Novelle - 01

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NOVELLE
DI
EDMONDO DE AMICIS

GLI AMICI DI COLLEGIO. — CAMILLA.
FURIO. — UN GRAN GIORNO. — ALBERTO. — FORTEZZA.
LA CASA PATERNA.

_QUINTA IMPRESSIONE._
_della nuova edizione del 1878, riveduta e ampliata dall'autore_
CON SETTE DISEGNI DI V. BIGNAMI.

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1884.


PROPRIETÀ LETTERARIA.
_Gli editori hanno compite tutte le formalità richieste dalla legge
e dalle convenzioni internazionali per riservare la Proprietà
letteraria e il diritto di traduzione._


A GONZALO SEGOVIA Y ARDIZONE

_Per ringraziarvi degnamente delle cortesi accogliente che mi faceste
in Siviglia, dovrei dedicarvi un libro, nel quale fossero descritte le
meraviglie della vostra bellissima città natale; ma poichè quel libro
non è anche fatto, e a me preme d'esprimervi la mia gratitudine, vi
prego di accettare queste povere Novelle. Possiate, leggendole, pensare
qualche volta all'amico lontano, echi quel desiderio affettuoso ch'io
sento di voi alla lettura dei vostri versi gentili. Vivete sano, e
godetevi i quadri del Murillo e il profumo degli aranci._
Torino, 20 luglio 1872.
Vostro
E. DE AMICIS.


GLI AMICI DI COLLEGIO.

[Illustrazione]

