Novelle - 08
Non vengo più, ecco! — E si sciolse bruscamente dal braccio del suo
cavaliere; ma subito ritornò verso di lui sorridendo, e gli disse:
— Povero Furio, come sei rimasto male! — Poi, porgendogli la mano,
soggiunse: — Qua, facciamo la pace. —
Furio pose la sua destra tremante nella piccola mano d'Iride, e
continuò a camminare più impacciato che mai. Andavano per un viottolo
fiancheggiato da due alte siepi. Iride fece qualche domanda al piccolo
cognato intorno alla sua scuola, alle sue occupazioni, alla campagna,
di quelle solite domande che si fanno ai ragazzi senza badare alla
risposta, e poi, ridendo, lo interrogò della zia: — Un po' durotta, eh?
— e l'interruppe per accennargli un fiore, che glielo pigliasse. Furio
lo prese e lo teneva in mano per non saper come porgerlo.
— Animo, sii gentile, e mettilo qui, per bene. —
E si voltò di fianco e chinò con molta grazia la testa, perchè glielo
mettesse nei capelli; Furio glielo mise.
— Dio mio! — gridò Iride, spaventata, dopo pochi passi; — che strada è
questa? —
Aveva messo un piede sull'orlo d'un fossetto pieno d'acqua e c'era
scivolata dentro un buon palmo. Con un leggero sforzo tirò fuori il
piede tutto stillante. Allora Furio si buttò in ginocchio, e prima col
fazzoletto e poi coll'erba del sentiero strappata in fretta e furia,
cominciò a fregare lo stivaletto con una foga disperata.
— No, no, basta, — andava dicendo Iride: — basta, Furio, grazie, non ti
affaticare, tanto son tutta bagnata, bisogna ch'io mi vada a cambiare,
basta, lascia pure. —
E andava ritirando il piede, stretto intorno alla noce dalla mano del
ragazzo, come da un cerchio di ferro.
— Ma basta! — proruppe Iride con uno scoppio di risa.
Furio si alzò tutto rosso, sudante e glorioso, e quando Iride si fu
allontanata, diede in un riso represso, si strinse un dito fra i denti,
si stropicciò forte le mani, battè i piedi, rise di nuovo, e alzando
gli occhi al cielo esclamò con trasporto di contentezza:
— Oh Dio! Dio! Come sono felice! Non c'è nessuno più felice di me sopra
la terra!
XIII.
A Iride non era nemmeno passato per la mente che sotto quella
gran timidezza del ragazzo si nascondesse qualcosa; e non c'è da
meravigliarsene. I ragazzi noi li crediamo sempre più ragazzi di quel
che sono. E questo, perchè, al solito, vedendoli e trattandoli, non ci
è presente alla memoria il grado vero d'intelligenza e di sensitività
che avevamo noi all'età loro. Se ci fosse presente sempre, ci
ricorderemmo, per esempio, quasi tutti che, da bambini, abbiamo sentito
far dei discorsi, in presenza nostra, che noi ora, alla presenza
d'altri bambini, non ripeteremmo; e allora coloro che li facevano,
erano fermamente persuasi che noi non gl'intendessimo; e gl'intendevamo
invece quanto loro, e facevamo le viste di no. L'intelligenza dei
fanciulli precorre quasi sempre l'accorgimento dei genitori o degli
educatori, o di chiunque abbia ragione di tenerli al buio di qualche
cosa per un certo tempo; le cautele vengono quasi sempre tardi; e
fra quando cominciano a capire e quando si comincia a sospettare
che capiscano, tutti i fanciulli sono più o meno ipocriti, e la loro
ipocrisia è tanto più fina e profonda, quanto più viva e più spesso
delusa la curiosità.
Lo stesso segue degli affetti.
Un ragazzo di quattordici anni! Chi gliel'avesse detto, a Iride,
ell'avrebbe dato in uno di quei suoi scoppi di risa freschi e sonori,
che facevano restar a bocca aperta il suo piccolo schiavo.
XIV.
Riconovaldo, più che stizzito, offeso dalla indifferenza crescente
di Candida, continuava a rodersi dentro, ad almanaccare la maniera
di vincerla, a tentar anche d'irritarla, se non altro, e di farsi
detestare a viso aperto; pur ch'ella smettesse di portarsi così,
come se non s accorgesse di lui. Poichè dice bene il Leopardi, che
gli uomini tollerano l'odio, e talvolta pure se ne gloriano; ma ad
un segno o ad un sospetto che abbiano di noncuranza, pochi sono così
forti che restino immobili, e non si diano con ogni mezzo a cercare
di liberarsene, discendendo anco, se occorre, ad atti vili. E più
che in altri doveva questo esser vero in lui, che, oltre al naturale
sospetto d'esser preso per una testa piccina e un'anima vuota, aveva la
coscienza altera della sua bellezza, e non si vedeva nemmeno guardato.
Visto che anche il suo tentativo oratorio era andato fallito, si
persuase di quello che Iride gli aveva detto di Candida; ch'essa, cioè,
sotto quell'apparenza modesta e dimessa, covasse dell'orgoglio e della
pretensione; il che avviene più di sovente in chi meno vi ha diritto
e lo dà meno a vedere. Per questo pensò di scegliere altra strada,
e cominciò a fare il noncurante anche lui; ma Candida era sempre più
fredda; e gli fu forza di smettere. Allora invelenì davvero, e andò
più in là; cominciò a pungerla, parlando a sua sorella, con ogni sorta
di allusioni fanciullescamente maligne. Un giorno si lasciò andare a
questa: Candida era presente, e sua sorella gli domandò d'una certa
signora vedova di sua conoscenza, perchè non si rimaritasse.
— Che vuoi che si rimariti quella creatura di carta pesta? — rispose
Riconovaldo coi denti stretti. — Non se n'accorge mica lei di non aver
marito; è una di quelle donne che vivono fuor delle leggi della natura;
anzi, a voler parlar giusto, non è neanco una donna. Per meritare il
nome di donna, non basta mica averne le forme; bisogna averne l'anima,
gli affetti, le tendenze, e una donna che non ha tutto questo, non
è una donna, come non son donne le bambole, le mummie, le statue, e
quei vestiti interi che pendono dagli attaccapanni nelle botteghe dei
mercanti di stoffe. —
Ma Candida persisteva; non faceva un atto di risentimento, non dava un
segno d'impazienza; era indifferente e impassibile come una pietra;
e sì che qualche volta Iride, indispettita anch'essa da quei modi,
aggiungeva le sue alle punzecchiature del fratello, ed era un'alleata
formidabile. Riconovaldo, punto fino a mordersene le dita, e incaponito
sempre più nel suo proposito, mutò strada ancora una volta. A poco a
poco raddolcendosi, e fingendo di pentirsi, o pentendosi davvero, del
suo procedere scortese e maligno verso Candida, cominciò a farle la
corte, come lui la sapeva fare, con quella grazia e quella finezza;
prima alla lontana, timido; poi apertamente, caldo e soave; qualche
volta quasi supplichevole. Ma Candida mostrava di non badar alla sua
dolcezza più di quel che avesse badato alla sua malignità.
Riconovaldo, disperato di riuscire, ferito nel più vivo nell'amor
proprio, arrabbiato, volle vendicarsi voltando la cosa al faceto, e
seguitò a far la corte a Candida come l'avrebbe fatta a una vecchia di
settant'anni per divertire una brigata di amici; con certi inchini,
certi accenti, certi modi sdolcinati e grotteschi, che gli sarebbero
stati bene colle scarpe a fibbia e la parrucca incipriata. E nello
stesso tempo si buttò dietro le spalle tutti i precetti educativi
del Tommaseo, che in presenza delle ragazze non bisogna prendere
atteggiamenti sbadati, nè sdraiarsi con cascaggine patrizia, nè
avvicinarsi tanto che sentano gli aliti e cose simili. Ma Candida
sempre si tirava indietro, o torceva la testa e voltava le spalle, o
s'alzava e se n'andava via.
