I Moncalvo - 11

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Tu affoghi nel cinismo quello che c'è in te di buono e di alto.... Sei
piena d'ingegno e t'afferri alle cose morte e imputridite.
Ella lo fermò con un gesto.
— Basta, Giorgio, sono quella che sono, e poco importa dal momento che
non dobbiamo vivere insieme. Non mi negherai almeno il merito d'esser
stata franca con te.... Che diritto avevi tu di chiedermi spiegazioni?
Che obbligo avevo io di dartene?... Ti sembra ch'io sia una ragazza
disposta a render conto dei fatti suoi?
Le labbra di Giorgio si atteggiarono a un amaro sorriso.
— Una triste preferenza mi hai accordata.... Hai voluto tu stessa
cacciarmi il pugnale nel petto. E non temere di aver sbagliato il
colpo. La ferita è mortale.
Che cosa passò allora nell'anima della Mariannina? Fu vana lusinga di
sanare la piaga? Fu desiderio crudele di esacerbarla?
Fatto si è ch'ella allontanò violentemente la sedia alla cui spalliera
era stata appoggiata durante tutto il colloquio, e con un movimento
fulmineo della sua persona flessuosa si slanciò sul cugino e lo
baciò sulla bocca. Ma quando egli, balzando come una fiera sotto
la scottatura di quel bacio, cercò di stringerla al petto, ella
si svincolò con uno strappo gagliardo, e con agilità di scoiattolo
guadagnò la porticina della scala a chiocciola e gliela sbattè in
faccia.
— Guai se mi segui!... Addio per sempre.
In un attimo ella fu al sommo della scala, spinse l'altra porta che
metteva nell'appartamento superiore, e che scendendo ell'aveva soltanto
accostata, e la chiuse dietro di sè.
Dal basso, con gli occhi fissi nel buio ov'_ella_ era scomparsa,
ove l'aria era ancora impregnata del _suo_ profumo, Giorgio chiamò
inutilmente: — Mariannina! Mariannina! — Indi, barcollando, rientrò
nello studio. Una sedia, la sedia che la Mariannina aveva respinta,
era rovesciata sul canapè, un pacco di buste ch'ella aveva urtato col
gomito nel suo passaggio era sparpagliato sul pavimento, e quelle buste
orlate di nero, quelle buste che ricordavano il lutto della famiglia e
la presenza d'un cadavere nella casa, parevano gettar un'ombra lugubre
sulla rapida scena svoltasi dianzi lì dentro. Poveri morti! Povera zia
Clara!... Ella non era ancora sepolta, e già nella memoria del nipote
c'era appena un posticino per lei....
Mariannina! Mariannina! «Addio per sempre» ell'aveva detto a Giorgio.
Ma ell'era nel suo sangue, nella sua anima; era sulle sue labbra ove
ell'aveva impresso il bacio rovente, era nelle sue vene ov'ell'aveva
trasfuso un ardore di febbre. Ed egli se l'era lasciata sguisciar dalle
braccia, e non aveva saputo provarle, egli giovane e forte, che non
si scherza col fuoco, che non si suscita impunemente la tempesta dei
sensi.
Giorgio soffocava, aveva un bisogno imperioso d'aria e di spazio, un
bisogno di correre, di stancarsi, di domar con la fatica fisica le
membra e lo spirito. Anzichè risalire in casa per la scaletta interna,
uscì per la porta che dava sul pianerottolo dello scalone, la chiuse
a chiave, e un po' a tastoni, un po' aiutandosi coi fiammiferi, scese
nel vestibolo rischiarato da un fanale fioco, fiancheggiato da piante
di sempreverdi, triste ornamento alla cerimonia di domani. Aperse il
portone di cui in quella notte non s'era dato nemmeno il catenaccio,
e si trovò nella strada, avvolto da una nebbia fredda e sottile.
