Novelle - 02

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e l'anima si rasserena col cielo. E sempre al breve scoraggiamento
segue uno stato d'animo, nel quale mi appare così folle e così
codardo quel turbarsi per un'alterazione del viso, e rimpiangere
l'allegria spensierata della prima giovinezza, e volersi ribellare
con uno sfogo di rammarico dispettoso alle leggi della natura, che
mi vergogno, mi scoto, mi risollevo, riafferro la mia fede, le mie
speranze, i miei propositi, e mi rilancio al lavoro con una risoluzione
piena di alterezza e di gioia. E in quei momenti mi sento la forza
di aspettare a fronte serena i trent'anni, i disinganni, i capelli
bianchi, i dolori, gli acciacchi, la vecchiaia, cogli occhi della
mente fissi dinanzi a me, lontano, in un punto luminoso che mi pare
che ingrandisca via via che procedo. E vo innanzi con più coraggio; e
a uno sciame di gente inebbriata e clamorosa che mi dice: — Con noi!
— rispondo fieramente: — No! — e a una folla di giovani malinconici,
che mi dicono, crollando il capo: — Forse non è vero! — rispondo,
senza allontanar gli occhi da quel punto, con una voce gioiosa e
entusiastica: — No! — e a una moltitudine di uomini gravi e superbi,
che toccandomi e accennandomi le loro carte e i loro libri mi dicono
con un sorriso di pietà e di dileggio: — È un sogno! — io rispondo
sempre guardando là, con un grido che mi prorompe dal più profondo
dell'anima, come se mi vedessi ricomparir dinanzi una persona morta: —
No! — Oh! in quel momento mi si venga pure a dire che debbo invecchiare
e morire; che m'importa? Io lavoro, io credo, io aspetto!

VIII.
E nella più parte di quei miei compagni è seguìta o segue la medesima
cosa. I volti si son fatti più serii, o come vuol che si dica il
Leopardi, più tristi; ma coi volti si son composti a serietà anche gli
animi. Dissi i mutamenti che mi addoloravano; ma ci sono anche quelli
che mi confortano. Incontro qualcuno dei miei compagni, di quei che
avevano meno giudizio e meno proposito, e mi meraviglio di sentirli
parlare, come parlano, di patria, di lavoro, di dovere da compiere,
di avvenire da preparare. Un rivolgimento generale s'è operato negli
animi, e, forse in virtù dei molti e grandi casi seguìti in questi
pochi anni, oltre che generale, precoce. In alcuni una segreta
ambizione, in altri la cura della famiglia, in molti la sazietà della
vita dissipata, in non pochi una schietta e spontanea passione per
gli studii, sorta all'improvviso in mezzo alla noia degli ozii della
guarnigione, hanno raccolto i pensieri vaghi, e composto ad uno scopo
le forze disperse; hanno indotto l'abito della riflessione, e rivolte
le menti ai grandi problemi della vita; hanno dato a tutti un perchè
di questa vita e segnato a tutti un cammino da percorrere, e tolto
il tempo di rimpiangere inutilmente il passato. Siamo entrati nella
seconda giovinezza, con qualche disinganno, con un po' di esperienza
e colla persuasione che la felicità, — quel poco che se ne può godere
quaggiù, — non si ottiene dibattendosi e tempestando e gridando al
cielo e alla terra: — La voglio! — ma si cava a poco a poco dalla più
intima parte dell'anima colla lunga costanza d'una quiete operosa.
Alle visioni splendide son succedute le speranze modeste; ai grandi
disegni, i saldi propositi; alla immagine sfolgorante della guerra, Dea
promettitrice di ebbrezza e di glorie, l'immagine dell'Italia, madre,
la quale non promette — e ci basta — che il conforto altero d'averla
amata e servita.

IX.
E l'animo nostro è uscito più forte dal dolore della guerra perduta.
