Novelle - 15
lontano, di là dai monti.
I tre briganti risero.
— Ma il più bello — disse uno — è che non parla.... O che sarà?...
Superbia?
— Modestia, — rispose l'altro con un riso sguaiato.
— Paura, — aggiunse il capobanda.
Il carabiniere scosse la testa come per dire di no-
— Ah! no? — esclamò il brigante, balzando in piedi; — ora vedremo. —
E poi ai due compagni, con piglio risoluto: — Costui andava a portar
qualche ordine per farci coglier nel covo. Abbiamo perduto anche troppo
tempo. Facciamolo sputare.
— Facciamolo sputare, — risposero gli altri, alzandosi.
Il carabiniere si scosse, e alzò la testa in atto di chi dice: — Son
preparato. — I tre briganti gli si piantarono dinanzi. Chi avesse
osservato, in quel momento, il giovane che stava alla vedetta, lo
avrebbe visto tremar come una foglia e voltarsi indietro, per non farsi
scorgere, a poco a poco, col viso bianco dal terrore. Il capobanda se
n'accorse, e gli accennò con un gesto imperioso che badasse al dover
suo: quegli riprese l'atteggiamento di prima.
— Dunque, — prese poi a dire il capo, rivolgendosi al carabiniere, con
un accento che non ammetteva più indugi, — di dove venivi? —
Il prigioniero corrugò le sopracciglia e fissò il brigante con uno
sguardo profondo che annunziava una volontà più risoluta della sua, e
non rispose.
Il brigante, senza dir altro, gli menò un così violento pugno sotto il
mento, che s'intese uno scroscio come se gli avesse spezzati i denti. —
Risponderai ora? —
Il carabiniere abbassò la testa, lasciò colare il sangue che gli
empiva la bocca; poi, rialzando gli occhi in viso al brigante, con
un'espressione d'imperturbata alterezza, fece cenno di no.
Il brigante si morse le labbra, ricambiò coi due compagni un sorriso
forzato; poi, con tutta calma, pose la mano in tasca, trasse un
coltello, l'aperse, sbottonò la camicia al carabiniere, e gli mise la
punta della lama sotto la fontanella della gola. La vittima fece un
movimento convulso come se la lama fosse già entrata. — Nessuna paura,
— mormorò il brigante; — e fece scorrere il coltello, lentamente e
leggermente, dal collo fino alla cintura, come avrebbe fatto sopra una
tavola per tracciarvi una linea. Sul petto dello sventurato apparve
una lunga riga rossa, somigliante a un taglio di rasoio, che subito
disparve sotto le goccie di sangue che ne spicciarono fuori; e le
goccie filarono giù, come lagrime, sotto i panni e sopra, sino a terrà.
— Ah! ah! — gridò con voce bestiale il capo; — lo cominci a vedere, eh?
— Guarda come corre! — disse l'altro.
Il giovane brigante si coperse il viso colle mani.
— Parli ora? — ridomandò il capo.
Il carabiniere guardò sgocciolare il sangue, poi alzò la testa, fissò
gli occhi in viso al brigante, e colla medesima espressione di prima
fece cenno di no.
I tre aguzzini si guardarono in viso con un'aria più di stupore che
d'ira.
— Ma vuoi dunque morire, imbecille? — urlò improvvisamente il
capobanda, mettendo il suo viso contro quello del carabiniere, in modo
quasi da toccarlo, e scotendo una mano aperta accanto alla guancia
di lui. — Non vedi che sei qui, nelle nostre mani, solo, e che ti
possiamo sventrar come un cane? Cosa speri? Che ti vengano a liberare?
Dì qualche cosa! Fa sentire la tua voce! Metti fuori almeno una
parola! —
Il carabiniere rimase muto.
Preso da un accesso di rabbia, uno dei briganti alzò il coltello; ma
il capobanda gli trattenne il braccio, dicendo: — No, il coltello!
— e afferrò un fucile: — Questo bisogna che provi! — e alzata
l'arma da terra, gliela battè con tanta forza sui piedi, che l'ossa
scricchiolarono, il misero gettò un acutissimo lamento, e si contrasse
tutto come preso da epilessia. Ma quasi nello stesso punto, traendo
forza dal dolore, battè il piede offeso in terra, alzò la testa, e
gridò con un ruggito: — No! —
I briganti lo afferrarono tutti e tre insieme pel collo, e stavan
per fargli schizzar gli occhi dal capo, quando il giovane che faceva
da sentinella, reso audace dall'orrore che non potea più vincere,
gridò con voce e viso di forsennato: — Eh, ammazzatelo una volta,
per dio! Tirategli una fucilata nella testa! Che serve farlo tanto
patire? —
I tre briganti, colpiti più dalla sua audacia che dalle sue parole,
si voltarono a guardarlo in atto di stupore; ma fu un breve stupore.
Il capo si slanciò sul giovane temerario, e con un pugno nella nuca
gli fece battere la testa sul macigno. Il giovane, sbalordito, riprese
senza far parola l'atteggiamento di prima; ma nel punto stesso che
gettava lo sguardo giù pel fianco del monte, fece un leggero atto di
meraviglia, si sporse più innanzi, e restò immobile, cogli occhi fissi.
Il capo dei briganti non se ne accorse, e tornò verso la vittima.
Era livido, digrignava i denti e tremava; i suoi stessi compagni lo
guardavano con trepidazione. Pose una delle sue grosse mani sul capo
del carabiniere, alzò l'altra con l'indice teso in atto di minaccia, e
guardandolo di sbieco cogli occhi iniettati di sangue, mormorò con voce
strozzata:
— Senti... In mal'ora t'è venuta l'idea di fare il cocciuto con me...
Tu non sai chi sono... Io ho fatto rizzare i capelli sulla testa a
gente che aveva più fegato di te.... Tu non hai idea di quello che son
capace di farti soffrire... Io son capace di pugnalarti fino a domani
senza toglierti la vita.... di ridurti a non aver più figura d'uomo....
di strapparti gli occhi dal capo.... Sai quello che è seguito agli
altri.... non mi mettere al cimento.... di' quello che devi, prima che
mi monti il sangue alla testa....
Dicendo le ultime parole, gli levò la mano dal capo, — la guardò, —
c'eran dei capelli. Indispettito, glieli buttò nel viso e gli rimasero
attaccati alla bocca. Il carabiniere, per liberarsene, sputò. I
briganti presero quell'atto come uno spregio, e non si contennero
più. Gettando tutti e tre insieme un grido di rabbia, chinando il
capo, torcendo gli occhi, gli si slanciarono addosso come tre fiere,
e cominciarono colle punte dei pugnali, coll'unghie, coi denti, colle
ginocchia, coi piedi, a torturarlo, in fretta e in silenzio; or l'uno
or l'altro sostando un momento per riprender fiato; dicendosi l'un
l'altro: — Adagio! — per avvertirsi di non ucciderlo; e pestavano,
punzecchiavano, mordevano, e cadevano in terra stille di sangue, brani
di camicia, ciocche di capelli; e non s'udiva che il respiro affannoso
dei tre carnefici, e il rumor dei pugnali che s'urtavano, e il singulto
secco della vittima; erano accecati, ebbri, imbestialiti; non parevano
più tre uomini, ma un mostro di tre corpi avviticchiato ad un uomo:
presentavano tutto quello che posson avere insieme di orribile la
demenza, la viltà e la ferocia.