Nella nebbia, a lunghi intervalli, le poche lampade ad arco tuttora
accese mandavano una luce biancastra, riflettendosi qua e là nelle
pozze lasciate dalla pioggia recente; misterioso, arcigno, inospitale,
sorgeva di fronte il muro massiccio del giardino Oroboni, e, quasi la
notte fosse il suo regno, pareva dominar la via addormentata.
— Maledetto! Maledetto! — urlò Giorgio stringendo i pugni verso la mole
ciclopica, simbolo d'un passato che l'agile vita moderna non riusciva a
scalzare. — Maledetto! — egli ripetè, livido d'odio contro quella rocca
medioevale ove la Mariannina stava per seppellire la sua giovinezza. E
mentre si slanciava innanzi nella strada deserta, lo rodeva sempre più
acuto e cruccioso il sentimento della propria impotenza. Come non aveva
saputo esser cinico e brutale con la Mariannina, la cui sfida temeraria
non meritava altra risposta, così, egli n'era sicuro, non avrebbe
trovato il modo di colpire il nemico invisibile che trionfava per la
sola virtù dell'antichità della stirpe. Con che armi combatterlo? A
che gara chiamarlo? Che provocazione, che insulto scagliargli? Una
provocazione? Un insulto? Come? Quando? A uno che non s'incontrava
mai? A uno con cui non s'aveva nulla di comune, nè le consuetudini
della vita, nè le aderenze, nè le amicizie?... Perchè gli amici servono
(oh, servono benissimo), anche quali intermediari di villanie, e nulla
è più difficile che l'ingiuriare una persona con la quale non si ha
nessun punto di contatto.... Di nuovo alla mente di Giorgio balenò
l'idea d'un duello. Ma gli sovvenne di quello che gli aveva detto suo
padre: «Probabilmente Cesarino Oroboni non si batterebbe, o per non
incrociar la sua spada con un infedele, con un plebeo, o per non venir
meno ai suoi principî religiosi....». Sì, ma potrebbe accettare.... E
allora, che gioja! Ucciderlo o essere ucciso.... Una gioja?... Forse
una gioja sarebbe stata il morire.... Ma uccidere?... La natura,
l'educazione, tutto ciò che v'era in Giorgio Moncalvo d'ingenito e di
acquisito si ribellava contro questa voluttà selvaggia del sangue,
contro questa cieca e folle maniera di risolver le proprie contese.
Pure in mezzo alla sua esaltazione egli avvertiva la differenza
profonda tra lui e don Cesarino. Questi non sarebbe stato ridicolo
nè rifiutando di battersi in nome de' suoi pregiudizi, nè accogliendo
la sfida in nome degli usi cavallereschi; ridicolo sarebbe stato lui,
l'uomo di meditazione e di studi, ridicolo in ogni modo, tanto se il
suo antagonista lo metteva alla porta, quanto se gli accordava l'onore
del singolare certame.... Ah, dov'erano i tempi in cui egli scorreva
i suoi giorni tranquilli fra le pareti d'un laboratorio, assorto nelle
sue ricerche, sotto la guida amorevole del fisiologo illustre ch'egli
aveva considerato un secondo padre e che somigliava il padre vero per
l'ingegno, pel culto della scienza, per la purezza e la semplicità del
carattere? Anche allora, anche nel laboratorio silenzioso, egli aveva
conosciuto ansie ed emozioni profonde; aveva palpitato dinanzi alle sue
storte, ai suoi crogiuoli, alle lenti del suo microscopio, nel corso
d'un'esperienza che avrebbe potuto rivelare un nuovo segreto della
materia, una nuova legge del mondo fisico. Anche allora, fra i gas
pestiferi e le culture velenose, aveva visto da vicino la morte. E non
aveva tremato, e non aveva perduto mai la serenità del suo spirito....
Oggi invece....
La nebbia s'era sciolta in pioggia, una pioggia fine, minuta che
penetrava nell'ossa. Giorgio non vi badava; egli procedeva rapido nel
suo cammino mordendosi i pugni, agitando le braccia, biascicando frasi
rotte ed incomprensibili, guardato con curiosità diffidente dai rari
nottambuli che lo prendevano per un pazzo o per un ubbriaco.
