I Moncalvo - 13

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— Ci sarà poco da portare in tavola, — dichiarò la fantesca breve ed
arguta.
— Perchè?
— Perchè tutto è bruciato, — fu il lugubre responso. — Con questa
visita di Santa Elisabetta!
Giacomo accolse la notizia con filosofia.
— Ci vorrà pazienza.... Però era meglio non avvisarci. Probabilmente
non ce ne saremmo accorti nè Flacci nè io.
La donna alzò le braccia al cielo per invocare la misericordia del
Signore sugli esseri imperfetti che non hanno palato, e si precipitò
verso la cucina.


XVI.
Battesimo e matrimonio.

Gli sfaccendati che la notizia d'una duplice cerimonia aveva richiamati
quel sabato mattina nei pressi della Basilica di San Giovanni Laterano
videro, prima delle nove, arrivar sulla piazza dieci o dodici carrozze
di gala, e fermarsi una dopo l'altra a pochi passi dal portone di
bronzo del Battistero, e scenderne una trentina e più di personaggi
d'alto bordo, dame, cavalieri, prelati, e, con l'ajuto dei servi in
livrea, aprirsi il varco in mezzo alla folla e scomparire dietro il
portone, di cui due vigili municipali vietavano l'accesso ai profani.
Il pubblico, costretto a contentarsi d'una visione fuggitiva e confusa,
si sfogava in commenti poco benevoli.
— Già, perchè son ricchi ci caccian fuori come i cani.
— Non è poi questa gran bellezza quella _giudia_....
— Per bella è bella, — disse uno che aveva spirito equanime. — Ma
quante deve farne a quel suo gramo marito!
— È quel biondo, pallido, mingherlino che pare gli manchi un'ora a
morire?
— Appunto. E non può aver vita lunga.... Era meglio per lui se andava
prete.... Ma si voleva un erede del nome....
— Uhm! — fece uno scettico. — Non è tipo da aver eredi.
Ma un altro, più scettico ancora, rimbeccò pronto:
— Oh, ella saprà ben levarsi d'impiccio.
— È vero che porta cinque milioni di dote?
— No, no; uno solo ne porta.... Quando poi morirà il padre ce ne
saranno degli altri.
— Il padre era quel signore tarchiato, rubicondo che le dava il braccio?
— Già. È straricco.
— E si battezza anche lui?
— No, non credo.
Un'automobile che sopraggiungeva con gran fracasso richiamò a sè
l'attenzione.
— Largo, largo!
Dall'automobile scesero due signore elegantissime e con andatura franca
e decisa si diressero al portone di bronzo, i cui battenti, come per
incanto, si apersero e chiusero al loro passaggio.
— Avete visto che arie?
— Quella davanti pareva l'Imperatrice del Gran Mogol.
— È l'americana che può spendere un milione al giorno, — disse un
commesso di negozio che non aveva paura di sballarle grosse.
— Uh! Che bombe! Trecentosessantacinque milioni all'anno.
— E trecentosessantasei negli anni bisestili!
— A chi vuol darla a bere?
— È proprio così, — ripeteva il commesso di negozio facendosi forte
dell'autorità della sottocuoca dell'ambasciatore americano.
Mentre quelli di fuori quasi si bisticciavano per i milioni di miss
May (il lettore avrà capito che si trattava di lei), nel centro del
Battistero, fra le otto colonne di porfido che Sisto III innalzò,
nel recinto circolare che una balaustra protegge e a cui si scende
per pochi gradini di marmo, la Mariannina Moncalvo, tutta vestita
di bianco, la fronte liberata dal velo, riceveva il battesimo e
pronunziava l'abjura. A uno a uno, rispondendo alle domande del
sacerdote, ella ripudiava i suoi errori, e il sacerdote, ch'era la
nostra buona conoscenza monsignor de Luchi, dopo averle versato l'acqua
lustrale sul capo e sparsole qualche granellino di sale sulla lingua
e untole leggermente d'olio l'orecchio, l'accoglieva in grembo della
Chiesa con la formula consacrata: «In nome di Dio ti battezzo». La
madrina intanto, vecchia dama dell'aristocrazia nera, donna Cornelia
Flamini, ritta presso la neofita, le teneva le mani sopra le spalle e
ripeteva insieme con lei a voce bassa le parole del _Credo_ dette a
voce alta da monsignore. Altre voci sommesse facevano eco di tra la
schiera dei presenti, quasi tutti inginocchiati innanzi all'altare
apparecchiato per la messa.