Un giorno le presentò un mazzolino di fiori avvizziti e senza odore;
quella volta essa corrugò le ciglia e arrossì; ma subito si ricompose,
e senza far atto di sprezzo o di dispetto, buttò il mazzolino in un
canto.
E i giorni passavano così e Riconovaldo sempre più si accaniva, non
però senza comprendere, di tratto in tratto, quando la passione taceva,
ch'egli aveva torto, e che la sua condotta era puerile e villana. In
quei momenti egli provava per quella povera ragazza un tale sentimento
di pietà, che quasi era per correre a domandarle perdono; ma al
primo rivederla, così rigida e cocciuta, addio pentimento: la bile si
risollevava più che mai.
Altro che ricrearsi un poco a spese di Candida, riscalducciandola con
qualche sorriso e qualche parolina, come n'aveva fatto disegno nel
partire per la villa!
Iride intanto continuava a fare il chiasso con Furio, ogni giorno,
come quella volta della passeggiata. Erano venuti in una certa
dimestichezza; Furio sera fatto un po' più disinvolto; era beato; Iride
gli comandava come a un paggetto, gli faceva fare mille faccenduole di
casa, lo teneva tutto il giorno in moto a sua disposizione. — Furio!
— gridava, e subito si sentiva un: — Eccomi! — allegro e vibrato, e un
passo precipitoso, e Furio era là, davanti a lei, ansante e infiammato.
Più stava insieme con lui, e più Iride lo trovava curioso, chè non
sapeva capire certi suoi mutamenti improvvisi di colore e di umore,
e se ne divertiva; e vedeva ch'era buono e gentile, in fondo, e gli
voleva bene. Ma quello stargli sempre così vicina, con quel viso, con
quegli occhi, con quel benedetto vestito, con quella sbadata libertà di
maniere, e in campagna, era un guaio.
XV.
Sulla facciata della villa, al primo piano, ricorreva un terrazzino
lungo e continuo, sul quale davano le finestre della camera di Furio;
a sinistra, quelle della camera d'iride; a destra, nel mezzo, quelle
del padre. Dinanzi all'ultima finestra d'Iride, nell'angolo, c'erano
quattro o cinque grandi vasi di fiori, e un buon tratto della ringhiera
era coperto dagli ultimi pampini d'una vite piantata nel giardino.
Era un cantuccio tutto coperto di foglie, nel quale non penetrava mai
raggio di luce; una persona vi si sarebbe potuta rimpiattare senza
essere vista nè dal giardino nè dalle finestre.
Furio, una sera ch'era andato a dormire, mentre tutti gli altri stavano
ancora sotto a discorrere, si svegliò, oppresso dal caldo, dopo due
ore di sonno, e si fece alla finestra mezzo vestito per respirare un
po' d'aria fresca della notte. La notte era quieta e chiara che pareva
giorno. Gli alberi del giardino, illuminati dalla luna, apparivano
distinti, foglia per foglia, fino ai più lontani, come alla luce del
sole. Furio, all'aspetto di quella splendida pace del cielo, si sentì
entrare nel cuore una dolce malinconia; guardò lungamente il giardino,
i sentieri lontani, le case sparse, i colli; poi incrociò le braccia
sul parapetto della finestra, chinò la testa, e stette un pezzo così.
Quando si riscosse, credette che fosse molto tardi e che tutti
dormissero. Come spinto da una mano misteriosa, scavalcò il parapetto,
e senza quasi pensarvi andò avanti sul terrazzino. A un tratto si
accorse d'esser vicino alla finestra della camera d'Iride, e gli corse
un brivido da capo a piedi; ebbe paura. Le finestre erano aperte e la
camera buia; pensò che già dormisse, gli parve di udire il respiro, si
sentì salire una fiamma alla testa, si mosse per tornare indietro...
Magli mancò l'animo: avrebbe potuto far rumore e svegliarla; era vicino
ai fiori, sedette, e si nascose. In quel punto sentì un suono confuso
di voci giù nella sala da pranzo. Gli si agghiacciò il sangue. Non
erano ancora andati a dormire, andavano allora, si davano la buona
notte; che fare? tornare a letto? farsi scorgere? No, impossibile;
fermo lì, e zitto. Il cuore gli batteva forte. Dopo un minuto, sente
un passo leggiero venir su per le scale, due o tre porte si aprono
e si chiudono l'una dopo l'altra, man mano più vicine; ecco il lume;
l'ultima porta s'apre, Iride è nella sua camera, mette il candelliere
sul tavolino, s'affaccia alla finestra. Furio trattiene il respiro, si
preme una mano sul cuore dalla paura ch'essa lo senta battere; Iride
è lì, sopra di lui; s egli stende un braccio la tocca, ne sente il
profumo, vede in confuso il bianco del suo vestito. — Oh per carità,
va via! — dice il povero ragazzo tra sè. Iride si leva dalla finestra,
canterella, tace, ricomincia, va e viene per la camera, si riavvicina
al parapetto, ritorna dentro, mormora qualche parola indistinta...
Intanto s'è levato un po' di vento che spande intorno un delizioso odor
di giardino. Le foglie della vite e dei fiori stormiscono rendendo il
suono d'un bisbiglio concitato, tenero, supplichevole, che par che
dica: — Iride, Iride, Iride. — E tutta la campagna tace e la luna
splende.
Furio restò un po' di tempo immobile coi gomiti appoggiati sulle
ginocchia e la testa fra le mani. Poi a poco a poco le sue gambe si
rilassarono, la testa gli ricadde da un lato, si distese in terra
supino e s'addormentò.
— Ma vedi che testa! Anche stassera mi son dimenticata di chiudere! —
disse Iride, e scese dal letto e s avvicinò alla finestra. — Che buon
odore di fiori! — esclamò respirando l'aria viva, e s appoggiò sul
parapetto. A un tratto balza indietro, gettando un leggero grido. —
Cielo! che sarà mai? — Si riaccosta alla finestra, tende l'orecchio:
un respiro! Il coraggio della paura la prende, s'affaccia risoluta,
guarda: — Chi vedo! Furio! Che sia svenuto! — Si veste in fretta, esce
di corsa, arriva in punta di piedi all'angolo del terrazzino, e si
china a guardare il ragazzo. Dalla cintura in su era tutto illuminato
dalla luna; aveva i capelli in disordine, la bocca semiaperta e le
guancie ancora umide di lacrime. — Dorme, — disse Iride dopo averlo
guardato attentamente; — pare che abbia pianto... Ora gli asciugo le
lacrime e si sveglia. — Adagio adagio allungò il braccio per pigliargli
il fazzoletto ch'egli si teneva fermo sul petto con una mano aperta,
nell'atto di chi preme qualcosa sul cuore. Iride glielo prese, lo
guardò. Come! il suo fazzoletto! il fazzoletto ch'essa credeva d'aver
perduto! Stette un po' sopra pensiero, e poi esclamò: — Ma è possibile?
— Restò qualche minuto immobile a guardar Furio che seguitava a
dormire, poi tornò lentamente alla sua camera, si riaffacciò alla
finestra, lasciò ricadere il suo fazzoletto, e chiuse.
Furio si destò, si guardò intorno, e di nuovo gli parve che le foglie
della vite e dei fiori, agitate dal vento, gli dicessero all'orecchio:
— Iride, Iride, Iride. —
XVI.