— Non lo uccidete ancora! — ricominciò a gridare il giovane con
grande affanno, voltandosi e rivoltandosi rapidissimamente ora verso
i briganti, ora verso la campagna, e alzando a grado a grado la
voce come se volesse coprire un rumore che s'avvicinava. — Non lo
uccidete ancora! Aspettate! Dirà tutto! Se lo uccidete, non saprete
nulla! Provate ancora una volta! Ha fatto segno che vuol parlare! Lo
ucciderete poi! Gli darò io una pugnalata nel cuore, se non gliela
darete voi! Mettete giù i pugnali! Picchiate solamente coi pugni! Non
vedete che muore? —
Senza cessar di gridare lanciò un'occhiata fuori, vicino, al piede
del baluardo; poi balzò in mezzo al recinto, e mutando tutto ad un
tratto viso e intonazione di voce, gridò con un accento d'inesprimibile
disprezzo:
— Ah! vigliacchi! Tre contro un moribondo!
— Dannazione! — urlò il capo dei briganti, slanciandosi col pugnale
alzato contro di lui.
— È tardi! — questi rispose con un fremito di gioia, e accennando la
porta, gridò: — Guarda! —
Nel punto stesso che gli altri due briganti, avvertiti dalle parole
del giovane, gettavano in fretta e in furia un ampio mantello addosso
alla vittima, e mentre il capo afferrava il fucile per gettarsi contro
il nemico misterioso che s'avanzava, scoppiò uno strepito d'armi, di
passi, di voci, balenarono baionette e canne di fucile dinanzi alla
porta, sopra i macigni, sull'alto della rupe; e irruppe dentro uno
stuolo di carabinieri, che in un baleno circondò, oppresse, disarmò
e buttò a terra quanti trovò nel recinto. Seguirono alcuni momenti
di silenzio, durante i quali non si udiva che il respirar grosso e
frequente dei carabinieri trafelati.
— Soccorrete il moribondo! — gridò all'improvviso il giovane brigante,
che stava inginocchiato anche lui, come gli altri, colle mani
appoggiate in terra, sotto la baionetta d'un carabiniere.
— Qual moribondo? — domandò il capitano, facendosi innanzi, polveroso
ed ansante.
— Là! nell'angolo! — rispose il giovane, accennando.
Tutti si voltarono a guardare: nessuno scopriva nulla.
— Sotto il mantello! ripetè il brigante.
Il capitano, seguìto dagli sguardi di tutti, s'avvicinò alla capanna,
afferrò il mantello e lo buttò in terra. Un grido generale d'orrore
risonò alla vista di quell'orrenda cosa. L'infelice prigioniero,
inginocchiato in terra, colle braccia ritorte indietro, e il capo
spenzolante sul petto, era tutto lividi e piaghe e sangue, che parea
scorticato; e faceva uno sforzo per alzare la testa.
— Slegatelo subito! — gridò il capitano. — Dategli da bere! —
Tre carabinieri accorsero, lo slegarono, lo posero a sedere, e
cominciarono ad esaminar le ferite; gli altri, acciecati dall'ira,
percotevano i briganti col calcio del fucile.
— Giù le armi! — gridò il capitano. E poi, voltosi verso il giovane
brigante: — Parla tu! —
Il carabiniere che lo teneva gli permise d'alzarsi in piedi.
— Quando fu preso quell'uomo? — domandò il capitano; — di' la verità
prima di morire.
— Quell'uomo — cominciò il giovane con voce affannosa, tremando
ancora d'orrore e di spavento... — quel carabiniere... l'hanno preso
stamani... l'hanno condotto qui... l'hanno legato... volevano che
parlasse... lui non voleva... non parlò... gli saltarono addosso... Io
ho veduto! Mio Dio! Mio Dio!
— Ma tu chi sei? — gridò il capitano, strappandogli il cappello.
Tutti si voltarono ed esclamarono: — Una donna!
— Sì! — gridò questa come una forsennata; — sono una donna... m'hanno
rubata... son quindici giorni... mi misero il coltello alla gola...
m'hanno condotta con loro... Ma io non mi sono macchiata le mani
di sangue, no! lo giuro! io li accompagnava soltanto perchè non
m'uccidessero! Io sono di San Severo... sono una povera contadina...
— Perchè non hai tirato una fucilata nella testa a uno di costoro?
— Non ho avuto coraggio... mi avrebbero messa alla tortura... Bisogna
vedere quello che fanno... Credevo di diventar pazza... Se aveste
visto... Ma lui (e accennava il ferito), lui è stato un Dio... ha
sofferto tutto... non ha detto una parola! non una parola!
— Trascinate questi vigliacchi ai piedi della loro vittima! — gridò il
capitano.
I carabinieri trascinarono i tre briganti dinanzi al ferito, a cui era
stata fasciata la testa con una pezzuola che gli cuopriva il viso.
— Son qui io! — gridò il capitano, chinandosi verso l'infelice, che
cominciava a ridar segni di conoscenza; — sei salvo! sei in mezzo
ai tuoi compagni! fatti coraggio! guarda! i tuoi assassini sono
inginocchiati davanti a te! —
Il carabiniere alzò lentamente la testa e si scosse tutto. Poi stese
una mano, la posò sulla testa del capo dei briganti, la ritrasse,
sorrise colla bocca insanguinnata — sporse il capo innanzi — e gli
sputò sulla faccia.
— Cos'è questo? — dimandò il capitano, raccogliendo un non so
che bianco e molle che gli era parso veder cadere dalla bocca del
disgraziato.
— ... La... risposta... al colonnello... — rispose il ferito con un
filo di voce.
— Al colonnello di San Severo? La mia risposta? Quella che t'ho data
questa mattina? —
Il carabiniere accennò di sì.
Il capitano si slanciò su di lui, gli mise un braccio intorno al collo
e lo baciò sulla fronte; poi balzò in piedi e gridò ai suoi soldati:
— Inchinatevi davanti a questo valoroso, figliuoli! Egli portava al
colonnello la mia lettera che annunziava la nostra partenza, l'ora
e dove andavamo; se i briganti la leggevano, eran salvi; la mise in
bocca, e non parlò per non tradirsi, e sopportò i tormenti in silenzio!
È un eroe! È un martire! È un'anima grande!
— Sì! — gridarono tutti i carabinieri insieme, con una voce che veniva
dal più profondo dell'anima.
— Baciategli i piedi, vigliacchi! — gridò il capitano ai briganti.
L'uno dopo l'altro, strisciando in terra come serpi, baciarono i piedi
al ferito.
— Capitano! — gridò allora la donna, fissandolo con due occhi di pazza;
— io potevo dar l'avviso, quando voi venivate... non lo diedi, vi
lasciai venire... Fatemi una grazia in compenso... Io sono una donna
perduta... Io non posso più tornare a casa... Fatemi fucilare con
costoro!
— No! — gridò con un estremo sforzo il ferito.
Tutti si voltarono.
— Voi... — continuò l'infelice con voce fioca, tendendo una mano
sanguinosa verso la donna, — dovete fare un'opera di misericordia...
— Quale? dite! Dio mio! Io ve lo domando per carità! — gridò la donna,
gettandoglisi ai piedi colle mani giunte.
— ... Accompagnarmi... — mormorò l'infelice.
— Dove? — domandò là donna.
— Da per tutto! —
Tutti si guardarono meravigliati.
— Cosa volete dire? — ridomandò la donna.
— Voi non le avete viste tutte... le mie ferite... — rispose il
carabiniere; — Guardate! —
E sollevò il fazzoletto che gli copriva la fronte. Tutti s'avvicinarono
ansiosi, guardarono, e gettarono un grido straziante di orrore e di
pietà. Lo sventurato era cieco.
— Alla morte! — urlarono allora tutti i soldati, percotendo i briganti
coi fucili e coi piedi. — Alla morte! — La voce del capitano non riuscì
a dominare il tumulto; i carabinieri si slanciarono fuori, travolgendo
gli assassini nella corsa precipitosa.
