Ugo: Scene del secolo X - 3

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l'usbergo che si smagliasse o una lancia fessa, o addirittura una
coltellata alle reni, quando mi vestiva il saio di pelle! Ma il
cavallo me l'avrebbe mutato con uno tristo! E invece questo pare nato
per le mie ginocchia! e l'armi saldissime! Chi ha pagato Unfrido? E
dov'è? Là proprio vicino al mio bianco e tiene la staffa al cavaliero.
Chi è quel cavaliero? Per Dio! quell'animale è tutto fuoco, e crede di
reggere il padrone! Chi è quel cavaliero?
Facendo il giro dello steccato, passai sotto al seggio di madonna, e
sa il cielo che cosa fantasticai: parvemi che una manina tremante mi
levasse l'elmo, sorretto da' miei polsi febbrili, e due labbra mi
baciassero sussultanti, acclamandomi già vittorioso: mi rizzai sugli
arcioni con grande orgoglio e fui lì lì per gridare:--O vergine,
voglio per te farmi degno di alto onore!--Dimenticai Unfrido e il
bianco mio... No, che non li dimenticai: me li sentii tosto fitti in
cuore ad atroce martirio e per opera tanto villana, che, ti dico, poco
stetti ch'io non balzassi giù ad adoperare sulle schiene la mia spada,
come si usa coi traditori. Senti: proprio sotto a quel palco due
garzoncelli parlavano assai clamorosamente, e volti colla facce
all'insù, perchè madonna ascoltasse.
Diceva uno:--Chi è lo sposo?
E l'altro:--Non lo sapete?
--Costui che passa, a lancia alzata?
--Oh sì! costui sa fare tanto d'andare ruzzoloni nella polvere, come
un mastino trattato a calci.
--Come? se vinse i due?
--In grazia di sortilegio.
--Dite vero?
--Vedrete la terza impresa se vorrà essere così scempia: la terza si
corre tra messere dal cavallo morello e quello là dal bianco.--
--Chi è quello?
--Evviva lo sposo!
Mi sentii le briglie tra mano e la lancia alla staffa, perchè suonò la
tromba. L'ignoto avversario mi venne incontro: alle punte opponemmo lo
scudo, ma nessuno colpì, per il che, scagliate le aste, diemmo mano
alle spade. Era combattimento di due valentissimi... Quando si levava
dalla moltitudine il grido di:--Viva lo sposo!--io l'ascoltavo con
tale tumulto di gioia e di spavento di non meritarmelo, che tempestavo
di braccia, come un fabbro sull'incude, e l'altro addoppiava la furia
verso di me. Maledizione! una volta intesi:--Viva lo sposo!--e fu
contrapposto, parmi, da due vociacce sotto il palco di madonna:--Viva
il cavallo bianco!--Che fossimo in due a meritarci quel grido? Io non
sapevo quale, ma certo si celava insidia! Per il che badavo nel tirare
le botte ad accompagnarle col nome di qualche santo. Figliuolo, potei
finire una litanìa e ancora incominciarla e ancora finirla: pure
nessuno di noi consentiva a cedere, e il giuoco cortese s'avviava ad
essere duello a tutto transito, con grandissima festa degli
spettatori.
A un tratto l'araldo squillò, come si usa quando si ingiunge di
cessare dall'armi. Nessuno di noi obbedì, tanto eravamo odiosi, e,
menando quegli ultimi colpi, procuravamo con potente ira che fossero i
mortali. Di nuovo la tromba suonò grave, e allora io, tra il dare un
fendente, lui tra il pararlo, ascoltammo queste parole:--Cavalieri,
per la cortesìa della dama.--E noi lasciammo andare le braccia
penzoloni: in quel momento di posa alla tempesta del corpo in me
successe quella dell'anima: il perchè io ruggivo domandandomi:--E chi
è questo dannato?--In lui, credo, succedesse altrettanto, perchè
ascoltai una bestemmia atrocissima verso Dio! Stemmo l'uno contro
l'altro, e, se non era l'araldo a porre il suo bastoncino tra noi, io
dico ci avremmo scambievolmente fatto contro qualunque tradimento.
