I Moncalvo - 03

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questo periodo: «Poco importa che una cellula nasca per scissione,
germinazione, endogènesi o gènesi».
— Sono un bell'imbecille! — egli esclamò scattando dalla seggiola e
dando sulla tavola un pugno che fece oscillare la fiamma della lampada.
— Sono un bell'imbecille! Colmerò l'abisso che mi divide da mia cugina
con le mie dissertazioni sulla _gènesi e l'endogènesi_!
E dopo aver girato alquanto su e giù per la camera, si rimise a sedere
con la persuasione di aver, per quella notte almeno, snidato dalla
sua mente la Mariannina. E seguitò a scrivere: «In fondo, il contenuto
d'un elemento anatomico vivente non differisce in modo essenziale dal
blastòma che lo circonda; qua e là vi sono sostanze organizzate, in
seno alle quali si effettua l'incessante movimento molecolare».
— Bravo! — sibilò una voce beffarda accanto a Moncalvo.
E l'immagine scacciata della Mariannina tornava, petulante e
provocante, a turbarlo, e la voce beffarda ripigliava con freddo
cinismo: — Non isperare di liberarti di me.... Quando mi credi morta
nella tua memoria, risorgo. Sono un tossico ch'è penetrato nelle tue
vene e non ne uscirà che con tutto il tuo sangue.... Sono un'immagine
che si è fermata nella tua pupilla e che può impallidire talvolta,
scancellarsi mai.... Non sono io, no, la scialba e linfatica Frida
Raucher, diafana e bianca come un raggio di luna; le mie labbra
bruciano, i miei occhi hanno vampe di sole; sono l'eterno femminino che
tu credevi fulminare col tuo disprezzo. Sono l'eterno femminino e mi
vendico.... Non sono qui per amarti, ma per tormentarti....
Giorgio Moncalvo si riprovò a scrivere, ma per quella notte non riuscì
più a mettere insieme due righe. Allorchè si decise ad andare a letto
erano quasi le cinque.
Anche in Palazzo Gandi c'era qualcuno che non dormiva. Era la
Mariannina. Ma non la teneva desta il pensiero di Giorgio Moncalvo.
Certo ella doveva riconoscere che il giovine scienziato era molto più
_interessante_ dei bellimbusti che le facevano la corte; che non c'era,
per esempio, paragone possibile fra lui e il deputato della maggioranza
e il segretario del Ministero degl'interni che, pur dianzi, l'avevano
assediata con le loro galanterie.... Ma se quest'era un'eccellente
ragione per desiderare la compagnia del cugino, non era una ragione
altrettanto buona per correr dietro alle ombre e ordir la tela di un
romanzo da collegiale. La mal celata inquietudine della Mariannina
aveva una causa affatto diversa. Bench'ella avesse accolto con simulata
freddezza la comunicazione di sua madre circa alla possibilità di
visitare il palazzo e il giardino Oroboni, quella notizia l'era giunta
singolarmente gradita. Entrare nel geloso recinto le pareva una prima
vittoria, preludio forse di vittorie maggiori.
Quante volte, dacch'ell'era a Roma, ell'aveva fissato curiosamente,
insistentemente il muro massiccio che sorgeva dirimpetto alla
sua abitazione, dall'altra parte della via rumorosa, e continuava
ininterrotto lungo due viuzze laterali mal selciate e deserte! Sulla
fronte di quel muro, di là dal quale spuntava, ondoleggiando al vento,
la cima di qualche pino e di qualche pioppo, non c'erano aperture di
sorta; o, a meglio dire, un gran portone preesistente era stato chiuso
e sbarrato con solide spranghe di ferro. Solo da una piccola torre,
che, a uno degli angoli, di poco superava l'altezza della muraglia,
alcune finestrette difese da persiane di legno guardavano sulla
strada. Una fortezza o un convento, ecco l'impressione ricevuta da chi
costeggiava il recinto inospitale, di cui bisognava cercar l'ingresso
in fondo a una delle vie laterali.
Però la Mariannina Moncalvo, da una delle sue camere al secondo piano,
era riuscita a penetrare con l'occhio nel misterioso soggiorno. E
intanto ell'aveva notato che quello che sembrava un semplice muro era,
sul davanti almeno, una terrazza lunga e stretta ov'erano allineati dei
vasi di limoni. Certo una scala interna metteva alla terrazza ch'era
in comunicazione con la torre. Del giardino sottoposto, naturalmente la
Mariannina non vedeva che una parte, abbastanza però da indurne ch'esso
doveva esser molto ampio, ricco d'acque, d'ombre e di fiori. Non grande
sembrava al paragone la palazzina del Seicento che, alquanto diroccata,
lasciava trasparir fra le piante la sua facciata grigia e la sua
cornice sporgente.