— Farete... quest'opera... di misericordia? — domandò il ferito alla
donna, quando furono soli.
Questa alzò gli occhi al Cielo e disse: — La mia vita è vostra. —
Allora si strinsero la mano, e una fragorosa scarica, che scoppiò giù
nella valle, parve salutare il nobilissimo patto, che lega da dieci
anni la donna pietosa all'eroe.
LA CASA PATERNA.
DALLE MEMORIE DI WILELM VAN MINDEN.
[Illustrazione]
.... M'era già venuto più volte il desiderio di fare una corsa a
Kalmert per rivedere la casa dove nacqui e i luoghi dove passai i
primi quindici anni della mia vita. Ma sempre, al momento di partire,
m'era mancato il coraggio. In quella città era seguito l'avvenimento
che aveva dispersa la mia famiglia, in quella casa avevo provato il
primo grande dolore della vita, — c'era morto mio padre; — temevo
perciò di risentire, tornandovi, un'emozione troppo dolorosa. Così
avevo rimandato la mia gita d'anno in anno, sperando sempre che l'anno
dopo mi sarei sentito più forte; e n'erano passati venti: vale a dire
tutta la parte migliore della mia vita. Ma una mattina di gennaio,
finalmente, avendo scoperto, pettinandomi, una ciocchetta di capelli
bianchi che sino allora era stata nascosta sotto un pietoso ricciolo
biondo, dissi risolutamente a me stesso: — È tempo, — e partii la
mattina stessa per poter tornare a Bois-le-Duc la sera. Vent'anni!
— pensavo durante il tragitto, guardandomi nei vetri del vagone; la
pinguedine, la barba e il sole di Borneo, m'hanno molto cangiato;
nessuno mi riconoscerà; nessuno verrà a distrarmi dallo scopo triste e
caro insieme del primo viaggio; posso andar là col cuore in pace. — E
infatti le mie previsioni non furono deluse.
Nevicava; la campagna era tutta bianca; il treno, quasi voto; i miei
compagni di viaggio, appena arrivati a Kalmert, montarono in carrozza
e disparvero; io m'incamminai tutto solo verso la città, e arrivai
in cinque minuti, agitato da una curiosità e da un'impazienza penosa,
all'imboccatura della strada principale.
Qui mi fermai, e guardai dinanzi e intorno a me con un grande stupore.
Riconoscevo la strada e gli edifizi; ma ogni cosa mi pareva stranamente
cangiata; la strada divenuta strettissima; le case rimpicciolite; i
muri invecchiati, non di venti anni, ma d'un secolo; tutto diventato
nero, squallido, lugubre; mi pareva una città colpita da un grande
infortunio, nella quale anche gli edifizi fossero afflitti e
pensierosi. Andai innanzi, riconoscendo ad ogni passo una cantonata,
una finestra, una porta, una bottega, che mi ridestavano cento
reminiscenze infantili, e mi trovai presto nel cuore della città, in
mezzo a una folla di signori e di signore che uscivano dal duomo;
poi chè era domenica, e appunto il momento in cui terminava, come
vent'anni prima, la messa signorile di mezzogiorno. In meno di cinque
minuti, riconobbi cento persone; ma come cangiate! Nei primi momenti
non mi parve credibile che venti anni avessero potuto trasfigurare
una popolazione in quella maniera; e pensai che qualche sconosciuto
malanno avesse aiutato l'opera distruggitrice del tempo. Quelli che
avevo lasciati coi capelli neri, eran diventati grigi; quelli che
avevo lasciati grigi, eran diventati bianchi; questi s'era incurvato, a
quello s'erano infiacchite le gambe; il tempo, passando su quella gente
come un nemico rabbioso e capriccioso, aveva qui schiacciato un occhio,
là strappato una zazzera, a uno rotto i denti, a un altro vuotate le
guancie. Vedevo dei miei compagni di scuola, una volta sottili come
un filo, impinguati in maniera da non esser più riconoscibili fuori
che all'espressione del viso; delle ragazzine, che avevo viste andar
alla scuola, leggere come farfalle, colla colazione nel canestro,
diventate pezzi di donne gravi e lente, circondate di bambini; signore
che avevo lasciate sfolgoranti di gioventù e d'allegrezza, avvizzite,
rugose, col capo basso e un velo nero sul viso; famiglie già numerose,
ridotte a tre o quattro persone; faccie che erano sparite affatto dalla
mia memoria; larve di miei antichi maestri delle scuole elementari,
che credevo già sotterrati da dieci anni; giovanotti che avevo
visti bambini in braccio alle fantesche, piantati in atteggiamenti
dongiovanneschi davanti ai caffè; una ragazzaglia sconosciuta, una
serie di coppie matrimoniali imprevedute e imprevedibili, un gran
numero di persone allungate, raccorciate, arrotondate, assottigliate,
scontorte, ingiallite, imbellite, rimminchionite; e malgrado la quasi
eguaglianza dei cangiamenti in meglio e dei cangiamenti in peggio,
quasi tutti mi parevano annoiati o tristi, e provavo un sentimento di
pietà vedendoli svoltare coppia per coppia, famiglia per famiglia, in
quelle stradette tortuose e oscure, e sparire gli uni dopo gli altri
sotto le porte basse di quelle piccole case. Dopo pochi minuti restai
quasi solo.
Attraversai parecchi vicoli cupi, fiancheggiati da casupole di cattivo
umore, e riescii in _quella_ strada e vidi _quella_ casa.
Provai un'emozione viva; ma la vinsi subito.
Cercai con gli occhi la porta di casa del pollaiolo, del lattaio, del
fruttivendolo, dell'oste: erano tutte o chiuse o socchiuse; la strada
era deserta; la neve quasi intatta.
Passai innanzi al portone del cortile di casa mia, e m'affacciai alla
porticina: non vidi nessuno.
Entrai: la porta della casetta del portinaio era chiusa; andai innanzi
lentamente sotto un lungo pergolato che riesciva in faccia alla scala.
E fin qui non sentii che un po' di batticuore. Ma quando mi trovai
dinanzi al portico della casa, in quel piccolo spazio dov'era affollata
la parte maggiore e più intima dei miei ricordi; quando vidi la porta
dell'uffizio di mio padre, quella scala, quel terrazzino, quelle
finestre contornate di viti, — tutto ancora tal quale l'avevo lasciato;
— allora mi sentii oppresso improvvisamente da una violenta emozione, e
i miei occhi si riempirono di lacrime.
Guardai alle finestre: non v'era nessuno. Mi voltai indietro, verso la
casetta del portinaio: nessuno. Tutte le porte erano chiuse, e tutto
era bianco di neve, e continuava a nevicare.
Come mi balzava il cuore! Quanta gente c'era per me in quella
solitudine! I vecchi medici di casa attraversavano a passo lento
il cortile, le fantesche morte scendevano la scala colla sporta al
braccio, i miei amici di infanzia saltellavano sotto il portico, il
mio ripetitore di latino faceva capolino in fondo al pergolato, mio
padre usciva dall'uffizio rimettendo gli occhiali nell'astuccio, mia
madre mi faceva cenno dalla finestra che non stessi a pigliare il
sole di mezzogiorno, mia sorella inaffiava i fiori nel giardino, mio
fratello leggeva forte nella sua stanza, il mio vecchio gatto nero
si arrampicava su per le viti, i miei passeri cantavano nelle loro
gabbiette verdi, le porte e le finestre s'aprivano e si chiudevano;
tutto si moveva, tutto parlava, tutto mi guardava; ed io stavo là sotto
quei mille sguardi e in mezzo a quelle mille voci, sopraffatto da un
sentimento inesprimibile di tenerezza, di malinconia e di stupore, e
incerto se dovessi trattenermi o fuggire.