A me par di vedere un giorno in cui da un capo all'altro del paese
si ripeterà il terribile grido: Vengono! — e noi balzeremo in piedi,
pallidi e alteri, rispondendo: — Li aspettiamo. — Allora, per le vie
delle nostre città, affollate di popolo, di soldati, di cavalli e di
carri, al suono del nome d'Italia, fra lo strepito delle armi e gli
squilli delle trombe, i miei dugento compagni si rivedranno, io li
rivedrò, molti per un'ora sola, alcuni forse per un solo momento,
di notte, davanti a una stazione di strada ferrata, al lume delle
fiaccole; ci rivedremo e ci saluteremo in silenzio, stringendoci la
mano fortemente, e guardandoci negli occhi. Non più grida, non più
canti, non più gioia clamorosa, non più sogni di marcie trionfali,
non più quel confidente e leggiero: — A rivederci, — con cui si
vela l'immagine della morte, e si alimenta, più che il coraggio, la
speranza; noi non ci diremo che: — Addio; — e quell'addio sarà una
promessa reciproca, un patto, un voto; quell'addio vorrà dire: — Questa
volta non si _deve_ ridiscendere la china della montagna; io rimarrò
sulla vetta, e tu pure. —
E sovente, precorrendo un lungo spazio di tempo, fantastico campi di
battaglia lontani, sui quali si giocano le sorti d'Italia. Volo col
pensiero di valle in valle, di colle in colle; e in tutti i passi più
difficili, e in tutti i punti più pericolosi, mi figuro un amico di
collegio, coi capelli grigi, già colonnello o generale, alla testa del
suo reggimento o della sua brigata; e mi compiaccio di figurarmelo nel
momento, in cui, assalito da molta forza nemica, dirige la resistenza.
Le due parti sono alle prese, ed egli, dalla cima di un'altura,
osserva il combattimento nella valle. Povero amico! In quel punto
forse si decide della sua vita e del suo onore; trent'anni di studii,
di sacrifizii, di speranze, stanno per essere coronati di gloria o
dispersi come un pugno di polvere, là su quella china verde che gli si
stende dinanzi; e tutto dipende da un nulla. Ed egli guarda, immobile,
pallido, ed ha tutta l'anima negli occhi, e la sciabola gli trema nella
mano convulsa. Io gli sono accanto e lo fisso nel viso, e acconsento
involontariamente con la persona a tutti i suoi tremiti, e sento tutto
quello ch'egli sente, lo intendo, vivo in lui. — Coraggio, amico; tu
hai infuso nei tuoi soldati la tua anima generosa, vinceranno, non ti
turbare. Quel movimento incerto che vedi là verso l'ala destra, non è
che un momentaneo scompiglio cagionato dall'ineguaglianza del terreno;
non danno indietro, no; senti, le grida risuonano più alte, i colpi
strepitano più fitti, l'ultimo battaglione è entrato anch'esso nel
combattimento, tutti i tuoi soldati combattono. — Ah! ora sì che i suoi
occhi corrono avidamente da un capo all'altro della linea; ecco, egli
si fa più pallido; questo è il punto! la sua vita pare sospesa....
— Che sono queste voci lontane? Che è quella fiamma che gli sale al
volto? quel sorriso? quello sguardo al cielo? Hanno vinto! Ma per Dio!
prima di partire, voltati, ferma quel cavallo, son io, senti, un tuo
amico di collegio, porgi le braccia, un bacio, ed ora va, vola tra i
tuoi soldati, e che Iddio t'accompagni. — Ha slanciato il cavallo di
carriera, è già in fondo alla valle, è sparito.
E chi sa, quanti dei miei compagni si troveranno un giorno, un'ora
della loro vita, in quel cimento! Chi sa che molti non abbiano a
illustrare il loro nome qualche grande servigio reso alla patria, che
alcuni di questi nomi non abbiano a diventar cari al popolo, che io
stesso non abbia una volta a veder passare per una strada di qualche
città italiana un mio antico vicino di studio, o di tavola, o di
letto, in grande uniforme di generale, sopra un bianco cavallo coperto
di fiori, in mezzo a due ale di popolo festante! E chi sa pure se
un giorno io non andrò a picchiare alla porta di alcuno di loro, per
gettargli le braccia al collo appena mi apparirà dinanzi, — pallido,
triste, invecchiato di dieci anni nel giro di pochi mesi; — se non
andrò da lui per confortarlo, per dirgli che la sentenza del paese
è stata ingiusta, che grande è ancora il numero di coloro che non
rovesciano sul suo capo tutta la colpa del disastro, che verrà tempo
in cui si calmeranno le passioni e si ritorneranno in onore le vittime
delle condanne avventate, che il suo nome è ancora rispettato e caro,
che non s'accasci, che ripigli animo e speri?