Della nobilissima e antica famiglia dimorante colà la Mariannina aveva
chiesto e avuto notizie prima ancora che le bazzicassero in casa il
conte Ugolini Ruschi e monsignore de Luchi, i quali, come ascritti
all'aristocrazia nera e legati agli Oroboni dai vincoli di parte,
avevano cercato di mettere in miglior luce quei campioni purissimi
dell'intransigenza romana. Restavan vere nondimeno, in linea di fatto,
le informazioni originarie raccolte dalla Mariannina Moncalvo. La
famiglia era ridotta a due sole persone, la principessa Olimpia e
il figliuolo di lei, don Cesarino. Il principe Ottavio, rispettivo
suocero e nonno, morto nel 1885, dopo il 20 settembre 1870, in segno di
protesta contro il nuovo ordine di cose, non era più uscito di casa sua
se non in carrozza chiusa per andare al Vaticano, e per isolarsi meglio
dal mondo empio e corrotto aveva speso un'infinità di quattrini nella
costruzione del muro di cinta. Il figlio e successore principe Gregorio
aveva seguito l'esempio del padre, ajutato in ciò da un'artrite che
gli rendeva penoso e difficile il muoversi.... tranne che per l'ultimo
viaggio da lui intrapreso nel 1890. Don Cesarino, rimasto orfano a
quindici anni con un patrimonio dissestato e una salute più dissestata
del patrimonio, e con la sola compagnia della madre malaticcia e
bigotta, non aveva sentito alcun bisogno di mutar tenore di vita e
vegetava, nel suo palazzo e nel suo giardino, trattando pochissima
gente, anche della sua parte politica.
La Mariannina lo vedeva girar pei sentieri, perdersi nei viali,
chinarsi sull'aiole, or solo, ora a braccio della madre. Una volta
ella vide più da vicino tanto lui quanto la principessa Olimpia,
sulla terrazza insieme con un prete, quel monsignore de Luchi ch'ella
doveva conoscere di lì a poco. E si rammentava che il prete pareva
più giovine, oltre che della principessa, di don Cesarino. I due
procedevano lenti e silenziosi con l'aria di persone che si fossero
stancate a salir sino lassù e alle quali dessero noia i rumori
esterni. Il sacerdote, che li precedeva di qualche passo, si voltava
ogni momento, parlava, gestiva come incitandoli a fare uno sforzo e a
vincere la loro ritrosia. Ed egli compì il miracolo d'indurli a entrar
nella torre, ad affacciarsi a uno dei finestrini di cui egli si era
affrettato ad alzar le persiane. Là Mariannina ebbe l'impressione di
aver dinanzi a sè due vecchi ritratti: la principessa magra, cerea,
con gli occhi grigi ed immobili, coi capelli brizzolati aderenti alle
tempie, con una baverina bianca insaldata che ricascava sulle spalle
e acquistava maggior risalto dal vestito di seta nera; don Cesarino
alto, esile, pallido, senza un pelo di barba, lo sguardo incerto, le
labbra esangui, la testa piegata un po' sulle spalle, e pure con una
certa innata distinzione nell'aspetto, con quell'impronta di razza
che in certe famiglie si conserva fino nell'estrema degenerazione.
Ora dietro la principessa, ora dietro il figliuolo faceva capolino la
fisonomia gioviale di monsignor de Luchi, bianco, roseo, paffutello,
con la guardatura maliziosa di chi la sa lunga, oltre che per merito
del proprio ministero, anche per diretta esperienza. E la Mariannina
rammentava benissimo che quel giorno monsignore aveva richiamato sopra
di lei l'attenzione di don Cesarino. In fatti, dopo due paroline
susurrategli nell'orecchio dal prete, il giovine aveva rivolto gli
occhi verso la finestra al cui davanzale ell'era appoggiata e s'era
messo a fissarla ostinatamente, mentre un lieve incarnato gli si
diffondeva sulle guance smorte. Ella pure aveva arrossito, combattuta
fra il desiderio di sottrarsi a una curiosità indiscreta e la
compiacenza di non passare inosservata ad un principe romano. Proprio
in quel punto, la Mariannina ne aveva fresca la memoria come di ieri,
passò per la strada, in un'elegante _vittoria_ diretta al Quirinale,
la regina Elena insieme con la bella principessa Jolanda. La gente
si scopriva in atto rispettoso; la Sovrana chinava il capo con un
sorriso benevolo. Ma la principessa Oroboni si tirò indietro con un
moto brusco, e lo stesso fecero, benchè con minore prontezza, don
Cesarino e monsignor de Luchi. Quest'ultimo s'indugiò un minuto di più
per richiuder le imposte. Indi tutti e tre riapparvero sulla terrazza;
la principessa camminava con passo più spedito a braccio del figlio;
monsignore parlava e gestiva come prima.