Le gambe lo avevano portato nella direzione di casa sua, ma forse egli
stesso non vi pensava; vi pensò solamente quando, dopo via Tomacelli,
imboccò il ponte Cavour.... E allora s'arrestò perplesso, confuso....
Che ci andava a fare a casa sua ove non lo aspettava nessuno, ove non
avrebbe trovato nemmeno la sua camera apparecchiata e l'unica donna di
servizio sarebbe stata immersa in un sonno profondo, sapendo che i suoi
padroni dormivano in palazzo Gandi? Sicuro; egli alloggiava sotto il
medesimo tetto della Mariannina, della futura principessa Oroboni!...
No, in verità, neanche in palazzo Gandi egli non alloggiava quella
notte, perchè nel chiuderne il portone s'era dimenticato che non ne
aveva la chiave. Fino all'alba (e nel cuor di dicembre l'alba spunta
così tardi), egli era un vagabondo a cui i carabinieri avrebbero potuto
domandar le carte!...
Sul ponte non c'era anima viva; qualche lume disperso sulle rive, sui
colli circostanti rompeva a fatica l'ombre profonde; sotto gli archi,
contro le pile l'acqua gorgogliava con un sordo muggito.... Giorgio
Moncalvo si affacciò alla spalletta, guardò in giù, ebbe un istante
l'attrazione terribile dell'abisso.... Precipitarsi a capofitto,
esser travolto dal vortice, perdere dopo pochi secondi la memoria e la
conoscenza, divenire una cosa inerte che si dissolve.... E intanto fra
qualche ora, ai funerali della zia Clara, lo aspetterebbero invano.
Dov'è? Dove ha dormito? Chi lo vide uscire dal mezzanino? Chi fu
l'ultimo a parlare con lui?... Ah, certo, la Mariannina non si sarebbe
tradita.... Ma possibile ch'ella non provasse una vaga inquietudine,
che non avesse un vago sospetto, che non dicesse: «Se accade una
disgrazia ne son responsabile io»?
No, no, non questo ella direbbe. Direbbe invece: «Era un pazzo. Doveva
finir male».
Come talora, nel bujo più fitto d'un temporale, le tenebre si
squarcialo per un istante, e, per un istante, nell'interstizio di due
nuvole, appare l'occhio del sole ridonando forme e colori agli oggetti,
così, per una chiaroveggenza improvvisa e fuggevole, Giorgio Moncalvo
ebbe la lucida visione di ciò che v'era di grottesco, di assurdo
nei suoi propositi di suicidio.... Morire per la Mariannina; per lei
immerger nel lutto suo padre, lo scienziato alto ed integro del quale
egli era ormai l'unica gioja e l'unico affetto! Per lei rinunziare alle
febbri dell'indagine, alle speranze della gloria, alla santa ambizione
di aggiunger qualche particella di vero al patrimonio dell'umanità?
Il giovine si ritrasse bruscamente dalla spalletta del ponte e riprese
il suo pellegrinaggio notturno, sotto la pioggia che anche quando
cessava di cadere era come diluita nell'aria, avvolgeva le cose in
un'atmosfera umida e greve. Andò per via Ripetta a piazza del Popolo,
da piazza del Popolo per via del Babbuino a piazza di Spagna, ove un
fiaccheraio, seduto a cassetta sotto l'ombrellone aperto, gli fece
segno: — Vuole?
Perchè no? Giorgio era stanco, era fradicio; il _fiacre_ poteva
offrirgli un asilo fino al mattino.
— Dove? — chiese il cocchiere disceso ad aprir lo sportello e a levar
la tela cerata che copriva il cavallo.
— Ma!... Dove vuoi.... Anche in nessun posto... Anche qui fermo.