Ah! quando io penso alle fiere prove che molti di essi avranno a durare
nella vita, al bene che potranno fare al loro paese, all'inestimabile
prezzo cui dovranno pagare la loro gloria; quando penso a queste cose
io che lasciai l'esercito, sento che per non restare addietro ai miei
compagni nel pagare il mio debito di gratitudine alla patria, dovrei
faticare senza riposo, vegliare le notti sui libri, conservare con
rigorosa temperanza di costumi il mio vigore giovanile per rivolgerlo
fresco ed intero ai lavori della mente; menare una vita illibata per
acquistare il diritto di predicar la virtù, e mantenere viva e pura
questa fiamma d'affetto, di cui riesco qualche volta a trasfondere una
scintilla nel petto degli altri; studiare il popolo, i fanciulli, i
poveri, e scriver per loro; non lasciarmi sfuggir mai dalla penna una
parola ignobile, sacrificare tutte le mie fantasie al bene comune, non
disanimarmi mai per contrarietà, non ambir mai lodi, non desiderare,
non aspettare mai nulla, fuorchè il giorno in cui potessi dire a me
stesso: — Ho fatto quello che potevo, non sono stato inutile nella
vita, questo mi basta. —

X.
Che idea mi passa pel capo, ora che sto per finire! Vorrei aver qui
un giovinotto di diciasette anni, d'indole bona e di costumi gentili,
ma poco esperto, come a quell'età siam tutti, del cuore umano; e
mettendogli una mano sulla spalla, dirgli amichevolmente: — Vuoi tu
procurarti fin d'ora un argomento di pace e di serenità per l'avvenire?
Tratta i tuoi amici cogli stessi riguardi che useresti a una donna,
perchè, credi, non v'è offesa o parola amara o atto sgarbato fatto
ad alcuno di loro (sia pure scusabile e venga pure per lungo tempo
dimenticato) che un giorno non ritorni alla memoria, e non rincresca,
e non turbi. Dopo molti anni, ricordando i miei amici lontani, mi
rammento d'uno screzio che ci fu tra me e un di loro, di qualche
motto pungente che ricambiai con un altro, del proposito fatto e
mantenuto per molti mesi di non rivolgere la parola ad un terzo; —
fanciullaggini; — eppure, quanto sarei contento di non avere alcuna
di queste fanciullaggini da rimproverarmi! E benchè io sia sicuro che
non hanno lasciato traccia negli altri più che in me, quanto desidero
sempre che si presenti un'occasione di poter assicurarmene meglio,
dissipando quell'ultima ombra leggerissima che, per caso, vi fosse
rimasta! Quando s'arriva a quell'età in cui comincia ad apparir vicino
il termine della gioventù, e si pensa agli anni passati così presto, e
agli altri che passeranno più presto ancora, e al pochissimo bene che
s'è fatto, e al pochissimo che ci resterà ancor tempo di fare, quel
sentimento d'orgoglio, che ci rese qualche volta duri e incresciosi
agli amici, ci sembra una così meschina, risibile e spregevole cosa,
che, se si potesse, si tornerebbe indietro per riprendere daccapo
tutte le discussioni col tono più soave della nostra voce, per porgere
tante volte la mano in atto di chieder pace, quante sono le scrollate
di spalle che si diedero pel passato; per cercare gli amici offesi,
guardarli negli occhi, e dir loro:
— Non c'è più nulla, non è vero?... —

XI.
Cari amici! Non foss'altro che perchè vidi con voi, per la prima volta,
tutta la mia patria, come potrebbe il mio pensiero non correre sempre
a voi, e il mio cuore non desiderarvi? Quando dal bastimento vidi
biancheggiare lontano la immensa curva del golfo di Napoli, e giunsi
impetuosamente le mani, e risi, e pensai a mia madre, ed esclamai:
— È un sogno! — ; quando di sulla cima del colle del Noviziato
abbracciai, per la prima volta, con uno sguardo solo, la città di
Messina, lo stretto, gli Appennini, il Capo Spartivento, e dissi tra
me, con un sentimento quasi di tristezza: — Qui finisce l'Italia!