Dopo d'allora la Mariannina non aveva rivisto il giovane principe
e la madre di lui se non di lontano, tra l'aiole e i viali del
giardino. Invece aveva conosciuto monsignor de Luchi, portato in casa
del conte Ugolini Ruschi. E monsignore, amabile, disinvolto, s'era
subito accattivato le grazie della famiglia: aveva accettato un paio
d'inviti a colazione ed a pranzo, aveva spillato varie centinaia di
lire alle donne per un Ospedale di bambini, per un Asilo notturno,
per un Ricovero di fanciulle pericolanti, compensandole con l'invio
di biglietti per le funzioni di San Pietro e con la promessa di farle
entrare fra le patronesse di qualche opera pia aristocratica.
— Che leggerezza è la nostra! — diceva la signora Rachele. — A dar
retta a mio cognato Giacomo, i preti cattolici sarebbero intolleranti,
fanatici, imbevuti di pregiudizi.... Invece, sfido a trovare una
persona di umore più conciliativo di monsignor de Luchi.... Mai una
allusione sconveniente, mai una parola ironica....
E la Mariannina ripeteva spesso tra lo scherzoso ed il serio:
— Quel pretino è la mia passione.
Adesso, per mezzo del pretino, ella stava per varcare la soglia vietata
di casa Oroboni, e un giorno, chi sa, lo stesso monsignore l'avrebbe
forse presentata a donna Olimpia e a don Cesarino.
Faceva caldo e la Mariannina, che aveva già principiato a svestirsi,
aprì la finestra. Eran cessate le corse dei tram, i negozi eran chiusi,
metà delle lampade elettriche erano spente, per la strada non passava
che qualche omnibus d'albergo e qualche _fiacre_; una donna seduta
alla cantonata offriva con voce monotona ai pochi pedoni la _Tribuna_
e il _Giornale d'Italia_. Di fronte, il muro degli Oroboni pareva più
bruno, più alto, più inospitale che mai; di là dal muro, il giardino
si stendeva simile a un mare tenebroso. Qualche soffio d'aria agitava
le masse delle piante e ne strappava gemiti e fragranze. A un tratto
l'occhio della Mariannina si fermò sopra un punto luminoso che brillava
dietro le persiane d'una delle finestre della torre. Possibile che
ci fosse qualcuno? La ragazza pensò che quella finestra era circa
all'altezza della sua, e che com'ella, se le persiane non fossero state
abbassate, avrebbe potuto benissimo veder chi fosse lì dentro, così
di là si poteva veder lei, e un subito pudore la colse, una subita
vergogna d'esser sorpresa da uno sguardo indiscreto, mezza discinta,
coi capelli giù per le spalle. Chiuse in fretta i vetri, tirò le tende,
finì di spogliarsi e si cacciò sotto le coperte. Ma non riusciva a
dormire, e scese due volte dal letto, e senz'accendere il lume si
accostò alla finestra, sollevò un lembo della cortina, aguzzò l'occhio
verso la torre, verso il punto che prima era illuminato. Tutto era
buio; certo nella torre non v'era più anima viva. Ma chi poteva esservi
prima? Un domestico venuto a prender qualche oggetto dimenticato? O
la principessa, o don Cesarino? Strano in verità ch'essi venissero
nella notte in quel luogo ove di giorno non venivano mai. Ma tutto era
strano negli Oroboni, ed era appunto questa stranezza ch'esercitava
una speciale attrattiva sulla Mariannina Moncalvo. Le pareva che
dovess'esservi una soddisfazione straordinaria a essere ammessi in
quel _sancta sanctorum_, ad appartenere a quel cenacolo di eletti....