Un po' di neve che cadde da un albero sopra i miei piedi, mise in
fuga tutti quei fantasmi, e mi risentii sicuro di me stesso. Allora
cominciai a considerare attentamente il luogo. Come tutto era diventato
piccino! Quella casa, che m'era sempre parsa un grande edifizio, non
era che una casetta di villaggio; il pergolato, che m'era sempre parso
altissimo, lo toccavo quasi col cappello; il muricciuolo dell'orto che
non ero mai riuscito a saltare, potevo scavalcarlo senza scompormi;
mi pareva di essere diventato un gigante, sentivo che la mia persona
era d'ingombro; e non so perchè, questo mi rincresceva. Provavo quasi
tristezza d'essere tanto ingrossato. Mi pareva che tutti gli oggetti
che mi circondavano dovessero dire: — Chi è quell'omaccione? noi non
lo conosciamo. — Certi sfondi, certi prospetti lontani del giardino e
del cortile, s'erano ravvicinati; i muri di cinta s'erano ristretti;
non mi sapevo dar ragione d'aver veduto per tanti anni, in quello
spazio così angusto, delle vaghe immagini di steppe, di valli e di
strade senza fine, e d'aver provato un certo sentimento di viaggiatore
avventuroso andando, nei giorni di pioggia, da un'estremità del cortile
all'estremità opposta del giardino. Toccai la cancellata del giardino;
era aperta, entrai. La neve copriva i sentieri, le spalliere di
mortella, le aiuole, i fossi; ma riconobbi ogni cosa al primo sguardo.
Rividi la finestrina dell'uffizio di mio padre, alla quale, ventitrè
anni prima, una mattina d'aprile, egli s'era affacciato, dicendomi
con voce fresca ed allegra: — Wilelm, in questo momento compisco
settantaquattro anni! — Rividi il capanno di gelsomini sotto il quale
m'ero preparato alla mia prima confessione, e dov'ero rimasto molte ore
immobile e pensieroso il giorno in cui, tornando dalla scuola, avevo
visto per la prima volta un cadavere. Rividi il piccolo canneto da cui
per parecchi anni avevo tratto spade e lancie per il piccolo esercito
di monelli cenciosi che combattevano sotto il mio comando contro i
_vigliacchi_ della parocchia di Sant'Ambrogio. Dietro ogni cespuglio
s'alzava un fantasma; pullulavano da ogni parte centinaia di ricordi:
ricordi di persone morte, di parole dette da gente dimenticata, di
scene miste di realtà e di sogno, di certi giochi di luce, di mattinate
piovose, di fragranze dell'aria, di letture, di fantasticherie, di
rimorsi infantili, di proponimenti di cangiar vita, di certi rami di
piante incurvati in una certa direzione, di certi insetti visti in quel
dato punto del tronco d'un albero, dei primi improvvisi e misteriosi
rimescolamenti del sangue provati nel veder venire verso di me, in
mezzo al verde e all'ombra, la figura leggera e bianca d'una cugina di
tredici anni che avevo sognata la notte. E più andavo innanzi, più le
immagini mi si presentavano fitte e vive. Non badavo più alla neve, non
pensavo più che qualcuno potesse vedermi dalle finestre e prendermi per
un matto o per un ladro. Tutta la mia mente e tutto il mio cuore erano
nel passato. Mi pareva che molte voci sommesse mi chiamassero per nome,
o mi dicessero mille cose incomprensibili in suono di lamento, ed io
rispondevo confusamente, giustificandomi e promettendo non so cosa, e
guardavo intorno con un sentimento di rispetto e di pietà come se quel
giardino fosse un camposanto, e quei rialti di neve nascondessero dei
morti.
Così arrivai sotto una tettoia in fondo al giardino, sedetti, rivolto
verso le finestre, e mi misi a pensare. I miei pensieri mi conducevano
a un sentimento amaro della vanità delle cose umane. — Ah, come sono
invecchiato! — dicevo tra me. Se quando scorrazzavo ragazzo in questo
giardino, qualcuno m'avesse predetto quello che poi è accaduto, mi
sarebbe parso d'essere chiamato ad una felicità immensa. Eppure, io
sono da questa felicità assai più lontano ora di quello che lo fossi
in quegli anni. Sono partito di qui pieno di speranze e d'ambizioni,
temendo quasi che la vita non fosse abbastanza lunga e la terra
abbastanza vasta, per quello che avevo da operare e da godere; ed ecco
che, dopo pochi anni, tornando qui ancor giovane, non ho più altro
desiderio che d'andar a terminare la mia gioventù lontano dai rumori
del mondo, in una villetta solitaria, colla mia famiglia e i miei
libri! Molte fatiche, qualche piacere, una passeggiera soddisfazione
d'amor proprio, e tutto è finito. Partito appena per il grande viaggio,
son già sulla via del ritorno. Non aspiro più ad altro che alla pace
della coscienza e della vita. Non sento più nemmeno l'amarezza del
disinganno. Falsi amici, false speranze, vanità, gloriole, piccoli
piaceri e piccolissime passioni della vita vissuta finora, li vedo ai
miei piedi, e li guardo senz'ira e senza rammarico. Non disprezzo,
non accuso nulla e nessuno, non mi credo migliore dei miei simili;
non sento altro che una immensa sazietà, una profonda stanchezza, un
invincibile bisogno di solitudine e di silenzio. Chi ama il mondo, si
slanci innanzi, s'apra la via, trionfi, splenda e s'inebrii; l'invidia
non trarrà più dal mio cuore un sospiro. Io non domando più altro
al mondo che un po' di verde e un po' d'aria, e a Dio la forza di
resistere alla disperazione il giorno in cui rimanessi solo sopra la
terra....
In quel momento vidi comparire dietro i vetri d'una finestra un viso di
cui i fiocchi fittissimi della neve velavano la fisonomia.
Mi parve che mi guardasse.
Pensai allora che era mio dovere o d'andarmene o di salir su a dar
spiegazione della mia presenza in quel luogo. Questa riflessione
mi diede coraggio a fare quello che da principio non avrei osato: a
chiedere il permesso di visitare l'interno della casa.
Uscii dal giardino, salii le scale e bussai alla porta, che
s'aperse subito, mostrandomi un viso meravigliato, che evidentemente
m'aspettava. Era il padron di casa; un uomo sui cinquant'anni, d'aria
benevola; dietro il quale faceva capolino una signora attempata, di
fisonomia dolce e triste, che pareva sua moglie.
Dissi il mio nome ed esposi il mio desiderio, spiegandolo.
Il mio nome non riuscì nuovo, la mia voce commossa spiegò i miei
sentimenti meglio delle parole; fui invitato ad entrare.
Entrai.
Oh care, benedette, indimenticabili pareti della mia povera casa!
Fuorchè i muri, tutto era mutato; ma riconobbi subito ogni cantuccio,
e rividi ogni cosa al suo posto come al tempo della mia infanzia.
Mille voci insieme mi chiamavano da tutte le parti: — Wilelm! Wilelm!
Wilelm! È qui — è lui — è tornato — è il piccolo Wilelm! E la mamma?
E i fratelli? dove sono? dove sei stato? che cos'hai fatto? — Ma
fin dai primi momenti l'immagine di mio padre sopraffece tutte le
altre memorie. Lo vedevo apparire sulla soglia di tutte le porte, lo
sentivo camminare dietro tutte le pareti; era da per tutto; lo vedevo,
come riflesso da cento specchi, in cento immagini; qui seduto al
tavolino, occupato a rigare i miei quaderni di scuola; là appoggiato
al camminetto, in atto di declamarmi dei versi di Vondel; più in là
I tre briganti risero.