Compiuta questa parte essenziale del rito, monsignor de Luchi, in mezzo
a un gran silenzio, si rivolse alla pecorella ch'entrava nell'ovile di
Cristo e le disse come senza colpa ella fosse stata avvolta fino allora
in una notte profonda, e come ormai le tenebre si fossero squarciate
e le sue pupille fossero messe in grado di sopportar tutta la luce
della verità: «Che gioja nel cielo, — proseguì don Paolo, — per queste
vittorie della fede! Per questo ritorno al Signore dei discendenti di
quelli che lo hanno perseguitato, crocifisso, deriso! E come esulterà
il cuore paterno di Dio quando pel ravvedimento di tutti egli potrà
depor la sua collera e scancellare il marchio d'infamia dalla fronte
dei rejetti e restituire una patria ai dispersi!»
Con un gemito sordo donna Rachele Moncalvo tradì la sua rabbiosa
impazienza del battesimo rigeneratore, ma il commendator marito
trattenne a fatica un gesto d'uomo seccato. Quel monsignor de Luchi,
per solito così misurato e discreto, oggi perdeva le staffe. Che sugo
avevano quelle parolone sonore davanti a lui, Gabrio Moncalvo, che
non aveva dichiarato ancora in modo esplicito di voler uscire dalla
schiera dei reprobi?... E non era tempo di finirla con quell'antifona
dei persecutori, dei crocifissori?... O che diciannove secoli non erano
bastanti per creare la _prescrizione_?
Ben altri pensieri agitavano la mente di don Cesarino Oroboni durante
le varie fasi della cerimonia. Solo in un angolo, con le ginocchia
sul nudo pavimento, egli aveva cercato d'immergersi nella preghiera,
di allontanar da sè ogni pensiero profano. Ma di tratto in tratto una
forza più potente della sua volontà lo spingeva a levar lo sguardo
verso la donna affascinante che fra poco sarebbe sua. Ecco, non era un
sogno; la barriera insuperabile che l'aveva diviso da lei era caduta;
un sacerdote cattolico aveva profferito le parole liberatrici che
disserrano il fonte della salute; ecco, un vescovo che aveva atteso in
disparte orando in silenzio s'era avvicinato grave e solenne alla nuova
recluta della fede, le aveva impartito la cresima, le aveva offerto il
mistico pane.
Ed ecco che ora don Cesarino è prostrato accanto a _lei_ dinanzi
all'altare; egli in abito nero, ella avvolta in una nuvola di veli
bianchi. Gli anelli benedetti si scambiano; dalle labbra esangui del
patrizio romano, dalle labbra tumide della fanciulla semita esce il
«sì» fatale che unisce gli sposi fino alla morte e dopo la morte;
allargando le braccia don Paolo de Luchi invoca sulla giovine coppia le
grazie del cielo. Indi strette di mano, e baci e augurî in quantità, e
quell'inquietudine allegra e quel cinguettìo abbondante e festevole che
succede ai lunghi e forzati raccoglimenti. Tutti vorrebbero avvicinarsi
alla sposa; tutti vorrebbero da lei uno sguardo, una parola, un
sorriso. I genitori, i parenti, le amiche l'abbracciano commossi; le
semplici conoscenze aggiungono alle congratulazioni qualche complimento
sulla sua bellezza, sulla sua eleganza, sulla sua aria regale. Ella
mostra di gradire gli omaggi e a don Cesarino ch'è ansioso di darle
il braccio fa cenno di non aver troppa fretta. Non devono star insieme
tutta la vita?