Al Quirinale ci andavano tutti; anch'ella era stata presentata alla
Regina, era stata invitata ai balli di Corte: e vi si era trovata con
persone della piccola borghesia, con mogli e figliuoli dì avvocati,
di medici.... Al Vaticano era su per giù la medesima cosa, e il Papa
riceveva migliaia e migliaia di persone d'ogni razza, d'ogni ordine
sociale, benedicendo a destra e a sinistra il gregge umano che gli si
prosternava ai piedi.... Invece le case come quella degli Oroboni erano
chiuse a due catenacci, e proprio per questo sarebbe stato un gran
trionfo il penetrarvi....
Nella notte insonne, la Mariannina, stesa sul letto, con le mani
intrecciate dietro la nuca, seguitava a fantasticare. Le tornavano
alla mente certe proposte di matrimonio ch'ella, d'accordo coi suoi,
aveva respinte. In Cairo, fin da un paio di anni addietro, due baroni
della finanza, d'origine semitica; a Roma, appena giunta, un tenente
di vascello e un ufficiale di cavalleria, tutti e due con la loro brava
corona di conte, ma con pochi quattrini.
— Per i quattrini meno male, — aveva detto la signora Rachele. — Ma se
si deve rinunciarvi, ci vuole un principe.
Un pensiero bizzarro fece sorridere la Mariannina.
— Eccolo il principe!... don Cesarino!
E per un istante ella si vide a fianco di quel giovine che non aveva
mai conosciuto la giovinezza, si vide nuora di quella donna che passava
la sua giornata a biascicare orazioni e a protestare contro la breccia
di Porta Pia.
Bisogna convenire che sarebbe stato uno degli spettacoli più singolari
di questi tempi così ricchi di sorprese.
— Bah! — concluse la Mariannina. — Ho almeno un milione di dote; sono
figlia unica e avrò più tardi un patrimonio immenso.... Il principe non
mi può mancare.... Se non sarà lui, sarà un altro.
E si voltò sul fianco per cercare d'addormentarsi. Era l'alba.


IV.
Una mattina bene occupata.

Il commendatore Gabrio Moncalvo aveva l'abitudine di alzarsi per tempo,
ma quella mattina (era una grigia mattina di novembre) egli si alzò
assai più presto del solito, e per la scaletta interna scese nel suo
studio ch'era composto di un'anticamera e di tre stanze modestamente
arredate. Nell'anticamera soleva esserci un fattorino, pronto ad ogni
chiamata; la prima delle tre stanze, un po' buia, e spesso illuminata
a luce elettrica anche di pieno giorno, era occupata dal segretario
Fanoli; nella seconda, più allegra e spaziosa e che guardava nell'ampio
cortile, stava ordinariamente il commendatore; l'ultima, un salottino
piccolo e austero, si apriva soltanto per accogliere i visitatori di
maggior riguardo o quelli che avevano qualche cosa di molto importante
o di molto delicato da dire.
Il segretario Fanoli non veniva che verso le nove; quando il
commendatore entrò nello studio non c'era che il fattorino, intento a
spolverare i mobili.
— Il portone sarà ancora chiuso, — disse Moncalvo. — Va in portineria e
fa aprire. Aspetto qualcheduno.
Sedette alla sua scrivania ch'era collocata presso una finestra e si
accinse a correggere le bozze d'un articolo che doveva uscire nel
prossimo numero d'una rivista finanziaria. La luce era scarsa, ma
per fortuna gli occhi gli servivano bene ed egli non ebbe bisogno di
accender la lampada.
Di lì a poco il fattorino introdusse la persona aspettata, che
s'inchinò profondamente.
Il commendatore s'alzò in piedi e fece un cenno di saluto.
— Ah, lei.... Passiamo di là, se non le spiace.
Nel salottino riservato Moncalvo si sdraiò sopra una poltrona e additò
una sedia al suo visitatore.
— Ebbene, ha la lettera? — gli chiese.
Quegli al quale era rivolta questa domanda (un omino di mezza età,
dal vestito dimesso, dalla biancheria poco pulita) si affrettò a
rispondere:
— Naturalmente.
E tirò fuori di tasca un portafogli unto e frusto, da cui estrasse una
lettera ingiallita.
— Dia qui.
L'omino esitava, non vedendo comparire ancora le cinquecento lire
promesse.