I.
Molti scrivono ogni sera quello che hanno fatto il giorno; alcuni
tengono ricordo delle commedie sentite, dei libri letti, dei sigari
fumati; ma c è uno su cento, su mille, che faccia una volta l'anno,
o che abbia fatto una volta in vita sua, l'elenco delle persone che
conosce? E non intendo dire di quei pochi, con cui si ha che fare, o
che si vedono, o a cui si scrive; ma di quel gran numero di persone,
viste altre volte, che forse non rivedremo, e che pur tornano ancora
alla mente molto tempo dopo che si son lasciate, a mano a mano più di
rado, fino a che scompaiono affatto, e non ci si pensa mai più. Chi
di noi non ha perduto la memoria di cento nomi e smarrito la traccia
di cento vite? Eppure è una gran perdita per l'esperienza, e io ne
son tanto persuaso, che, se ricominciassi a vivere, vorrei spendere
mezz'ora al giorno nel noioso lavoro di notar nomi e casi di persone,
anche le più indifferenti.
Che storia intricata e strana mi ritroverei tra le mani, se avessi
serbato ricordo di tutti i miei compagni delle prime scuole; e
continuato a chiederne notizie qua e là, via via che se ne presentava
l'occasio ne, e tenuto dietro, in qualche modo, alle vicende principali
di ciascuno! Ora, di quelle due o tre centinaia di ragazzi che
conoscevo, venti o trenta appena mi son rimasti nella memoria, e so
dove sono, e che cosa fanno; degli altri non so più nulla. Per qualche
anno ho avuto davanti agli occhi l'immagine distinta di tutti: erano
trecento visi rosei che mi sorridevano, e trecento giacchette che
mostravano ciascuna, più o meno, la condizione del babbo, da quella di
velluto del figliuolo del sindaco a quella infarinata del figliuolo
del fornaio; e mi pareva di sentirmi ancora sonar nell'orecchio, a
una a una, le voci di tutti; e vedevo il posto di ciascuno nei banchi
della scuola, e ricordavo parole, atteggiamenti, gesti. Ma a poco a
poco tutti quei visi si confusero in una sola striscia color di rosa,
tutte quelle giacchette in un color bigio uniforme, tutti quei gesti
in un tremolìo indistinto, tutte quelle voci in un mormorìo fioco; fin
che una nebbia fitta coprì ogni cosa, e anche il mormorìo tacque, e la
visione scomparve.
E mi dispiace, e molte volte mi piglia il desiderio di squarciar
quella nebbia, e di ravvivar la visione. Ma ohimè! non li troverei più
insieme; e se dovessi andarli a cercare a uno a uno, chi sa quanti giri
e rigiri mi toccherebbe fare, e dove metter piede, e tra chi! Forse
passerei da una sacrestia a una caserma, da una caserma a un'officina,
dalla officina allo studio d'un avvocato, dallo studio dell'avvocato a
una carcere, dalla carcere a un palco scenico, dal palco scenico, pur
troppo! al camposanto, e dal camposanto sur un bastimento mercantile
in un porto dell'America o delle Indie. Chi sa quante avventure, quante
disgrazie, quante tragedie domestiche, e mutamenti di visi e di costumi
e di vita, in così piccolo numero di gente e in così breve giro di
tempo!
Eppure, non son quelli gli amici che si desidera più caldamente di
rivedere. Non solo; ma se badiamo a discernere in noi il sentimento di
mesto desiderio che ci risospinge verso gli anni della fanciullezza,
da quello che ci pare ne sospinga verso i compagni di quegli anni, ci