—, quando sulla vetta di Monte Croce vidi per la prima volta, di là
dalla vasta campagna brulicante di reggimenti tedeschi, le torri di
Verona, e tesi le braccia con uno slancio di gioia, gridando come se
temessi che ci fuggissero: — Aspettate; — quando vidi per la prima
volta, di sull'argine di Fusina, lontana, azzurra, fantastica, la
città di Venezia, esclamai colle lagrime agli occhi: — Divina! —
quando scorsi per la prima volta, dall'altura di Monterotondo, Roma,
circondata dal fumo delle nostre batterie, ed esclamai con un fremito:
— È nostra! — sempre ebbi accanto qualcuno di voi, che, preso dalla
stessa commozione, mi afferrò per un braccio, mi scosse, e mi disse: —
Com'è bella l'Italia! — ; sempre qualcuno di voi che alternò con me le
risa, le lagrime, i versi! Non v'è punto d'Italia, nè caso lieto, nè
commozione profonda, di cui io mi ricordi, senza che mi paia di sentire
il suono d'una sciabola, che dice: — Son qui! — senza che mi paia di
stringere la mano d'uno di voi, senza che io mi domandi dove quest'uno
si trovi, e che cosa faccia, e che cosa pensi, e se rammenti egli pure
i bei giorni passati insieme. Oh! potrò incontrare nella vita un gran
numero di altri amici intimi, fedeli, generosi, di cui mi si presentino
in folla, ogni momento, le immagini sorridenti; ma di là da questa
folla, di sopra a tutte quelle teste, lontano, vedrò sempre ondeggiare
i vostri pennacchi e luccicare i numeri dei vostri berretti; e mi
slancerò sempre verso di voi per dirvi: — Parliamo del nostro collegio,
dei nostri viaggi, di guerra, di soldati, d'Italia. —

XII.
Certo una gran parte di noi, antichi compagni di collegio, arriveremo
a vedere il secolo XX. Strana idea! Capisco bene che si passerà dal
mille novecento al novecento uno, come si sarà passati dal novantanove
al cento, e come si passa da quest'anno al venturo. Eppure, mi sembra
che allo spuntare del primo giorno del nuovo secolo si dovrà provar
la sensazione di colui che, giunto sulla vetta di un'alta montagna,
vede dinanzi a sè nuove terre e nuovi orizzonti. Mi pare che quella
mattina ci si dovrà rivelare qualcosa d'impreveduto e di meraviglioso;
che ci prenderà un senso quasi di spavento del trovarci tanto innanzi;
che ci parrà d'essere stati lanciati da una forza arcana da un orlo
all'altro d'un abisso smisurato. Fantasie! Io presento bene quello
che saremo noi in quegli anni; e non solo lo presento, lo vedo. Vedo
una sala con un camminetto in un canto, o meglio molte sale con molti
camminetti, e molti vecchi davanti al fuoco, seduti sur una poltrona,
col mento sul petto; e poco più in là un tavolino con un lume in
mezzo, e intorno una corona di ragazzi, che potranno essere figliuoli o
nipoti, e che a un dato momento si accenneranno l'un l'altro il babbo o
lo zio, dicendo piano: — Dorme; — e ridendo dell'espressione grottesca
che avrà preso nel sonno il nostro volto rugoso. E forse allora ci
desteremo, i ragazzi ci verranno intorno, e vorranno sentire, secondo
l'uso, racconti di tempi molti lontani, e ci domanderanno con viva
curiosità: — Zio, ha mai visto lei il generale Garibaldi? — Babbo, ha
mai osservato davvicino il re Vittorio Emanuele II? — Nonno, non le è
mai seguìto di sentir discorrere il conte di Cavour? — Ma sì, e come,
e quante volte! — Ma dica dunque, come erano? Somigliavano molto ai
ritratti? In che modo parlavano? — E noi diremo ogni cosa, e via via
ricordando, raccontando, descrivendo, la nostra voce riacquisterà a
poco a poco l'antico vigore, e ci s'infiammeranno le gote, e sarà per
noi una grande dolcezza il vedere quegli occhi vivaci accendersi, e
quelle fronti innocenti sollevarsi con un movimento altero, e quelle
mani piccine e bianche fare un cenno ad ogni nostra interruzione, come
per pregarci: — Dica ancora. —
E chi sa che sarà seguito allora sulla faccia della terra? Sarà re
d'Italia Vittorio Emanuele III? Ci saranno i bersaglieri a Trento?
Qualche nostro amico d'oggi, applicato al Ministero degli affari
interni, sarà governatore di Tunisi? La Francia sarà passata per un
altra trafila d'imperi, di repubbliche, di Comuni e di regni? Avremo
avuto la minacciata invasione dei popoli nordici? L'Inghilterra avrà
ricevuto anche essa il suo scappellotto? Avremo provato un po' di
Comune? Sarà nato un grande poeta? Si sarà riformata la Chiesa? Si sarà
rifatta Roma? Ci saranno ancora eserciti? Che saremo noi nel nostro
paese? Che avremo fatto? Come avremo vissuto?
