Novelle - 04
Qualcuno gli domandò come si stésse a disciplina.
— Male.... i minchioni. I minchioni, vedete, nel mestiere del
soldato, hanno sempre tutte le disgrazie. Il pane e acqua, i ferri, le
sciabolate, son tutta roba per loro. Ma chi ha un poco di cervello e
un po' di fegato, è un altro par di maniche. Bisogna saper mostrare i
denti a tempo e luogo; anche i superiori hanno una pelle da conservare,
capite bene;... tutto sta nel non lasciarsi mettere il piede sul collo.
Un capitano aveva preso a fare le picche con me, e ogni settimana ero
dentro; era una vita che non poteva durare. Un giorno io lo presi a
quattr'occhi,... perchè, tenetevelo bene a mente, coi superiori non
ci vogliono testimoni; se c'è chi vede, si è fritti; soli, si nega
fino alla morte, e si salva la pelle. Lo presi a quattr'occhi, in un
corridoio, di notte, che non se l'aspettava, e là gliene dissi quattro,
vi assicuro io, di quelle che arrivano all'anima: “O lei finisce di
rompermi l'anima, o le giuro sulla mia sacra parola d'onore, che a me
mi toccherà una palla nella schiena, ma a lei quattro dita di baionetta
nella pancia, non c'è nemmeno l'Anticristo che gliele levi.„ Non
parlò più; se fiatava, l'infilavo come un ranocchio. Tutto sta lì: non
bisogna lasciarsi mettere il piede sul collo.
— E la guerra? — domandò un altro.
— La guerra, — rispose Marco, — non c'è che dire: alla guerra bisogna
fare il suo dovere. La patria è una sola, e il soldato è il difensore
della patria. Ma siamo sempre alle solite, che i generali non sanno
quello che si fanno. Figuratevi, un generale, nel sessantasei, mentre
si marciava verso Venezia, e c'erano forti da tutte le parti, un
generale di brigata, con tanto di galloni e di cordoni, e un'aria di
mangia-tedeschi che metteva paura; e questo è seguìto a me che ero
all'avanguardia, ed ero incaricato di avvisare quando si presentava il
nemico; ebbene quel generale non sapeva dov'era il forte.... non so,
un forte di primo ordine, che di là i Tedeschi ci potevano prendere a
cannonate quando volevano: ebbene il generale, che era solo, dovè far
la figura di domandarlo a me, — e si batteva la mano aperta sul petto,
— a me, semplice soldato, cosa da far venire il rossore sulla fronte,
e dire: “Ohè, voi, da che parte si trova il forte tale?„ E io a dover
rispondere: “Signor generale, il forte di cui parla, è quello là,
guardi dove segno col dito.„ E se non ci avessi badato io, ci conduceva
al macello. Che ve ne pare? Domando e dico se c'è sugo a far la guerra
in quel modo. —
VII.
All'undici di sera Marco era rimasto solo nella sua bottega rischiarata
da una lucerna, e leggicchiava un vecchio giornale: Carlo entrò.
— Numero sette, lo so; — disse Marco dandogli un'occhiata, senza
smetter di leggere.
Carlo gli sedette accanto senza far parola, e appoggiato un braccio
sulla tavola chinò la testa sulla mano.
— È una vita dura —, cominciò a dir Marco, lanciando all'amico uno
sguardo di compassione maligna. — Oh per dura è dura, te lo posso dir
io. È una vita che chi ne vuol parlare bisogna che l'abbia provata.
Io te lo dico per tuo bene, perchè non vorrei che andassi a fare il
soldato con un'idea falsa. È mio dovere d'amico di dirti la verità. É
una vita d'inferno. Immagina pure delle umiliazioni; non ne penserai
mai tante quante ne avrai da patire, va pur sicuro. Piangerai delle
lagrime di sangue, piangerai. Già, prima di tutto, se hai sentimento
d'onore, chi è soldato deve far conto di non averne. Caporali,
sergenti, tenenti, capitani, son tutta gente pagata apposta per darti
dell'asino e del mascalzone una volta l'ora — per turno. In piazza
d'armi, in presenza di mezzo mondo, ti mettono le mani sulla faccia,
e la gente si ferma e ride. Nelle marcie poi, quando si muore dalla
sete, che non s'ha più figura d'uomo, e si resta indietro o si casca
a traverso la strada, allora son pugni e piattonate che non ci son
per niente gli aguzzini nelle galere. Ho visto io un comandante di
compagnia in una marcia che c'era un soldato malato che non si poteva
reggere, e lui credeva che lo facesse apposta; ebbene, lo cacciò avanti
a spintoni e a calci, per mezzo miglio, fin che rotolò in un fosso, in
fin di vita. Cose da far diventar matti. E qualche volta danno anche
delle sciabolate di taglio. Non c'è pietà, mio caro. Il soldato è una
bestia. Prepara pure la schiena e la faccia. E chi si rivolta, o lo
cacciano in una prigione a farsi mangiar vivo dai topi o lo mandano in
una compagnia di disciplina dove gli rompono le ossa col bastone. Se
poi hai la disgrazia di ammalarti, non ti dico altro, tutti sanno cosa
sono gli ospedali militari. Se non guarisci più che presto, ti danno
il passaporto per il camposanto come due e due fan quattro, perchè,
capisci bene, non vogliono mica mantenere della carne inutile. Ne ho
visti dei miei compagni distesi là stecchiti su quei letti, cogli occhi
di vetro e la faccia color di cera! È vero che ti può anche capitar
la fortuna della guerra. Allora i tuoi superiori ci guadagnano un
grado e tu lasci le budella in mezzo a un campo di grano, se pure non
ti tocca prima di metterti in riga con una dozzina dei tuoi compagni
e di cacciare una palla nella schiena a un tuo amico, condannato
per “sbandamento in faccia al nemico.„ Credi, è proprio una vita da
galeotti. Per resisterci bisogna non aver sangue nelle vene. Vorrei
aver tanti scudi quanti dei miei compagni ho visti stracciare coi denti
la tela della branda e dar di mano alla baionetta per cacciarsela nella
gola. Per me, non lo dico per disanimarti, che non sarebbe un'azione
da galantuomo; ma andrei in galera, andrei a marcire in una prigione,
mi metterei a far l'assassino di strada, mi farei impiccare in mezzo
a una piazza, tutto piuttosto che tornar a fare il soldato. Ma già, se
mi richiamassero, piglierei la strada di Francia o di Svizzera. Ce ne
sono andati tanti altri! Cosa vuoi? Io proprio a pigliarmi dei pugni,
dei calci e delle sciabolate, non mi ci sento nato. In tutti i casi
avrei più caro pigliarmi una fucilata nel petto da un carabiniere alla
frontiera, chè almeno sarebbe una palla sola, piuttosto che pigliarne
dodici nella schiena dai miei compagni, al comando dell'aiutante
maggiore. Fatti coraggio, andiamo. Sono cinque anni, in conclusione, e
cinque anni... son lunghi, sì; accidenti che son lunghi! ma non sono la
vita.
VIII.
Il giorno dopo, all'ora solita, Carlo e Camilla si trovavano dinanzi al
portone. Essa aveva. gli occhi rossi; egli la salutò sorridendo.
— Sei allegro? — domandò Camilla.
— Sì.
— Si direbbe che hai già dimenticato che devi partire.
— Io non parto, — rispose francamente il giovane.
— Come non parti?
— Non parto — soggiunse egli, spiccando chiaramente le sillabe, — non
vado a fare il soldato.
— Ti metteranno in prigione! — esclamò Camilla fissandolo inquieta, chè
indovinava il suo pensiero.
— A lasciarsi prendere! — egli mormorò guardando in aria.
— Carlo! — esclamò la giovane smettendo il lavoro, — tu scherzi!