Ma don Paolo de Luchi interviene.
— Sì, sì, anzi i due sposi a braccetto.... Di qui.... Oh quelli del
Municipio aspetteranno.... Avanti! Vengano dietro a me.... Io faccio da
battistrada.
E monsignore, uscendo per primo dal Battistero, precede la comitiva
lungo i porticati interni della Basilica fino alla sacrestia, ov'è
preparato un magnifico rinfresco.
— Oh monsignore, — dice in tono di mite rimprovero il commendator
Gabrio Moncalvo battendogli amichevolmente sulla spalla, — con questo
po' po' di trattamento lei fa guerra alla mia colazione.
— Il nostro commendatore ha voglia di scherzare, — risponde don
Paolo. E ajutato da due inservienti della Basilica distribuisce fra
gl'invitati il tè, la cioccolata, i liquori, le paste.
— Ah, Ugolini, — sospira donna Rachele accettando un pasticcino dal
cavaliere di Malta. — Che cerimonia!... Non c'è che la Chiesa cattolica
che abbia di questi riti.... Verrà, spero, quel benedetto giorno in
cui sarò accolta anch'io nella comunione dei fedeli.... Vi sono già col
cuore, lo giuro.
— E il cuore è il più, — risponde il conte Ugolini-Ruschi, tanto per
dir qualche cosa.
Appartata quanto più sia possibile dalla folla mondana, con presso
a sè donna Cornelia Flamini e altri due o tre dei _purissimi_, la
principessa Oroboni divora in silenzio la sua umiliazione. I suoi occhi
non hanno lacrime, le sue labbra non hanno lamenti, ma la sua fisonomia
tradisce la lotta fra l'orgoglio indomato e la rabbia e il dolore
che vorrebbe prorompere. C'è intorno a lei un'atmosfera di gelo; chi
avrebbe voluto avvicinarsele si arresta in cammino, chi avrebbe voluto
rivolgerle un complimento banale sente morirsi le parole in gola. Ella,
di quando in quando, leva lo sguardo ostile verso la Mariannina, verso
la nemica che le ha stregato il figliuolo, che ha avvinto a sè quella
debole anima, che, trionfando coi sensi e con l'oro, ha trascinato nel
fango il nome illustre degli Oroboni. Tutti i pregiudizi succhiati col
sangue, tutto l'odio di razza tramandato di generazione in generazione,
tutti i sospetti, tutte le diffidenze, tutte le gelosie delle suocere
contro le nuore si adunano in quello sguardo che la Mariannina sopporta
senza batter palpebra, col calmo e tranquillo sorriso di persona che
non dubita della sua forza.
Dal gesto con cui la principessa ha rifiutato una tazza di cioccolata
ch'egli stesso era venuto ad offrirle, don Paolo capisce che, per un
certo tempo almeno, la vecchia patrizia non gli perdonerà la parte da
lui avuta in quel matrimonio e ch'egli dovrà rassegnarsi a sentirsene
dir di cotte e di crude, ciò che del resto non gli fa una grande
impressione perchè ci è avvezzo.... Ma _non est hic locus_, e per
evitare in momento inopportuno la minacciata scarica d'elettricità egli
si ritira prudentemente, e raccogliendo intorno a sè miss May, la zia
di lei ed altre signore, mostra loro il calice regalatogli in questa
solenne occasione dalla famiglia della sposa.
— Una bellezza, una vera bellezza.... Puro Quattrocento....
E, assicuratosi che nessuno dei Moncalvo può udirlo, don Paolo de Luchi
soggiunge piano: — Se l'è procurato il commendatore da uno dei suoi
correligionari.... Ma!... Due terzi dei tesori delle nostre chiese son
passati in mano di quella gente.... E chi sa a che prezzi disfatti....