— Non si fida? — ripigliò in tuono sarcastico Gabrio Moncalvo. — E
allora se ne vada.... se ne vada pure col suo prezioso documento.... Se
crede ch'io ci tenga tanto ad averlo!...
— Oh, signor commendatore, — protestò l'altro facendosi piccino
piccino, — come può immaginarsi una cosa simile?
Moncalvo prese con circospezione fra le due dita la lettera che
il losco personaggio gli offriva e si accostò alla finestra per
esaminarla.
Era proprio quella, era una lettera scritta sett'anni addietro
ad un giornalista amico di Zanardelli per ottener l'appoggio del
Governo nella lotta elettorale. Oltre a professarsi di sentimenti
liberalissimi, Moncalvo s'impegnava solennemente a votar la legge
sul divorzio, che, in quel tempo, il Ministero pareva deciso a far
trionfare a ogni costo.
— Lei era alla _Tribuna_? — domandò Moncalvo.
— Sissignore.
— E non c'è più.... da un pezzo?
— Da qualche anno.
— E da qualche anno questa lettera è nelle sue mani?
— Appunto.
— Come l'ha avuta?
— Sa.... in una redazione tante carte vanno disperse....
— L'ha rubata, via....
— Oh, commendatore....
— Non importa. Ricuperandola, io non faccio che esercitare un mio
diritto.
L'ex _reporter_ della _Tribuna_ sbarrò tanto d'occhi.
— Intendo un diritto morale, — soggiunse il commendatore con un
sorrisetto ironico. — Benchè, creda pure, se anche questa lettera
fosse pubblicata, io non ci perderei nulla. Chi è che non può cambiar
opinione in sett'anni? A ogni modo non ritiro la mia parola. Eccole le
cinquecento lire.... Apra, apra e verifichi....
E Gabrio Moncalvo consegnò al giornalista _in partibus_ una busta
contenente un biglietto della Banca d'Italia nuovo fiammante.
Con un inchino, più profondo di quello che aveva fatto entrando,
l'anonimo si accomiatò.
Il banchiere si fregò le mani.
— Quell'uomo non sa il suo mestiere. Poteva ricavar molto di più. Non
che una lettera di sett'anni fa significasse gran cosa, ma è sempre
meglio distruggerla.... Diamine! Un impegno formale di sostener la
legge sul divorzio.... Che avrebbero detto i miei amici.... d'oggi?
Mentre Moncalvo stava per uscire dal salottino con l'intenzione di
rimettersi alla correzione delle sue stampe, gli si ripresentò il
fattorino di studio con una carta da visita e una lettera, dategli
in quel momento da un signore forestiero che insisteva per essere
ricevuto.
Il commendatore, dopo aver gettato l'occhio sul biglietto
ch'evidentemente portava un nome ignoto per lui, aperse la lettera e
ne guardò la firma che doveva avere un'occulta virtù, perch'egli mosse
incontro allo sconosciuto gridando:
— Avanti, avanti!
Colui ch'era fornito di una così ragguardevole commendatizia era un
uomo di mezza età, di statura vantaggiosa, di tinta olivastra, con
barba e capelli folti e nerissimi, naso adunco, occhi profondi sotto
gli occhiali fissi. Vestiva una _redingote_ di panno nero chiusa d'alto
in basso, teneva nella sinistra il cappello a tuba ed i guanti.
Si fermò a pochi passi dal commendatore, e disse in tuono dubitativo,
in francese:
— Il signor commendatore Gabriele Moncalvo?
— Sono io, per l'appunto.
— Il dottore Löwe, — ripigliò l'altro, presentandosi da sè.
— La prego, si accomodi, — disse il commendatore introducendo il
forestiero nel salottino riservato e facendolo sedere sopra un divano.
Gli sedette dirimpetto e chiese: — Lei ha visto recentemente il barone?
— Tre giorni fa, a Francoforte.
— E sta bene?
— Così così.... Ha fatto anche quest'estate la cura di Carlsbad.
— Io non lo vedo da oltre un anno.... Siamo però sempre in
corrispondenza d'affari.
— Lo so. Il signor barone mi ha parlato di lei con molta deferenza,
come di persona che può aiutarmi assai efficacemente nella mia
propaganda in Italia.... Perchè suppongo ch'ella s'immagini lo scopo
della mia visita.
— No.... se devo esser sincero, — rispose Moncalvo fingendo di cascar
dalle nuvole, benchè avesse già una vaga idea di ciò che il dottore
voleva e cercasse una via intermedia tra l'aperta adesione ch'egli
reputava contraria a' suoi interessi e il deciso rifiuto che avrebbe
potuto dispiacere al magnifico barone di Francoforte.