— Scherzo?... Vedrai.
— Carlo! — riprese Camilla — tu non pensi a quello che dici! Tu non mi
vuoi bene! Da quando in qua t'è venuta questa idea?
— L'ho sempre avuta.
— Non è vero!
— Come non è vero? — gridò Carlo voltandosi in tronco, e le diede una
di quelle terribili occhiate che le facevano morir la parola sulle
labbra. Camilla si rimise a sedere, appoggiò la fronte sulle mani,
e mormorò con voce umiliata: — Abbi compassione di me.... non mi far
soffrire.... dimmi che non dici davvero.
Egli le pose una mano sul capo in atto carezzevole, ma la ritirò subito
e stette pensando. Tacque per qualche minuto anch'essa, assorta nella
meditazione della nuova disgrazia che il disegno di Carlo le faceva
prevedere; poi s'alzò, e appoggiando le mani colle dita intrecciate
sopra una spalla del giovine, gli disse con tutta la dolcezza del suo
cuore e della sua voce:
— Io ho capito quello che tu hai in mente, e... guarda, so anche chi ti
ce messo quell'idea. —
Il giovane fece cenno di no.
— Non dir di no, Carlo, io non ti voglio metter male con nessuno;
dico soltanto per farti vedere che certe cose non ti credo capace di
pensarle. Tu mi vuoi bene, non è vero? —
Carlo accennò di sì.
— Dunque... un po' di pensiero di me, se è vero che mi vuoi bene, te
lo dovresti prendere. Vorresti lasciarmi sola? Capirai bene che io non
posso andare con te. Tu mi puoi dire che anche per andar a fare il
soldato mi devi lasciare. Lo so anch'io, ma è un'altra cosa. Se vai
a fare il soldato, io so dove vai e so anche quando torni; anno più,
anno meno, se non seguono disgrazie, è sicura; ma se parti per un altro
motivo... addio matrimonio; chi sa quando potresti tornare. E poi...
dove andresti? Oh Dio mio, non mi ci far pensare; bisognerebbe bene
che andassi in un altro paese; lo so dove vanno; passano i monti, ce
n'è già stati anche da queste parti di quei che disertano; ma si son
più visti? io sento dire che finiscon tutti male. E poi... se è per
il sostentamento della famiglia, tu sai, che, grazie al cielo, anche
se non ci fossi tu, per qualche anno non sarebbe una rovina; ma posto
pure che s'avesse bisogno di te... a esser fuor di paese, mi pare che
sarebbe la stessa. Perchè te n'andresti allora? Pel bene dei tuoi, o di
me, no;... ma già l'hai detto per farmi paura, Carlo, non è vero?
— Ma sai, — rispose Carlo con un sorriso forzato, senza guardarla, —
che si direbbe quasi che ci hai piacere ch'io vada a fare il soldato?
Di' la verità, ci hai piacere?
— Piacere! Ma, Carlo! Possibile che tu non possa dirmi una parola senza
farmi male al cuore? Non mi conosci ancora? Da quando mi hai dato la
notizia, sette giorni fa, non ho più avuto un momento di pace, tu lo
sai; non ho fatto che piangere e disperarmi... e poi guardami in viso,
come mi son ridotta; vedi che non penso che a te, che ti sto sempre
accanto, che appena ti vedo allegro mi consolo, e ogni volta che mi
dici una parola trista, cambio di colore; e in ricompensa della vita
che faccio, invece d'incoraggiarmi, di mostrarmi almeno un po' di
compassione, mi dici che ho piacere che tu parta!
— Non ho detto questo, io.
— L'hai detto e poi... Dubiteresti di me forse? Vuoi ch'io ti prometta
che per tutto il tempo che starai lontano non guarderò in viso nessuno,
nemmeno per un momento, come se non avesse gli occhi? Io son capace di
farlo, faccio magari un voto, io; tu non mi conosci ancora, vedrai. Io
son donna da venir qui, in questo posto, tutte le sere, cinque anni di
seguito, come se tu ci fossi sempre. Cinque anni? dieci, quindici anni
ti aspetterei, senza lamentarmi; senza farti mai il più piccolo torto,
nemmeno col pensiero. Ma purchè io sappia che tu sei in paese, che non
giri pel mondo come un disperato, che non c'è nessuno che ti cerca,
che fai il tuo dovere. Tutti gli altri vanno... Carlo, tu puoi capire
quanto mi costa dire questa parola; eppure sento che è mio dovere di
dirtela, e te la dico con tutto il cuore, senza esitare, anzi, guarda,
con una certa soddisfazione, come se fosse la parola di una preghiera:
Va tu pure! —
Quando siamo ostinati in un proposito, e specie in un proposito tristo,
la parola di chi vuol persuaderci a staccarcene, quanto più è amorevole
e dolce, tanto più indurisce l'ostinazione e inasprisce la resistenza.
— Va! va! — proruppe il giovane, scrollando le spalle; — s'ha un bel
dire: Va, quando si sta a casa! bisogna sapere che razza di vita è
quella che si va a fare!.... Va!
— Non t'impazientire, Carlo; sa Iddio se io m'immagino che sia una
bella vita! Per quanto sia brutta, non lo sarà certo quanto pare a
me; ma pure bisogna farsi animo. O che la vita che andresti a fare
fuor di paese sarebbe meglio? Ce ne sono state dell'altre ragazze che
discorrevano con giovani che dovevano andare soldati; ne conosco io più
d'una, le conosci anche tu. Ebbene, i giovani sono partiti, sono stati
lontani parecchi anni, qualcuno è anche andato alla guerra. Le ragazze
li aspettarono; in tutto quel tempo vissero ritirate; finalmente quelli
tornarono, si volevano più bene di prima, si sposarono, e ora vivono
in pace, senza rimorsi. Io non credo che sarebbero così contenti, se
fossero fuggiti, anche nel caso che avessero potuto tornare. E la vita
del soldato non era mica più brutta allora che adesso.... E poi se tu
fossi uno di quei deboli, come Pietro, il figlio del fornaio, che non
ha potuto resistere, e dicono che è morto in una marcia, non direi; ma
sei robusto, (lo guardò), e staresti anche bene.
— Sì, sì, tutte buone parole, — rispose il giovane con un leggiero
sorriso; — ma non fanno al caso: io non parlo di fatiche, io non ho
paura della fatica. Gli è questo qui, — e si picchiava sul cuore, — che
non se la sente di fare il soldato. Io non son fatto per servire, ecco.
I signori qui accanto m'avevano fatto la proposta di andare in città, e
a che patti! Hai visto se ho accettato; è il mio carattere, cosa vuoi?
coi superiori non me la dico, è impossibile. Figurati la schiavitù
del soldato! Mi sgridano, rispondo, e sai cosa succede. Io so che
vita è, me l'hanno detto, e poi tutti lo sanno; va una volta in piazza
d'armi e lo saprai anche tu. Io sento che se vado non torno; non è una
vita per tutti, tant'è vero che c'è di quelli che s'ammazzano dalla
disperazione. Andrei a lavorare nelle miniere, piuttosto; andrei magari
qui alla fabbrica di vetri, dove si sta tutto il giorno davanti alle
fornaci, e si perde gli occhi; andrei dove tu vuoi, anche a crepare;
ma a fare il soldato, no, non posso, è inutile, son fatto così: servire
non è il fatto mio.
— Servire! — disse timidamente la ragazza; — io non so, ma... per
quello che sento dire, e che pare anche a me, il soldato fatica e corre
anche dei pericoli; ma non serve nessuno. Chi serve?
— Tutti! — gridò il giovane, — tutti serve!.... Chi serve! —
Camilla tacque un momento, e poi disse a fior di labbra, incertamente,
come si dicon le cose sentite dire, più perchè ci son rimaste negli
orecchi, che per averle capite:... — Serve il Re.