E poichè l'altro lo guardava attonito, soggiunse a modo di spiegazione:
— Ho dimenticato la chiave di casa e trovo inutile di picchiare chi sa
quanto al portone.... Mi basta essere al coperto.... Ti prendo a ora e
ti pago subito.
Mise un biglietto da dieci lire nelle mani del vetturale, i cui
sospetti svanirono per incanto.
— Star fermi non si può, — egli disse. — Gireremo qui intorno.
Giorgio Moncalvo si rannicchiò in un angolo e chiuse gli occhi sperando
che il movimento della carrozza che procedeva al passo gli avrebbe
conciliato il sonno. Non dormì; cadde in una specie di letargo,
durante il quale l'immagine tentatrice della Mariannina lo perseguiva
insistente. Ecco, ella si chinava su lui, lo baciava sulla bocca....
e rideva.... Egli, scotendosi in sussulto, tendeva invano le braccia
verso la Sirena, verso la Sfinge.... E a ognuno di questi risvegli si
sentiva peggio di prima; con le membra indolorite, con l'ossa peste,
con le tempie strette in un cerchio di ferro....
Quand'egli riebbe la piena coscienza di sè era ancora notte, ma già
la città si destava e le vie meno silenziose e deserte annunziavano
l'avvicinarsi del giorno.... Con uno sforzo Giorgio Moncalvo abbassò il
finestrino e diede al fiaccheraio l'indirizzo del palazzo Gandi.


XIV.
Funerali.

L'androne, le scale, i mezzanini, la sala d'ingresso dell'appartamento
padronale non bastavano a contenere la gente venuta ad assistere al
trasporto di Clara Moncalvo. A dire il vero, quelli ch'eran venuti
per lei, semplice, buona, modesta, eran pochini, semplici anch'essi e
modesti com'ella era stata, e si cercavano a vicenda, e si scambiavano
una parola e una stretta di mano, sforzandosi inutilmente di riunirsi
in un angolo, di sfuggire alla folla gonfia e pettoruta che li
spingeva, li sballottava di qua e di là nella smania di farsi vedere,
di giungere a uno dei tavolini ove su appositi fogli listati di nero
ciascuno scriveva la propria firma indicando, s'era il caso, l'istituto
o il sodalizio che rappresentava. Più indiscreti, più inframmettenti
di tutti, quattro o cinque cronisti di giornali cacciavano il naso in
ogni parte, interrogavano questo e quello, prendevano le loro note
come ad un ballo o a una seduta parlamentare. — Un funeralone, un
funeralone! — dicevano. Ed era infatti un funeralone che raccoglieva
insieme le classi più disparate della società romana. C'era il cospicuo
personaggio del Ministero degli esteri, c'era il segretario Cherasco,
un paio di senatori e un pizzico di deputati; c'erano, s'intende, i
pezzi grossi dell'alta finanza, presidenti e amministratori d'Istituti
bancari, seccati in fondo d'essersi dovuti scomodare senza il
confortino di una medaglia di presenza, ma dissimulando la noja sotto
la correzione irreprensibile delle forme. Ed essi, turba cosmopolita
superiore ai dissensi religiosi e politici, servivano di cuscino fra
i gruppi eterogenei che si guardavano in cagnesco: da una parte molte
delle conoscenze che i Moncalvo, per mezzo di monsignor de Luchi e del
conte Ugolini-Ruschi, avevano fatto nell'aristocrazia nera; dall'altra
gli ortodossi della comunità israelitica, che, come uccelli di preda,
s'erano abbattuti sul commendatore Gabrio al momento del suo arrivo a
Roma e che oggi parevano essersi data la posta in questa casa di dove
si voleva scacciarli. Oggi ancora vi entravano per virtù della morte,
vi entravano coi loro emblemi e coi loro riti, affermavano ancora una
volta la vitalità indomabile del loro Iddio e della loro stirpe.