Meno male che qualche oggetto ripiglia la buona via.
In quella, Brulati, ch'era uno dei testimoni al matrimonio civile, fa
notare a Gabrio Moncalvo che non c'è tempo da perdere. Si sarebbe già
dovuti essere al Campidoglio.
— Ma sì, ma sì, — dice il commendatore che nei giorni scorsi s'era
adoperato invano per far precedere il rito civile al religioso. Gli
Oroboni erano stati inflessibili, e inflessibile quanto loro era stata
donna Rachele, accesa di zelo mistico e grande dispregiatrice delle
formule che si pronunciano al municipio.
— Prima in chiesa, prima in chiesa.... Al municipio ci si andrà dopo,
unicamente perchè lo esige la legge....
Ajutato da Brulati, il commendator Gabrio chiama a raccolta.
— Avanti, signore e signori.... Quelli che vengono al municipio abbiano
la cortesia di spicciarsi.
All'appello rispondono alcuni soltanto. Altri si dileguano in silenzio,
altri, vincendo la soggezione, si aggruppano intorno alla contessa
Olimpia, la quale ha fatto già uno sforzo enorme a recarsi in chiesa e
non vede l'ora di riseppellirsi nel vecchio palazzo, ohimè non più suo,
ma che ella seguita a riguardar come suo.
Il corteo nuziale, ridotto così, attraversa a passi rapidi la Basilica,
e per la maestosa gradinata scende sulla piazza immensa di Porta San
Giovanni, che digrada con lento pendìo fino alla chiesa di Santa Croce
in Gerusalemme, e di là dai resti dei vecchi acquedotti, di là dai
tetti delle fabbriche nuove che la deturpano lascia veder le linee
vaporose dei colli albani. Ivi gli equipaggi attendono; ivi attende
l'automobile di miss May; ivi uno sciame di accattoni, di monelli,
di venditori ambulanti, di semplici curiosi, mal rattenuto da poche
guardie municipali, preme, avvolge la nobile comitiva che insofferente
di contatti plebei si affretta a salir nelle carrozze e ordina ai
cocchieri di sferzare i cavalli.
— Vi precedo, — grida miss May fendendo la folla con la sua superba
_Mercedes_ e sollevando dietro a sè un nembo di polvere, mentre una
dozzina di ragazzi cenciosi, non contenti dell'elemosina avuta, le
scaraventa dietro una filza di epiteti espressivi tolti dal vocabolario
romanesco.
Altri, per la stessa ragione, inseguono per qualche tempo il _landau_
della sposa, urlando: — _La giudia! La giudia!_ — ciò che strappa un
gemito dal petto di donna Rachele:
— Anche dopo il battesimo!... Quando la finiranno?
— Cosa vuole? — dice il conte Ugolini per consolarla. — Sono ignoranti.
Al Municipio la funzione è breve, tanto più che il sindaco e gli
scrivani, infastiditi dalla lunga attesa, non vedono l'ora di andar a
colazione. Anzi il sindaco ringhiotte il discorso che aveva preparato e
si limita a due parole di augurio.
La signora Rachele trionfa, e non contenta di sfogarsi con Ugolini si
volge in aria quasi di sfida a quello scettico impenitente del pittore
Brulati:
— Che differenza dalla cerimonia in chiesa! Non vorrà mica negare?
Ma Brulati ch'è di cattivo umore risponde:
— Eh, sicuro, in chiesa c'è più pompa. Ma quello è fumo, questo è
arrosto.... E per diventare principessa Oroboni bisogna passar di
qui.... A proposito, — continua il pittore liberandosi da un peso che
gli grava lo stomaco da molto tempo, — che notizie ha di quella povera
famiglia?
La signora Rachele sulle prime non capisce.
— Quale famiglia?
— Non rammenta? Quella di via Merulana.