Eravamo di posizione vicino al palancato di legno e vicinissimo al
palco di madonna. Si alzavano d'ogni intorno le grida: chi parteggiava
per il morello, chi per il bianco, chi per lo sposo, chi per
l'avversario, chi pel sinistro e chi pel dritto. Messer Eude non
poteva restare indifferente a tanta lotta di favori, egli già maestro
di cento feste d'armi e già vecchissimo guerriero in cento battaglie,
si levò... Non so che facesse, tra baroni, perchè io aveva impedita la
veduta dalle gocce di sudore, so che udii anche la sua voce:--Lo sposo
principiò colla offesa e finì colla offesa...--Madonna del cielo! Se
io avessi potuto vedere come si stava Guidinga! Sì, che vidi ad un
tratto, vidi che sventolava una ciarpa!
Pesti, ansanti, a fatica retti dai cavalli, prendemmo postura
riverente dinnanzi ai gradini della dama, ed ascoltammo l'araldo:
questi proclamò, un giudice, messer Eude.
Tra il silenzio Eude parlò:--Da valenti cavalieri. Il giuoco fu aperto
con gagliardìa, sostenuto con scienza, finito... No, messeri, finito
non può dirsi: pure io, re d'armi, dichiaro che sia finito, e ognuno
di voi faccia promessa di attenersi al mio detto. L'accanimento mi
piacque! Per il che io dichiaro qui che nessuno dei due combattenti
procedette per virtù occulta: ambidue invitati a comparire innanzi al
seggio della regina. A me è data facoltà di instituire i premi: lo
sposo avrà la ciarpa, il valoroso compagno un bacio di madonna. Così
si potrà dire che l'uno e l'altro avranno bene meritato.
Noi due avversari, scavalcati, ci demmo la mano, poi a paro venimmo
sotto al palco di Guidinga.
Ella mosse incontro al mio compagno: egli si levò l'elmo... Era
messere Adalberto!... Guidinga sorrise!
Eude mostrò grandissima sorpresa, e domandò:--Ma chi aveva cavallo,
bianco?
-Lo sposo mio!--affermò vivacemente la donzella, e di nuovo sorrise ad
Adalberto, come ad un arcangelo.
Eude mi tolse l'elmo...--Messere Oldrado!--esclamò, e volto a Guidinga
tristamente:--A lui il bacio: ad Oldrado la ciarpa--Ed io non so come
si tenesse in piedi:
--Chi aveva cavallo bianco?--domandò la fanciulla dolorosissima.
Adalberto ricevette il bacio... Era bellissimo il giovane: era
bellissima la giovinetta! Io, sposo, non potevo che piangere!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Qui il cavaliero narratore interruppe il racconto, tormentandosi gli
occhi perché non dessero lagrime; e la luna che entrava dal finestrone
fu riflessa da un guizzo; terribile, la spada di Oldrado negli artigli
di Ugo.
--Figliuolo, che fai?
--Vorrei fare quello che non faceste voi!--rampognò trucemente la voce
del figlio.
--Giudicherai se queste erano parole da dirsi ad un padre!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Adalberto aveva veduto una sola volta Guidinga, ad una caccia, nei
lontani monti di lei, quand'ella era a fianco di Eude: ma una sola
volta bastò per aizzare nell'anima maledetta una passione così rovente
e rodente di desideri, che il cavaliero ghignò di volerla un giorno
nelle sue braccia!
Inconscia di tutto, melanconica e gaia, inesplicabile e cupida sempre
di fantasie ultraterrene, Guidinga conosceva non l'amore, ma la
tremenda irrequietudine de' suoi sedici anni e delle sue sventure, e
questa la sospingeva nei voli del desiderio... Ella aveva veduto
Adalberto! Dal di della caccia fino a quello dell'armeggiamento era
scorso un anno senza più che l'uno si abbattesse nell'altra: nulla
ella sapeva di lui, neppure il nome: nè mai il padre parlò. Sapeva che
per lui, più notti, il cuore le si era scosso nei tumulti febbrili!