— A ogni modo, — riprese il dottore sbottonandosi il vestito e
chiedendo licenza di depor sopra un tavolino un fascio di giornali e di
opuscoli, — a ogni modo, la questione non può esserle nuova, e ciò mi
permetterà di non farle perder troppo tempo.
Il banchiere s'inchinò cerimoniosamente.
— Non considero mai come tempo perduto quello che occuperò ad ascoltare
una persona che gode la fiducia del signor barone.
Dopo abbozzato un gesto di ringraziamento, il dottor Löwe entrò nel
cuore del soggetto.
La sua deposizione fu breve e chiara. Egli era uno dei capi del
movimento sionista e girava l'Europa per far proseliti alla sua idea
e assicurarne il trionfo con aiuti materiali e morali. Tedesco di
nascita, egli aveva vissuto a lungo in Galizia, in Russia, in Rumenia,
aveva visto coi propri occhi le persecuzioni a cui gli Ebrei sono fatti
segno, e s'era dovuto persuadere delle profonde radici che ha in quei
paesi l'antisemitismo, onde, quand'anche la legislazione mutasse e
fossero abolite le inabilità giuridiche che pesano sulla razza giudaica
e i Governi le diventassero altrettanto favorevoli quanto le sono ora
contrari, le cose resterebbero su per giù quelle di prima.... Unico
rimedio l'abbandono in massa delle terre inospitali e la formazione di
uno Stato ebreo nei luoghi ove sono le rovine del tempio, le tradizioni
bibliche, i ricordi delle glorie e dei lutti del popolo.
Il dottor Löwe parlava con accento caloroso e convinto, senza perdere
il dominio di sè, senza staccar gli occhi dal suo interlocutore,
ch'egli sentiva piuttosto ostile che indifferente. E qualche volta ne
precorreva le obbiezioni.
— Lo so, lo so.... Loro Ebrei dell'Occidente non si rendono conto
del vero stato delle cose.... Hanno conquistato tutti i diritti,
possono diventare magistrati, generali, ministri.... Ma non s'illudano
troppo.... L'antisemitismo, anzichè attenuarsi nei paesi che ne sono
più infetti, ricompare in quelli che n'erano immuni...; ove non è
palese, è latente.... In Francia fa progressi da gigante.... Anche in
Italia se ne vedono i segni.
Il dottore pareva compiacersi altamente di questa constatazione e
proseguiva imperterrito:
— Sarà una fortuna, perchè così la benda cadrà dagli occhi dei più
restii, e tutte le nostre mirabili facoltà saranno volte al trionfo
finale della razza.... Israele non ha compito la sua missione nel
mondo.... Lo so, lo so, — ripetè con enfasi l'apostolo credendo
di scorgere un risolino sul labbro di Gabrio Moncalvo; — loro sono
scettici circa ai destini del nostro popolo.... loro guardano alle
nazionalità con cui credono di potersi assimilare.... Mai, mai....
— E pure, — insinuò Moncalvo, — per mezzo dei matrimonii....
— Matrimonii misti! — esclamò il dottore. — Se una cristiana entra
nella nostra casa, e pur non abiurando la sua fede lascia che la
famiglia continui ad essere ebrea come prima, non c'è nulla da dire....
Ma se si tratta di fare una famiglia senza religione, o se si pattuisce
di battezzare i figliuoli, non può derivarne che sventura.... Creda,
signor commendatore, anche dal punto di vista dell'interesse materiale,
sono tutti calcoli sbagliati.... Nè il battesimo dei figliuoli, nè il
battesimo proprio basta a realizzar la fusione che loro sognano....
Attraverso tre o quattro generazioni si scoprirà il marchio della
razza, e il pregiudizio trionfante punirà gli apostati e i discendenti
degli apostati.
— Sta a vedere, — obbiettò il commendatore. — C'è più d'una
Rothschild che ha preso l'acquasanta. Ce n'è a Parigi, nel _Faubourg
Saint-Germain_; ce n'è a Londra: la moglie di Rosebery, per esempio....
La faccia del dottore si contrasse dolorosamente.
— Pur troppo.... È una delle grandi afflizioni del barone.... Ma pochi
che disertano non rompono la compagine d'un esercito. La gran famiglia
è sempre nostra.