— Ma il più bello — disse uno — è che non parla.... O che sarà?...
Superbia?
— Modestia, — rispose l'altro con un riso sguaiato.
— Paura, — aggiunse il capobanda.
Il carabiniere scosse la testa come per dire di no-
— Ah! no? — esclamò il brigante, balzando in piedi; — ora vedremo. —
E poi ai due compagni, con piglio risoluto: — Costui andava a portar
qualche ordine per farci coglier nel covo. Abbiamo perduto anche troppo
tempo. Facciamolo sputare.
— Facciamolo sputare, — risposero gli altri, alzandosi.
Il carabiniere si scosse, e alzò la testa in atto di chi dice: — Son
preparato. — I tre briganti gli si piantarono dinanzi. Chi avesse
osservato, in quel momento, il giovane che stava alla vedetta, lo
avrebbe visto tremar come una foglia e voltarsi indietro, per non farsi
scorgere, a poco a poco, col viso bianco dal terrore. Il capobanda se
n'accorse, e gli accennò con un gesto imperioso che badasse al dover
suo: quegli riprese l'atteggiamento di prima.
— Dunque, — prese poi a dire il capo, rivolgendosi al carabiniere, con
un accento che non ammetteva più indugi, — di dove venivi? —
Il prigioniero corrugò le sopracciglia e fissò il brigante con uno
sguardo profondo che annunziava una volontà più risoluta della sua, e
non rispose.
Il brigante, senza dir altro, gli menò un così violento pugno sotto il
mento, che s'intese uno scroscio come se gli avesse spezzati i denti. —
Risponderai ora? —
Il carabiniere abbassò la testa, lasciò colare il sangue che gli
empiva la bocca; poi, rialzando gli occhi in viso al brigante, con
un'espressione d'imperturbata alterezza, fece cenno di no.
Il brigante si morse le labbra, ricambiò coi due compagni un sorriso
forzato; poi, con tutta calma, pose la mano in tasca, trasse un
coltello, l'aperse, sbottonò la camicia al carabiniere, e gli mise la
punta della lama sotto la fontanella della gola. La vittima fece un
movimento convulso come se la lama fosse già entrata. — Nessuna paura,
— mormorò il brigante; — e fece scorrere il coltello, lentamente e
leggermente, dal collo fino alla cintura, come avrebbe fatto sopra una
tavola per tracciarvi una linea. Sul petto dello sventurato apparve
una lunga riga rossa, somigliante a un taglio di rasoio, che subito
disparve sotto le goccie di sangue che ne spicciarono fuori; e le
goccie filarono giù, come lagrime, sotto i panni e sopra, sino a terrà.
— Ah! ah! — gridò con voce bestiale il capo; — lo cominci a vedere, eh?
— Guarda come corre! — disse l'altro.
Il giovane brigante si coperse il viso colle mani.
— Parli ora? — ridomandò il capo.
Il carabiniere guardò sgocciolare il sangue, poi alzò la testa, fissò
gli occhi in viso al brigante, e colla medesima espressione di prima
fece cenno di no.
I tre aguzzini si guardarono in viso con un'aria più di stupore che
d'ira.
— Ma vuoi dunque morire, imbecille? — urlò improvvisamente il
capobanda, mettendo il suo viso contro quello del carabiniere, in modo
quasi da toccarlo, e scotendo una mano aperta accanto alla guancia
di lui. — Non vedi che sei qui, nelle nostre mani, solo, e che ti
possiamo sventrar come un cane? Cosa speri? Che ti vengano a liberare?
Dì qualche cosa! Fa sentire la tua voce! Metti fuori almeno una
parola! —
Il carabiniere rimase muto.
Preso da un accesso di rabbia, uno dei briganti alzò il coltello; ma
il capobanda gli trattenne il braccio, dicendo: — No, il coltello!
— e afferrò un fucile: — Questo bisogna che provi! — e alzata
l'arma da terra, gliela battè con tanta forza sui piedi, che l'ossa
scricchiolarono, il misero gettò un acutissimo lamento, e si contrasse
tutto come preso da epilessia. Ma quasi nello stesso punto, traendo
forza dal dolore, battè il piede offeso in terra, alzò la testa, e
gridò con un ruggito: — No! —
I briganti lo afferrarono tutti e tre insieme pel collo, e stavan
per fargli schizzar gli occhi dal capo, quando il giovane che faceva
da sentinella, reso audace dall'orrore che non potea più vincere,
gridò con voce e viso di forsennato: — Eh, ammazzatelo una volta,
per dio! Tirategli una fucilata nella testa! Che serve farlo tanto
patire? —
I tre briganti, colpiti più dalla sua audacia che dalle sue parole,
si voltarono a guardarlo in atto di stupore; ma fu un breve stupore.
Il capo si slanciò sul giovane temerario, e con un pugno nella nuca
gli fece battere la testa sul macigno. Il giovane, sbalordito, riprese
senza far parola l'atteggiamento di prima; ma nel punto stesso che
gettava lo sguardo giù pel fianco del monte, fece un leggero atto di
meraviglia, si sporse più innanzi, e restò immobile, cogli occhi fissi.
Il capo dei briganti non se ne accorse, e tornò verso la vittima.
Era livido, digrignava i denti e tremava; i suoi stessi compagni lo
guardavano con trepidazione. Pose una delle sue grosse mani sul capo
del carabiniere, alzò l'altra con l'indice teso in atto di minaccia, e
guardandolo di sbieco cogli occhi iniettati di sangue, mormorò con voce
strozzata:
— Senti... In mal'ora t'è venuta l'idea di fare il cocciuto con me...
Tu non sai chi sono... Io ho fatto rizzare i capelli sulla testa a
gente che aveva più fegato di te.... Tu non hai idea di quello che son
capace di farti soffrire... Io son capace di pugnalarti fino a domani
senza toglierti la vita.... di ridurti a non aver più figura d'uomo....
di strapparti gli occhi dal capo.... Sai quello che è seguito agli
altri.... non mi mettere al cimento.... di' quello che devi, prima che
mi monti il sangue alla testa....
Dicendo le ultime parole, gli levò la mano dal capo, — la guardò, —
c'eran dei capelli. Indispettito, glieli buttò nel viso e gli rimasero
attaccati alla bocca. Il carabiniere, per liberarsene, sputò. I
briganti presero quell'atto come uno spregio, e non si contennero
più. Gettando tutti e tre insieme un grido di rabbia, chinando il
capo, torcendo gli occhi, gli si slanciarono addosso come tre fiere,
e cominciarono colle punte dei pugnali, coll'unghie, coi denti, colle
ginocchia, coi piedi, a torturarlo, in fretta e in silenzio; or l'uno
or l'altro sostando un momento per riprender fiato; dicendosi l'un
l'altro: — Adagio! — per avvertirsi di non ucciderlo; e pestavano,
punzecchiavano, mordevano, e cadevano in terra stille di sangue, brani
di camicia, ciocche di capelli; e non s'udiva che il respiro affannoso
dei tre carnefici, e il rumor dei pugnali che s'urtavano, e il singulto
secco della vittima; erano accecati, ebbri, imbestialiti; non parevano
più tre uomini, ma un mostro di tre corpi avviticchiato ad un uomo:
presentavano tutto quello che posson avere insieme di orribile la
demenza, la viltà e la ferocia.