Poi si sentì spossata! Nei sogni l'immagine di Adalberto veniva, ma
coi mesi e coi mesi sempre più sfumata... Ed era vestito di bianco e
per lei sorrideva e piangeva (Adalberto!): ma non aveva profilo; le
linee si perdevano nell'espressione; era una gioia, un dolore
carissimo. E Guidinga sempre più diveniva ansiosa di fantasìe, e
spandeva l'anima sua nella immensità dei cieli, ponendo negli azzurri
l'ideale della vita poeticissima, e là sfavillava di tutte le luci il
suo desiderio, e là la gioia e il dolore avevano tanta voluttà di
dolcezza, quanto mistero l'infinito!... Svegliata dal suo delirio
abituale, nella vita di quaggiù più non trovava cose degne di lei,
provava la noia del cammino dopo lo slancio placidissimo del volo!
Svegliata, più non chiamava lo sposo! Quando il padre Eude le
disse:--Sposerai Oldrado-ella rispose:--Sì--perché certo pensava:--È
lui!...
--Ma se è lui... perché sciupare colla realtà l'ideale
affascinantissimo che io ho nell'orizzonte tutto mio? E se non è
lui... perché vivere, se questa è vita d'anni e quella sognata è
eterna e sempre inebbriata d'amore?--e disse all'ancella che più non
amava le armonie: la musica è divina e dell'anime blandite dalle
lusinghe dell'ignoto...
Richiamata alle scosse della esistenza giornaliera, la sua indole fece
sì ch'ella dinnanzi agli occhi portasse sempre un lembo di nebbia
iridescente, la nebbia dai vortici pieni di sogni, la quale, posandosi
sugli oggetti veduti o intraveduti, li rendeva circonfusi di luci
mitissime, li tuffava come nel crepuscolo dileguante di una visione.
Così l'ideale si sfumava col reale: e il volto del padre cavaliere
divenne buono e tutto per lei, la imagine della madre sepolta si
presentava alla culla, o quella dello sposo veniva, veniva, come nei
primi giorni... Che? il viso di messere Adalberto. Guidinga
domandava:--Dov'è lo sposo?--e poi sorrise.--Sarà per me: o _lui_, o
il monistero! E se nell'armeggiamento egli restasse vinto?--E tacque,
fidentissima, con Eude.
--Messer Adalberto sapeva di struggersi, non sapeva d'essere amato.
Per furore di gelosia giurò (perchè non voleva scoprirsi a lei se non
con atto tale che facesse parlare tutti i cavalieri) giurò di uccidere
me Oldrado e di vituperarmi, insomma in modo che ella fosse non mia,
come l'ebbi richiesta! E che non fosse nemmanco del monistero lascia
fare a lui! Era prontissimo ad ogni sacrilegio. Così si presentò al
giuoco, comperò il mio scudiere, per far credere lo sposo dal cavallo
bianco autore di tante prodezze, mentre poi alla fìne Oldrado doveva
esser trovato morto, e lui colmo di tutto l'onore! E Guidinga... Oh!
fu aiutato dalla fortuna più che non credesse: la decisione del re
d'armi lo ammise al bacio della dama! Si levò l'elmo..; O Signore!
Guidinga guardò il suo volto e il mio!... Guidinga bestemmiò a me
condannato il corpo di lei, ad Adalberto benedettamente dedicava tutta
l'anima!.. Ci sposammo, ma, se a vece della ciarpa a toccare il petto
dalla parte del cuore, a vece della corona di fiori d'arancio sul
capo, ella avesse dato a me tante stoccate, io a lei una corona di
spini, noi avremmo offerto a Dio la espiazione delle nostre peccata!
Guidinga da angiolo divenne, dimonio!
Dopo nove mesi ella portava sozzamente nelle viscere il beffardo
frutto dell'odiatissimo nostro connubio, e giurava e spergiurava che
perdere madre e figliuolo sarebbe stato opera meritoria. Io la facevo
di continuo guardare. Un giorno ella era presa da strazianti dolori;
io origliavo all'uscio attendendo... A un tratto di fuori al castello
odo un suono di trombe, poi un paggio mi strappa la veste,
gridando:--Messere! messere! i nemici!