meravigliamo di trovar questo così debole, e fors'anco di non trovarlo
nemmeno. E perchè ci dovrebb'essere, e forte? Stavamo sovente insieme,
eravamo allegri, ci cercavamo, ci desideravamo; ma le nostre anime
non si ricambiavano nulla di quello che le ravvicina e le stringe e vi
lascia una traccia. Le nostre amicizie si legavano e si scioglievano
con uguale facilità. Avevamo bisogno di un compagno che facesse eco
alle nostre risa e ci aiutasse ad arrampicarci sugli alberi e ci
rimandasse la palla con un colpo vigoroso; e a ciò serviva meglio il
più destro, il più chiassone e il più ardito; e questo, il più delle
volte, era l'amico più caro. Ma volevamo bene ai deboli? Domandavamo ai
malinconici: — Che cos'hai? — E se ci dicevano: — Il tale è morto — si
piangeva? Ah! non eravamo amici.
E sarà certo seguìto a molti di rivedere dopo quindici anni un
compagno delle scuole elementari. Si riceve una lettera, di cui non
si riconoscono i caratteri, si getta un'occhiata alla firma, e si
dà un grido: — Come! Lui! È vivo? — Si piglia il cappello e si corre
all'albergo. Oh certo che, mentre si corre, il cuore batte, e salendo
la scala s'affretta il passo con grande ansietà, e si ride, e si gode,
e non si darebbero quei momenti per tutto l'oro del mondo. Ma son
quelli i più bei momenti. Si entra nella stanza con impeto, si bacia un
uomo, nel quale, sì, a guardarlo bene, si ravvisa qualche tratto del
fanciullo d'una volta; l'uno domanda all'altro: — Che fai? — e l'uno
ricorda all'altro, in fretta e in furia, qualche bazzecola di quando
si andava a scuola e poi.... è finita. Cominciate a pensare: — Chi è
costui? Come ha vissuto, dacchè non ci siamo visti? Che cos'è seguito
in quell'anima? È buono, è tristo, è un credente, è uno scettico?
Io non ho niente di comune con lui, non lo conosco. Bisognerebbe
scrutarlo, studiarlo; ma dunque non è un amico! — E quel che pensate
voi, lo pensa lui, e la conversazione procede languida e fredda; e
forse dalle prime parole vi accorgete che avete battuto due opposte
vie; egli vi lascia trasparire una striscia del suo berretto frigio,
voi, secondo lui, la punta del vostro codino di monarchico; voi gli
date una tastatina sulla letteratura, egli a voi sul seme dei bachi
da seta; voi, prima di dirgli che avete moglie, gli domandate s'egli
l'ha; ed egli vi risponde: — Fossi minchione! — e finite col lasciarvi,
stringendovi la punta delle dita, e ricambiandovi un sorriso morto
appena nato.
Gli amici d'infanzia! Cari sì, sopra tutti, quando si siano vissuti
insieme anche gli anni della giovinezza; ma se no, che cosa sono fuor
che fantasmi? E l'infanzia stessa! Non ho mai potuto capire perchè
si rimpiangono da molti quegli anni, — anni in cui non si soffre, è
vero, ma non si pensa, non si lavora, non si crede, non si prorompe
in quegli scoppi di pianto ardente ed amaro, che purificano l'anima e
fanno rialzar la fronte altera e splendida di speranza e di coraggio
nuovo! Oh mille volte meglio soffrire, faticare, combattere e piangere,
che sfumar la vita in quel riso continuato e inconsapevole, che nasce
da nulla e di nulla si pasce e di nulla si turba! Meglio star sulla
breccia, sanguinosi, che in mezzo ai fiori, sognando.