Il cavaliere Fanoli e il pittore Brulati, intimi della famiglia,
ricevevano le condoglianze e ringraziavano in nome del commendatore,
che avrebbe voluto stringer la mano a tutti quanti, ma che doveva
risparmiar le sue forze per l'accompagnamento della salma fino al
cimitero.
— E come sta il commendatore? E la signora? E la signorina? — si
domandava a gara, fingendo una gran sollecitudine.
— Ma! Possono immaginarsi.... dopo lo strapazzo di questi giorni....
Non che la povera signora Clara godesse di una buona salute....
Tutt'altro.... Ma forse appunto per questo si era avvezzi alle sue
indisposizioni e nessuno s'aspettava una catastrofe così repentina.
Un giovane bianco come uno spettro fece una rapida apparizione sulla
soglia d'una delle stanze che davano sulla sala.
— Chi è? Chi è? — chiesero quelli che non lo conoscevano, ed erano i
più.
— È il nipote del commendatore, — risposero i bene informati. — È
figlio del professore all'Università.
Qualcheduno cascò dalle nuvole.
— Il commendatore ha un fratello?
— Sicuro, un fratello ch'era già a Roma un bel pezzo prima di lui.
— Non lo si sente mai nominare.
— E pure è un brav'uomo.... membro dell'Accademia dei Lincei, eccetera,
eccetera.... Vive molto a sè.
— Dev'essere un orso addirittura.... E quel figliuolo?
— Quello ha vissuto alcuni anni in Germania.... Da un paio di mesi è
assistente di Salvieni.
— Anche lui nella carriera dell'insegnamento.... Mangierà di magro.
— Ha l'aria di aver mangiato di magro sempre.... e di non aver vita
lunga.
— Infatti pare appena uscito di malattia.... Ma il padre dov'è?
— Sarà col resto della famiglia.... Lo vedremo or ora dietro la bara.
— Ed è vero poi, — domandò uno in gran segretezza, — che a giorni
scoppierà la bomba del matrimonio e della conversione?...
— Ma! — rispose colui al quale l'interrogazione era rivolta. E
strizzando l'occhio mostrò poco lontano il conte Ugolini-Ruschi. —
Bisognerebbe chiederlo a quello lì.
— O al pittore Brulati....
— No, no, il conte la sa certo più lunga.
Qualche parolina detta a mezza voce e raccolta con avidità provocò dei
sorrisetti maliziosi, dei colpetti di tosse, dei raschiamenti di gola.
— Via, saranno calunnie, — ammonì un benevolo.
E un impaziente guardò l'orologio.
— L'invito era per le nove e mezzo. E son le nove e tre quarti. Un po'
di puntualità ci vorrebbe.... I preti di tutte le religioni fanno i
loro comodi.
— Ma i rabbini sono già venuti.
— Sì.
— No.
— Sono venuti, non c'è dubbio.... Zitto.
Si spalancò una porta.... La folla ondeggiò.... Una luce fioca di ceri,
un borbottio di preci in una lingua incomprensibile.... il feretro
coperto da un drappo nero passava.... Tre o quattro si levarono il
cappello....
— No, tenerlo bisogna.
— Come?
— Ma sì.... Non hanno mai assistito a funerali israelitici?
— Ecco il commendatore.
— E quello è il fratello.... a braccio del figliuolo.
— Ah, quello lì!... È più vecchio....
— Credo.
— Non somiglia.
— Poco.... Però c'è il tipo.
Fanoli e Brulati si sbracciavano per regolare l'uscita.
— Un momento, un momento. Lascino andare avanti le signore.
Erano una ventina, tra le quali la miliardaria miss May, che s'era
decisa a venire e aveva ordinato al meccanico di andarla ad aspettare
con l'automobile davanti alla gradinata dell'Esposizione. Sua zia,
indisposta, era rimasta a casa.
— Ora, — disse Fanoli, — favoriscano di passare quelli che devono
reggere i cordoni.