--Chi è?
--Adalberto!
O Signore! nel castello so che eravamo male apparecchiati, scarsi
d'uomini e scarsissimi di vettovaglie. Che fare? Oh che tormento fu
quello! Resistere? Il sommo pericolo! Arrenderci? Il vitupero di mia
schiatta!... Guidinga udì quel nome, e nel delirio proruppe:--Adalberto!
tu vieni a togliermi da questo inferno!--Invocava il nimico, ed io
aspettavo da lei uscisse o un bambino un dì destinato ad ascoltare il
testamento del padre, o una bambina che avesse a dare ai figli col latte
il veleno dell'odio! Ringhiavano le trombe al di fuori. Io mi precipitai
dalle scale, ed ecco occorrermi il mio fedele Aimone.
--Messere, siamo perduti!
--Per Dio! ditemi! fate qualcosa!
E quegli dubitava:--Ricorrere alle armi...
--Ricorriamo al tradimento! E che fece egli con me? Per Dio!--e mi
accordai con lui, e conclusi:--Dammi un pugnale avvelenato, e tu a
tempo sbatti la porticina nel corritoio.
--Messere sì!
--Dammi un pugnale avvelenato: e lascia a me la cura di sgozzare
Adalberto!
In cima allo scalone ascoltai un grido così feroce che mi rivolsi e
temetti di avere alle terga il nominato: guardai e vidi madonna che,
nuda, oscenissima e sanguinante, si rotolava giù di gradino in
gradino... Accorsi, più che per odio a lei, per amore furioso della
creatura che si teneva in seno!... forse già schiacciata per le
violenti percosse! Accorsi e la avvinghiai, ed ella con affanno
straziantissimo, supplicandomi ed imprecandomi:--Messere, salvate
Adalberto! Non fate tradimento! Non fate, per pietà dei sette dolori
santissimi!
Ed io:--Datemi la mia creatura!
--Sì!
--Datemela!
--Salvatelo! Che vi ha fatto! V'ha fatto troppo! Ma era destino così!
Perdo le viscere!
--Datemi la mia creatura!
--Si, vi giuro! Giurate voi di non fare tradimento!
--Lasciatemi!
--Ho giurato! E voi siete così sleale! Voi siete cavaliero? Ah so! non
giurate perchè siete dannato nell'altra vita! Non credete in Dio!
--Madonna! vi giuro!
--Vieni, o mio Adalberto! Egli non ti uccide!--rincominciò ella nel
delirio, ed io balzai dalla scala!... No! ritornai, e la trasportai
nel suo letto, nel nostro talamo! E stetti al suo fianco, attendendo
l'istante... Oh quelle tre ore!... Nacque il bambino:--sei tu! Entrò
Adalberto nel castello, io gli prestai l'omaggio nella chiesetta.
Quando gli dissi ch'ero disarmato e mi dichiaravo vassallo suo, gittai
il pugnale, perchè avevo giurato a lei! Poi feci aprire la porticina
del corritoio e tutte l'altre delle camere, indovinando il tristo
pensiero di Adalberto. Quando il signore, correndo per il castello,
venne al letto di Guidinga, trovò una morta, senza lume accanto, senza
frate, senza croce fra le mani!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Così rompeva messer Oldrado il suo racconto. E fremeva:--Però nessuna
occasione fu da me trascurata! Chiamo in testimonio il bianco spettro
di tua madre! Ho ribellato Lamberto, mancai all'omaggio, comparvi al
convito colla spada, feci percuotere l'araldo! Combattei! Ma non ebbi
mai completa ventura, per maledetta condanna! Figliuolo, sei
cavaliero: eccoti gli speroni: figliuolo, sei erede di tutto. Ecco il
mio testamento!


CAPITOLO IV.