II.
I primi e più cari amici gl'incontrai a diciassett'anni, in un superbo
palazzo, che ho sempre dinanzi agli occhi, come se ne fossi uscito
ieri. Vedo i grandi cortili, i grandi portici, le sale ornate di
colonne, di statue e di bassorilievi; e in mezzo a queste cose belle
e magnifiche, che richiamano al pensiero la reggia antica, lunghe
file di letti, di banchi di scuola, di panni appesi, di fucili, di
daghe. Cinquecento giovani sono sparsi pei cortili, per gli anditi,
per le scale; un sordo rumore, interrotto da grida acute e da risate
sonore, si spande fino ai più lontani recessi del vasto edifizio.
Che movimento! Che vita! Che varietà di tipi, di atteggiamenti, di
accenti! Giovani dalle forme atletiche con lunghi baffi irsuti e voci
stentoree, giovanetti smilzi e gentili come fanciulle; visi bruni ed
occhi siciliani nerissimi, e capigliature bionde e pupille azzurre
del settentrione; gesticolìo concitato di Napoletani, vocìo argentino
di Toscani, parlantina accelerata di Veneti, cento crocchi, cento
dialetti; di qua canti e conversazioni clamorose, di là corse, salti
e battimani; gente d'ogni ceto, figliuoli di duchi, di senatori, di
bottegai, di impiegati, di generali; una società bizzarra che ha un po'
del collegio, del convento e della caserma; dove si parla di donne,
di guerra, di romanzi, di regolamenti; dove si fanno pettegolezzi da
donnicciuole e si covano segrete ambizioni virili; una vita piena di
noie mortali e d'allegrezze sfrenate, una confusione di sentimenti, di
faccende e di casi dolorosi, stravaganti e amenissimi, da cui la penna
di un grande umorista potrebbe cavare un capolavoro.
È la Scuola militare di Modena nel 1865.