A una donna che avesse avuto un briciolo di cervello, la scena di
quella sera sarebbe bastata a fare tutto capire, e anche mettendola
solo in sospetto, l'avrebbe indotta a mutar modi col ragazzo. Ma Iride
era tanto leggiera che in lei la curiosità vinse immediatamente la
prudenza. E non seppe reprimere nemmeno un sentimento di compiacenza
vanitosa, che le sorse nel cuore così vivo da non lasciarla nemmeno
riflettere ch'era un sentimento colpevole e pericoloso. Non già ch'essa
potesse pigliar sul serio l'amore di Furio; ma una donna, chiunque
l'ami, se ne tiene; e tanto più era naturale che se ne tenesse lei
capricciosa e vanissima. E poi ci trovava da divertirsi: porgergli
la mano e vederlo arrossire; appoggiare il braccio sul suo e vederlo
scotersi; dirgli: caro! e vedere i suoi occhi risplendere; aver lì un
ragazzo da poterne fare quel che voleva con un'occhiata, era una cosa
amena. Poi per quietare la propria coscienza aveva mille scuse: non
era giusto di volere un po' di bene, e dimostrarglielo, a quel povero
ragazzo trascurato e aspreggiato, e pure così buono, dolce e avido
d'affetto? Non sarebbe mica stata benevola e carezzevole con lui a fin
di male; non sarebbe neanco stata in dovere, per così dire, di dubitare
che del male gliene potesse fare; davanti alla sua coscienza non faceva
che esercitare un sentimento di pietà consolatrice, un sentimento
materno, irreprensibile; essa non doveva saperne nulla di ciò che
potesse sentir per lei quel poverino; che c'era dunque da ridire? Ora
si rendeva ragione di quella strana timidezza, di quei turbamenti, di
quei tremiti, di quei rossori. — Questa è nuova davvero! — ripeteva tra
sè la mattina, scendendo le scale, — un bambino di quattordici anni!...
mio cognato! — e rideva.
XVII.
Quella mattina, Candida, appena levata, cercò premurosamente di
Furio, lo condusse in un angolo della sala da pranzo e gli disse
nell'orecchio:
— Cosa facevi ieri sera sul terrazzino, nell'angolo dei fiori? —
Furio si scosse e arrossì.
— Furio! — esclamò Candida con voce affettuosa, — non ci andar più.
Furio la guardò fingendo una grande meraviglia.
— Non ci andar più, Furio, — ripetè Candida, abbassando la voce: — da'
retta a me, da' retta a tua sorella che ti vuol bene, promettimi che
non ci andrai più...
— Ma dove? — domandò Furio abbassando il capo.
— Oh! tu mi capisci, tu sai quello che voglio dire, non guardarmi così,
fa quel che ti dico io, Furio; non mi posso spiegare di più;... ma tu
m'intendi, tu mi vuoi bene; non star tanto insieme con Iride, non andar
più a passeggiare con lei, sta qui con me, ascoltami...
— Taci! esclamò vivamente il ragazzo.
Iride entrava in quel momento guardando Furio con occhio intento
e scrutatore; e questi, ancora tutto sconvolto dalle parole di sua
sorella, guardò lei nella stessa maniera, per scoprire se la notte non
si fosse accorta di nulla. Stettero così un po' di tempo guardandosi
tutt'e due, tanto che Candida, perduta la pazienza a veder così poco
giudizio in sua cognata, esclamò con accento di leggero rimprovero:
— Ma Iride! —
Ma subito le mancò il coraggio di proseguire e scomparve.
Iride, senza neanco badarle, s'avvicinò lentamente al ragazzo, gli posò
le mani sulle spalle, ritirò un po' indietro la testa e lo fissò negli
occhi.
Furio, senza staccar gli occhi da lei, chè pareva affascinato, si levò
dalla spalla adagio adagio quelle due mani che lo brucciavano, e si
coperse il viso col braccio.
L'atto, lo sguardo, il rossore erano stati tali da non lasciare più
dubbio, e per la prima volta, che fu anche l'ultima, Iride fece un atto
di prudenza: tirò indietro in tempo una mano che aveva già distesa per
una carezza pietosa, e se n'andò lentamente, senza voltarsi.
XVIII.
A mezzogiorno, Furio se ne stava nel giardino seduto all'ombra d'un
albero; ancora tutto commosso dalla scena della mattina. Splendeva
un sole ardentissimo e tutto era quieto. Non stridore di cicala, non
canto d'uccello, non volo di farfalla, non voce, non moto nè vicino nè
lontano: pareva che la natura dormisse. Allora la campagna si anima
d'una vita fantastica, come di notte. Si sentono suoni indefiniti
come di lunghe grida lontane; soffi, fruscii, bisbigli, ora a molta
distanza, ora nell'orecchio, qui, là, non si sa dove, da ogni parte.
Par che nell'aria ci sia qualcuno o qualcosa che fluttua e che s'agita,
che si avvicina, che si scosta, che ritorna, che ci rasenta, che
s'allontana. A un tratto si sente accanto un ronzìo d'insetto; passa,
e tutto tace. S'ha una scossa, ci si volta: è caduta una foglia. Sbuca
una lucertola, si ferma, che par che stia a sentire, e come impaurita
da quel silenzio, si rimbuca. La campagna ha non so che di solenne
e di triste come un mare solitario; e la testa si abbassa come per
forza, mentre l'occhio socchiuso vaga per le valli oscure e pei cupi
recessi che la fantasia languida gli rappresenta tra i fili dell'erba
e i granelli della terra. Furio solo vegliava a quell'ora. Il vecchio
impiegato dormiva in camera sua, supino sul letto, colla fronte tutta
in sudore e un andirivieni di mosche sul naso; e la zia, smessa la
calza, s'era anch'essa addormentata sulla seggiola, ritta interita sul
busto, colle braccia incrociate come un idolo e le labbra sporgenti in
atto dispettoso.
Furio non aveva visto Iride da più di due ore, e non sapeva dove fosse.
S'alzò da sedere e cominciò a girar pel giardino. Il giardino era vasto
e tutto piantato d'alberi fittissimi come un boschetto. Egli guardava
lontano fra tronco e tronco se biancheggiasse da nessuna parte un
vestito di donna, quando l'occhio gli cadde su poche foglie di rosa
sparse sull'erba. Dopo quelle, poco lontano, ce n'era dell'altre,
e via via a perdita d'occhi era una lunga striscia color di rosa.
Furio seguitò quella traccia, andò un po' innanzi diritto, poi svoltò
a destra, svoltò a sinistra, girò, rigirò, arrivò quasi in fondo al
giardino; all'improvviso non vide più foglie, rivolse gli occhi intorno
e diede una voce di sorpresa. Iride, stesa sull'erba ai piedi d'un
albero, dormiva.
Non dormiva; fingeva.
Furio rimase là a guardarla a bocca aperta, lontano sette o otto passi.
Era vestita di bianco, e intorno a lei tutto verde cupo; spiccava
come un cigno sulla sponda erbosa d'un lago. Stava distesa come sur
un letto, con un braccio nudo piegato sotto la testa, l'altro steso
lungo il fianco, e tutt'un piede scoperto. Teneva il viso rivolto dalla
parte di Furio, e il suo labbro inferiore abbassato scopriva i dentini
uniti e bianchi. Il volume delle treccie allentate pareva che fosse sul
punto di sciogliersi e di spandersi intorno a ondate d'oro. Respirava
frequente; aveva l'occhio semiaperto e fisso, come lo tengon molti
dormendo, e le gote color di rosa vivo.
Furio stava guardandola cogli occhi spalancati e le mani per aria in
atto di meraviglia. Egli non aveva mai visto dormire una bella donna, e
notava per la prima volta quella grazia più spiccata e più molle che il
sonno dà alle forme femminili, e l'atteggiamento infantile di quel bel
viso immobile. Il cuore gli tremò, gli corse una scintilla per tutte le
fibre e si stese come una nebbia fra Iride e i suoi occhi.