Pochi giorni dopo Oldrado, trascinatosi nello stanzone del castello,
cogli occhi smarriti cercava i suoi sproni, e, solissimo, là moriva
percuotendo le sue armi. Un tristissimo malore, toltagli la ragione,
l'aveva tutto disfigurato. Ugo lo volle vedere nel cofano aperto: e
comandò lo si lasciasse giacere due notti ai piedi di quel tremendo
scalone.... Dicono le cronache che vi venisse la _madonna perduta _e
ripetesse la condanna:--Voi non credete in Dio!
Oldrado fu sepolto. Ugo si fece cupo, angosciosissimo, apparve come la
fiera che tende l'insidia: temette le squille pei poveri trapassati,
e, rammentando certi portici deserti, una cappella sempre parata a
lutto, fingendosi alla fantasìa un dì in cui si sentissero suonare
tutte le trombe del castello, correva al camerotto dell'armi, quasi
attendesse ancora il padre, si travolgeva sul letto nel quale sapeva
lui essere nato, essere morta la madre, interrogando:--È questa la
vita a cui mi dannaste? Che delitto ho commesso prima del mio
nascimento? Perchè nacqui colla maledizione?--e lagrimava
nell'angoscia:--Ho venti anni! E in venti anni tre volte ho sorriso:
quando la prima volta su un'altissima cima vidi all'orizzonte sorgere
il sole, e vidi che avvolgeva anche me ne' suoi raggi: quando suonò la
tromba che mi chiamava all'armi: quando.... Non è riso, è sogghigno!
Ebbene sogghigno oggi in cui mi trovo tanto deserto!... Dicono che ci
sia il mare. Com'è il mare? Dovrebb'essere come l'anima... Com'è
l'anima?--Non aveva mai parlato nè con una donna, nè con un frate, nè
con un amico: e si sentiva rozzo, villano, cattivo, crudele,
fortissimo, libero.... Con economìa di parole si esprimeva:--Mi sento
tormentato! Voglio odiare! E voglio amare!
Il testamento di Oldrado era confìtto nella memoria e nella volontà di
Ugo.--Vendicati! Sì, e poteva sorridere o sogghignare per la quarta
volta: Adalberto stava sempre chiuso nel suo castello d'Auriate, forte
d'uomini, e scaltrito dall'astrologo. Venisse il giorno in cui Ugo,
battendo l'avello del padre colle calcagna spronate, potesse
dirsi:--Mi ascoltate? Io non ho tempo d'ascoltar voi, se anche mi
narraste le istorie del di là!
Venne il giorno, sì: quello in cui l'araldo bandì doversi prestare
l'omaggio al signore. Ugo stava ai piedi della chiesa nella sua
_curte_: c'erano pure messer Ildebrandino, Baldo, Aginaldo, e tra gli
scudieri Aimone. I cavalieri ascoltarono, diedero mano alle borsucce,
poi se ne andarono: Ugo, tenendosi vicino Aimone; gli altri dietro,
legati da nessun aperto discorso, pure tacitamente affratellati da un
odio solo.
Ugo disse allo scudiere:--Il meno che si sarebbe potuto fare?
--Messere,--rispose questi--dargli a masticare la pergamena.
--Ah! parli dell'araldo?
--In quanto a messere...!
--Ci abbiamo pensato!--attestò Ugo: poi--Aimone, hai conosciuto
Unfrido? Sai com'è morto?
--Vostro padre lo fece trascinare dall'istesso puledro morello. Ma
perchè dite così?
--Per avvisare i traditori--Ugo disse ad alta voce.
--Per Dio!
Allora, udendo questo, Ildebrandino prese a camminare lesto, in modo
da giungere a pari di Ugo, e aggiunse:--Per avvisare i traditori e i
traditi.