Ah! qualunque cosa sia per accadere, e qualunque sia la sorte che
ci aspetta, se avremo lavorato, se avremo amato, se avremo creduto,
— le sere che, seduti in un seggiolone a braccioli sul terrazzino
della nostra casa, agli ultimi raggi del sole, penseremo alle nostre
famiglie, ai nostri amici, ai monti, alle colline, ai carnovali e
alle isolette del mar Tirreno che sognavamo in collegio; — ci turberà,
si, il pensiero di dover abbandonare tra breve tante care anime e una
così bella patria; ma ci splenderà pure sul volto quel sorriso queto
e sereno, che è come l'alba d'una giovinezza nuova, e che tempera
l'amarezza dell'addio colla tacita promessa: — Non per sempre!


CAMILLA.
RACCONTO.

[Illustrazione]

I.
Una vecchia signora della città di***, avendo bisogno di una donna di
servizio, pregò per lettera una amica, che stava in una città vicina,
di mandarle la sua; quest'amica doveva abbandonar l'Italia tra poco.
La risposta non si fece aspettare, e fu affermativa. — La ragazza —
diceva la lettera — partirà domani. Non vi posso dare informazioni
intorno alla sua famiglia, perchè essa non me n'ha mai voluto dare,
e non ho potuto procurarmele io, perchè non mi ha nemmeno voluto dire
di che paese sia. Qualunque altra donna m'avesse voluto tenere questo
segreto, le avrei detto: — Tenetevelo, e andate pei fatti vostri. —
Con questa ragazza non n'ebbi il coraggio; mi parve fin dalle prime
così buona, onesta e gentile, che dovetti accettarla senz'altro.
Forse si avrà a vergognare dei suoi parenti, e per questo non vorrà
che si conoscano. Checche ne sia, sono profondamente persuasa che in
questo mistero essa non ci ha colpa. Ve la mando senza timore. Usatele
però dei riguardi, risparmiatele certe fatiche, perchè è debole e
malaticcia. È anche bellina, badate. —
La ragazza venne, si presentò alla signora timidamente, aveva un bel
sorriso, piacque, si accordarono. Si chiamava Camilla. Non era bella,
ma simpatica: un po' pallida e malinconica; sorrideva solamente quando
le parlavano, come per dovere di cortesia.
Sin dai primi giorni la signora cercò di saper qualcosa della sua
famiglia. Si turbò, diede risposte vaghe, pareva che quelle domande
le facessero male. La signora voleva sapere almeno dov'era nata. Essa
pronunziò il nome di un villaggio, il primo che le occorse alla mente,
con un'aria che diceva: — Non è questo; ma ve lo dico, per cavarmi di
imbarazzo. — Bastò: la signora non insistette di più; ritentò qualche
tempo dopo, ma collo stesso effetto; decise infine di non darsene
pensiero.
Ogni giorno si mostrava più diligente, più mansueta, più dolce. La
figliuola piccina della signora le aveva posto un affetto vivissimo;
la signora stessa non faceva che lodarsene e compiacersene con parole
che parevano ispirate da una calda simpatia; di che il marito soleva
canzonarla, dicendole ch'ella era un'anima romanzesca soggiogata dal
fascino del mistero; ma che il tempo avrebbe fatto la luce, e la luce
rischiarato Dio sa che cosa. Ma il tempo non rivelò nulla, e Camilla si
fece sempre più amare.
Aveva un solo difetto, se si può chiamare difetto una sventura: ed
era una estrema sensitività nervosa, che la faceva tremare a un rumore
improvviso, all'apparire inaspettato di una persona, a una voce che la
chiamasse da un'altra stanza, a qualunque movimento o suono o vista,
a cui non fosse preparata. Qualche volta le prendeva quasi male. Nè
letture di cose tristi, nè narrazioni di misfatti, nè descrizioni di
spettacoli, nei quali fosse la più lontana idea di un pericolo, si
potevano fare in sua presenza senza che dèsse così manifesti segni
di turbamento e di pena, da fare smettere il parlatore più ostinato.
Quando una, quando due volte al mese, non per altra cagione che per
queste scosse, era costretta a mettersi a letto, e a starci un par di
giorni, prima dolorosamente agitata e poi rifinita come da una lunga
malattia.