Veramente, trattandosi d'una donna, quest'ufficio sarebbe toccato alle
signore, ma il commendatore Gabrio aveva preferito di vedere intorno
alla bara di sua sorella i _gros bonnets_ della finanza.
Ora i chiamati a nome da Fanoli, tutti commendatori, lavorando di
gomiti, ansando e sbuffando, si aprirono faticosamente la via. Le
lucide tube, le pelliccie di lontra e di martora, gli spilli di
brillanti alla cravatta, le ricche catene dell'orologio davano a questi
ragguardevoli personaggi una cert'aria di famiglia.
— Se si sfracellassero, che frittata di milioni! — sussurrò il cronista
della _Tribuna_ all'orecchio d'un compagno.
A malgrado di tutti gli sforzi, alla svolta dello scalone, sul
pianerottolo, ci fu un intoppo. Non si andava nè innanzi, nè indietro.
E intanto salivano su dall'androne gravi, lente, nasali, le preghiere
nella lingua sconosciuta. Erano le stesse cantilene che avevano
risonato per le vie di Sionne e lungo i fiumi di Babilonia, le stesse
che negli esilii dolorosi avevano confortato i lutti delle famiglie
raminghe. Non c'era angolo del mondo ov'esse non avessero portato
un'eco dell'Oriente lontano; s'erano confuse al fremito di tutti
i mari, all'urlo di tutti i venti; avevano invocato pace ai morti
d'Israele in tutti i cimiteri dispersi da Varsavia a Parigi, da
Francoforte a Siviglia, da Venezia ad Amsterdam, da Londra a Nuova
York, da Calcutta a Lisbona. Tramandate di generazione in generazione,
di secolo in secolo, avevano conservato come aromi preziosi la fede,
la speranza, le illusioni di un popolo, tanto più sicuro di risorgere
quanto più al fondo precipitava. Oggi la funebre nenia non suscitava
nè commozioni, nè affetti; le note strascicate, gutturali si alzavano,
ricadevano come zampilli d'una fonte a cui nessuno più si disseta.
«La grazia dell'Eterno sia su di noi», — cantava l'officiante nella
lingua ignota. — «Il premio delle nostre opere, deh, tu ci prepara, e
le opere stesse disponi in guisa che meritar lo possiamo.
«Chi dimora nel nascondimento dell'Altissimo alberga all'ombra
dell'Onnipossente. Io dirò al Signore: Tu se' il mio ricetto e la mia
fortezza: in te, mio Dio, sicuro confido».
Le preghiere cessarono.
— Avanti! — gridavano quelli ch'erano al sommo della scala.
E dal basso si rispondeva:
— Or ora. Un po' di pazienza.
— Avanti!... Si soffoca, — insistevano i primi.
Così dall'alto al basso si scambiavano parole iraconde, esclamazioni
crucciose, finchè, quando Dio volle, si fece un po' di largo
nell'androne, e la massa umana, stretta, schiacciata fra le pareti
della scala, potè rimettersi in movimento e unirsi al corteo già
incamminato. Il carro funebre di prima classe che portava il feretro
era innanzi un buon tratto quando gli ultimi uscivano dal palazzo.
Sulle faccie congestionate brillava la gioia ineffabile della
liberazione; il sole irrompendo trionfale dopo la notte e la mattinata
piovosa spazzava via, insieme con le nuvole, le immagini di morte;
il funerale diventava spettacolo a se stesso. Deposta la maschera di
dolore che molti avevano creduto necessario di accomodarsi sul viso
durante la prima parte della cerimonia, gl'intervenuti, specie quelli
ch'eran più lontani dal carro, chiacchieravano allegramente fra loro,
occhieggiavano le ragazze, si pavoneggiavano sotto gli sguardi curiosi
dei passeggeri dei tram elettrici, costretti ad arrestarsi o almeno a
rallentare la loro corsa.
Tra gli uomini d'affari la conversazione prendeva un carattere tecnico.
— Queste Borse sempre di buon umore, eh!