— Non lo uccidete ancora! — ricominciò a gridare il giovane con
grande affanno, voltandosi e rivoltandosi rapidissimamente ora verso
i briganti, ora verso la campagna, e alzando a grado a grado la
voce come se volesse coprire un rumore che s'avvicinava. — Non lo
uccidete ancora! Aspettate! Dirà tutto! Se lo uccidete, non saprete
nulla! Provate ancora una volta! Ha fatto segno che vuol parlare! Lo
ucciderete poi! Gli darò io una pugnalata nel cuore, se non gliela
darete voi! Mettete giù i pugnali! Picchiate solamente coi pugni! Non
vedete che muore? —
Senza cessar di gridare lanciò un'occhiata fuori, vicino, al piede
del baluardo; poi balzò in mezzo al recinto, e mutando tutto ad un
tratto viso e intonazione di voce, gridò con un accento d'inesprimibile
disprezzo:
— Ah! vigliacchi! Tre contro un moribondo!
— Dannazione! — urlò il capo dei briganti, slanciandosi col pugnale
alzato contro di lui.
— È tardi! — questi rispose con un fremito di gioia, e accennando la
porta, gridò: — Guarda! —
Nel punto stesso che gli altri due briganti, avvertiti dalle parole
del giovane, gettavano in fretta e in furia un ampio mantello addosso
alla vittima, e mentre il capo afferrava il fucile per gettarsi contro
il nemico misterioso che s'avanzava, scoppiò uno strepito d'armi, di
passi, di voci, balenarono baionette e canne di fucile dinanzi alla
porta, sopra i macigni, sull'alto della rupe; e irruppe dentro uno
stuolo di carabinieri, che in un baleno circondò, oppresse, disarmò
e buttò a terra quanti trovò nel recinto. Seguirono alcuni momenti
di silenzio, durante i quali non si udiva che il respirar grosso e
frequente dei carabinieri trafelati.
— Soccorrete il moribondo! — gridò all'improvviso il giovane brigante,
che stava inginocchiato anche lui, come gli altri, colle mani
appoggiate in terra, sotto la baionetta d'un carabiniere.
— Qual moribondo? — domandò il capitano, facendosi innanzi, polveroso
ed ansante.
— Là! nell'angolo! — rispose il giovane, accennando.
Tutti si voltarono a guardare: nessuno scopriva nulla.
— Sotto il mantello! ripetè il brigante.
Il capitano, seguìto dagli sguardi di tutti, s'avvicinò alla capanna,
afferrò il mantello e lo buttò in terra. Un grido generale d'orrore
risonò alla vista di quell'orrenda cosa. L'infelice prigioniero,
inginocchiato in terra, colle braccia ritorte indietro, e il capo
spenzolante sul petto, era tutto lividi e piaghe e sangue, che parea
scorticato; e faceva uno sforzo per alzare la testa.
— Slegatelo subito! — gridò il capitano. — Dategli da bere! —
Tre carabinieri accorsero, lo slegarono, lo posero a sedere, e
cominciarono ad esaminar le ferite; gli altri, acciecati dall'ira,
percotevano i briganti col calcio del fucile.
— Giù le armi! — gridò il capitano. E poi, voltosi verso il giovane
brigante: — Parla tu! —
Il carabiniere che lo teneva gli permise d'alzarsi in piedi.
— Quando fu preso quell'uomo? — domandò il capitano; — di' la verità
prima di morire.
— Quell'uomo — cominciò il giovane con voce affannosa, tremando
ancora d'orrore e di spavento... — quel carabiniere... l'hanno preso
stamani... l'hanno condotto qui... l'hanno legato... volevano che
parlasse... lui non voleva... non parlò... gli saltarono addosso... Io
ho veduto! Mio Dio! Mio Dio!
— Ma tu chi sei? — gridò il capitano, strappandogli il cappello.
Tutti si voltarono ed esclamarono: — Una donna!
— Sì! — gridò questa come una forsennata; — sono una donna... m'hanno
rubata... son quindici giorni... mi misero il coltello alla gola...
m'hanno condotta con loro... Ma io non mi sono macchiata le mani
di sangue, no! lo giuro! io li accompagnava soltanto perchè non
m'uccidessero! Io sono di San Severo... sono una povera contadina...
— Perchè non hai tirato una fucilata nella testa a uno di costoro?
— Non ho avuto coraggio... mi avrebbero messa alla tortura... Bisogna
vedere quello che fanno... Credevo di diventar pazza... Se aveste
visto... Ma lui (e accennava il ferito), lui è stato un Dio... ha
sofferto tutto... non ha detto una parola! non una parola!
— Trascinate questi vigliacchi ai piedi della loro vittima! — gridò il
capitano.
I carabinieri trascinarono i tre briganti dinanzi al ferito, a cui era
stata fasciata la testa con una pezzuola che gli cuopriva il viso.
— Son qui io! — gridò il capitano, chinandosi verso l'infelice, che
cominciava a ridar segni di conoscenza; — sei salvo! sei in mezzo
ai tuoi compagni! fatti coraggio! guarda! i tuoi assassini sono
inginocchiati davanti a te! —
Il carabiniere alzò lentamente la testa e si scosse tutto. Poi stese
una mano, la posò sulla testa del capo dei briganti, la ritrasse,
sorrise colla bocca insanguinnata — sporse il capo innanzi — e gli
sputò sulla faccia.
— Cos'è questo? — dimandò il capitano, raccogliendo un non so
che bianco e molle che gli era parso veder cadere dalla bocca del
disgraziato.
— ... La... risposta... al colonnello... — rispose il ferito con un
filo di voce.
— Al colonnello di San Severo? La mia risposta? Quella che t'ho data
questa mattina? —
Il carabiniere accennò di sì.
Il capitano si slanciò su di lui, gli mise un braccio intorno al collo
e lo baciò sulla fronte; poi balzò in piedi e gridò ai suoi soldati:
— Inchinatevi davanti a questo valoroso, figliuoli! Egli portava al
colonnello la mia lettera che annunziava la nostra partenza, l'ora
e dove andavamo; se i briganti la leggevano, eran salvi; la mise in
bocca, e non parlò per non tradirsi, e sopportò i tormenti in silenzio!
È un eroe! È un martire! È un'anima grande!
— Sì! — gridarono tutti i carabinieri insieme, con una voce che veniva
dal più profondo dell'anima.
— Baciategli i piedi, vigliacchi! — gridò il capitano ai briganti.
L'uno dopo l'altro, strisciando in terra come serpi, baciarono i piedi
al ferito.
— Capitano! — gridò allora la donna, fissandolo con due occhi di pazza;
— io potevo dar l'avviso, quando voi venivate... non lo diedi, vi
lasciai venire... Fatemi una grazia in compenso... Io sono una donna
perduta... Io non posso più tornare a casa... Fatemi fucilare con
costoro!
— No! — gridò con un estremo sforzo il ferito.
Tutti si voltarono.
— Voi... — continuò l'infelice con voce fioca, tendendo una mano
sanguinosa verso la donna, — dovete fare un'opera di misericordia...
— Quale? dite! Dio mio! Io ve lo domando per carità! — gridò la donna,
gettandoglisi ai piedi colle mani giunte.
— ... Accompagnarmi... — mormorò l'infelice.
— Dove? — domandò là donna.
— Da per tutto! —
Tutti si guardarono meravigliati.
— Cosa volete dire? — ridomandò la donna.
— Voi non le avete viste tutte... le mie ferite... — rispose il
carabiniere; — Guardate! —
E sollevò il fazzoletto che gli copriva la fronte. Tutti s'avvicinarono
ansiosi, guardarono, e gettarono un grido straziante di orrore e di
pietà. Lo sventurato era cieco.