A questo punto l'apostolo, che non era degenere dalla sua stirpe e
alla fantasia del visionario associava lo spirito positivo dell'uomo
pratico, pensò che doveva venire a una conclusione.
— Lasciamo le considerazioni generali, — egli disse, — e pel momento
contentiamoci di quel che si può.... La risurrezione del regno
d'Israello è un bel sogno che si avvererà col tempo.... Ora non si
tratta che di soccorrere i fratelli perseguitati ottenendo per essi un
lembo di terra ove possano vivere in pace e adorare il loro Iddio....
Se non sarà uno Stato, sarà una colonia; se non sarà in Palestina,
sarà altrove.... Io non appartengo agl'intransigenti.... Studieremo
le proposte che ci verranno fatte.... compresa quella dell'Uganda,
che sembra ci si voglia fare dall'Inghilterra. L'essenziale è di
procurare una sede stabile a quelli che non hanno patria.... ciò che
noi Tedeschi diciamo _eine Heimstätte für die Heimatlosen_.... E badi.
Usando il vocabolo _Heimstätte_ (sede, dimora) noi mettiamo da parte
il concetto politico.... In questi limiti le diffidenze non hanno più
ragion d'essere, e la nostra impresa non può non apparire altamente
filantropica e civile.
— Oh, senza dubbio, — principiò Moncalvo. Ma s'interruppe avendo udito
nella stanza attigua la voce squillante della Mariannina che parlava
col segretario, il quale doveva esser venuto da poco.
— Non è visibile?... Pazienza.... Lo avvertirà lei che....
— Mi perdoni, — disse il commendatore al dottor Löwe. — Vado a sentire
che cosa vuole mia figlia.... Torno subito subito....
— Prego, non faccia cerimonie....
La Mariannina, quando vide suo padre, lo baciò con effusione.
— Fanoli, — ella disse in tono scherzevole, — era risoluto a lasciarsi
uccidere piuttosto di concedermi il passaggio.
— C'è una consegna precisa, — spiegò il banchiere. — Nel salottino
nessuno entra se non chiamo io.
— Che misteri poi ci sono in quel salottino.... riservato ai soli
adulti.... come in certi casotti? — riprese la Mariannina, tentennando
la testa. — Però, se Fanoli aveva la consegna precisa ha fatto il suo
dovere, e lo propongo per una promozione....
Moncalvo guardò con orgoglio paterno la bella ragazza ch'era in
cappellino, pronta ad uscire.
— Pazzerella!... Mi dirai poi che cosa volevi.... Spìcciati.... Ho
qualcheduno di là....
— Volevo annunziarti, — replicò la Mariannina, — che vado in automobile
con Brulati e con la zia Clara e che non farò colazione a casa.
— E dove andate?
— A Mentana, a copiare un vecchio castello Borghese che, secondo
Brulati, è molto pittoresco.
— Non guidi mica tu l'automobile?
— Saprei guidare benissimo....
— Uhm!
— .... ma c'è lo _chauffeur_, Giovanni....
— Meno male.... È un uomo prudente.
— A proposito di automobili.... Quella nostra _Panhard_ di otto cavalli
che fa tutt'al più 30 a 35 chilometri all'ora è indegna di noi. La
_Mercedes_ di miss May ha 40 cavalli e può raggiungere una velocità di
90 chilometri.
— È proprio quello che non voglio io, — dichiarò il commendatore. —
Sono pazzie.... E poi io non ho i milioni di miss May....
— Almeno una _Fiat_ di 24 cavalli.... Non ti rovinerai per così poco.
— Basta, per adesso non compro nulla.... Ma dimmi piuttosto come sei
riuscita a persuadere la zia Clara.... coi suoi reumatismi? con le sue
paure?
— In quanto a paura, non ne ha che se guido io. E io le ho giurato
di non metter neanche la mano sul manubrio. In quanto ai reumatismi,
l'avvilupperemo negli scialli.... Ne portiamo tanti con noi.
— Perchè, bada, la giornata dev'essere freddina.
— Saremo ben coperti.... Ti ripeto che c'è un deposito di scialli in
automobile.... A più tardi....
La Mariannina gettò un bacio a suo padre, fece un saluto amichevole a
Fanoli, e infilò l'uscio.
— La posta la vedrò dopo, — disse Moncalvo al suo segretario. —
Ora sbrigo quel signore. — E aggiunse un gesto che gli risparmiava
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