— Ah! — fa donna Rachele arrossendo. — Che memoria ha!
— Gli è, — seguita Brulati impassibile, — che in questa lieta occasione
rinnoverei volentieri l'offerta....
— Grazie, grazie, — interrompe bruscamente la signora. — Non
occorre.... Le condizioni son molto migliorate....
— Hanno vinto una lotteria?
— Si figuri....
— Che fortuna rara!
— Ha dei giorni ch'è insopportabile, — borbotta la signora Rachele. E
piantando in asso il suo petulante interlocutore accetta il braccio
offertole dall'alto personaggio degli esteri, quello che di sera ha
l'abitudine di dormirle in salotto.
— Forse mi comprometto, — dice il diplomatico. — Ora che i Moncalvo
entrano nel campo avversario.... Meno male che S. E. il Presidente del
Consiglio non vuol inasprire il Vaticano....
— Ah commendatore, — esclama con enfasi la signora Rachele. — l'uomo
di Stato che riconcilierà l'Italia con la Chiesa sarà più benemerito di
Cavour. Sua Eccellenza dovrebbe aspirare a questa gloria.
— Sono questioni delicate, cara signora, questioni che bisogna lasciar
risolvere al tempo.... Ma ecco che tutti hanno posto la loro firma e
che si può avviarsi.
— Viene a colazione da noi? — chiede donna Rachele.
— Grazie. È impossibile. Sono atteso alla Consulta.
Il pubblico di piazza del Campidoglio, composto in parte dei forestieri
che vanno a visitare i musei, è più garbato di quello di San Giovanni
Laterano. Qui nessuno sa o nessuno si cura del recente battesimo;
qui nessuno leva il grido sconveniente _la giudia_, ma un mormorio
spontaneo di ammirazione accoglie la sposa novella che a braccio del
marito esce dagli uffici di stato civile e risale in vettura.
Un francese, alle cui orecchie son giunte le parole _matrimonio
principesco_, dice con aria convinta:
— _On voit bien que c'est une princesse._
Una nube vela l'orgogliosa bellezza di Mariannina Moncalvo. Ora
ch'ella ha profferito il «sì» che vale davvero in faccia alla legge,
ora che un nodo indissolubile l'avvince a don Cesarino, ora per la
prima volta ella domanda a se stessa s'ella non sia stata vittima d'un
vano miraggio e se il dono completo di sè non sia prezzo troppo alto
per la conquista d'un nome e d'un titolo. Sì, certo, ella dominerà il
suo consorte, ma intanto, almeno per qualche tempo, ella non potrà
rifiutare le sue carezze, non potrà sfuggire un contatto che le
ripugna. E un'altra immagine ch'ella vorrebbe cacciare da sè torna
insistente a perseguitarla: l'immagine del cugino di cui ella s'era
divertita ad attizzare la fiamma, del cugino che era stato in procinto
di morire per lei. Non lo ama ella, no; ella è troppo padrona di sè
medesima, troppo corazzata contro gli assalti della passione, ma ella
sente ancora sulla bocca la bruciatura del bacio ch'egli le ha reso in
cambio di quello ch'ella, provocante, gli ha dato. E pensa: — Lo vedrò
più?
Con la faccia ostinatamente rivolta verso il finestrino ella risponde
appena alle domande dello sposo.
— Sei un po' smorta. Cos'hai? Non ti senti bene?
— Ho l'emicrania.... Troppi fiori....
La carrozza rallenta, s'arresta davanti al palazzo Gandi.
Con un salto la Mariannina balza a terra, traversa l'ingresso
brulicante di gente, sale lo scalone, e, staccandosi da don Cesarino
che non osa seguirla, entra per l'ultima volta nella sua camera di
fanciulla. In un baleno ella si spoglia della veste nuziale, indossa
l'abito da viaggio, guarda di là dalla strada il muro alto, bruno,
massiccio degli Oroboni, e il cuore le si gonfia d'orgoglio all'idea
di aver forzata quella rocca inviolabile ove fino a poco addietro
nessuno della sua razza avrebbe ardito mettere il piede. Oggi è lei la
principessa Oroboni. Che le importano i superbi disdegni della suocera
riottosa? Che ombra può darle quella pallida larva destinata presto a
sparire?