Una sera tutta la famiglia era raccolta nella sala da pranzo, e Camilla
seduta in un canto. Era notte avanzata; chi leggeva, chi scriveva,
nessuno parlava; non si sentiva fiatare. Sul terrazzino c'eran dei
vasi di fiori; e solo il rumore delle foglie scosse dal vento, e i
rintocchi lontani di una campana turbavano quel silenzio. A un tratto
s'udì in una stanza accanto un colpo forte come di cosa pesante caduta
dall'alto, e insieme un acutissimo grido. Quasi nello stesso punto un
altro grido, più acuto del primo, proruppe dalla bocca di Camilla.
La signora, il marito, i figliuoli, senza badare a lei, corsero
nell'altra stanza. — Non è nulla! — gridò dopo un momento la madre.
Era la bambina che, cercando al buio la corda del campanello per fare
uno scherzo, aveva urtato colla mano in un grosso martello appeso al
muro, e il martello le era caduto sui piedi. Tornarono subito nella
sala da pranzo e là videro Camilla distesa in terra. L'alzarono, le
sanguinava il viso; nel punto stesso che aveva gettato il grido, era
svenuta, e nel cadere aveva dato della fronte contro una seggiola.
La portarono a letto, rinvenne; ma le si manifestò subito una febbre
così violenta, che ne furon tutti spaventati. Quando potè parlare,
domandò che cosa fosse stato quel colpo e quel grido; glielo dissero;
dapprima pareva che non volesse credere, non era bene in sè, usciva
in esclamazioni senza senso. Poi parve che ricuperasse la ragione,
e allora, fattosi spiegare di nuovo quello che era accaduto, domandò
perdono dell'inquietudine di cui era stata cagione, e pianse. Cercarono
di consolarla. — Che c'è da piangere? — le domandò la bambina. Ed essa
piangendo più forte rispose: — Lo so io! —
Il giorno dopo mandarono pel medico. Il medico venne e, prima d'entrare
nella camera di Camilla, si fece raccontare tutti gli accidenti che
avevano preceduto la malattia. Entrato, esaminò la malata, le fece
qualche interrogazione intorno al suo stato presente, e poi le domandò:
— Dica: ha mai avuto nessun grande spavento nella sua vita? —
La ragazza si scosse violentemente, e di pallida che già era, diventò
pallidissima.
— Mi risponda sinceramente; le faccio questa domanda per suo bene.
— Nessuno spavento... — balbettò Camilla dondolando il capo, e fingendo
di cercare nella sua memoria.
— Me lo può assicurare? — ridomandò il medico.
— .... Sì.
— Mi perdoni se insisto, — il medico ripigliò. — Lei, forse, per
certe ragioni sue particolari, non mi vorrà dire la verità; ma lei ha
veramente avuto qualche grande spavento, che le deve aver fatto molto
male; me lo dica; una caduta? un pericolo corso da lei o da qualcuno
della sua famiglia? un delitto commesso in una strada o in campagna, di
cui lei sia stata spettatrice all'impensata? —
Camilla tremò forte come se le pigliasse la febbre; poi chiuse
gli occhi, e voltò la testa dall'altra parte lasciandola cadere
pesantemente sulla spalla.
La bambina mise un grido.
— Non è nulla, — disse il medico· — mi lascino solo; forse non vuol
confidare il suo segreto che a me. —
Fu lasciato solo.
Di lì a un quarto d'ora uscì, e tutta la famiglia gli si strinse
intorno.
— Non le ho cavato di bocca una parola, — disse il medico; — ma sono
più che mai persuaso che una grande commozione di spavento sia stata
la cagione della sua malattia; essa non vuol dir nulla; è segno che
c'è sotto qualcosa. La malattia è grave, il sistema nervoso ha avuto
una scossa funesta. La giovane, a quanto pare, era già prima di una
complessione fisica assai delicata; il colpo, che non avrebbe forse
offeso una persona robusta, è stato troppo forte per lei. Loro potranno
tentare di scoprir qualcosa; ma non è necessario; la natura della
malattia è abbastanza palese.
A un'ultima domanda direttagli mentre apriva la porta per uscire,
rispose sottovoce poche parole che fecero restar tutti pensierosi.
L'inferma andò peggiorando rapidamente. Spesso le venivano accessi di
delirio, a cui tenevan dietro spossatezze mortali e letarghi profondi.
