concetti? lo scopritore di una
forza che faccia sparir le distanze, o che faccia volare il pensiero? il
campione di un popolo? Bacone, Giordano Bruno, Galileo, Washington,
Bolivar, Garibaldi? Scegli e cominciamo fin d’ora! —
Ugo era rimasto attonito, trasognato, all’udire quel discorso di Helel,
al veder quasi grado a grado dipingersi, rilevarsi, illuminarsi sotto le
prodigiose parole la trasfigurazione dello spirito dannato; e già gli
pareva d’esser preso per mano e condotto via con un rapido volo verso
gli splendori lontani d’uno sterminato orizzonte. Il silenzio di Helel
lo ricondusse in sé medesimo; stette alquanto meditabondo; poi con
mestissimo accento rispose:
— Tu mi fai scorgere invano le meraviglie dei secoli venturi. Io non
sono un forte come tu pensi; sono un povero guerriero trafitto nella
prima mischia della vita; non ho la virtù che in me vedi, troppo
amorevole consigliere, e se pure l’avessi, ad altro vorrei adoperarla.
Vedi, tutta la possanza che tu mi profferisci, tutta la gloria del
martirio, tutta la voluttà del trionfo, tutto io darei ora, pel solo,
per l’umile, pel ristretto potere di far salva una donna!...
— Cotesto non è in mia balìa, te lo dissi.
— Orbene, io vo’ morire.
— Per l’ultima volta, da senno?
— Sì, per tutti i miei affetti contristati, per l’angoscia ineffabile
che mi siede nel cuore, per la vanità della mia esistenza, te lo giuro!
— Sia fatta la tua volontà; nel primo lampo di folgore che solcherà
l’aria, noi partiremo. Ma in questa partenza è l’ultimo saluto di Helel.
La sua dimora è sulla terra; egli non ti seguirà dove vai.
— E dove andrò io dunque?
— Non so! — disse lo spirito, a cui il volto si dipinse di profonda
mestizia.
E raccolto Ugo il felice nelle sue braccia, gl’impresse sulla fronte il
bacio dell’addio.
Il bagliore d’un lampo illuminò in quel punto la camera; la folgore
scoppiò sulla torre del Negromante, che crollò con orribile frastuono
dalle sue fondamenta.


CAPITOLO XIX.

Qui si narra dell’ultima sbevazzata di frate Gualdo cisterciense.
Torniamo, se non disgrada ai lettori, un passo indietro, e dalla torre
del Negromante rechiamoci nella gran sala del castello.
Qual mutamento! La sala di giustizia, sala severa, dalle cui pareti
pendevano i pennoncelli dei Roccamàla, i loro stemmi e quelli delle
famiglie ad essi congiunte per vincoli di parentado, dove si ammiravano
le armi dei valorosi antenati, dalla corazza di Ugo il negromante fino
alla spada di Ruberto il taciturno, era diventata una cantina, e delle
peggio ordinate, per giunta. Idrie, guastade, anfore d’ogni forma e
d’ogni misura, occupavano i ripiani degli armadii spalancati, le lastre
dei canterani, l’ammattonato del pavimento. Una botte, colà recata per
maggiore comodità, faceva bella mostra di sè in un cantuccio, con la sua
spina pronta a spillare i liquidi topazii di Cipro. Un’altra botte stava
seduta nel mezzo sulla scranna feudale; ed era fra Gualdo, il sozio
fedele del conte Anacleto Benedicite, tondo come l’O di Giotto, vera
effigie di Sileno in tonaca da cisterciense.
Fra Gualdo era il vero padrone di Roccamàla. Egli aveva piantato, come
suol dirsi, la labarda nel castello, nè s’era più mosso di lassù, dopo
la malattia dell’amico, il quale era tocco nel _nomine patris_ e non
c’era verso di fargli ricuperare la ragione smarrita.
Il vecchio strozziere soleva alzarsi per tempo, innanzi l’aurora, e,
memore del suo primo mestiere, andava a curare i falconi, con
grandissima consolazione del nuovo falconiere, il quale poteva dormir
della grossa. Questa era l’unica ora del giorno che mastro Benedicite,
non ricordandosi d’altro, potesse parer sano di mente. Tornato di là,
egli impazziva da capo; non faceva che ridere mostrando i denti, come un
melenso; stava le intiere giornate seduto, o ritto in piedi nella
strombatura d’una finestra, con le mani raccolte sul petto, e le dita
intrecciate, facendosi girare i pollici l’uno intorno all’altro, e non
si smuovendo da quel suo lavoro, se non per tracannare le ciòtole di
vino che gli ministrava l’amico.
Il nipote Anselmo da parecchio tempo non dimorava più a Roccamàla.
Desideroso di spendere utilmente la vita, egli s’era dato al mestiero
delle armi, e militava sulle galere della repubblica genovese capitanate
da Enrico di Mare. Mastro Benedicite non avea dunque più altri che il
monaco, e questi lo curava a modo suo, tanto più volontieri, in quanto
che beveva egli pure le medesime pozioni.
Talfiata il pazzo ci aveva i suoi lucidi intervalli. E allora vedeva
conte Ugo, vedeva il demonio; aveva paura di frate Gualdo, che gli
pareva lungo lungo, e gridava come un ossesso, chiedeva mercè e cadeva
spossato sul pavimento. Altre volte aspettava il cavaliero di Lamagna;
comandava che fossero messe in pronto le stanze migliori del castello
per accogliere degnamente il nuovo signore; borbottava di mali consigli
del monaco, di testamento falso, ed altre cose simiglianti, che faceano
correre i brividi per l’adipe a fra Gualdo e gli mettevano le ali a’
piedi per andare alla botte, spillarne una coppa e darla a bere al
disgraziato castellano.
— _Bibe, fili mi_, — diceva egli, — _In vino veritas_, e non dirai più
sciocchezze.
— _Vade retro, Satana! vade retro!_ — urlava sovente Benedicite,
respingendo il ventre del cisterciense e facendogli rovesciare il vino
sulla tonaca.
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