Via, via dall'anima le fisime sentimentali! La Mariannina Moncalvo deve
portar regalmente il suo titolo.
Quand'ella scende fra gl'invitati i suoi occhi sfavillano, le sue
guancie hanno ripreso l'usato colore.
— Come sei bella! Come sei bella! — esclama don Cesarino. — E la tua
emicrania?
Ella si stringe nelle spalle.
— È scomparsa.... A me le indisposizioni non durano.
Don Cesarino china il capo umiliato. Egli, sofferente fin dalla
nascita, troverà indulgenza presso la splendida creatura rigogliosa di
salute, esuberante di vita?
Gabrio Moncalvo abbraccia entusiasta la figliuola.
— Sei più principessa di tutte le principesse.
Il commendatore che in chiesa s'era trovato a disagio, che al municipio
era rimasto un po' male per la fretta e la svogliatezza del sindaco,
qui, in casa sua, nel suo ambiente, ha ricuperato la sua vena e il
suo brio. Si guarda dal dirlo, ma contrariamente a sua moglie, ch'è
avvilita e irritata per la mancanza quasi completa dell'aristocrazia
del blasone, a lui non par vero di non vedersi davanti nè l'arcigna
principessa Olimpia, nè donna Cornelia Flamini, nè parecchie altre
delle mummie che assistevano alla cerimonia di San Giovanni Laterano.
Ora, nella folla che lo circonda e che fa onore al suo sontuoso
_buffet_, è in prevalenza l'aristocrazia bancaria alla quale egli
appartiene e ov'egli è riverito come un monarca assoluto.... Sì, sì,
questo è il suo regno. Lo facciano pur conte del papa, egli rimarrà
sempre banchiere, legato a doppio filo con gli uomini della finanza,
senza distinzione di patria, di stirpe, di fede....; quindi anche coi
suoi vecchi fratelli semiti che la fanatica signora Rachele avrebbe
voluto escludere dall'odierna solennità domestica, ma ch'egli aveva
invitati a malgrado di lei. «Già non verranno», — ella diceva per
coonestar l'esclusione. «Ci pensin loro, — era stata la facile risposta
di Gabrio Moncalvo. — Io non commetto villanie. Del resto, giurerei che
verranno». Non solo eran venuti, ma alcuni di loro avevan mandato alla
sposa regali splendidissimi che ora figuravano tra i più belli messi
in mostra nell'apposita stanza ove i visitatori erano introdotti per
turno e ove non mancava la discreta sorveglianza d'un servo fidato....
Con tanta gente.... non si può mai sapere.... Perchè, non scherziamo,
c'erano oggetti di gran valore, specie un monile di perle con pendente
di brillanti, dono di miss May, di cui si affermava che il giojelliere
avesse, tempo addietro, rifiutato sessantamila lire.
Tre o quattro cronisti, tal quale come nel giorno del trasporto
della povera signora Clara, cacciano il naso da per tutto, assediano
di domande gl'intimi della famiglia, prendono note nel taccuino,
interrompendo talvolta il lavoro per far qualche riflessione filosofica
e profonda.
— Ma! Vicende di questo mondo. Non sono tre mesi ch'eravamo qui per un
funerale.
— _Les morts passents vite._
Uno, più indiscreto degli altri, urta col gomito il vicino per
additargli un libro di devozione legato in cuoio con borchie d'argento
dorato, offerto alla sposa da monsignor de Luchi.
— Il maestro non vuole che la scolara dimentichi le sue lezioni.
— Bah! Quella non è donna da recitar salmi.
— Eh, chi sa? Le neofite son le più ferventi.