III.
Non posso pensare a quei due anni passati là, senza che mi assalga una
folla di ricordi, dai quali non riesco a liberarmi prima d'averli fatti
passar tutti, a uno a uno, come in una lanterna magica; ora ridendo,
ora sospirando, ora crollando il capo, ma sentendo che tutti mi son
cari, e che sin ch'io viva, non mi sfuggiranno mai.
Rammento sempre il primo dolore che ebbi dalla vita militare, pochi
giorni dopo ch'ero entrato nel collegio tutto ardente di poesia
guerriera, una mattina che ci diedero i berretti, e tutti gli allievi
della compagnia ne trovarono uno, e io solo non lo trovai, chè mi
eran tutti stretti; e il capitano stizzito si voltò verso di me e mi
disse: — Ma sa che è curiosa che per lei solo si debba far riaprire il
magazzino? — e un momento dopo soggiunse: — Testone! — Dio eterno! Che
seguì nel mio cuore in quel punto! E io debbo fare il soldato? pensai;
nemmen per sogno! piuttosto mendicare! piuttosto morire!
Mi ricordo pure d'un ufficiale, vecchio soldato, un po' corto, ma
buono, che mi guardava sempre sorridendo, sin dai primi giorni che
m'aveva visto, e io non sapevo capir perchè, e mi stizzivo, e volevo
chiedergli una spiegazione, e dirgli che non intendevo d'essere lo
zimbello di nessuno; quando una sera mi chiamò, e dopo avermi fatto
capire che gli era stata detta una _cosa_ di me, e ch'egli voleva
saper s'era vero, e che rispondessi francamente, perchè non era cosa
che mi facesse torto, finalmente, sorridendo, tossendo, guardandomi
di sottocchio, mi mormorò nell'orecchio: — È vero che lei è un
poeta? —
Mi ricordo delle insuperabili difficoltà che incontravo
nell'adempimento dei miei doveri manuali, specialmente nell'attaccare
i bottoni, chè mi scappava l'ago di mano a ogni punto, e finivo col
fare una rete di fili che parevan la tela d'un ragno, e il bottone
spenzolava più di prima, con gran risate dei miei compagni, profondo
sconforto mio e scandalo grave del sergente di squadra, il quale
mi diceva: — Lei sarà buono a trovar la rima, ma quanto ad attaccar
bottoni è ancora _indietro di cent'anni_; — terribile sentenza che
mi sbalestrava di punto in bianco nel secolo decimottavo, e non me ne
potevo dar pace.
Vedo ancora il vastissimo refettorio, dove avrebbe potuto far gli
esercizi un battaglione di soldati; vedo quelle lunghe tavole, quelle
cinquecento teste chinate sui piatti, quel movimento accelerato di
cinquecento forchette, di mille mani e di sedicimila denti; quello
sciame di camerieri che corrono qua e là, chiamati, sollecitati,
sgridati da cente parti; e odo quell'acciottolìo, quel mormorio
assordante, quelle voci mezzo strozzate fra i bocconi: — Pane! — Pane!
e mi par di risentirmi quell'appetito formidabile, quel vigore erculeo
di mandibole, quel rigoglio di vita e di allegria che mi sentivo
allora.
Muta la scena, mi ritrovo chiuso in una celletta al quinto piano, poco
più alta e poco più lunga di me, con una brocca d'acqua al fianco e
un pezzo di pan nero tra le mani, coi capelli arruffati, colla barba
lunga, coll'immagine di Silvio Pellico dinanzi agli occhi; condannato a
dieci giorni di prigione per aver fatto un discorso di ringraziamento
al professore di chimica, il giorno della sua ultima lezione,
_contravvenendo così al disposto dell'articolo tale del regolamento
che proibisce di prender la parola in pubblico_ a nome dei compagni. E
sento ancora il Maggiore che mi dice: — Non si lasci mai trasportare
dall'immaginazione nel corso della sua vita; — e mi cita l'esempio
del poeta Regaldi, suo antico condiscepolo, a cui seguì non so che
disgrazia per una scappata del genere della mia, e conclude che “la
poesia non ha mai fatto fare che delle bestialità.„
E in fine, mi riveggo intorno ogni cosa come se realmente rivivessi
quella vita, le compagnie che attraversano in silenzio, di notte, i
lunghi corridoi rischiarati da un lumicino in fondo; i professori in
cattedra che c'intronan le orecchie di Gustavo Adolfo, di Federico
il Grande e di Napoleone; le vaste scuole piene di visi immobili; i
grandi dormitorii oscuri, in cui si sente il suono di cento respiri;
il giardino, la piazza, i bastioni, le vie tortuose di Modena, i
caffè pieni di alunni che divorano paste, le porticine infilate alla
chetichella, i desinari in campagna, le scarozzate ai villaggi vicini,
gl'intrighetti, gli studii, le rivalità, le malinconìe, le inimicizie,
gli affetti.