Ugo, il quale struggevasi nell'ardentissime battaglie dell'anima, e in
quel momento più che mai sentiva amaro l'essersi ingozzata la vergogna
di quel bando, udendo le parole d'Ildelbrandino e notandone il tono,
fu lì lì per gridare ai cavalieri: --Qua la mano e giuriamo
vendetta!--E sarebbe stato ascoltato. Egli conosceva Ildebrandino,
come Ildebrandino conosceva lui: si salutavano cortesemente quando il
raro caso portava che fossero insieme, ma ognuno pensava tra sè:--Se
quel valente mi fosse allato!--e l'uno e l'altro nella sommessione al
comune signore, trovava, anzichè una spinta ad amicarsi ed operare, un
argomento penoso per starsi lontani, sospettando che quegli potesse
dire di questi, e questi di quegli: --Perchè ha sopportata tuo
padre?--Perchè hai sopportato, come un giumento, finora?--Adunque
Ildebrandino fu soddisfatto di aver dato appicco a quella conoscenza
che sperava doversi stringere e mutarsi nella sospirata congiura,
giacchè di Ugo presagiva molto, sapendolo valoroso e bollente. Ed Ugo
fu contentissimo di avere con sua volontà eccitate quelle parole, buon
indizio di tempra inflessibile.
Si fecero l'uno appresso all'altro, e il loro esempio fu imitato dagli
altri due baroni, messere Baldo e messere Aginaldo: quello un vecchio
ringhioso e impaziente; questo un cavaliero poderoso, guerriero quando
ci fossero petti da passare fuori, non importa se d'amici o di nemici,
cacciatore di lupi audacissimo quando gli mancassero gli uomini.
Si avvicinarono Ildebrandino ed Ugo, e siccome Aimone stette per porsi
dietro ad essi, Ildebrandino, cogliendo l'occasione di più chiarire il
suo animo e applicando il motto che ci si guadagna ad accarezzare il
cane per il padrone:--Scudiero--disse:--avete capegli bianchi e
l'essere invecchiato presso messere Oldrado so quanto valga.
Ugo si drizzò tutto, e trovò di concludere così:--O Aimone, imparerai
ad aprire i portoni delle castella. Aimone, non farti scrupolo: quando
portavi a mio padre la lancia pel combattimento ti facevi forse di
dietro? Metti conto che il viaggio può essere lungo. Ma noi ci
incamminiamo. Messere Ildebrandino?
--Con la grazia d'Iddio--rispose questi.
--E con la nostra volontà.
E i due cavalieri sporsero simultaneamente la destra e se la
strinsero.
Il giorno di Pasqua di Resurrezione già abbiamo veduto come Ugo abbia
fatto e Ildebrandino risposto.
I cavalieri eruppero dal castello d'Auriate, avviandosi dietro ad Ugo,
e tale era la furia di voler la pugna che si udiva esclamare:--Messer
Aginaldo, che dite?--Dico che vorrà essere ottimo giuoco!--Mandiamo i
paggi per le armi!--Era tempo!--E i nostri montanari sono tutti pronti
e vogliono le prede.--E quelli di Ugo!--Educati da Oldrado!--Orsù!
Ed Ugo gridava:--Ci vuole unione di consiglio.
--Dove andiamo ora?--interrogava rabbiosamente Baldo.
--Se ci attardiamo all'impresa siamo perduti!--gridavano gli altri.
--Volete combattere oggi?--domandava Ugo.
--Oggi!--Sì, sì, gli facciamo in tal guisa gli omaggi!--Oggi!
--Messeri--disse Ugo:--è giorno di Pasqua.
Aginaldo che non lo ascoltava o non voleva ascoltarlo:--Liberiamo le
nostre castella! Gli avi le tennero sì o no? Più bella giustizia non
si sarà mai resa! Chi è Adalberto? Chi siamo noi? Noi sì siamo i
padroni dei nostri servi, ma noi non siamo servi ad alcuno: egli non
può essere signore di gente libera.
--Messeri,--ripeteva Ugo:--vogliamo esser leali!
--C'è tregua fino a che il sole va sotto! Dopo si possono squassare
quante lance si vogliono--diceva Aginaldo.
--Vero anche questo.
--E poi che cosa è il combattere? Conseguenza di una sfida che non si
poteva fare? No, è difesa--esclamava il Baldo.