— Eccola, — mormorava colle labbra tremanti e cogli occhi umidi, —
Iride, la mia buona Iride, quella che mi vuol bene, che mi protegge,
e sta sempre con me, e mi fa passare tante ore contente; quella che mi
compatisce e mi perdona... io così in questo modo, che non sono nemmeno
degno di starle vicino, e lei così bella... Eccola là... Iride, dormi,
io ti guardo, sei tanto bella, sei il mio angelo, io ti voglio bene che
non so che cosa farei per te, guarda; io sono contento; io bacerei dove
tu metti i piedi, cara Iride. —
Tirò fuori in fretta il fazzoletto e lo baciò dicci o dodici volte
avidamente.
— Dormi, non ti svegliare, Iride; io ti guardo, starei sempre qui a
guardarti. —
Corse a un roseto là presso, strappò in furia molte rose e le andò a
gettare ai suoi piedi.
— To', prendi, ti copro di fiori, tu devi dormire in mezzo alle rose,
tu che sei così bella. —
S'inginocchiò ai suoi piedi e le baciò due o tre volte il vestito,
continuando a dire tra sè: — Cara Iride! mia bella, mia buona Iride!
Iride si mosse: Furio balzò in piedi e si fece tutto di fuoco. Essa
fingeva sempre di dormire; ma nel muoversi s'era sciolta da una specie
di mantiglia che parte le era stesa sotto e parte le avvolgeva il
seno. Furio indietreggiò a quella vista, con gli occhi fissi su di lei;
si passò una mano sulla fronte, si cacciò indietro i capelli con una
scrollata di capo, e poi si slanciò a traverso i campi di corsa. Andava
come se fosse inseguito, pareva che il terreno si facesse elastico
per dargli l'impulso, divorava la strada; arrivò a un fosso, cadde, si
bagnò, si rialzò, e via, via, come portato dal vento; sale il colle,
scivola, si rialza, si aggrappa agli sterpi, arriva sulla cima, e giù
dall'altra parte a lunghissimi salti, seguitato dalle pietre urtate
che franano, pestando piante e solchi, empiendo la valle silenziosa di
grida: — Animo! — Là! — Così! — Coraggio! — Ed eccolo in fondo, steso
sull'erbe, supino, spossato, cogli occhi al cielo e la mente smarrita
in una certa ebbrezza fantastica, come se fosse precipitato in fondo
all'abisso.
XIX.
Da quel giorno Furio cominciò a vivere in uno stato di esaltazione
continua. Il nuovo contegno di Iride, un po' meno allegra di prima, ma
più affettuosa, e come sempre occupata da un pensiero, non potendolo
attribuire a un semplice sentimento di sollecitudine e di pietà, perchè
non credeva d'essersi lasciato scoprire, lo prendeva come segno d'un
principio d'affetto uguale al suo, e questa idea lo metteva tutto
sossopra. Sino allora il non avere alcuna speranza, neanco lontana,
d'una corrispondenza, la certezza d'esser tenuto nulla più che un
ragazzo, e cercato così per distrazione, come un giocattolo; quello
stesso fare leggiero, a scatti e a frulli, che Iride aveva usato con
lui, era bastato a frenarlo, a mantenerlo un po' in quiete, a fargli
fare almeno uno sforzo per dissimulare quello che sentiva. Ma ora
quella speranza, che il suo ardentissimo desiderio mutava facilmente
in certezza, lo faceva uscire di sè; egli si sentiva come lanciato
tutt'a un tratto dall'infanzia nella giovinezza; si sentiva uomo,
caldo, fiero, tempestoso; s'agitava, andava, veniva, correva; cercava
Iride, la fuggiva, ritornava subito a cercarla, le si strisciava
intorno tremante, sussultava sotto il suo sguardo, la divorava cogli
occhi senza proferir parola, non trovava riposo la notte, usciva in
esclamazioni solo, soffriva, piangeva.
In riva al lago, in mezzo a un gruppo d'alberi, v'era una statua di
pietra annerita e muscosa, che rappresentava una donna dormente, in una
positura simile a quella d'Iride quand'era stesa ai piedi dell'albero
quel giorno. Posava sopra un piedestallo; ma essendosi dovuto rialzare
il terreno intorno all'acqua, il piedestallo era scomparso sotto la
terra nuova. Due o tre volte, sull'imbrunire, quand'era più agitato,
Furio si andò a stendere sull'erba, accanto a quella statua, viso a
viso, e rimase lungamente a guardarla, fingendosi coll'immaginazione
che fosse viva e sua, e portasse quel caro nome: bizzarrìe che si fanno
anche da grandi.
A Candida nulla sfuggiva; essa aveva notato quella crescente
inquietudine di suo fratello: sospettò di qualche imprudenza d'Iride
e risolvette d'impedire a qualunque costo che la cosa finisse peggio.
In quella la zia ricevette una lettera che annunziava di lì a due
giorni l'arrivo di suo nipote Carlo, il marito d'Iride. Candida, a
quella notizia, si turbò. Carlo così sospettoso, era impossibile che
non s'accorgesse di nulla! E con que' suoi modi duri e violenti, che
cosa non sarebbe potuto seguire! Perciò si mise a cercare un'occasione
di trovarsi sola con Furio per qualche tempo, per potergli tenere un
discorso lungo e serio. Ma Furio, accorto, ogni volta ch'essa riusciva
ad afferrarlo, le sguisciava di mano, e scappava a nascondere la sua
“casta porpora„ in qualche cantuccio solitario.
XX.
La sera dopo, ch'era quasi già buio, dopo aver aspettato inutilmente
che Iride scendesse dalla sua camera, Furio uscì di casa e andò a
sedersi davanti alla statua. Due ore prima, incontrandolo per la scala,
Iride gli aveva preso il mento fra il pollice e l'indice, e gli aveva
detto: — Come va, piccino? — E lui, sceso giù, sera scarmigliato i
capelli con tutt'e due le mani, in furia, così, non ne sapeva il perchè
nemmeno lui... per sfogo.
— Iride! — diceva egli alla statua con voce stanca, come sognando, ed
era già buio fitto; — io non posso più... ti voglio troppo bene; se
sapessi quel che provo qui! Io ti farei il servitore, guarda; andrei a
mettermi sotto i tuoi piedi, quando monti in carrozza. Se mi dicessero:
— Fatti tagliare un dito e Iride ti vuol bene, — io mi farei tagliare
il dito, e starei sempre accanto a te. Cara! con quei begli occhi
grandi, e i capelli biondi, e buona. — E poi dopo aver pensato un po':
— Che bella signora! Ti potessi sempre vedere, starei anche chiuso in
prigione. Ma tu andrai via, e qui non ci sarà più Iride. Oh Dio, e cosa
farò io, quando non ci sarà più Iride! Resterò solo! Ma io non posso
più adesso restar solo! Io non posso... Io muoio di malinconia, solo.
Oh no! non te ne andare, Iride! non mi lasciar solo! —
E quasi piangendo cingeva con tutt'e due le braccia il collo della
statua e le abbandonava il capo sulle spalle. All'improvviso si sentì
entrar due mani nei capelli e scorse qualcosa di bianco. Balzò in
piedi, indietreggiò, vide Iride seduta, mandò un gridò, cadde in
ginocchio, si sentì stretto intorno al collo.... — Iride! Iride! —
esclamò a voce bassa e concitata; — no, senti, per carità, non lo far
per burla, io sono un povero ragazzo, io non ho altri che te, io t'amo,
tu non lo sai, davvero, angelo, no, t'amo, per carità, Iride.... —
Si sentì tirar giù il capo sulle ginocchia di lei, la vide chinare il
viso, sentì un profumo, un alito caldo, le labbra. — Dio! — mormorò con
voce spenta; e Iride, il cielo, il lago, gli alberi ondeggiarono, si
confusero e sparvero, ed egli restò senza vita.