— Un'altra ora! — rispose Carlo, cercando in sè stesso una risposta; —
il Re! Già, è sempre lì in caserma a far da protettore, il Re! È lì a
farti far giustizia, quando ti maltrattano a torto; a farti dare del
pane buono quando te lo danno colla muffa; e a far capire ai medici,
quando ti curano, che sei carne di cristiano? Ne sa dimolto il Re!
— Io non so; ma ho anche sentito dire che fare il soldato... è un onore.
— Ah, povera te, un onore! L'onore è per quelli che comandano, e
hanno i galloni d'oro e le tasche piene di quattrini; ma per il
povero contadino che va lì a sgobbare quel tanto e poi chi s'è visto
s'è visto, non c'è onore che tenga. Sai cosa c'è? C'è i ferri corti,
cara mia; ecco quello che c'è. E poi... (qui abbassò la voce e
riprese con accento molto significativo) tu non sai che vita fanno i
soldati. —
La ragazza lo guardò un momento incerta, come se non avesse capito, e
poi, abbassando gli occhi, mormorò:
— A me mi pare che chi vuole, può portarsi bene da per tutto.
— Già! Hai sempre una buona ragione da dire, tu! Tu accomodi tutto! Tu
vedi tutto bello!
— E tu non vedresti tutto tanto brutto — rispose Camilla con una certa
vivacità, — se non ci fosse chi ti fa vedere in quel modo!
— So di chi vuoi parlare, non è vero, e non dire una parola di più!
— Ma come vuoi ch'io parli allora? — proruppe essa con una voce, in cui
si sentiva il tremito dell'indignazione; e intanto le si gonfiavano
le vene del collo bianco e sottile. — Io ti dico quello che sento,
quello che mi dice il cuore e che mi par il tuo bene, e tu vai in
collera! Vuoi ch'io ti dica per forza quello che pensi tu? Comandami!
minacciami! Ma col cuore non me lo farai dire, non lo dirò mai, mi
ripugna... non posso!
— Ebbene! — disse Carlo con una voce che pareva tranquilla, ma con un
viso che la fece tremare; — vado, te lo prometto, vado; ma... sentimi
bene, te lo dico prima, e sta sicura che terrò la parola: io non sono
uno di quelli che si lasciano mettere il piede sul collo, io ci ho
del sangue nelle vene... mi conosci; ebbene, io, la prima volta che un
superiore mi fa una prepotenza, o mi dice una brutta parola, o mi mette
le mani addosso, fossimo anche in mezzo alla piazza d'armi, in mezzo
alla strada, in presenza di cento persone, di te, del tuo Curato, dei
tuoi parenti, di chi diavolo vuoi, com'è vero Dio gli spacco la testa
col calcio del fucile, e segua quel che vuol seguire! —
Camilla si coperse il viso con orrore; egli la guardò di traverso, con
quello sguardo di compiacenza bestiale che misura la ferita aperta
dalla parola: ma quasi nello stesso punto, per uno di quei rapidi
mutamenti del cuore che non sono rari in quelle nature violente, si
commosse alla vista di quella poveretta che singhiozzava, come se il
petto le si volesse spezzare.
— Camilla! — gridò con voce amorevole.
— Sì! — essa prese a dire singhiozzando, — vogliate bene a un giovane,
consacrategli tutto il vostro cuore, soffrite, tremate, consumatevi
per lui; tutto questo colla speranza che, quando egli si trovi in un
momento difficile, vi dia la consolazione di vedere che ha bisogno
di voi, che gli potete riuscir utile, confortarlo, incoraggiarlo; sì,
illudetevi; quel momento verrà, farete quanto potrete per persuaderlo a
non mancare ai suoi doveri: ebbene, allora, per ricompensa del vostro
affetto, egli vi risponderà che vuol fare... — e soggiunse a fior di
labbra — l'assassino! — e diede in uno scoppio di pianto più forte.
Carlo si chinò e la prese per una mano; essa approfittò di quel momento
per gridargli con voce supplichevole: — Promettimi che andrai! — e
l'afferrò per le braccia.
— Camilla! — esclamò egli, svincolandosi e allontanandosi rapidamente;
— sono un disgraziato! —
Camilla fece cenno che si fermasse, Carlo scomparve; allora essa
riabbassò il capo piangendo. In quel punto la scosse il suono d'una
voce lieta e amorevole che domandava: — Cosa c'è?
— Ah! il signor Curato! — esclamò Camilla. — Ho tanto bisogno di
lui, è buono, gli dirò tutto, mi farà coraggio, sia ringraziato il
cielo! —
E corse verso il vecchio prete colla confidenza e colla serenità d'una
bambina.
IX.
Carlo e Marco s'incontrarono due ore dopo in una strada del villaggio.
— Ho pensato una cosa, — disse Marco. — Sai in che mani t'hai a mettere
per quell'affare?
— Che affare? —
Marco fece un atto come per accennare un paese lontano.
— Hai capito.... Ebbene, sai in che mani t'hai da mettere se vuoi
uscirne bene? Te la do in cento a indovinare. Già non saresti il primo
ch'è passato per quella strada.... ma in specie ora che il battibecco
è più forte: se lui vuole, tra loro si scrivono di parrocchia in
parrocchia, ti trovi al sicuro prima d'accorgertene. Tu devi andare
da lui, dirgli il caso in cui ti trovi, e dargli una tastatina così
alla larga, senza arrischiarti. Se vedi che cede subito, e tu batti,
fin che il ferro è caldo; se fa l'indiano, avanti lo stesso, non è che
una finzione per non compromettersi il primo; se poi nega, addio, è
galantuomo, non ti tradisce, la peggio sarà di non averne cavato nulla.
— Ma di chi parli?, — domandò Carlo.
E l'amico fece intorno al capo un gesto buffonesco che voleva
rappresentare un cappello da prete.
X.
Il Curato, che gli abitanti del villaggio chiamavano famigliarmente don
Luigi, era un vecchietto d'una settantina d'anni, piccolo e nervoso,
con due occhietti vivissimi, che leggevano nelle anime, — dicevano le
divote, — come in un libro stampato; buon uomo e buon prete, indulgente
in confessionale, allegro a tavola, di viso rosso, di capelli bianchi
e di opinioni politiche tricolori; non diverso nella vita e nei modi
dagli altri curati di quelle campagne; dai quali però era tenuto in
pregio per una certa tintura di buone lettere, di cui aveva dato prova
anni addietro in parecchi sonetti dedicati all'arcivescovo e lodati
da un giornale della provincia come “fiori di buona poesia non meno
commendevoli per la nobiltà della forma che per la robustezza dei
concetti„. Lo sguardo pieno di benevolenza e la voce dolce temperavano
la severità dei suoi lineamenti e la rigidezza della sua andatura che
gli davano un po' l'aria di un maggiore giubilato. Ed era aperto e
affabile con tutti, e tutti gli volevan bene; Camilla, in ispecie,
la quale aveva preso con lui una grande domestichezza, perchè,
stando di casa vicino alla chiesa, aveva occasione di vederlo spesso
e di parlargli lungamente. Corse perciò da lui a dirgli ogni cosa,
della leva, dei disegni di Carlo e delle sue paure, scongiurandolo
che tentasse d'indurre il giovane a mutar consiglio, se non voleva
vederla morir di dolore. Il curato le promise di fare quanto poteva, e
soggiunse che avrebbe cercato Carlo egli stesso prima di sera.
Un'ora dopo Carlo picchiava all'uscio del prete.
Non sapeva ancora cosa avrebbe detto, non aveva neppur pensato al modo
di cominciare, si sentiva in cuore una grande trepidazione. Entrò e si
fermò in un angolo della stanza col cappello in mano.