Qui parlarono di regole d'armi: gridarono, sempre camminando, per
togliersi fuori dalla gittata degli archi saluzzesi, che potevano
essere nascosti tra merlo e merlo o alle feritoie del castello.
Alla fine Ugo concluse:--Così non si fa alcuna cosa! Unione di
consiglio e d'armi: per quella vuolsi che ognuno esponga recisamente:
per questa che ognuno sappia di quali e quante forze può disporre. E
per l'una e l'altra richiedesi obbedire a un capo.
Tutti intesero benissimo: Ildebrandino e Aginaldo ardenti di
entusiasmo:--Voi!--cominciarono a gridare:--Voi il capo! Sappiamo come
avete incominciato! Pensiamo come volete finire!
Egli, a vece di rivolgersi a loro, si volse a Dio, acclamando
solennemente:--L'omaggio deve essere reso a Te solo. Noi non siamo
torme di ribelli, perchè non erano torme di schiavi gli avi nostri ab
antico! Dunque, cavalieri,--strinse Ugo:--dove ci riuniamo?
--Dite voi.--Dite voi.
--Più atto ad esplorare i movimenti che potesse fare il conte parmi il
castello di messere Ildebrandino. Assentite, cavaliero?
--Per la spada di Sichelmo mio! Quando, e' saranno venti anni, venne
Guidaccio sul mio torrione, avevo tutti gli uomini appestati da un
certo pellegrino che ospitai. "Suonate per me: i nostri figli, spero,
ricorderanno questi squilli" dissi. Figli maschi non ho: io voglio
rispondere, io stesso, e con me il mio Oberto!
--Al castello d'Ildebrandino--disse Ugo.--Mezzogiorno è ancora
lontano. Messere Aginaldo, quanto impiegate dal vostro portone a
quello di Ildebrandino su un buon corridore?
--Io non ho cavalli grami--morse il cavaliero:--Con qualunque de' miei
in due ore vi sono.
--Dunque, messeri,--comandò il capo dell'impresa:--fra quattro ore a
Rupemala.
--Non ho cavalli grami!--incioccò i denti Aginaldo.
--Non dico questo: ne è caso vi offendiate. Ad andare al vostro
un'ora, a rassegnare le armi e i vassalli un'ora e mezza, un'altra e
mezza dal vostro castello a Rupemala, o forse manco, perchè le vostre
scuderie hanno tanta rinomanza quanto il vostro valore.--Così fu
contento anche messer Aginaldo.
E si separarono.
Primo a mettere il piede sul ponte di Rupemala fu Ugo. Aveva tanto
osato e tanto ottenuto in quel giorno, che per ambizione audace,
tentava di cancellarsi dalla mente la memoria del padre e della madre,
lanciandosi colla fantasìa in un combattimento vittorioso, per fare
tutta sua la gloria dell'impresa. Quei fantasmi gli rubavano! E per
Dio! suo l'ardimento, sua la valentìa che gli aveva sottoposti
spontanei anche i vecchi cavalieri, suo l'accorgimento, e suo
l'esito... E se fosse rotta? Oh rotta no, no! Che vitupero!...
Ugo entrò nel castello, perchè tosto al suo nome si aperse il portone:
fu condotto in una sala d'armi, aspettò poco, osservò molto,
computando quanti uomini si potessero arnesare subito con piastra e
maglia, poi s'inchinò là dove la porta si spalancava. Venne innanzi
messer Ildebrandino coll'usbergo sopra l'abito di pelle: e con lui un
bellissimo giovane di diciotto in diciannove anni, pallido,
aggraziato, più atto, a giudicare dalla sua persona, a toccare il
salterio che a reggere il lanciotto del signore, come voleva il suo
ufficio, e questo appariva dagli sproni d'argento.
--Oberto,--disse Idebrandino, prendendolo per un braccio:--questi è il
cavaliero Ugo, il quale ti farà degno della sua stretta di mano quando
tu avrai la fascia sull'armi.