IV.
Pochi giorni prima di dar gli esami per esser promossi uffiziali ci
venne concessa la libertà di studiare dove si voleva. Eravamo dugento
nel secondo corso, e ci sparpagliammo tutti per il palazzo, a cinque,
a sei insieme, come ci univa la simpatia, e cominciammo a sgobbare
disperatamente, ogni gruppo nel suo stanzino, giorno e notte, non
ismettendo che per parlare dei nostri esami e del nostro avvenire.
Quanta allegrezza in quei nostri discorsi, e che ridenti previsioni!
Dopo due anni di prigionìa, tutt'a un tratto, la libertà, le spalline
e il ritorno in famiglia. Ciascuno di noi, oltre la soddisfazione, che
era comune, di esser promosso uffiziale, n'aveva una sua particolare.
Per uno, era la soddisfazione di levare un carico alla famiglia che
viveva a stecchetto per mantener lui nel collegio, e di poter dire
di lì a pochi giorni: — Ho diciannove anni, e non ho più bisogno di
nessuno. — Per un altro, era il piacere di entrare un giorno, vestito
in grande uniforme, pestando i piedi e strascicando la sciabola, in
una casa silenziosa e tranquilla, dove l'aspettava un vecchio zio
generoso che lo aveva sempre amato e protetto. Per un terzo, era la
gioia di poter salire, col brevetto in tasca, una scala ben nota, e
picchiare imperiosamente a una porta dietro la quale, pochi momenti
dopo, avrebbe sentito una voce di fanciulla gridare: — E lui! — una
cugina, forse, da cui s'era accomiatato due anni prima, in presenza dei
parenti, confortato da quelle solite parole: — Va, studia, fatti uomo,
e poi si vedrà. — Ci pareva a tutti di vederci intorno dei bambini che
ci toccavano la sciabola, delle ragazze che ci facevano dei cenni, dei
vecchi che ci mettevano una mano sulla spalla, una madre che ci diceva:
— Come stai bene! — e avevamo un gran da fare per liberarci da tutta
questa gente e rimetterci a studiare di proposito, e dicevamo fra noi
stessi: — Sì, sì, verremo; ma per ora lasciateci in pace! —
Poi, ciascuno secondo la sua indole, le sue abitudini e i suoi
disegni, ci dicevamo i reggimenti, le provincie, le città, in cui
avremmo preferito d'esser mandati. V'era chi desiderava lo strepito e
l'allegria dei grandi carnovali di Milano, e non sognava che teatri e
balli e rumorose cene di amici. V'era chi sognava un villaggio ameno
della Toscana, sulla cima d'una collina, dove poter godere una bella
e quieta primavera, coi suoi trenta soldati, raccogliendo proverbi e
stornelli dalle contadine dei dintorni. Altri avrebbe voluto esser
mandato in un forte solitario delle Alpi, fra le rupi e i burroni,
per potervi ripigliare i suoi studii con raccoglimento profondo.
Uno prediligeva la vita avventurosa nelle foreste delle Calabrie, un
altro lo spettacolo d'una grande e operosa città di mare, un terzo
un'isoletta del mar Tirreno. Ce la ricorrevamo e spartivamo tutta,
questa Italia, un pezzo per uno, cento volte al giorno, come avremmo
fatto d'un nostro giardino; e ognuno di noi raccontava agli altri
le meraviglie del suo cantuccio, e trovavamo che eran tutti belli
e cari ad un modo. E poi, la guerra! Si sarebbe ben dovuta fare una
volta! Bastava il proferir questa parola per buttare i libri in un
canto e cominciare a dire e a dire, alzando gradatamente la voce, ed
accendendoci in viso. Per noi la guerra era come una visione sovrumana,
in cui la mente si perdeva con una specie di ebbrezza fantastica; era
un lontano orizzonte color di rosa, sul quale si disegnavano i profili
neri di montagne gigantesche; e su pei fianchi delle montagne salivano
con impeto schiere interminabili colle bandiere spiegate, al suono
di musiche allegre; e fra le migliaia degli assalitori, sui punti più
culminanti, spiccavano le nostre figure nette e distinte, lungo tratto
innanzi a tutti, colla sciabola brandita in alto; e sulle chine opposte
un precipitare spaventevole di soldati, di cavalli, di cannoni, verso
un abisso ignoto, tra le tenebre. Una medaglia al valor militare! Ma
chi non l'avrebbe avuta? Perdere la battaglia! Ma gl'taliani potevan
perdere? Morire! Ma che c'importava di morire? E si poteva poi morire,
noi, a diciannove anni! Chi sa che strani e meravigliosi casi ci
aspettavano! Chi sa che cosa avremmo veduto! Una spedizione lontana,
forse; una guerra in Oriente; non era mica morta la questione di
Oriente; chi sa! E si spaziava coll'immaginazione per mari e monti, e
si vedevano grandi apprestamenti d'eserciti e di flotte, e si ardeva
d'impazienza, e si diceva in cuor nostro: Oh! aspettate, lasciateci dar
l'esame, pochi giorni ancora, vogliamo venire anche noi! —
E finalmente si diedero gli esami, fummo promossi, e una bella mattina
del mese di luglio ci apersero le porte del Palazzo ducale, e ci
dissero: — Al vostro destino! — e noi, gettando tutti insieme un
altissimo grido, ci slanciammo fuori, e ci sparpagliammo, come uno
stormo di uccelli, per tutte le parti d'Italia.