Era una piccola stanza a terreno, allegra, piena di luce, con
quell'aspetto particolare delle stanze dei curati di campagna, che
fanno indovinare la chiesa accanto: le pareti bianche e nude, un
crocifisso sopra la porta, un vecchio quadro, un vaso di dittamo sulla
finestra, e un leggero odore d'incenso nell'aria.
Il Curato era seduto sopra un seggiolone davanti al tavolino e leggeva;
quando vide comparire il giovane, fece un atto di sorpresa.
— Ho da parlarle, signor Curato, — disse Carlo.
Il Curato lo fece sedere. — In che modo può avermi prevenuto? — pensava
intanto. — C'è sotto qualcosa. — E guardò attentamente Carlo, e gli
balenò un sospetto, e risolvette di chiarirsene subito.
— Sento che sei chiamato al servizio militare, — disse.
— Sì signore, — rispose il giovane fissandolo.
— E quando parti?
— .... Partirei dopo la visita sanitaria, fra una diecina di giorni.
— E.... — domandò il Curato lanciandogli un occhiata scrutatrice —
parti? —
Carlo non rispose, lo guardò. Il prete si confermò nel suo sospetto; e
dopo aver guardato un po' il libro colle sopracciglia aggrottate, alzò
il capo e disse con aria distratta:
— Dunque parti, e sei venuto a chiedermi un consiglio, non è vero?
— Lei m'ha capito.
— Credo d'aver capito, — rispose con serietà il prete, — e poi,
pigliando tutt'a un tratto un accento benevolo continuò: — Sicuro... tu
sei un bravo giovane, sei robusto, hai giudizio, farai il tuo dovere e
te ne tornerai a casa contento. Non ti domando neppure se sei più che
mai risoluto di mantenere la tua promessa a Camilla; sono anzi sicuro
che, in tutto il tempo che starai lontano da casa, terrai una buona
condotta e farai di tutto perchè, come ora, partendo, le porgi la mano
di un buon figliuolo, così al ritorno essa possa stringere la mano d'un
bravo soldato; dico bene? —
Il giovane, meravigliato, arrossiva e impallidiva, senza sapere che
rispondere e a che partito appigliarsi. A un tratto gli tornarono in
mente le parole dell'amico: “Se fa l'indiano, non è che una finzione
per non compromettersi il primo„; e gli balenò un raggio di speranza.
Si fece animo, e ruppe il ghiaccio d'un colpo.
— Ma io non vado a fare il soldato! — esclamò.
— Ah! — gridò il prete con un leggiero sorriso voltandosi a guardare
verso la finestra.
— L'avevo detto, io! — pensò Carlo; — eccoci al punto.
— E cosa pensi di fare? — domandò il Curato, sempre guardando fuori.
— Io?... —
Stette un po' pensando e rispose in fretta: — Il mondo è largo. —
— Tu non sai una cosa — disse allora il curato, voltandosi verso
Carlo, e sorridendo benevolmente, come se non avesse compreso
affatto il significato delle sue ultime parole. — Non sai che io sono
stato cappellano militare per cinque anni, dal cinquantaquattro al
cinquantanove. Cinque anni filati, cappellano del primo reggimento di
fanteria, brigata Re. È così. Sono stato anch'io mezzo soldato e te
ne posso dire qualche cosa. È vero che d'allora in qua le cose son
molto cambiate... e dicono in meglio. Ma credi a quello che ti dico
io: non è una brutta, dura, scellerata vita che per i cattivi soldati.
Per gli altri è un tutt'altro mestiere. Tutto sta a cominciar bene.
Una volta che un giovane s'è messo in buona vista dei superiori,
è sicuro del fatto suo: non sente più il peso della disciplina. Ma
bisogna essere allegri, franchi, leali. I superiori perdonano tutto
a quelle belle faccie aperte di bravi soldati e di galantuomini, che
hanno magari il diavolo in corpo e ne fanno una grossa ogni tanto; ma
che a guardarli, bisogna dire per forza: — Ecco un uomo! — In tutti
i reggimenti ce n è un certo numero di questi lestofanti, che fanno
dannar l'anima ai superiori, e che pure, ogni volta che la sgarrano,
tutti chiudono un occhio. In cinque anni ne ho conosciuti molti. Mi
ricordo, fra gli altri, d'un certo Farinelli, di cui gli ufficiali
vecchi di quel reggimento debbono ancora ricordarsi. Era un pezzo di
giovane più alto un palmo di te, largo così, che s'era fatto mettere
a doppia razione.... Era la scapestrataggine incarnata! Scappava di
notte, rischiava la vita, metteva sottosopra la compagnia; ma era tanto
buon figliuolo, che si faceva ben vedere da tutti. In marcia portava
gli zaini di quelli che non ne potevano più; in caserma cantava sempre,
saltava come un capriolo, rompeva una pietra con un pugno; se c'era
una rissa, era quello che la faceva finire a scappellotti; sempre il
primo a gettarsi negli incendi, sempre il primo a cacciarsi nell'acqua
per salvare un compagno, furbo, sfrontato, pronto a rispondere, che
nessuno gli poteva tener testa; incapace di mentire se l'avessero
coperto d'oro; un soldato modello in servizio, un demonio fuori.
Aveva il vizio di bere. Ma quando aveva bevuto, stava in riga così
impalato, che i superiori, invece di punirlo, bisognava che ridessero.
Tutto il reggimento lo conosceva. Il suo capitano diceva che con
cinquanta mascalzoni come lui si sarebbe sentito di dare le pacche a
un battaglione d'austriaci. Mi ricordo che una volta il colonnello,
ch'era una bella figura di vecchio soldato, con una cicatrice sulla
fronte, passando in rivista il reggimento, si fermò a guardare quel
bel giovane ardito che lo fissava con due maledetti occhioni pieni di
fuoco, e non potè trattenersi dal dirgli: — Ma sai che hai un gran bel
muso di soldato, tu! — Indovina un po' cosa gli rispose quel malanno? —
_E'l so a facesia gnanca, sor coronel_ — (E il suo non scherza nemmeno,
signor colonnello). — E il colonnello restò un momento stupito, ma
poi rise e non disse nulla. Quelli son soldati! Ce n'era poi degli
altri, come ce n'è sempre, affatto diversi, proprio l'opposto; ma
non meno bravi soldati per questo. Soldati tranquilli, che passavano
i loro cinque anni senza farsi sentire, come ombre; il primo giorno
come l'ultimo; sempre i primi a mettersi in riga, sempre i primi a
rientrare in quartiere, mai una macchia sul cappotto, mai una parola
più alta dell'altra, mai un soldo di debito sulla _massa_, mai malati,
mai di cattivo umore, soldati che in cinque anni non ricevevano nè una
_consegna_ nè un rimprovero, e che il comandante della compagnia non
si sarebbe accorto che c'erano, se non ci fosse stato il loro nome sui
ruoli; giovani che parevano nati con la divisa addosso e col fucile in
mano, e che dovessero fare i soldati per tutta la vita. Mi ricordo d'un
capitano che ne aveva una decina nella compagnia e che mi diceva: — Se
io avessi sempre una compagnia tutta di soldati come quelli, vivrei
vent'anni di più. In parola d'onore, se mi domandaste a chi voglio
più bene, a quei ragazzi lì o ai miei figliuoli, sarei imbarazzato a
rispondere. Che cosa te ne pare?
Carlo ascoltava con la faccia bassa e pensierosa.