XXI.
cavaliere; ma subito ritornò verso di lui sorridendo, e gli disse:
— Povero Furio, come sei rimasto male! — Poi, porgendogli la mano,
soggiunse: — Qua, facciamo la pace. —
Furio pose la sua destra tremante nella piccola mano d'Iride, e
continuò a camminare più impacciato che mai. Andavano per un viottolo
fiancheggiato da due alte siepi. Iride fece qualche domanda al piccolo
cognato intorno alla sua scuola, alle sue occupazioni, alla campagna,
di quelle solite domande che si fanno ai ragazzi senza badare alla
risposta, e poi, ridendo, lo interrogò della zia: — Un po' durotta, eh?
— e l'interruppe per accennargli un fiore, che glielo pigliasse. Furio
lo prese e lo teneva in mano per non saper come porgerlo.
— Animo, sii gentile, e mettilo qui, per bene. —
E si voltò di fianco e chinò con molta grazia la testa, perchè glielo
mettesse nei capelli; Furio glielo mise.
— Dio mio! — gridò Iride, spaventata, dopo pochi passi; — che strada è
questa? —
Aveva messo un piede sull'orlo d'un fossetto pieno d'acqua e c'era
scivolata dentro un buon palmo. Con un leggero sforzo tirò fuori il
piede tutto stillante. Allora Furio si buttò in ginocchio, e prima col
fazzoletto e poi coll'erba del sentiero strappata in fretta e furia,
cominciò a fregare lo stivaletto con una foga disperata.
— No, no, basta, — andava dicendo Iride: — basta, Furio, grazie, non ti
affaticare, tanto son tutta bagnata, bisogna ch'io mi vada a cambiare,
basta, lascia pure. —
E andava ritirando il piede, stretto intorno alla noce dalla mano del
ragazzo, come da un cerchio di ferro.
— Ma basta! — proruppe Iride con uno scoppio di risa.
Furio si alzò tutto rosso, sudante e glorioso, e quando Iride si fu
allontanata, diede in un riso represso, si strinse un dito fra i denti,
si stropicciò forte le mani, battè i piedi, rise di nuovo, e alzando
gli occhi al cielo esclamò con trasporto di contentezza:
— Oh Dio! Dio! Come sono felice! Non c'è nessuno più felice di me sopra
la terra!
XIII.
A Iride non era nemmeno passato per la mente che sotto quella
gran timidezza del ragazzo si nascondesse qualcosa; e non c'è da
meravigliarsene. I ragazzi noi li crediamo sempre più ragazzi di quel
che sono. E questo, perchè, al solito, vedendoli e trattandoli, non ci
è presente alla memoria il grado vero d'intelligenza e di sensitività
che avevamo noi all'età loro. Se ci fosse presente sempre, ci
ricorderemmo, per esempio, quasi tutti che, da bambini, abbiamo sentito
far dei discorsi, in presenza nostra, che noi ora, alla presenza
d'altri bambini, non ripeteremmo; e allora coloro che li facevano,
erano fermamente persuasi che noi non gl'intendessimo; e gl'intendevamo
invece quanto loro, e facevamo le viste di no. L'intelligenza dei
fanciulli precorre quasi sempre l'accorgimento dei genitori o degli
educatori, o di chiunque abbia ragione di tenerli al buio di qualche
cosa per un certo tempo; le cautele vengono quasi sempre tardi; e
fra quando cominciano a capire e quando si comincia a sospettare
che capiscano, tutti i fanciulli sono più o meno ipocriti, e la loro
ipocrisia è tanto più fina e profonda, quanto più viva e più spesso
delusa la curiosità.
Lo stesso segue degli affetti.
Un ragazzo di quattordici anni! Chi gliel'avesse detto, a Iride,
ell'avrebbe dato in uno di quei suoi scoppi di risa freschi e sonori,
che facevano restar a bocca aperta il suo piccolo schiavo.
XIV.
Riconovaldo, più che stizzito, offeso dalla indifferenza crescente
di Candida, continuava a rodersi dentro, ad almanaccare la maniera
di vincerla, a tentar anche d'irritarla, se non altro, e di farsi
detestare a viso aperto; pur ch'ella smettesse di portarsi così,
come se non s accorgesse di lui. Poichè dice bene il Leopardi, che
gli uomini tollerano l'odio, e talvolta pure se ne gloriano; ma ad
un segno o ad un sospetto che abbiano di noncuranza, pochi sono così
forti che restino immobili, e non si diano con ogni mezzo a cercare
di liberarsene, discendendo anco, se occorre, ad atti vili. E più
che in altri doveva questo esser vero in lui, che, oltre al naturale
sospetto d'esser preso per una testa piccina e un'anima vuota, aveva la
coscienza altera della sua bellezza, e non si vedeva nemmeno guardato.
Visto che anche il suo tentativo oratorio era andato fallito, si
persuase di quello che Iride gli aveva detto di Candida; ch'essa, cioè,
sotto quell'apparenza modesta e dimessa, covasse dell'orgoglio e della
pretensione; il che avviene più di sovente in chi meno vi ha diritto
e lo dà meno a vedere. Per questo pensò di scegliere altra strada,
e cominciò a fare il noncurante anche lui; ma Candida era sempre più
fredda; e gli fu forza di smettere. Allora invelenì davvero, e andò
più in là; cominciò a pungerla, parlando a sua sorella, con ogni sorta
di allusioni fanciullescamente maligne. Un giorno si lasciò andare a
questa: Candida era presente, e sua sorella gli domandò d'una certa
signora vedova di sua conoscenza, perchè non si rimaritasse.
— Che vuoi che si rimariti quella creatura di carta pesta? — rispose
Riconovaldo coi denti stretti. — Non se n'accorge mica lei di non aver
marito; è una di quelle donne che vivono fuor delle leggi della natura;
anzi, a voler parlar giusto, non è neanco una donna. Per meritare il
nome di donna, non basta mica averne le forme; bisogna averne l'anima,
gli affetti, le tendenze, e una donna che non ha tutto questo, non
è una donna, come non son donne le bambole, le mummie, le statue, e
quei vestiti interi che pendono dagli attaccapanni nelle botteghe dei
mercanti di stoffe. —
Ma Candida persisteva; non faceva un atto di risentimento, non dava un
segno d'impazienza; era indifferente e impassibile come una pietra;
e sì che qualche volta Iride, indispettita anch'essa da quei modi,
aggiungeva le sue alle punzecchiature del fratello, ed era un'alleata
formidabile. Riconovaldo, punto fino a mordersene le dita, e incaponito
sempre più nel suo proposito, mutò strada ancora una volta. A poco a
poco raddolcendosi, e fingendo di pentirsi, o pentendosi davvero, del
suo procedere scortese e maligno verso Candida, cominciò a farle la
corte, come lui la sapeva fare, con quella grazia e quella finezza;
prima alla lontana, timido; poi apertamente, caldo e soave; qualche
volta quasi supplichevole. Ma Candida mostrava di non badar alla sua
dolcezza più di quel che avesse badato alla sua malignità.
Riconovaldo, disperato di riuscire, ferito nel più vivo nell'amor
proprio, arrabbiato, volle vendicarsi voltando la cosa al faceto, e
seguitò a far la corte a Candida come l'avrebbe fatta a una vecchia di
settant'anni per divertire una brigata di amici; con certi inchini,
certi accenti, certi modi sdolcinati e grotteschi, che gli sarebbero
stati bene colle scarpe a fibbia e la parrucca incipriata. E nello
stesso tempo si buttò dietro le spalle tutti i precetti educativi
del Tommaseo, che in presenza delle ragazze non bisogna prendere
atteggiamenti sbadati, nè sdraiarsi con cascaggine patrizia, nè
avvicinarsi tanto che sentano gli aliti e cose simili. Ma Candida
sempre si tirava indietro, o torceva la testa e voltava le spalle, o
s'alzava e se n'andava via.