— Sicuro, anche iersera Parigi dava un mezzo punto d'aumento sulla
Rendita.
— E a Genova, le Terni, avete visto?
— Oh, cresceranno ancora.... Se poi si fa il _trust_.... — disse il
barone Bernheim lisciando con la manica la immancabile tuba bianca che
aveva il pelo arricciato come quello d'un gatto spaurito.
— I _concimi_ hanno un grande avvenire, — sentenziò un agente di
cambio. E annunziò la prossima formazione d'una nuova Società di
concimi chimici con dieci milioni di capitale.
Ma già parecchi sgattajolavano a destra e a sinistra, persuasi
d'avere ormai sacrificato abbastanza del loro tempo alle convenienze
sociali. Così, per esempio, miss May, giunta a piedi del Palazzo
dell'Esposizione, piantò in asso con americana disinvoltura il gruppo
delle signore, salì in un batter d'occhio la gradinata, e rivolta sulla
folla la macchinetta fotografica che aveva tenuta ad armacollo sotto
la pelliccia di lontra, tentò di fermare in un'istantanea la scena
pittoresca che le si svolgeva dinanzi. Poi scese tranquillamente ed
entrò nell'automobile che l'attendeva.
Tuttavia le diserzioni non impedirono al corteo di arrivar numeroso
fino a piazza delle Terme. Più in là non si spinsero che quelli
di famiglia, il cavalier Fanoli, il pittore Brulati, il conte
Ugolini-Ruschi, il direttore della _Banca Internazionale_, due
professori d'Università intimi di Giacomo Moncalvo, il giovine e
timidissimo dottor Flacci, assistente di questo, e pochi altri.
Sotto l'impressione dell'aria frizzante e del sole il commendator
Gabrio andava via via rinfrancandosi, e col direttore della Banca e
con Fanoli discuteva d'affari, criticava il Governo e il Parlamento,
schiavi delle vecchie formule, incapaci di secondare il mirabile
risveglio economico della nazione. Bisognava assolutamente cambiar
tutto, con nuovi uomini, con nuovi programmi.
Giacomo Moncalvo aveva lasciato il fratello per avvicinarsi a Giorgio,
di cui lo impensieriva il pallore mortale, e, più del pallore, il
silenzio cupo e la tristezza profonda.
— Ho vegliato la notte.... Sono stanco, — aveva detto Giorgio a sua
giustificazione.
— Lo so.... Invece di riposarti sei uscito.... non sei rincasato che
questa mattina.... Una pazzia. Ragione di più perchè tu ti riposi
adesso. Non occorre che tu venga al cimitero.
Ma a tutte le sollecitazioni Giorgio aveva opposto un rifiuto secco,
deciso, solo consentendo ad appoggiarsi al braccio del padre.
E il professore Giacomo sentiva lo sforzo che egli faceva per non
gravarlo di tutto il suo peso, per reggersi sulle gambe che gli si
piegavano.
— Ma tu non istai bene.... Non puoi venire fino a Campo Verano.... Vuoi
che torniamo indietro insieme?... O vuoi entrare in una delle carrozze
che ci seguono al passo?
— No, no, è meglio ch'io cammini.... Te ne prego, babbo, non
insistere.... Torneremo in carrozza insieme, dopo il funerale.... Andrò
a casa, mi metterò a letto.... dopo che avrò visto scender sotterra la
zia, che mi voleva tanto bene.
Sì, tanto bene ell'aveva voluto al nipote, e Giorgio pure l'aveva avuta
cara; ma Giacomo Moncalvo, benchè ignorasse la strana avventura di
quella notte, sentiva che suo figlio non diceva il vero, ch'egli non
era in quello stato unicamente per la passione di aver perduta la zia.
La Clara, la buona Clara, non poteva lasciar dietro di sè che un soave
ricordo; era un'altra che gli turbava la pace, un'altra, rigogliosa di
salute e di vita, che gli stillava il veleno nel sangue.