— E posso parlare, vedi — continuò il curato — perchè i soldati
piemontesi di quel tempo, non dico per vantarmi, ma li ho conosciuti
proprio dentro. Allora era un altro par di maniche. Anche soldati
avevano religione e si confessavano. Venivano al servizio colle
— Male.... i minchioni. I minchioni, vedete, nel mestiere del
soldato, hanno sempre tutte le disgrazie. Il pane e acqua, i ferri, le
sciabolate, son tutta roba per loro. Ma chi ha un poco di cervello e
un po' di fegato, è un altro par di maniche. Bisogna saper mostrare i
denti a tempo e luogo; anche i superiori hanno una pelle da conservare,
capite bene;... tutto sta nel non lasciarsi mettere il piede sul collo.
Un capitano aveva preso a fare le picche con me, e ogni settimana ero
dentro; era una vita che non poteva durare. Un giorno io lo presi a
quattr'occhi,... perchè, tenetevelo bene a mente, coi superiori non
ci vogliono testimoni; se c'è chi vede, si è fritti; soli, si nega
fino alla morte, e si salva la pelle. Lo presi a quattr'occhi, in un
corridoio, di notte, che non se l'aspettava, e là gliene dissi quattro,
vi assicuro io, di quelle che arrivano all'anima: “O lei finisce di
rompermi l'anima, o le giuro sulla mia sacra parola d'onore, che a me
mi toccherà una palla nella schiena, ma a lei quattro dita di baionetta
nella pancia, non c'è nemmeno l'Anticristo che gliele levi.„ Non
parlò più; se fiatava, l'infilavo come un ranocchio. Tutto sta lì: non
bisogna lasciarsi mettere il piede sul collo.
— E la guerra? — domandò un altro.
— La guerra, — rispose Marco, — non c'è che dire: alla guerra bisogna
fare il suo dovere. La patria è una sola, e il soldato è il difensore
della patria. Ma siamo sempre alle solite, che i generali non sanno
quello che si fanno. Figuratevi, un generale, nel sessantasei, mentre
si marciava verso Venezia, e c'erano forti da tutte le parti, un
generale di brigata, con tanto di galloni e di cordoni, e un'aria di
mangia-tedeschi che metteva paura; e questo è seguìto a me che ero
all'avanguardia, ed ero incaricato di avvisare quando si presentava il
nemico; ebbene quel generale non sapeva dov'era il forte.... non so,
un forte di primo ordine, che di là i Tedeschi ci potevano prendere a
cannonate quando volevano: ebbene il generale, che era solo, dovè far
la figura di domandarlo a me, — e si batteva la mano aperta sul petto,
— a me, semplice soldato, cosa da far venire il rossore sulla fronte,
e dire: “Ohè, voi, da che parte si trova il forte tale?„ E io a dover
rispondere: “Signor generale, il forte di cui parla, è quello là,
guardi dove segno col dito.„ E se non ci avessi badato io, ci conduceva
al macello. Che ve ne pare? Domando e dico se c'è sugo a far la guerra
in quel modo. —
VII.
All'undici di sera Marco era rimasto solo nella sua bottega rischiarata
da una lucerna, e leggicchiava un vecchio giornale: Carlo entrò.
— Numero sette, lo so; — disse Marco dandogli un'occhiata, senza
smetter di leggere.
Carlo gli sedette accanto senza far parola, e appoggiato un braccio
sulla tavola chinò la testa sulla mano.
— È una vita dura —, cominciò a dir Marco, lanciando all'amico uno
sguardo di compassione maligna. — Oh per dura è dura, te lo posso dir
io. È una vita che chi ne vuol parlare bisogna che l'abbia provata.
Io te lo dico per tuo bene, perchè non vorrei che andassi a fare il
soldato con un'idea falsa. È mio dovere d'amico di dirti la verità. É
una vita d'inferno. Immagina pure delle umiliazioni; non ne penserai
mai tante quante ne avrai da patire, va pur sicuro. Piangerai delle
lagrime di sangue, piangerai. Già, prima di tutto, se hai sentimento
d'onore, chi è soldato deve far conto di non averne. Caporali,
sergenti, tenenti, capitani, son tutta gente pagata apposta per darti
dell'asino e del mascalzone una volta l'ora — per turno. In piazza
d'armi, in presenza di mezzo mondo, ti mettono le mani sulla faccia,
e la gente si ferma e ride. Nelle marcie poi, quando si muore dalla
sete, che non s'ha più figura d'uomo, e si resta indietro o si casca
a traverso la strada, allora son pugni e piattonate che non ci son
per niente gli aguzzini nelle galere. Ho visto io un comandante di
compagnia in una marcia che c'era un soldato malato che non si poteva
reggere, e lui credeva che lo facesse apposta; ebbene, lo cacciò avanti
a spintoni e a calci, per mezzo miglio, fin che rotolò in un fosso, in
fin di vita. Cose da far diventar matti. E qualche volta danno anche
delle sciabolate di taglio. Non c'è pietà, mio caro. Il soldato è una
bestia. Prepara pure la schiena e la faccia. E chi si rivolta, o lo
cacciano in una prigione a farsi mangiar vivo dai topi o lo mandano in
una compagnia di disciplina dove gli rompono le ossa col bastone. Se
poi hai la disgrazia di ammalarti, non ti dico altro, tutti sanno cosa
sono gli ospedali militari. Se non guarisci più che presto, ti danno
il passaporto per il camposanto come due e due fan quattro, perchè,
capisci bene, non vogliono mica mantenere della carne inutile. Ne ho
visti dei miei compagni distesi là stecchiti su quei letti, cogli occhi
di vetro e la faccia color di cera! È vero che ti può anche capitar
la fortuna della guerra. Allora i tuoi superiori ci guadagnano un
grado e tu lasci le budella in mezzo a un campo di grano, se pure non
ti tocca prima di metterti in riga con una dozzina dei tuoi compagni
e di cacciare una palla nella schiena a un tuo amico, condannato
per “sbandamento in faccia al nemico.„ Credi, è proprio una vita da
galeotti. Per resisterci bisogna non aver sangue nelle vene. Vorrei
aver tanti scudi quanti dei miei compagni ho visti stracciare coi denti
la tela della branda e dar di mano alla baionetta per cacciarsela nella
gola. Per me, non lo dico per disanimarti, che non sarebbe un'azione
da galantuomo; ma andrei in galera, andrei a marcire in una prigione,
mi metterei a far l'assassino di strada, mi farei impiccare in mezzo
a una piazza, tutto piuttosto che tornar a fare il soldato. Ma già, se
mi richiamassero, piglierei la strada di Francia o di Svizzera. Ce ne
sono andati tanti altri! Cosa vuoi? Io proprio a pigliarmi dei pugni,
dei calci e delle sciabolate, non mi ci sento nato. In tutti i casi
avrei più caro pigliarmi una fucilata nel petto da un carabiniere alla
frontiera, chè almeno sarebbe una palla sola, piuttosto che pigliarne
dodici nella schiena dai miei compagni, al comando dell'aiutante
maggiore. Fatti coraggio, andiamo. Sono cinque anni, in conclusione, e
cinque anni... son lunghi, sì; accidenti che son lunghi! ma non sono la
vita.
VIII.
Il giorno dopo, all'ora solita, Carlo e Camilla si trovavano dinanzi al
portone. Essa aveva. gli occhi rossi; egli la salutò sorridendo.
— Sei allegro? — domandò Camilla.
— Sì.
— Si direbbe che hai già dimenticato che devi partire.
— Io non parto, — rispose francamente il giovane.
— Come non parti?
— Non parto — soggiunse egli, spiccando chiaramente le sillabe, — non
vado a fare il soldato.
— Ti metteranno in prigione! — esclamò Camilla fissandolo inquieta, chè
indovinava il suo pensiero.
— A lasciarsi prendere! — egli mormorò guardando in aria.
— Carlo! — esclamò la giovane smettendo il lavoro, — tu scherzi!