— Se i vecchi Moncalvo si svegliassero!
— Zitto. C'è il principe.
Don Cesarino Oroboni, poichè la Mariannina è accaparrata dagli amici
e dalle amiche e sopra tutto dall'invadente miss May, è come sperduto
in quella società nuova per lui. Appoggiandosi al braccio del conte
Ugolini-Ruschi, che almeno è _della sua casta_, egli gira su e giù
per le sale, e da lui, ch'è cavaliere di Malta e fu in Palestina,
attinge notizie sul viaggio, sui conventi di Gerusalemme, sul monte
degli Olivi, sul Golgota, su Nazareth, sulle distanze da percorrere,
sulle fatiche da sopportare per conoscere tutti i luoghi che udirono
la parola di Gesù. E Ugolini, che si vanta di cospicue aderenze in ogni
angolo della terra, oltre a fornir le informazioni richieste, promette
lettere commendatizie per questo e per quello, pel balì dell'Ordine
che fu suo condiscepolo, pel superiore dei Francescani ch'è suo amico,
pel console austriaco ch'è figlio d'un cugino di sua madre di buona
memoria, e marito della nipote d'un barone Hohenstein di Monaco, da lui
conosciuto anni addietro presso i suoi parenti Wartenburg di Berlino.
Ma a poco a poco, con nuove felicitazioni ed augurî, gl'invitati si
ritirano. Restano al _lunch_ solo gl'intimi della famiglia, primi tra
i quali, s'intende, miss May, il conte Ugolini, il pittore Brulati,
il cavaliere Fanoli e monsignor de Luchi, capitato proprio all'ultimo
momento, quando già si disperava di vederlo. Resta pure, benchè non sia
degl'intimi, il barone Bernheim che s'è invitato da sè.
Monsignore, amabilissimo, scusandosi dell'involontario ritardo, offre
il braccio a donna Rachele e l'accompagna a tavola. Egli prende il
posto alla destra di lei; alla sinistra siede il conte Ugolini, onde
ella si trova fra quello ch'è oggi il dolce peccato e quello che sarà
presto la facile penitenza. Con che ansietà ella invoca il giorno
in cui le sarà dato prostrarsi ai piedi del degno ecclesiastico e
confessare la colpa e ottenere l'assoluzione!
Lo sciampagna trabocca, spumeggiante, dai calici; i brindisi e i viva
agli sposi s'incrociano. Ma tutti fanno silenzio quando monsignor de
Luchi si alza e accenna a voler parlare.
Monsignore apre un foglietto piegato a modo di telegramma e comincia
con voce solenne:
— Ho una sorpresa, una cara sorpresa per la nostra coppia felice. In
questo momento ho ricevuto da Sua Eminenza il cardinale segretario di
Stato il seguente dispaccio:
«Sua Santità invia benedizioni ed augurî ai dilettissimi figliuoli
Cesarino e Mariannina Oroboni».
— Oh, monsignore! — esclama donna Rachele. E non riesce a dir altro,
e mostra una spiccata disposizione a svenire, incerta soltanto se deve
cader dalla parte di don Paolo o da quella del conte Ugolini-Ruschi. Ma
i due la sostengono e la rinfrancano, ond'ella riacquista il dominio
di sè e calma coi cenni e coi sorrisi la trepida sollecitudine dei
commensali.
— Non è nulla.... È passato, — ella assicura. — Effetto della
commozione.... Un favore così segnalato.... così inatteso.... E lo
dobbiamo a lei, monsignore!... Mariannina, genero mio, non avete
ringraziato don Paolo?
Ed ella afferra la mano del sacerdote e la copre di baci. Gli sposi
vorrebbero fare altrettanto, ma monsignore si schermisce, dichiara che
il merito, se c'è, non è di lui solo.... Anche il conte Ugolini-Ruschi
con la sua influenza, con le sue aderenze....
Modesto e dignitoso, il conte fa segni negativi col capo.