Un giorno le presentò un mazzolino di fiori avvizziti e senza odore;
quella volta essa corrugò le ciglia e arrossì; ma subito si ricompose,
e senza far atto di sprezzo o di dispetto, buttò il mazzolino in un
canto.
E i giorni passavano così e Riconovaldo sempre più si accaniva, non
però senza comprendere, di tratto in tratto, quando la passione taceva,
ch'egli aveva torto, e che la sua condotta era puerile e villana. In
quei momenti egli provava per quella povera ragazza un tale sentimento
di pietà, che quasi era per correre a domandarle perdono; ma al
primo rivederla, così rigida e cocciuta, addio pentimento: la bile si
risollevava più che mai.
Altro che ricrearsi un poco a spese di Candida, riscalducciandola con
qualche sorriso e qualche parolina, come n'aveva fatto disegno nel
partire per la villa!
Iride intanto continuava a fare il chiasso con Furio, ogni giorno,
come quella volta della passeggiata. Erano venuti in una certa
dimestichezza; Furio sera fatto un po' più disinvolto; era beato; Iride
gli comandava come a un paggetto, gli faceva fare mille faccenduole di
casa, lo teneva tutto il giorno in moto a sua disposizione. — Furio!
— gridava, e subito si sentiva un: — Eccomi! — allegro e vibrato, e un
passo precipitoso, e Furio era là, davanti a lei, ansante e infiammato.
Più stava insieme con lui, e più Iride lo trovava curioso, chè non
sapeva capire certi suoi mutamenti improvvisi di colore e di umore,
e se ne divertiva; e vedeva ch'era buono e gentile, in fondo, e gli
voleva bene. Ma quello stargli sempre così vicina, con quel viso, con
quegli occhi, con quel benedetto vestito, con quella sbadata libertà di
maniere, e in campagna, era un guaio.
XV.
Sulla facciata della villa, al primo piano, ricorreva un terrazzino
lungo e continuo, sul quale davano le finestre della camera di Furio;
a sinistra, quelle della camera d'iride; a destra, nel mezzo, quelle
del padre. Dinanzi all'ultima finestra d'Iride, nell'angolo, c'erano
quattro o cinque grandi vasi di fiori, e un buon tratto della ringhiera
era coperto dagli ultimi pampini d'una vite piantata nel giardino.
Era un cantuccio tutto coperto di foglie, nel quale non penetrava mai
raggio di luce; una persona vi si sarebbe potuta rimpiattare senza
essere vista nè dal giardino nè dalle finestre.
Furio, una sera ch'era andato a dormire, mentre tutti gli altri stavano
ancora sotto a discorrere, si svegliò, oppresso dal caldo, dopo due
ore di sonno, e si fece alla finestra mezzo vestito per respirare un
po' d'aria fresca della notte. La notte era quieta e chiara che pareva
giorno. Gli alberi del giardino, illuminati dalla luna, apparivano
distinti, foglia per foglia, fino ai più lontani, come alla luce del
sole. Furio, all'aspetto di quella splendida pace del cielo, si sentì
entrare nel cuore una dolce malinconia; guardò lungamente il giardino,
i sentieri lontani, le case sparse, i colli; poi incrociò le braccia
sul parapetto della finestra, chinò la testa, e stette un pezzo così.
Quando si riscosse, credette che fosse molto tardi e che tutti
dormissero. Come spinto da una mano misteriosa, scavalcò il parapetto,
e senza quasi pensarvi andò avanti sul terrazzino. A un tratto si
accorse d'esser vicino alla finestra della camera d'Iride, e gli corse
un brivido da capo a piedi; ebbe paura. Le finestre erano aperte e la
camera buia; pensò che già dormisse, gli parve di udire il respiro, si
sentì salire una fiamma alla testa, si mosse per tornare indietro...
Magli mancò l'animo: avrebbe potuto far rumore e svegliarla; era vicino
ai fiori, sedette, e si nascose. In quel punto sentì un suono confuso
di voci giù nella sala da pranzo. Gli si agghiacciò il sangue. Non
erano ancora andati a dormire, andavano allora, si davano la buona
notte; che fare? tornare a letto? farsi scorgere? No, impossibile;
fermo lì, e zitto. Il cuore gli batteva forte. Dopo un minuto, sente
un passo leggiero venir su per le scale, due o tre porte si aprono
e si chiudono l'una dopo l'altra, man mano più vicine; ecco il lume;
l'ultima porta s'apre, Iride è nella sua camera, mette il candelliere
sul tavolino, s'affaccia alla finestra. Furio trattiene il respiro, si
preme una mano sul cuore dalla paura ch'essa lo senta battere; Iride
è lì, sopra di lui; s egli stende un braccio la tocca, ne sente il
profumo, vede in confuso il bianco del suo vestito. — Oh per carità,
va via! — dice il povero ragazzo tra sè. Iride si leva dalla finestra,
canterella, tace, ricomincia, va e viene per la camera, si riavvicina
al parapetto, ritorna dentro, mormora qualche parola indistinta...
Intanto s'è levato un po' di vento che spande intorno un delizioso odor
di giardino. Le foglie della vite e dei fiori stormiscono rendendo il
suono d'un bisbiglio concitato, tenero, supplichevole, che par che
dica: — Iride, Iride, Iride. — E tutta la campagna tace e la luna
splende.
Furio restò un po' di tempo immobile coi gomiti appoggiati sulle
ginocchia e la testa fra le mani. Poi a poco a poco le sue gambe si
rilassarono, la testa gli ricadde da un lato, si distese in terra
supino e s'addormentò.
— Ma vedi che testa! Anche stassera mi son dimenticata di chiudere! —
disse Iride, e scese dal letto e s avvicinò alla finestra. — Che buon
odore di fiori! — esclamò respirando l'aria viva, e s appoggiò sul
parapetto. A un tratto balza indietro, gettando un leggero grido. —
Cielo! che sarà mai? — Si riaccosta alla finestra, tende l'orecchio:
un respiro! Il coraggio della paura la prende, s'affaccia risoluta,
guarda: — Chi vedo! Furio! Che sia svenuto! — Si veste in fretta, esce
di corsa, arriva in punta di piedi all'angolo del terrazzino, e si
china a guardare il ragazzo. Dalla cintura in su era tutto illuminato
dalla luna; aveva i capelli in disordine, la bocca semiaperta e le
guancie ancora umide di lacrime. — Dorme, — disse Iride dopo averlo
guardato attentamente; — pare che abbia pianto... Ora gli asciugo le
lacrime e si sveglia. — Adagio adagio allungò il braccio per pigliargli
il fazzoletto ch'egli si teneva fermo sul petto con una mano aperta,
nell'atto di chi preme qualcosa sul cuore. Iride glielo prese, lo
guardò. Come! il suo fazzoletto! il fazzoletto ch'essa credeva d'aver
perduto! Stette un po' sopra pensiero, e poi esclamò: — Ma è possibile?
— Restò qualche minuto immobile a guardar Furio che seguitava a
dormire, poi tornò lentamente alla sua camera, si riaffacciò alla
finestra, lasciò ricadere il suo fazzoletto, e chiuse.
Furio si destò, si guardò intorno, e di nuovo gli parve che le foglie
della vite e dei fiori, agitate dal vento, gli dicessero all'orecchio:
— Iride, Iride, Iride. —
XVI.