— Scherzo?... Vedrai.
— Carlo! — riprese Camilla — tu non pensi a quello che dici! Tu non mi
vuoi bene! Da quando in qua t'è venuta questa idea?
— L'ho sempre avuta.
— Non è vero!
— Come non è vero? — gridò Carlo voltandosi in tronco, e le diede una
di quelle terribili occhiate che le facevano morir la parola sulle
labbra. Camilla si rimise a sedere, appoggiò la fronte sulle mani,
e mormorò con voce umiliata: — Abbi compassione di me.... non mi far
soffrire.... dimmi che non dici davvero.
Egli le pose una mano sul capo in atto carezzevole, ma la ritirò subito
e stette pensando. Tacque per qualche minuto anch'essa, assorta nella
meditazione della nuova disgrazia che il disegno di Carlo le faceva
prevedere; poi s'alzò, e appoggiando le mani colle dita intrecciate
sopra una spalla del giovine, gli disse con tutta la dolcezza del suo
cuore e della sua voce:
— Io ho capito quello che tu hai in mente, e... guarda, so anche chi ti
ce messo quell'idea. —
Il giovane fece cenno di no.
— Non dir di no, Carlo, io non ti voglio metter male con nessuno;
dico soltanto per farti vedere che certe cose non ti credo capace di
pensarle. Tu mi vuoi bene, non è vero? —
Carlo accennò di sì.
— Dunque... un po' di pensiero di me, se è vero che mi vuoi bene, te
lo dovresti prendere. Vorresti lasciarmi sola? Capirai bene che io non
posso andare con te. Tu mi puoi dire che anche per andar a fare il
soldato mi devi lasciare. Lo so anch'io, ma è un'altra cosa. Se vai
a fare il soldato, io so dove vai e so anche quando torni; anno più,
anno meno, se non seguono disgrazie, è sicura; ma se parti per un altro
motivo... addio matrimonio; chi sa quando potresti tornare. E poi...
dove andresti? Oh Dio mio, non mi ci far pensare; bisognerebbe bene
che andassi in un altro paese; lo so dove vanno; passano i monti, ce
n'è già stati anche da queste parti di quei che disertano; ma si son
più visti? io sento dire che finiscon tutti male. E poi... se è per
il sostentamento della famiglia, tu sai, che, grazie al cielo, anche
se non ci fossi tu, per qualche anno non sarebbe una rovina; ma posto
pure che s'avesse bisogno di te... a esser fuor di paese, mi pare che
sarebbe la stessa. Perchè te n'andresti allora? Pel bene dei tuoi, o di
me, no;... ma già l'hai detto per farmi paura, Carlo, non è vero?
— Ma sai, — rispose Carlo con un sorriso forzato, senza guardarla, —
che si direbbe quasi che ci hai piacere ch'io vada a fare il soldato?
Di' la verità, ci hai piacere?
— Piacere! Ma, Carlo! Possibile che tu non possa dirmi una parola senza
farmi male al cuore? Non mi conosci ancora? Da quando mi hai dato la
notizia, sette giorni fa, non ho più avuto un momento di pace, tu lo
sai; non ho fatto che piangere e disperarmi... e poi guardami in viso,
come mi son ridotta; vedi che non penso che a te, che ti sto sempre
accanto, che appena ti vedo allegro mi consolo, e ogni volta che mi
dici una parola trista, cambio di colore; e in ricompensa della vita
che faccio, invece d'incoraggiarmi, di mostrarmi almeno un po' di
compassione, mi dici che ho piacere che tu parta!
— Non ho detto questo, io.
— L'hai detto e poi... Dubiteresti di me forse? Vuoi ch'io ti prometta
che per tutto il tempo che starai lontano non guarderò in viso nessuno,
nemmeno per un momento, come se non avesse gli occhi? Io son capace di
farlo, faccio magari un voto, io; tu non mi conosci ancora, vedrai. Io
son donna da venir qui, in questo posto, tutte le sere, cinque anni di
seguito, come se tu ci fossi sempre. Cinque anni? dieci, quindici anni
ti aspetterei, senza lamentarmi; senza farti mai il più piccolo torto,
nemmeno col pensiero. Ma purchè io sappia che tu sei in paese, che non
giri pel mondo come un disperato, che non c'è nessuno che ti cerca,
che fai il tuo dovere. Tutti gli altri vanno... Carlo, tu puoi capire
quanto mi costa dire questa parola; eppure sento che è mio dovere di
dirtela, e te la dico con tutto il cuore, senza esitare, anzi, guarda,
con una certa soddisfazione, come se fosse la parola di una preghiera:
Va tu pure! —
Quando siamo ostinati in un proposito, e specie in un proposito tristo,
la parola di chi vuol persuaderci a staccarcene, quanto più è amorevole
e dolce, tanto più indurisce l'ostinazione e inasprisce la resistenza.
— Va! va! — proruppe il giovane, scrollando le spalle; — s'ha un bel
dire: Va, quando si sta a casa! bisogna sapere che razza di vita è
quella che si va a fare!.... Va!
— Non t'impazientire, Carlo; sa Iddio se io m'immagino che sia una
bella vita! Per quanto sia brutta, non lo sarà certo quanto pare a
me; ma pure bisogna farsi animo. O che la vita che andresti a fare
fuor di paese sarebbe meglio? Ce ne sono state dell'altre ragazze che
discorrevano con giovani che dovevano andare soldati; ne conosco io più
d'una, le conosci anche tu. Ebbene, i giovani sono partiti, sono stati
lontani parecchi anni, qualcuno è anche andato alla guerra. Le ragazze
li aspettarono; in tutto quel tempo vissero ritirate; finalmente quelli
tornarono, si volevano più bene di prima, si sposarono, e ora vivono
in pace, senza rimorsi. Io non credo che sarebbero così contenti, se
fossero fuggiti, anche nel caso che avessero potuto tornare. E la vita
del soldato non era mica più brutta allora che adesso.... E poi se tu
fossi uno di quei deboli, come Pietro, il figlio del fornaio, che non
ha potuto resistere, e dicono che è morto in una marcia, non direi; ma
sei robusto, (lo guardò), e staresti anche bene.
— Sì, sì, tutte buone parole, — rispose il giovane con un leggiero
sorriso; — ma non fanno al caso: io non parlo di fatiche, io non ho
paura della fatica. Gli è questo qui, — e si picchiava sul cuore, — che
non se la sente di fare il soldato. Io non son fatto per servire, ecco.
I signori qui accanto m'avevano fatto la proposta di andare in città, e
a che patti! Hai visto se ho accettato; è il mio carattere, cosa vuoi?
coi superiori non me la dico, è impossibile. Figurati la schiavitù
del soldato! Mi sgridano, rispondo, e sai cosa succede. Io so che
vita è, me l'hanno detto, e poi tutti lo sanno; va una volta in piazza
d'armi e lo saprai anche tu. Io sento che se vado non torno; non è una
vita per tutti, tant'è vero che c'è di quelli che s'ammazzano dalla
disperazione. Andrei a lavorare nelle miniere, piuttosto; andrei magari
qui alla fabbrica di vetri, dove si sta tutto il giorno davanti alle
fornaci, e si perde gli occhi; andrei dove tu vuoi, anche a crepare;
ma a fare il soldato, no, non posso, è inutile, son fatto così: servire
non è il fatto mio.
— Servire! — disse timidamente la ragazza; — io non so, ma... per
quello che sento dire, e che pare anche a me, il soldato fatica e corre
anche dei pericoli; ma non serve nessuno. Chi serve?
— Tutti! — gridò il giovane, — tutti serve!.... Chi serve! —
Camilla tacque un momento, e poi disse a fior di labbra, incertamente,
come si dicon le cose sentite dire, più perchè ci son rimaste negli
orecchi, che per averle capite:... — Serve il Re.