Giorgio taceva, schivando l'inquieto sguardo paterno, tenendo gli occhi
bassi, assorto nella sua visione di dolore e di voluttà, premendosi di
quando in quando col fazzoletto la bocca su cui ardeva ancora la fiamma
dell'ultimo bacio.
Il corteo, assottigliato, si avvicinava alla meta. Dopo la via di Porta
San Lorenzo, seguendo la via Tiburtina fiancheggiata da officine di
scalpellini, da botteghe di fiorai.... e da osterie consolatrici dei
superstiti, lasciandosi a destra la chiesa di San Lorenzo, varcata la
porta d'ingresso del riparto israelitico, esso procedeva per una via
chiusa fra due muri, verso una cancellata aperta proprio dirimpetto
alla cappella mortuaria.
Mentre il feretro era tolto dal carro, l'officiante intonava nuovamente
le preci funebri.
«Lodato sia il Signore Dio nostro, Re dell'Universo, che ci ha creati
nella sua giustizia, che ci ha nutriti e conservati per atto di
giustizia, e che nella sua giustizia ci ha fatti morire. Egli conosce
il numero di tutti coloro che dormono in questa polvere, e ci farà
tutti risorgere un giorno per atto di sua giustizia. Sii tu benedetto,
o Signore, che risusciti i morti».
E continuava nella cappella mortuaria:
«Dell'Onnipossente sono perfette le opere; egli è giusto in tutte le
sue vie. Gli atti suoi sono tutti amore e verità, nè in essi puossi
suppor difetto. Chi oserebbe chiedergli: Che fai?
«Egli governa l'Universo; a volontà sua fa vivere, fa morire, fa
scendere il corpo nella tomba, ma presso di sè richiama l'anima
immortale».
Nella fretta di finire, il rabbino biascicava sommessamente altre
preghiere. Ma da un angolo della cappella si levò una bella voce di
basso profondo:
«Perdona, o Signore, ai peccati della nostra sorella il cui cadavere
caliamo nel sepolcro».
Tutti si voltarono dalla parte di dove la bella voce veniva, tutti
sentirono vibrare in essa, che pur parlava un idioma sconosciuto, un
accento insolito di convinzione e di fede.
L'officiante, sconcertato un momento riprese:
«Usale misericordia in grazia dei meriti dei padri nostri....»
E l'altro, quello che nessuno si ricordava di aver visto nel corteo,
attaccò il versetto seguente:
«Riposi il suo corpo in pace e l'anima sua voli al cielo a godere della
felicità eterna. Amen!»
Di labbro in labbro corse la dimanda:
— Chi è?
— È un tedesco, il dottor Löwe, — rispose qualcheduno che nella figura
esotica, caratteristica, aveva ravvisato il fervente apostolo del
Sionismo.
E il dottore, nell'uscir dalla camera mortuaria, si accostò a Gabrio
Moncalvo per dirgli ch'era giunto quella mattina stessa dalla Polonia,
che in treno aveva letto la triste notizia e appresa l'ora dei
funerali, e che per non perder tempo s'era fatto portare subito al
cimitero.
Rimosse le ghirlande, rimosso il drappo nero listato d'argento, il
feretro è deposto sopra un carretto tirato a mano fino al posto della
sepoltura, fino ai piedi d'un colombario vuoto che aspetta.
In lugubre silenzio la gente assiste all'ultima parte della cerimonia.
Già la bocca spalancata ha divorato la sua preda, già i muratori sono
intenti a chiudere il vano coi mattoni e la malta. Suonano le ultime
preci:
«Il pietoso Iddio perdoni il peccato e non distrugga il peccatore; usi
tutta la maggior clemenza per reprimere la sua collera.... La terra
ritorni alla terra, com'era in origine, e lo spirito ritorni a Dio che
lo diede».
Gabrio Moncalvo disse al fratello:
— La collocano lì provvisoriamente.... Ho intenzione di farle erigere
un monumentino.
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