— Alla morte! — urlarono allora tutti i soldati, percotendo i briganti
coi fucili e coi piedi. — Alla morte! — La voce del capitano non riuscì
a dominare il tumulto; i carabinieri si slanciarono fuori, travolgendo
gli assassini nella corsa precipitosa.
— Farete... quest'opera... di misericordia? — domandò il ferito alla
donna, quando furono soli.
Questa alzò gli occhi al Cielo e disse: — La mia vita è vostra. —
Allora si strinsero la mano, e una fragorosa scarica, che scoppiò giù
nella valle, parve salutare il nobilissimo patto, che lega da dieci
anni la donna pietosa all'eroe.
LA CASA PATERNA.
DALLE MEMORIE DI WILELM VAN MINDEN.
[Illustrazione]
.... M'era già venuto più volte il desiderio di fare una corsa a
Kalmert per rivedere la casa dove nacqui e i luoghi dove passai i
primi quindici anni della mia vita. Ma sempre, al momento di partire,
m'era mancato il coraggio. In quella città era seguito l'avvenimento
che aveva dispersa la mia famiglia, in quella casa avevo provato il
primo grande dolore della vita, — c'era morto mio padre; — temevo
perciò di risentire, tornandovi, un'emozione troppo dolorosa. Così
avevo rimandato la mia gita d'anno in anno, sperando sempre che l'anno
dopo mi sarei sentito più forte; e n'erano passati venti: vale a dire
tutta la parte migliore della mia vita. Ma una mattina di gennaio,
finalmente, avendo scoperto, pettinandomi, una ciocchetta di capelli
bianchi che sino allora era stata nascosta sotto un pietoso ricciolo
biondo, dissi risolutamente a me stesso: — È tempo, — e partii la
mattina stessa per poter tornare a Bois-le-Duc la sera. Vent'anni!
— pensavo durante il tragitto, guardandomi nei vetri del vagone; la
pinguedine, la barba e il sole di Borneo, m'hanno molto cangiato;
nessuno mi riconoscerà; nessuno verrà a distrarmi dallo scopo triste e
caro insieme del primo viaggio; posso andar là col cuore in pace. — E
infatti le mie previsioni non furono deluse.
Nevicava; la campagna era tutta bianca; il treno, quasi voto; i miei
compagni di viaggio, appena arrivati a Kalmert, montarono in carrozza
e disparvero; io m'incamminai tutto solo verso la città, e arrivai
in cinque minuti, agitato da una curiosità e da un'impazienza penosa,
all'imboccatura della strada principale.
Qui mi fermai, e guardai dinanzi e intorno a me con un grande stupore.
Riconoscevo la strada e gli edifizi; ma ogni cosa mi pareva stranamente
cangiata; la strada divenuta strettissima; le case rimpicciolite; i
muri invecchiati, non di venti anni, ma d'un secolo; tutto diventato
nero, squallido, lugubre; mi pareva una città colpita da un grande
infortunio, nella quale anche gli edifizi fossero afflitti e
pensierosi. Andai innanzi, riconoscendo ad ogni passo una cantonata,
una finestra, una porta, una bottega, che mi ridestavano cento
reminiscenze infantili, e mi trovai presto nel cuore della città, in
mezzo a una folla di signori e di signore che uscivano dal duomo;
poi chè era domenica, e appunto il momento in cui terminava, come
vent'anni prima, la messa signorile di mezzogiorno. In meno di cinque
minuti, riconobbi cento persone; ma come cangiate! Nei primi momenti
non mi parve credibile che venti anni avessero potuto trasfigurare
una popolazione in quella maniera; e pensai che qualche sconosciuto
malanno avesse aiutato l'opera distruggitrice del tempo. Quelli che
avevo lasciati coi capelli neri, eran diventati grigi; quelli che
avevo lasciati grigi, eran diventati bianchi; questi s'era incurvato, a
quello s'erano infiacchite le gambe; il tempo, passando su quella gente
come un nemico rabbioso e capriccioso, aveva qui schiacciato un occhio,
là strappato una zazzera, a uno rotto i denti, a un altro vuotate le
guancie. Vedevo dei miei compagni di scuola, una volta sottili come
un filo, impinguati in maniera da non esser più riconoscibili fuori
che all'espressione del viso; delle ragazzine, che avevo viste andar
alla scuola, leggere come farfalle, colla colazione nel canestro,
diventate pezzi di donne gravi e lente, circondate di bambini; signore
che avevo lasciate sfolgoranti di gioventù e d'allegrezza, avvizzite,
rugose, col capo basso e un velo nero sul viso; famiglie già numerose,
ridotte a tre o quattro persone; faccie che erano sparite affatto dalla
mia memoria; larve di miei antichi maestri delle scuole elementari,
che credevo già sotterrati da dieci anni; giovanotti che avevo
visti bambini in braccio alle fantesche, piantati in atteggiamenti
dongiovanneschi davanti ai caffè; una ragazzaglia sconosciuta, una
serie di coppie matrimoniali imprevedute e imprevedibili, un gran
numero di persone allungate, raccorciate, arrotondate, assottigliate,
scontorte, ingiallite, imbellite, rimminchionite; e malgrado la quasi
eguaglianza dei cangiamenti in meglio e dei cangiamenti in peggio,
quasi tutti mi parevano annoiati o tristi, e provavo un sentimento di
pietà vedendoli svoltare coppia per coppia, famiglia per famiglia, in
quelle stradette tortuose e oscure, e sparire gli uni dopo gli altri
sotto le porte basse di quelle piccole case. Dopo pochi minuti restai
quasi solo.
Attraversai parecchi vicoli cupi, fiancheggiati da casupole di cattivo
umore, e riescii in _quella_ strada e vidi _quella_ casa.
Provai un'emozione viva; ma la vinsi subito.
Cercai con gli occhi la porta di casa del pollaiolo, del lattaio, del
fruttivendolo, dell'oste: erano tutte o chiuse o socchiuse; la strada
era deserta; la neve quasi intatta.
Passai innanzi al portone del cortile di casa mia, e m'affacciai alla
porticina: non vidi nessuno.
Entrai: la porta della casetta del portinaio era chiusa; andai innanzi
lentamente sotto un lungo pergolato che riesciva in faccia alla scala.
E fin qui non sentii che un po' di batticuore. Ma quando mi trovai
dinanzi al portico della casa, in quel piccolo spazio dov'era affollata
la parte maggiore e più intima dei miei ricordi; quando vidi la porta
dell'uffizio di mio padre, quella scala, quel terrazzino, quelle
finestre contornate di viti, — tutto ancora tal quale l'avevo lasciato;
— allora mi sentii oppresso improvvisamente da una violenta emozione, e
i miei occhi si riempirono di lacrime.
Guardai alle finestre: non v'era nessuno. Mi voltai indietro, verso la
casetta del portinaio: nessuno. Tutte le porte erano chiuse, e tutto
era bianco di neve, e continuava a nevicare.
Come mi balzava il cuore! Quanta gente c'era per me in quella
solitudine! I vecchi medici di casa attraversavano a passo lento
il cortile, le fantesche morte scendevano la scala colla sporta al
braccio, i miei amici di infanzia saltellavano sotto il portico, il
mio ripetitore di latino faceva capolino in fondo al pergolato, mio
padre usciva dall'uffizio rimettendo gli occhiali nell'astuccio, mia
madre mi faceva cenno dalla finestra che non stessi a pigliare il
sole di mezzogiorno, mia sorella inaffiava i fiori nel giardino, mio
fratello leggeva forte nella sua stanza, il mio vecchio gatto nero
si arrampicava su per le viti, i miei passeri cantavano nelle loro
gabbiette verdi, le porte e le finestre s'aprivano e si chiudevano;
tutto si moveva, tutto parlava, tutto mi guardava; ed io stavo là sotto
quei mille sguardi e in mezzo a quelle mille voci, sopraffatto da un
sentimento inesprimibile di tenerezza, di malinconia e di stupore, e
incerto se dovessi trattenermi o fuggire.