— Sì, sì, sento che c'è anche lei, — protesta con enfasi donna Rachele,
arrossendo di non averci pensato prima. E stringe con effusione la
destra al suo impareggiabile amico. E incita con lo sguardo il marito a
manifestare la propria riconoscenza.
— Grazie, grazie, — borbotta il commendatore con moderato entusiasmo.
Gli è che anch'egli ha in serbo una _sorpresa_ per la figliuola e gli
duole di vederne sciupato l'effetto da questo colpo di scena.
— _How interesting!_ — esclama miss May leggendo per di sopra la spalla
di monsignore il dispaccio del Vaticano, mentre i camerieri sturano
altre bottiglie di sciampagna e ricolmano i calici.
Zitto! Don Paolo ha qualche cosa da soggiungere.
— Io propongo, — egli dice, — un brindisi al nostro Sommo Pontefice Pio
X.
C'è un momento di esitazione, e il barone Bernheim, che aspetta una
nuova commenda italiana, non può trattenere un espressivo: «Uhm, uhm!»
— Il mio brindisi è rivolto al Pastore delle anime e non al Sovrano,
— spiega monsignore. E allora tutti si levano in piedi applaudendo;
solo il pittore Brulati, con la scusa di raccattare il tovagliuolo
scivolatogli giù dalle ginocchia, trova il modo di esimersi dalla
toccante dimostrazione, e brontola corrucciato: — Dopo la commedia, la
farsa.
— Io spero che l'eco di questi applausi giungerà fino a Sua Santità, —
ripiglia don Paolo appena tace il tintinnio dei bicchieri.
E poichè i vapori del vino gli dànno un poco alla testa, egli si lascia
scappare due o tre frasi imprudenti.
— Sì, questi applausi hanno un grande significato. Essi sono uno dei
tanti sintomi di quella riconquista di Roma ch'è la vera, ch'è la
più desiderabile. «Il mio regno non è di questo mondo». Regnar sulle
anime, ecco ciò che interessa.... E se le anime tornano a noi, tornano
alla Chiesa, non sarà una gran disgrazia aver perduto quattro palmi di
terreno....
— Bravo don Paolo! — salta su, ridendo, il commendatore. — Lei rinuncia
al poter temporale.... Se la sentono....
— Io non rinuncio a nulla, — ribatte monsignore accorgendosi di
essere andato tropp'oltre. — La Chiesa ha i suoi diritti e protesterà
sempre contro le violenze commesse a suo danno.... Ma io parlo come
privato.... E per me, sì, l'essenziale è che la Chiesa riconquisti
le anime.... Del resto, accetto l'avvertimento amichevole del nostro
illustre commendatore.... e.... acqua in bocca.
A suggello delle sue parole monsignor de Luchi accosta il bicchiere
alle labbra.... ciò che desta l'ilarità dei presenti, i quali notano
che nel bicchiere c'è vino e non acqua.
— Ebbene, figliuoli, — dice il commendatore dopo aver consultato
l'orologio, — se non volete arrivar troppo tardi a Napoli sarà bene
che vi disponiate a partire.... l'automobile è pronta.... E non è
l'automobile solita.... È una Fiat di cinquanta cavalli che metto nella
_corbeille_ della Mariannina.
— Ah, babbo! — grida la neoprincipessa gettando le braccia al collo
dell'autore dei suoi giorni con uno slancio d'affetto filiale che non
può capire chi non abbia un padre milionario.
Gabrio Moncalvo è contento. La sua _sorpresa_ ha maggior successo
dell'altra; l'automobile dà scacco matto alla benedizione.
Carezzevole, la Mariannina domanda:
— E quanti chilometri....?
— Calma, calma, — interrompe il banchiere. — Lo _chauffeur_ ha l'ordine
di non superar la velocità di cinquanta chilometri all'ora.... Per oggi
comando io.... Spero che tuo marito non se ne offenderà....
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