— Un'altra ora! — rispose Carlo, cercando in sè stesso una risposta; —
il Re! Già, è sempre lì in caserma a far da protettore, il Re! È lì a
farti far giustizia, quando ti maltrattano a torto; a farti dare del
pane buono quando te lo danno colla muffa; e a far capire ai medici,
quando ti curano, che sei carne di cristiano? Ne sa dimolto il Re!
— Io non so; ma ho anche sentito dire che fare il soldato... è un onore.
— Ah, povera te, un onore! L'onore è per quelli che comandano, e
hanno i galloni d'oro e le tasche piene di quattrini; ma per il
povero contadino che va lì a sgobbare quel tanto e poi chi s'è visto
s'è visto, non c'è onore che tenga. Sai cosa c'è? C'è i ferri corti,
cara mia; ecco quello che c'è. E poi... (qui abbassò la voce e
riprese con accento molto significativo) tu non sai che vita fanno i
soldati. —
La ragazza lo guardò un momento incerta, come se non avesse capito, e
poi, abbassando gli occhi, mormorò:
— A me mi pare che chi vuole, può portarsi bene da per tutto.
— Già! Hai sempre una buona ragione da dire, tu! Tu accomodi tutto! Tu
vedi tutto bello!
— E tu non vedresti tutto tanto brutto — rispose Camilla con una certa
vivacità, — se non ci fosse chi ti fa vedere in quel modo!
— So di chi vuoi parlare, non è vero, e non dire una parola di più!
— Ma come vuoi ch'io parli allora? — proruppe essa con una voce, in cui
si sentiva il tremito dell'indignazione; e intanto le si gonfiavano
le vene del collo bianco e sottile. — Io ti dico quello che sento,
quello che mi dice il cuore e che mi par il tuo bene, e tu vai in
collera! Vuoi ch'io ti dica per forza quello che pensi tu? Comandami!
minacciami! Ma col cuore non me lo farai dire, non lo dirò mai, mi
ripugna... non posso!
— Ebbene! — disse Carlo con una voce che pareva tranquilla, ma con un
viso che la fece tremare; — vado, te lo prometto, vado; ma... sentimi
bene, te lo dico prima, e sta sicura che terrò la parola: io non sono
uno di quelli che si lasciano mettere il piede sul collo, io ci ho
del sangue nelle vene... mi conosci; ebbene, io, la prima volta che un
superiore mi fa una prepotenza, o mi dice una brutta parola, o mi mette
le mani addosso, fossimo anche in mezzo alla piazza d'armi, in mezzo
alla strada, in presenza di cento persone, di te, del tuo Curato, dei
tuoi parenti, di chi diavolo vuoi, com'è vero Dio gli spacco la testa
col calcio del fucile, e segua quel che vuol seguire! —
Camilla si coperse il viso con orrore; egli la guardò di traverso, con
quello sguardo di compiacenza bestiale che misura la ferita aperta
dalla parola: ma quasi nello stesso punto, per uno di quei rapidi
mutamenti del cuore che non sono rari in quelle nature violente, si
commosse alla vista di quella poveretta che singhiozzava, come se il
petto le si volesse spezzare.
— Camilla! — gridò con voce amorevole.
— Sì! — essa prese a dire singhiozzando, — vogliate bene a un giovane,
consacrategli tutto il vostro cuore, soffrite, tremate, consumatevi
per lui; tutto questo colla speranza che, quando egli si trovi in un
momento difficile, vi dia la consolazione di vedere che ha bisogno
di voi, che gli potete riuscir utile, confortarlo, incoraggiarlo; sì,
illudetevi; quel momento verrà, farete quanto potrete per persuaderlo a
non mancare ai suoi doveri: ebbene, allora, per ricompensa del vostro
affetto, egli vi risponderà che vuol fare... — e soggiunse a fior di
labbra — l'assassino! — e diede in uno scoppio di pianto più forte.
Carlo si chinò e la prese per una mano; essa approfittò di quel momento
per gridargli con voce supplichevole: — Promettimi che andrai! — e
l'afferrò per le braccia.
— Camilla! — esclamò egli, svincolandosi e allontanandosi rapidamente;
— sono un disgraziato! —
Camilla fece cenno che si fermasse, Carlo scomparve; allora essa
riabbassò il capo piangendo. In quel punto la scosse il suono d'una
voce lieta e amorevole che domandava: — Cosa c'è?
— Ah! il signor Curato! — esclamò Camilla. — Ho tanto bisogno di
lui, è buono, gli dirò tutto, mi farà coraggio, sia ringraziato il
cielo! —
E corse verso il vecchio prete colla confidenza e colla serenità d'una
bambina.
IX.
Carlo e Marco s'incontrarono due ore dopo in una strada del villaggio.
— Ho pensato una cosa, — disse Marco. — Sai in che mani t'hai a mettere
per quell'affare?
— Che affare? —
Marco fece un atto come per accennare un paese lontano.
— Hai capito.... Ebbene, sai in che mani t'hai da mettere se vuoi
uscirne bene? Te la do in cento a indovinare. Già non saresti il primo
ch'è passato per quella strada.... ma in specie ora che il battibecco
è più forte: se lui vuole, tra loro si scrivono di parrocchia in
parrocchia, ti trovi al sicuro prima d'accorgertene. Tu devi andare
da lui, dirgli il caso in cui ti trovi, e dargli una tastatina così
alla larga, senza arrischiarti. Se vedi che cede subito, e tu batti,
fin che il ferro è caldo; se fa l'indiano, avanti lo stesso, non è che
una finzione per non compromettersi il primo; se poi nega, addio, è
galantuomo, non ti tradisce, la peggio sarà di non averne cavato nulla.
— Ma di chi parli?, — domandò Carlo.
E l'amico fece intorno al capo un gesto buffonesco che voleva
rappresentare un cappello da prete.
X.
Il Curato, che gli abitanti del villaggio chiamavano famigliarmente don
Luigi, era un vecchietto d'una settantina d'anni, piccolo e nervoso,
con due occhietti vivissimi, che leggevano nelle anime, — dicevano le
divote, — come in un libro stampato; buon uomo e buon prete, indulgente
in confessionale, allegro a tavola, di viso rosso, di capelli bianchi
e di opinioni politiche tricolori; non diverso nella vita e nei modi
dagli altri curati di quelle campagne; dai quali però era tenuto in
pregio per una certa tintura di buone lettere, di cui aveva dato prova
anni addietro in parecchi sonetti dedicati all'arcivescovo e lodati
da un giornale della provincia come “fiori di buona poesia non meno
commendevoli per la nobiltà della forma che per la robustezza dei
concetti„. Lo sguardo pieno di benevolenza e la voce dolce temperavano
la severità dei suoi lineamenti e la rigidezza della sua andatura che
gli davano un po' l'aria di un maggiore giubilato. Ed era aperto e
affabile con tutti, e tutti gli volevan bene; Camilla, in ispecie,
la quale aveva preso con lui una grande domestichezza, perchè,
stando di casa vicino alla chiesa, aveva occasione di vederlo spesso
e di parlargli lungamente. Corse perciò da lui a dirgli ogni cosa,
della leva, dei disegni di Carlo e delle sue paure, scongiurandolo
che tentasse d'indurre il giovane a mutar consiglio, se non voleva
vederla morir di dolore. Il curato le promise di fare quanto poteva, e
soggiunse che avrebbe cercato Carlo egli stesso prima di sera.
Un'ora dopo Carlo picchiava all'uscio del prete.
Non sapeva ancora cosa avrebbe detto, non aveva neppur pensato al modo
di cominciare, si sentiva in cuore una grande trepidazione. Entrò e si
fermò in un angolo della stanza col cappello in mano.