V.
Ed ora?
Son passati sei anni, sei anni soli, e già ci sarebbe da scrivere un
romanzo lungo e vario e strano, se si volessero raccogliere e legare
insieme le vicende più notevoli occorse nella vita di quei duecento
compagni! Io che in questo spazio di tempo ne vidi molti ed ebbi modo
di procurarmi notizie degli altri, soglio sovente richiamarmeli tutti
alla memoria, ravvivarmene le immagini e interrogarli ad uno ad uno;
e quello che vedo e sento mi desta sempre nell'anima un sentimento di
meraviglia, misto di malinconia. Ed eccoli qui in folla, tutti.
Quelli che mi dan nell'occhio prima degli altri son certi uomini bruni
e barbuti, con un par di spalle poderose, che io non ricordo, pel
momento, d'aver conosciuti. Eppure mi sorridono, e sì, son veramente
quei giovanetti sottili e bianchi, che parevano fanciulle. Io domando:
— Siete voi? — ed essi mi rispondono: — Sì; — e io do un passo
indietro, sorpreso da quel sì sonoro e profondo, in cui non riconosco
più l'antica voce infantile. — E quest'altri? I lineamenti, in questi,
non son mutati, le forme son sempre quelle, ardite e robuste; ma il
sorriso è sparito, e gli occhi non scintillano più. — Che vi è occorso?
— domando. — A noi? — rispondono; — nulla. — Oh avrei preferito che vi
fosse accaduto qualcosa, per non vedere che il tempo, e un tempo così
breve, può di per sè mutare un volto in quel modo. Eccone altri. Dio
mio! anche questa mi tocca a vedere; uno, due, tre, cinque, possibile!
lasciatemi guardar meglio; ma certo! capelli bianchi! a ventisette anni
i capelli bianchi! — Dite, o come mai? — Danno una scrollata di spalle,
e tiran via. Poi vedo una lunga fila di amici miei, e molti, fra essi,
dei più scapati, chi con un bambino in braccio, chi con uno per mano,
chi con due. Quello lì ha preso moglie? Quello là è padre di famiglia?
Ma chi l'avrebbe creduto? — Altri sopraggiungono: alcuni col capo basso
e gli occhi rossi mi fanno un cenno; hanno un nastro nero intorno al
braccio. Altri passano colla fronte alta volgendo intorno uno sguardo
raggiante, e toccandosi il petto col dito: ah! il sogno delle nostre
notti di collegio, la medaglia al valor militare, fortunati loro! Altri
vengono innanzi a passo lento, pallidi, scarni, appena riconoscibili.
— Che cos'è? Che cosa avvenne? — Ahimè! Su quelle braccia e su quelle
gambe erculee, ch'essi ostentavano con giovanile alterezza sulle rive
del Panaro; in quelle membra tornite e rosee, che pareva non avrebbero
dovuto impallidire nè avvizzirsi mai; in quei corpi, che si sarebbero
potuti prendere a modello per rappresentare la salute, la freschezza
e la forza, ahimè! s'immersero i coltelli dei chirurghi a cercare le
palle tedesche, e dalle carni lacerate sgorgò il sangue a ondate, e
caddero le ossa recise. Poveri amici! Ma pure son rimasti tra noi a
raccogliere nell'affetto e nella gratitudine comune il premio del loro
sacrificio. — Ma dov'è il tale? — Morto in una marcia in Lombardia.
— Il tal altro? — Morto d'una ferita di mitraglia a Monte Croce. —
E quell'altro amico? — Morto d'una ferita di palla nell'Ospedale di
Verona. — E il mio vicino di banco? — Morto di colèra in Sicilia. — Oh
basta! non mi dite di più! —
Son passati tutti, s'allontanano, ed io mi slancio colla immaginazione
dalla parte opposta, sulla via che hanno percorsa, per cercarvi le
traccie del loro passaggio; e quante ne ritrovo, e quanto diverse!
Qui libri e carte sparse in terra, con su i concetti di battaglia
tracciati a mezzo, c versi coperti di freghi; un tavolino capovolto, e
un mozzicone di candela ancora fumante; i segni d'una veglia studiosa.
Là seggiole spezzate, frantumi di bicchieri e brani di vestiti di donna
sparpagliati. Più in là, in uno spazio di terreno nudo, due sciabole
insanguinate, e da una parte e dall'altra molte orme profonde e nel
mezzo un'impronta grande, come del corpo di un uomo caduto. Qua, nella
polvere, un tappeto verde lacerato, e intorno carte da gioco e dadi.
Più oltre, tra l'erba, una letterina profumata e un mazzetto di mammole
appassite. Da un altro lato una croce con sopra scritto: — A mia madre.
— E innanzi, innanzi, altri libri sparsi, altre lettere, altre carte
da gioco, divise militari smesse, ritratti di donne, conti di sarti,
cambiali, sciabole, fiori, sangue. Oh che vasta tela tesse la mente con
quei pochi fili scompigliati e rotti! Quanti affetti, quanti dolori,
quante lotte, quante pazzie, quante sventure s'intravvedono e si
comprendono! Certo anche molte virtù e molti atti generosi; ma quanto
più spreco di forza e d'avvenire!
E quando pure non si fosse sciupato nulla, quando non si fosse, in
questi sei anni, tolto un giorno nè un'ora al lavoro, quando non
avessimo aperto il cuore ad altri affetti che a quelli che innalzano
la mente e rasserenano la vita, avremmo pur sempre perduto una grande
e cara illusione, la quale dileguandosi, ha portato con sè una parte
della nostra forza e del nostro avvenire: l'illusione di quel lontano
orizzonte color di rosa, su cui si disegnavano i profili neri di
montagne gigantesche, e schiere interminabili lanciate all'assalto a
bandiere spiegate, al suono di musiche allegre.... Una guerra perduta!
E s'anco non avessimo perduto quest'illusione, non avremmo perduto
altro?