A una donna che avesse avuto un briciolo di cervello, la scena di
quella sera sarebbe bastata a fare tutto capire, e anche mettendola
solo in sospetto, l'avrebbe indotta a mutar modi col ragazzo. Ma Iride
era tanto leggiera che in lei la curiosità vinse immediatamente la
prudenza. E non seppe reprimere nemmeno un sentimento di compiacenza
vanitosa, che le sorse nel cuore così vivo da non lasciarla nemmeno
riflettere ch'era un sentimento colpevole e pericoloso. Non già ch'essa
potesse pigliar sul serio l'amore di Furio; ma una donna, chiunque
l'ami, se ne tiene; e tanto più era naturale che se ne tenesse lei
capricciosa e vanissima. E poi ci trovava da divertirsi: porgergli
la mano e vederlo arrossire; appoggiare il braccio sul suo e vederlo
scotersi; dirgli: caro! e vedere i suoi occhi risplendere; aver lì un
ragazzo da poterne fare quel che voleva con un'occhiata, era una cosa
amena. Poi per quietare la propria coscienza aveva mille scuse: non
era giusto di volere un po' di bene, e dimostrarglielo, a quel povero
ragazzo trascurato e aspreggiato, e pure così buono, dolce e avido
d'affetto? Non sarebbe mica stata benevola e carezzevole con lui a fin
di male; non sarebbe neanco stata in dovere, per così dire, di dubitare
che del male gliene potesse fare; davanti alla sua coscienza non faceva
che esercitare un sentimento di pietà consolatrice, un sentimento
materno, irreprensibile; essa non doveva saperne nulla di ciò che
potesse sentir per lei quel poverino; che c'era dunque da ridire? Ora
si rendeva ragione di quella strana timidezza, di quei turbamenti, di
quei tremiti, di quei rossori. — Questa è nuova davvero! — ripeteva tra
sè la mattina, scendendo le scale, — un bambino di quattordici anni!...
mio cognato! — e rideva.
XVII.
Quella mattina, Candida, appena levata, cercò premurosamente di
Furio, lo condusse in un angolo della sala da pranzo e gli disse
nell'orecchio:
— Cosa facevi ieri sera sul terrazzino, nell'angolo dei fiori? —
Furio si scosse e arrossì.
— Furio! — esclamò Candida con voce affettuosa, — non ci andar più.
Furio la guardò fingendo una grande meraviglia.
— Non ci andar più, Furio, — ripetè Candida, abbassando la voce: — da'
retta a me, da' retta a tua sorella che ti vuol bene, promettimi che
non ci andrai più...
— Ma dove? — domandò Furio abbassando il capo.
— Oh! tu mi capisci, tu sai quello che voglio dire, non guardarmi così,
fa quel che ti dico io, Furio; non mi posso spiegare di più;... ma tu
m'intendi, tu mi vuoi bene; non star tanto insieme con Iride, non andar
più a passeggiare con lei, sta qui con me, ascoltami...
— Taci! esclamò vivamente il ragazzo.
Iride entrava in quel momento guardando Furio con occhio intento
e scrutatore; e questi, ancora tutto sconvolto dalle parole di sua
sorella, guardò lei nella stessa maniera, per scoprire se la notte non
si fosse accorta di nulla. Stettero così un po' di tempo guardandosi
tutt'e due, tanto che Candida, perduta la pazienza a veder così poco
giudizio in sua cognata, esclamò con accento di leggero rimprovero:
— Ma Iride! —
Ma subito le mancò il coraggio di proseguire e scomparve.
Iride, senza neanco badarle, s'avvicinò lentamente al ragazzo, gli posò
le mani sulle spalle, ritirò un po' indietro la testa e lo fissò negli
occhi.
Furio, senza staccar gli occhi da lei, chè pareva affascinato, si levò
dalla spalla adagio adagio quelle due mani che lo brucciavano, e si
coperse il viso col braccio.
L'atto, lo sguardo, il rossore erano stati tali da non lasciare più
dubbio, e per la prima volta, che fu anche l'ultima, Iride fece un atto
di prudenza: tirò indietro in tempo una mano che aveva già distesa per
una carezza pietosa, e se n'andò lentamente, senza voltarsi.
XVIII.
A mezzogiorno, Furio se ne stava nel giardino seduto all'ombra d'un
albero; ancora tutto commosso dalla scena della mattina. Splendeva
un sole ardentissimo e tutto era quieto. Non stridore di cicala, non
canto d'uccello, non volo di farfalla, non voce, non moto nè vicino nè
lontano: pareva che la natura dormisse. Allora la campagna si anima
d'una vita fantastica, come di notte. Si sentono suoni indefiniti
come di lunghe grida lontane; soffi, fruscii, bisbigli, ora a molta
distanza, ora nell'orecchio, qui, là, non si sa dove, da ogni parte.
Par che nell'aria ci sia qualcuno o qualcosa che fluttua e che s'agita,
che si avvicina, che si scosta, che ritorna, che ci rasenta, che
s'allontana. A un tratto si sente accanto un ronzìo d'insetto; passa,
e tutto tace. S'ha una scossa, ci si volta: è caduta una foglia. Sbuca
una lucertola, si ferma, che par che stia a sentire, e come impaurita
da quel silenzio, si rimbuca. La campagna ha non so che di solenne
e di triste come un mare solitario; e la testa si abbassa come per
forza, mentre l'occhio socchiuso vaga per le valli oscure e pei cupi
recessi che la fantasia languida gli rappresenta tra i fili dell'erba
e i granelli della terra. Furio solo vegliava a quell'ora. Il vecchio
impiegato dormiva in camera sua, supino sul letto, colla fronte tutta
in sudore e un andirivieni di mosche sul naso; e la zia, smessa la
calza, s'era anch'essa addormentata sulla seggiola, ritta interita sul
busto, colle braccia incrociate come un idolo e le labbra sporgenti in
atto dispettoso.
Furio non aveva visto Iride da più di due ore, e non sapeva dove fosse.
S'alzò da sedere e cominciò a girar pel giardino. Il giardino era vasto
e tutto piantato d'alberi fittissimi come un boschetto. Egli guardava
lontano fra tronco e tronco se biancheggiasse da nessuna parte un
vestito di donna, quando l'occhio gli cadde su poche foglie di rosa
sparse sull'erba. Dopo quelle, poco lontano, ce n'era dell'altre,
e via via a perdita d'occhi era una lunga striscia color di rosa.
Furio seguitò quella traccia, andò un po' innanzi diritto, poi svoltò
a destra, svoltò a sinistra, girò, rigirò, arrivò quasi in fondo al
giardino; all'improvviso non vide più foglie, rivolse gli occhi intorno
e diede una voce di sorpresa. Iride, stesa sull'erba ai piedi d'un
albero, dormiva.
Non dormiva; fingeva.
Furio rimase là a guardarla a bocca aperta, lontano sette o otto passi.
Era vestita di bianco, e intorno a lei tutto verde cupo; spiccava
come un cigno sulla sponda erbosa d'un lago. Stava distesa come sur
un letto, con un braccio nudo piegato sotto la testa, l'altro steso
lungo il fianco, e tutt'un piede scoperto. Teneva il viso rivolto dalla
parte di Furio, e il suo labbro inferiore abbassato scopriva i dentini
uniti e bianchi. Il volume delle treccie allentate pareva che fosse sul
punto di sciogliersi e di spandersi intorno a ondate d'oro. Respirava
frequente; aveva l'occhio semiaperto e fisso, come lo tengon molti
dormendo, e le gote color di rosa vivo.
Furio stava guardandola cogli occhi spalancati e le mani per aria in
atto di meraviglia. Egli non aveva mai visto dormire una bella donna, e
notava per la prima volta quella grazia più spiccata e più molle che il
sonno dà alle forme femminili, e l'atteggiamento infantile di quel bel
viso immobile. Il cuore gli tremò, gli corse una scintilla per tutte le
fibre e si stese come una nebbia fra Iride e i suoi occhi.