Era una piccola stanza a terreno, allegra, piena di luce, con
quell'aspetto particolare delle stanze dei curati di campagna, che
fanno indovinare la chiesa accanto: le pareti bianche e nude, un
crocifisso sopra la porta, un vecchio quadro, un vaso di dittamo sulla
finestra, e un leggero odore d'incenso nell'aria.
Il Curato era seduto sopra un seggiolone davanti al tavolino e leggeva;
quando vide comparire il giovane, fece un atto di sorpresa.
— Ho da parlarle, signor Curato, — disse Carlo.
Il Curato lo fece sedere. — In che modo può avermi prevenuto? — pensava
intanto. — C'è sotto qualcosa. — E guardò attentamente Carlo, e gli
balenò un sospetto, e risolvette di chiarirsene subito.
— Sento che sei chiamato al servizio militare, — disse.
— Sì signore, — rispose il giovane fissandolo.
— E quando parti?
— .... Partirei dopo la visita sanitaria, fra una diecina di giorni.
— E.... — domandò il Curato lanciandogli un occhiata scrutatrice —
parti? —
Carlo non rispose, lo guardò. Il prete si confermò nel suo sospetto; e
dopo aver guardato un po' il libro colle sopracciglia aggrottate, alzò
il capo e disse con aria distratta:
— Dunque parti, e sei venuto a chiedermi un consiglio, non è vero?
— Lei m'ha capito.
— Credo d'aver capito, — rispose con serietà il prete, — e poi,
pigliando tutt'a un tratto un accento benevolo continuò: — Sicuro... tu
sei un bravo giovane, sei robusto, hai giudizio, farai il tuo dovere e
te ne tornerai a casa contento. Non ti domando neppure se sei più che
mai risoluto di mantenere la tua promessa a Camilla; sono anzi sicuro
che, in tutto il tempo che starai lontano da casa, terrai una buona
condotta e farai di tutto perchè, come ora, partendo, le porgi la mano
di un buon figliuolo, così al ritorno essa possa stringere la mano d'un
bravo soldato; dico bene? —
Il giovane, meravigliato, arrossiva e impallidiva, senza sapere che
rispondere e a che partito appigliarsi. A un tratto gli tornarono in
mente le parole dell'amico: “Se fa l'indiano, non è che una finzione
per non compromettersi il primo„; e gli balenò un raggio di speranza.
Si fece animo, e ruppe il ghiaccio d'un colpo.
— Ma io non vado a fare il soldato! — esclamò.
— Ah! — gridò il prete con un leggiero sorriso voltandosi a guardare
verso la finestra.
— L'avevo detto, io! — pensò Carlo; — eccoci al punto.
— E cosa pensi di fare? — domandò il Curato, sempre guardando fuori.
— Io?... —
Stette un po' pensando e rispose in fretta: — Il mondo è largo. —
— Tu non sai una cosa — disse allora il curato, voltandosi verso
Carlo, e sorridendo benevolmente, come se non avesse compreso
affatto il significato delle sue ultime parole. — Non sai che io sono
stato cappellano militare per cinque anni, dal cinquantaquattro al
cinquantanove. Cinque anni filati, cappellano del primo reggimento di
fanteria, brigata Re. È così. Sono stato anch'io mezzo soldato e te
ne posso dire qualche cosa. È vero che d'allora in qua le cose son
molto cambiate... e dicono in meglio. Ma credi a quello che ti dico
io: non è una brutta, dura, scellerata vita che per i cattivi soldati.
Per gli altri è un tutt'altro mestiere. Tutto sta a cominciar bene.
Una volta che un giovane s'è messo in buona vista dei superiori,
è sicuro del fatto suo: non sente più il peso della disciplina. Ma
bisogna essere allegri, franchi, leali. I superiori perdonano tutto
a quelle belle faccie aperte di bravi soldati e di galantuomini, che
hanno magari il diavolo in corpo e ne fanno una grossa ogni tanto; ma
che a guardarli, bisogna dire per forza: — Ecco un uomo! — In tutti
i reggimenti ce n è un certo numero di questi lestofanti, che fanno
dannar l'anima ai superiori, e che pure, ogni volta che la sgarrano,
tutti chiudono un occhio. In cinque anni ne ho conosciuti molti. Mi
ricordo, fra gli altri, d'un certo Farinelli, di cui gli ufficiali
vecchi di quel reggimento debbono ancora ricordarsi. Era un pezzo di
giovane più alto un palmo di te, largo così, che s'era fatto mettere
a doppia razione.... Era la scapestrataggine incarnata! Scappava di
notte, rischiava la vita, metteva sottosopra la compagnia; ma era tanto
buon figliuolo, che si faceva ben vedere da tutti. In marcia portava
gli zaini di quelli che non ne potevano più; in caserma cantava sempre,
saltava come un capriolo, rompeva una pietra con un pugno; se c'era
una rissa, era quello che la faceva finire a scappellotti; sempre il
primo a gettarsi negli incendi, sempre il primo a cacciarsi nell'acqua
per salvare un compagno, furbo, sfrontato, pronto a rispondere, che
nessuno gli poteva tener testa; incapace di mentire se l'avessero
coperto d'oro; un soldato modello in servizio, un demonio fuori.
Aveva il vizio di bere. Ma quando aveva bevuto, stava in riga così
impalato, che i superiori, invece di punirlo, bisognava che ridessero.
Tutto il reggimento lo conosceva. Il suo capitano diceva che con
cinquanta mascalzoni come lui si sarebbe sentito di dare le pacche a
un battaglione d'austriaci. Mi ricordo che una volta il colonnello,
ch'era una bella figura di vecchio soldato, con una cicatrice sulla
fronte, passando in rivista il reggimento, si fermò a guardare quel
bel giovane ardito che lo fissava con due maledetti occhioni pieni di
fuoco, e non potè trattenersi dal dirgli: — Ma sai che hai un gran bel
muso di soldato, tu! — Indovina un po' cosa gli rispose quel malanno? —
_E'l so a facesia gnanca, sor coronel_ — (E il suo non scherza nemmeno,
signor colonnello). — E il colonnello restò un momento stupito, ma
poi rise e non disse nulla. Quelli son soldati! Ce n'era poi degli
altri, come ce n'è sempre, affatto diversi, proprio l'opposto; ma
non meno bravi soldati per questo. Soldati tranquilli, che passavano
i loro cinque anni senza farsi sentire, come ombre; il primo giorno
come l'ultimo; sempre i primi a mettersi in riga, sempre i primi a
rientrare in quartiere, mai una macchia sul cappotto, mai una parola
più alta dell'altra, mai un soldo di debito sulla _massa_, mai malati,
mai di cattivo umore, soldati che in cinque anni non ricevevano nè una
_consegna_ nè un rimprovero, e che il comandante della compagnia non
si sarebbe accorto che c'erano, se non ci fosse stato il loro nome sui
ruoli; giovani che parevano nati con la divisa addosso e col fucile in
mano, e che dovessero fare i soldati per tutta la vita. Mi ricordo d'un
capitano che ne aveva una decina nella compagnia e che mi diceva: — Se
io avessi sempre una compagnia tutta di soldati come quelli, vivrei
vent'anni di più. In parola d'onore, se mi domandaste a chi voglio
più bene, a quei ragazzi lì o ai miei figliuoli, sarei imbarazzato a
rispondere. Che cosa te ne pare?
Carlo ascoltava con la faccia bassa e pensierosa.
— E posso parlare, vedi — continuò il curato — perchè i soldati
piemontesi di quel tempo, non dico per vantarmi, ma li ho conosciuti
proprio dentro. Allora era un altro par di maniche. Anche soldati
avevano religione e si confessavano. Venivano al servizio colle