VI.
Io penso a me stesso, e dico: — Quale distanza da diciannove anni a
venticinque! Allora, dovunque andassi, ero il più giovane, chè i più
giovani di me non mostravano ancora il viso tra gli uomini; e non
mi vedevo mai intorno alcuno, di cui non potessi dire che qualcosa
m'invidiava: la gioventù, l'allegria, le speranze. Ed ora, dovunque
io vada, mi veggo accanto dei giovanetti che mi guardano e mi parlano
con quel riserbo rispettoso che s'usa coi fratelli maggiori; e con
essi, discorrendo, sento di dover fare uno sforzo per dare al mio
discorso una gaiezza che corrisponda alla loro, e non me ne so dar
pace, e li guardo e mi domando: — O di dove sono usciti costoro? — E
l'altro giorno accennando a un signore una sua bambina di sei anni, gli
dissi scherzando: — Chi sa! — ed egli mi rispose: — Signor no, ella
è troppo vecchio. — Ed io, sorpreso, tacqui, e feci subito il conto
colle dita, e poi mormorai melanconicamente: — È vero. — A diciannove
anni, non vedevo bambina di quell'età, ch'io non potessi dire: — Sarà
mia moglie! — ; la generazione che veniva su era ancora tutta per me;
ora per una parte del mondo io son già troppo avanti nel cammino della
vita. E l'avvenire, che allora m'appariva un non so che vago e lucente,
su cui la mia fantasia poteva disegnare le cose più belle e più care,
senza che la ragione ci trovasse mai a ridire: — Non può essere, —
ora comincia a delinearsi, a colorirsi, a prendere una forma, ed io
indovino presso a poco che cosa sarà, veggo la mia strada tracciata,
e la mia meta distinta, e addio grandezze e meraviglie! E gli uomini?
Dio buono, io non son mica per natura inclinato a diffidare, a veder
piuttosto il male che il bene nelle cose di questo mondo; al contrario;
nel mio piccolo non ho che a render grazie a tutti e di tutto, e
indispettisco spesso un mio amico, a cui dico ridendo: — Amo il genere
umano! — ed egli mi risponde: — Aspetta che verrà la tua ora anche
per te. — Eppure quanto ho già perduto di quel confidente abbandono
delle amicizie di diciannove anni, di quel sentimento di ammirazione
facile e schietto, che scattava come una molla, al più leggiero tocco,
per tutti gli uomini, di cui sentissi esaltare un merito, qualunque
fosse e da chicchessia! Due, tre disinganni son bastati a rallentare
la molla per sempre. Io mi domando già: — Sarà vero? — e il dubbio
mi rimanda indietro le calde e ingenue parole d'affetto che una volta
prorompevano mio malgrado. Molti libri, che mi fecero versar lagrime,
non me ne fanno versar più; molto più raramente d'una volta, leggendo
versi, mi trema la voce; non rido più di quel riso irresistibile e
sonoro, di cui echeggiavano un giorno le stanze più remote della mia
casa. E quando mi guardo nello specchio, è una mia illusione o una
realtà? mi accorgo che nel mio viso c'è qualcosa che a diciannove anni
non c'era, un non so che negli occhi, nella fronte, nelle labbra, che
non apparisce agli altri, ma che io vedo, e che mi turba. E mi ricordo
le parole del Leopardi: — _A venticinque anni incomincia il fiore della
gioventù a declinare._ — Ma come? io declino? son già sul pendio della
vita? ho già fatto tanto cammino? Ma sì! Dalla Scuola di Modena son
già usciti altri mille ufficiali più giovani di me, me li sento alle
spalle che rumoreggiano, che m'incalzano, e mi gridano: — Avanti! —
Ma è uno spavento! Lasciatemi respirare, fermatevi un minuto; che c'è
bisogno di divorare la via? Voglio star qui, immobile, saldo come una
colonna; indietro voi! Ma il terreno è inclinato e liscio, e il piede
scivola e non c'è dove aggrapparsi; compagni! amici di diciannove anni!
venite, stringiamoci, afferriamoci gli uni agli altri, non ci lasciamo
travolgere, resistiamo. Ah! mi manca il terreno sotto, maledizione!

VII.
Ma che! son vaneggiamenti foschi di giornate piovose; spunta il sole
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