— Eccola, — mormorava colle labbra tremanti e cogli occhi umidi, —
Iride, la mia buona Iride, quella che mi vuol bene, che mi protegge,
e sta sempre con me, e mi fa passare tante ore contente; quella che mi
compatisce e mi perdona... io così in questo modo, che non sono nemmeno
degno di starle vicino, e lei così bella... Eccola là... Iride, dormi,
io ti guardo, sei tanto bella, sei il mio angelo, io ti voglio bene che
non so che cosa farei per te, guarda; io sono contento; io bacerei dove
tu metti i piedi, cara Iride. —
Tirò fuori in fretta il fazzoletto e lo baciò dicci o dodici volte
avidamente.
— Dormi, non ti svegliare, Iride; io ti guardo, starei sempre qui a
guardarti. —
Corse a un roseto là presso, strappò in furia molte rose e le andò a
gettare ai suoi piedi.
— To', prendi, ti copro di fiori, tu devi dormire in mezzo alle rose,
tu che sei così bella. —
S'inginocchiò ai suoi piedi e le baciò due o tre volte il vestito,
continuando a dire tra sè: — Cara Iride! mia bella, mia buona Iride!
Iride si mosse: Furio balzò in piedi e si fece tutto di fuoco. Essa
fingeva sempre di dormire; ma nel muoversi s'era sciolta da una specie
di mantiglia che parte le era stesa sotto e parte le avvolgeva il
seno. Furio indietreggiò a quella vista, con gli occhi fissi su di lei;
si passò una mano sulla fronte, si cacciò indietro i capelli con una
scrollata di capo, e poi si slanciò a traverso i campi di corsa. Andava
come se fosse inseguito, pareva che il terreno si facesse elastico
per dargli l'impulso, divorava la strada; arrivò a un fosso, cadde, si
bagnò, si rialzò, e via, via, come portato dal vento; sale il colle,
scivola, si rialza, si aggrappa agli sterpi, arriva sulla cima, e giù
dall'altra parte a lunghissimi salti, seguitato dalle pietre urtate
che franano, pestando piante e solchi, empiendo la valle silenziosa di
grida: — Animo! — Là! — Così! — Coraggio! — Ed eccolo in fondo, steso
sull'erbe, supino, spossato, cogli occhi al cielo e la mente smarrita
in una certa ebbrezza fantastica, come se fosse precipitato in fondo
all'abisso.
XIX.
Da quel giorno Furio cominciò a vivere in uno stato di esaltazione
continua. Il nuovo contegno di Iride, un po' meno allegra di prima, ma
più affettuosa, e come sempre occupata da un pensiero, non potendolo
attribuire a un semplice sentimento di sollecitudine e di pietà, perchè
non credeva d'essersi lasciato scoprire, lo prendeva come segno d'un
principio d'affetto uguale al suo, e questa idea lo metteva tutto
sossopra. Sino allora il non avere alcuna speranza, neanco lontana,
d'una corrispondenza, la certezza d'esser tenuto nulla più che un
ragazzo, e cercato così per distrazione, come un giocattolo; quello
stesso fare leggiero, a scatti e a frulli, che Iride aveva usato con
lui, era bastato a frenarlo, a mantenerlo un po' in quiete, a fargli
fare almeno uno sforzo per dissimulare quello che sentiva. Ma ora
quella speranza, che il suo ardentissimo desiderio mutava facilmente
in certezza, lo faceva uscire di sè; egli si sentiva come lanciato
tutt'a un tratto dall'infanzia nella giovinezza; si sentiva uomo,
caldo, fiero, tempestoso; s'agitava, andava, veniva, correva; cercava
Iride, la fuggiva, ritornava subito a cercarla, le si strisciava
intorno tremante, sussultava sotto il suo sguardo, la divorava cogli
occhi senza proferir parola, non trovava riposo la notte, usciva in
esclamazioni solo, soffriva, piangeva.
In riva al lago, in mezzo a un gruppo d'alberi, v'era una statua di
pietra annerita e muscosa, che rappresentava una donna dormente, in una
positura simile a quella d'Iride quand'era stesa ai piedi dell'albero
quel giorno. Posava sopra un piedestallo; ma essendosi dovuto rialzare
il terreno intorno all'acqua, il piedestallo era scomparso sotto la
terra nuova. Due o tre volte, sull'imbrunire, quand'era più agitato,
Furio si andò a stendere sull'erba, accanto a quella statua, viso a
viso, e rimase lungamente a guardarla, fingendosi coll'immaginazione
che fosse viva e sua, e portasse quel caro nome: bizzarrìe che si fanno
anche da grandi.
A Candida nulla sfuggiva; essa aveva notato quella crescente
inquietudine di suo fratello: sospettò di qualche imprudenza d'Iride
e risolvette d'impedire a qualunque costo che la cosa finisse peggio.
In quella la zia ricevette una lettera che annunziava di lì a due
giorni l'arrivo di suo nipote Carlo, il marito d'Iride. Candida, a
quella notizia, si turbò. Carlo così sospettoso, era impossibile che
non s'accorgesse di nulla! E con que' suoi modi duri e violenti, che
cosa non sarebbe potuto seguire! Perciò si mise a cercare un'occasione
di trovarsi sola con Furio per qualche tempo, per potergli tenere un
discorso lungo e serio. Ma Furio, accorto, ogni volta ch'essa riusciva
ad afferrarlo, le sguisciava di mano, e scappava a nascondere la sua
“casta porpora„ in qualche cantuccio solitario.
XX.
La sera dopo, ch'era quasi già buio, dopo aver aspettato inutilmente
che Iride scendesse dalla sua camera, Furio uscì di casa e andò a
sedersi davanti alla statua. Due ore prima, incontrandolo per la scala,
Iride gli aveva preso il mento fra il pollice e l'indice, e gli aveva
detto: — Come va, piccino? — E lui, sceso giù, sera scarmigliato i
capelli con tutt'e due le mani, in furia, così, non ne sapeva il perchè
nemmeno lui... per sfogo.
— Iride! — diceva egli alla statua con voce stanca, come sognando, ed
era già buio fitto; — io non posso più... ti voglio troppo bene; se
sapessi quel che provo qui! Io ti farei il servitore, guarda; andrei a
mettermi sotto i tuoi piedi, quando monti in carrozza. Se mi dicessero:
— Fatti tagliare un dito e Iride ti vuol bene, — io mi farei tagliare
il dito, e starei sempre accanto a te. Cara! con quei begli occhi
grandi, e i capelli biondi, e buona. — E poi dopo aver pensato un po':
— Che bella signora! Ti potessi sempre vedere, starei anche chiuso in
prigione. Ma tu andrai via, e qui non ci sarà più Iride. Oh Dio, e cosa
farò io, quando non ci sarà più Iride! Resterò solo! Ma io non posso
più adesso restar solo! Io non posso... Io muoio di malinconia, solo.
Oh no! non te ne andare, Iride! non mi lasciar solo! —
E quasi piangendo cingeva con tutt'e due le braccia il collo della
statua e le abbandonava il capo sulle spalle. All'improvviso si sentì
entrar due mani nei capelli e scorse qualcosa di bianco. Balzò in
piedi, indietreggiò, vide Iride seduta, mandò un gridò, cadde in
ginocchio, si sentì stretto intorno al collo.... — Iride! Iride! —
esclamò a voce bassa e concitata; — no, senti, per carità, non lo far
per burla, io sono un povero ragazzo, io non ho altri che te, io t'amo,
tu non lo sai, davvero, angelo, no, t'amo, per carità, Iride.... —
Si sentì tirar giù il capo sulle ginocchia di lei, la vide chinare il
viso, sentì un profumo, un alito caldo, le labbra. — Dio! — mormorò con
voce spenta; e Iride, il cielo, il lago, gli alberi ondeggiarono, si
confusero e sparvero, ed egli restò senza vita.
XXI.