Delirando parlava, e tutti raccoglievano ansiosamente le sue parole,
per veder di cavarne qualche lume sul fatto che essa mostrava di voler
nascondere. Ma non riuscirono a nulla. Osservarono però un atto che
faceva sovente, di coprirsi il volto colle mani e di scotere il capo
come vien fatto alla vista improvvisa di qualcosa che ci metta orrore.
Qualche volta si metteva a sedere sul letto e guardava qua e là pel
pavimento cogli occhi stralunati, come se ci fosse qualcosa di sparso
che si movesse. Tratto tratto, nei momenti di maggiore agitazione,
faceva un cenno per imporre silenzio, si cacciava una mano dietro
l'orecchio come per raccogliere meglio un suono lontano, e gridava con
un accento di terrore: — Giù! — Ma l'idea più strana, alla quale essa
tornava ogni momento, e qualche volta anche a mente tranquilla, era
che qualcuno cercasse di portarle via la sua roba: un par di vestiti
e un po' di biancheria, che eran chiusi in un piccolo baule accanto al
letto. Vi teneva l'occhio su continuamente; si sarebbe detto che aveva
là dentro qualche gran segreto. Un giorno disse che voleva bruciare
ogni cosa, e la bambina le rispose che non gliel'avrebbero permesso.
— Allora, — mormorò essa, — mi prometta che lo faranno appena sarò
morta. — Del resto, era sempre dolce e rassegnata, e non finiva mai di
ringraziare i suoi padroni delle cure che le prodigavano e dell'affetto
che mostravan di avere per lei. — Io lo so che debbo morire, — disse
un giorno alla signora... — ci son preparata; ma mi rincresce di morir
qui, e dar un dolore a loro che mi hanno fatto tanto bene... (e poi
guardando intorno) e rattristare anche la casa. Mi faccia una grazia,
mia buona signora! — proruppe finalmente con voce supplichevole; — mi
faccia portare all'ospedale! —
Una mattina, con grande stento e con molta segretezza, scrisse una
lettera. La signorina se n'accorse, e le disse di dargliela che
l'avrebbe fatta portare alla posta. Camilla ricusò, e la pregò invece
di far venir la portinaia, che non sapeva leggere. La portinaia
venne, e Camilla le mise la lettera in tasca, facendosi promettere che
l'avrebbe gettata in buca senza far vedere l'indirizzo a nessuno.
Intanto andava sempre più perdendo le forze, e il medico non le dava
più che pochi giorni di vita. Una sera, presa da que' soliti accessi di
febbre nervosa, dopo lunghi spasimi, ma colla mente serena e presente
a sè stessa fino all'ultimo momento, morì. Le ultime sue parole, colle
quali parve che volesse svelare qualcosa, non furono intese.
Fu convenuto allora di far nuove ricerche intorno alla famiglia, per
poterle almeno mandare la roba della giovane, non perchè si credesse
che i suoi parenti l'avrebbero in alcun caso richiesta per ciò che
valeva, ma perchè si supponeva che avrebbero avuto caro quel ricordo.
Si scrisse, si fece domandare, investigare; infine si pensò di aprire
il suo baule per vedere se ci fosse qualche lettera, o appunto, o
indizio qualsiasi di dove fosse nata e da chi. Il baule fu aperto in
presenza del medico e di tutta la famiglia. La signora tirò fuori
ad uno ad uno i panni e la biancheria. In fondo, in mezzo a due o
tre involti, si trovò una lettera aperta. La signora la prese e la
lesse: erano poche righe scritte da Camilla; una lettera cominciata e
lasciata a mezzo, senza intestazione. Diceva: “... Dopo quel giorno io
son sempre stata male, perdevo le forze e non reggevo più ai lavori
di campagna. Per questo in casa mi trattavano con cattivi modi e mi
dicevano che non ero più buona a nulla; e spesso anche mi rinfacciavano
il tuo caso, e mi facevano capire che sospettavano di me, che io ti
avessi consigliato. Questo sospetto finì di togliermi il coraggio,
e loro mi avrebbero forse cacciata di casa, perchè ero inutile; ma
io presi la risoluzione di andare a servire in città, e speravo di
trovare qualche buona famiglia che avesse compassione del mio stato,
e mi pigliasse in casa per i servizii che non vogliono tanta fatica; e
poi non potevo più stare in quella casa dopo quello che era accaduto,
perchè mi faceva paura, e soffrivo troppo. Ora eccomi qui in città e ho
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