--Non me la faceste promettere?--Oberto interrogò lo zio
coraggiosamente. Si trovava di fronte a quell'Ugo che in un ultimo
gioco l'aveva soperchiato in tre incontri! E quell'Ugo già aveva gli
speroni d'oro! E lo zio, sperimentato cavaliero, s'inchinava a quel
venuto del malanno!
--Quando messere Ugo lo creda,--disse Ildebrandino.
--Quando io la meriti!--interruppe Oberto.
Ugo davvero incominciò ad amarlo.
Vennero i cavalieri, e furono presi gli accordi per la dimane
Ildebrandino con Oberto sopraintenderebbe alle macchine guerresche:
messer Aginaldo darebbe gli arcieri più abili, coi capitani Guelardo
ed Irnando: Baldo vi unirebbe i suoi savoiardi con Aldigero e
Ugonello, al cavaliero il comando dei cavalli di retroguardia: a
Gisalberto il servizio di esplorazione notte e giorno co' suoi,
Oddone, Eleardo capo dei saluzzesi armati di scuri: Ugo alla testa di
venti valentissime lance regolerebbe le mosse di vanguardia e
d'investimento: e via, e via: i castelli non istarebbero sguerniti: si
lascerebbero armi ed avvisatori in ognuno di essi.
Come voleva la cortesìa delle usanze, i messeri furono convitati.
Entrarono in una sala assai rozza, ma spaziosa, col tavolo fumante di
mezzi capretti arrostiti, colle seggiolone coperte di pelli di lupi.
Scinsero le spade, rumorosamente gittandole in un mucchio, allentarono
le fibbie delle piastre e delle maglie, si lasciarono andare giù sui
panconi, pure nessuno mise le mani nel tagliere, perchè un posto, e il
più eminente, rimaneva vuoto. Nè attesero a lungo: si sollevò
l'usciale della sala, e un paggio, affacciando mezza persona,
annunziò:--Madonna Imilda.
Apparve la figliuola di messer Ildebrandino e della morta Adelasia, di
vaga persona e di animatissimo viso, in stretta gonna oscura, cinta su
da uno scheggiale, e coperta il capo dai lati con un velo appuntato:
s'avanzò salutando i convitati, e, al cenno fattole dal padre,
s'assise al suo posto. A destra aveva messer Ugo, a sinistra il suo
parente Oberto.
Ildebrandino così la salutò:--Valenti, udite: la figliuola mia sa
assai bene di leuto e canta di Carlomagno e dei paladini: operate in
modo che il suo strumento abbia una corda anche per voi; e la sua
bocca una voce per le vostre imprese. Amabilissima figlia, abbiateci
grazia!
Di poi i convitati presero l'invito non da scherzo, come ai dì nostri,
e se da quegli assalti alle vivande dovevasi trarre augurio per la
domane, in verità era buonissimo. La sola fanciulla non aveva tagliere
dinnanzi e non partecipava all'allegrezza epulona: il che era
richiesto dal suo decoro verginale.
Ugo guardava... La smorta faccia di Oberto non era faccia che egli si
potesse dipingere incorniciata di maglia, colla bocca che impreca ai
nemici, col naso fiutante la polvere del combattimento, cogli occhi
dai lustri audacissimi... Imilda, melanconica e dolcissima, aveva
l'aureola dei biondi capegli, le labbra dischiuse al canto amoroso, le
nari voluttuosamente ebbre come d'alito profumato, le pupille lente
nel sopore placido delle visioni insidiose.
Ugo guardava irresistibilmente. Il viso di Imilda gli pareva sfumasse
nelle nebbie di un sogno. Che sogno? Oberto toccava il salterio: ella
cantava le laudette religiose. No! no! Oberto riprendeva lo strumento
e atteggiava la persona al mollissimo abbandono dell'amore.--Per
l'inferno, spezzategli le corde!--Ugo con moto improvviso sorse, e si
cinse la spada, poi ne morse gli elsi con potentissimo affetto.
--Chi siete?--una e due volte domandò Imilda ad Ugo.
--Sono il figlio di Guidinga.
Imilda lo interrogò con un lungo sguardo. Ed Ugo nuovamente
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