Un po' di neve che cadde da un albero sopra i miei piedi, mise in
fuga tutti quei fantasmi, e mi risentii sicuro di me stesso. Allora
cominciai a considerare attentamente il luogo. Come tutto era diventato
piccino! Quella casa, che m'era sempre parsa un grande edifizio, non
era che una casetta di villaggio; il pergolato, che m'era sempre parso
altissimo, lo toccavo quasi col cappello; il muricciuolo dell'orto che
non ero mai riuscito a saltare, potevo scavalcarlo senza scompormi;
mi pareva di essere diventato un gigante, sentivo che la mia persona
era d'ingombro; e non so perchè, questo mi rincresceva. Provavo quasi
tristezza d'essere tanto ingrossato. Mi pareva che tutti gli oggetti
che mi circondavano dovessero dire: — Chi è quell'omaccione? noi non
lo conosciamo. — Certi sfondi, certi prospetti lontani del giardino e
del cortile, s'erano ravvicinati; i muri di cinta s'erano ristretti;
non mi sapevo dar ragione d'aver veduto per tanti anni, in quello
spazio così angusto, delle vaghe immagini di steppe, di valli e di
strade senza fine, e d'aver provato un certo sentimento di viaggiatore
avventuroso andando, nei giorni di pioggia, da un'estremità del cortile
all'estremità opposta del giardino. Toccai la cancellata del giardino;
era aperta, entrai. La neve copriva i sentieri, le spalliere di
mortella, le aiuole, i fossi; ma riconobbi ogni cosa al primo sguardo.
Rividi la finestrina dell'uffizio di mio padre, alla quale, ventitrè
anni prima, una mattina d'aprile, egli s'era affacciato, dicendomi
con voce fresca ed allegra: — Wilelm, in questo momento compisco
settantaquattro anni! — Rividi il capanno di gelsomini sotto il quale
m'ero preparato alla mia prima confessione, e dov'ero rimasto molte ore
immobile e pensieroso il giorno in cui, tornando dalla scuola, avevo
visto per la prima volta un cadavere. Rividi il piccolo canneto da cui
per parecchi anni avevo tratto spade e lancie per il piccolo esercito
di monelli cenciosi che combattevano sotto il mio comando contro i
_vigliacchi_ della parocchia di Sant'Ambrogio. Dietro ogni cespuglio
s'alzava un fantasma; pullulavano da ogni parte centinaia di ricordi:
ricordi di persone morte, di parole dette da gente dimenticata, di
scene miste di realtà e di sogno, di certi giochi di luce, di mattinate
piovose, di fragranze dell'aria, di letture, di fantasticherie, di
rimorsi infantili, di proponimenti di cangiar vita, di certi rami di
piante incurvati in una certa direzione, di certi insetti visti in quel
dato punto del tronco d'un albero, dei primi improvvisi e misteriosi
rimescolamenti del sangue provati nel veder venire verso di me, in
mezzo al verde e all'ombra, la figura leggera e bianca d'una cugina di
tredici anni che avevo sognata la notte. E più andavo innanzi, più le
immagini mi si presentavano fitte e vive. Non badavo più alla neve, non
pensavo più che qualcuno potesse vedermi dalle finestre e prendermi per
un matto o per un ladro. Tutta la mia mente e tutto il mio cuore erano
nel passato. Mi pareva che molte voci sommesse mi chiamassero per nome,
o mi dicessero mille cose incomprensibili in suono di lamento, ed io
rispondevo confusamente, giustificandomi e promettendo non so cosa, e
guardavo intorno con un sentimento di rispetto e di pietà come se quel
giardino fosse un camposanto, e quei rialti di neve nascondessero dei
morti.
Così arrivai sotto una tettoia in fondo al giardino, sedetti, rivolto
verso le finestre, e mi misi a pensare. I miei pensieri mi conducevano
a un sentimento amaro della vanità delle cose umane. — Ah, come sono
invecchiato! — dicevo tra me. Se quando scorrazzavo ragazzo in questo
giardino, qualcuno m'avesse predetto quello che poi è accaduto, mi
sarebbe parso d'essere chiamato ad una felicità immensa. Eppure, io
sono da questa felicità assai più lontano ora di quello che lo fossi
in quegli anni. Sono partito di qui pieno di speranze e d'ambizioni,
temendo quasi che la vita non fosse abbastanza lunga e la terra
abbastanza vasta, per quello che avevo da operare e da godere; ed ecco
che, dopo pochi anni, tornando qui ancor giovane, non ho più altro
desiderio che d'andar a terminare la mia gioventù lontano dai rumori
del mondo, in una villetta solitaria, colla mia famiglia e i miei
libri! Molte fatiche, qualche piacere, una passeggiera soddisfazione
d'amor proprio, e tutto è finito. Partito appena per il grande viaggio,
son già sulla via del ritorno. Non aspiro più ad altro che alla pace
della coscienza e della vita. Non sento più nemmeno l'amarezza del
disinganno. Falsi amici, false speranze, vanità, gloriole, piccoli
piaceri e piccolissime passioni della vita vissuta finora, li vedo ai
miei piedi, e li guardo senz'ira e senza rammarico. Non disprezzo,
non accuso nulla e nessuno, non mi credo migliore dei miei simili;
non sento altro che una immensa sazietà, una profonda stanchezza, un
invincibile bisogno di solitudine e di silenzio. Chi ama il mondo, si
slanci innanzi, s'apra la via, trionfi, splenda e s'inebrii; l'invidia
non trarrà più dal mio cuore un sospiro. Io non domando più altro
al mondo che un po' di verde e un po' d'aria, e a Dio la forza di
resistere alla disperazione il giorno in cui rimanessi solo sopra la
terra....
In quel momento vidi comparire dietro i vetri d'una finestra un viso di
cui i fiocchi fittissimi della neve velavano la fisonomia.
Mi parve che mi guardasse.
Pensai allora che era mio dovere o d'andarmene o di salir su a dar
spiegazione della mia presenza in quel luogo. Questa riflessione
mi diede coraggio a fare quello che da principio non avrei osato: a
chiedere il permesso di visitare l'interno della casa.
Uscii dal giardino, salii le scale e bussai alla porta, che
s'aperse subito, mostrandomi un viso meravigliato, che evidentemente
m'aspettava. Era il padron di casa; un uomo sui cinquant'anni, d'aria
benevola; dietro il quale faceva capolino una signora attempata, di
fisonomia dolce e triste, che pareva sua moglie.
Dissi il mio nome ed esposi il mio desiderio, spiegandolo.
Il mio nome non riuscì nuovo, la mia voce commossa spiegò i miei
sentimenti meglio delle parole; fui invitato ad entrare.
Entrai.
Oh care, benedette, indimenticabili pareti della mia povera casa!
Fuorchè i muri, tutto era mutato; ma riconobbi subito ogni cantuccio,
e rividi ogni cosa al suo posto come al tempo della mia infanzia.
Mille voci insieme mi chiamavano da tutte le parti: — Wilelm! Wilelm!
Wilelm! È qui — è lui — è tornato — è il piccolo Wilelm! E la mamma?
E i fratelli? dove sono? dove sei stato? che cos'hai fatto? — Ma
fin dai primi momenti l'immagine di mio padre sopraffece tutte le
altre memorie. Lo vedevo apparire sulla soglia di tutte le porte, lo
sentivo camminare dietro tutte le pareti; era da per tutto; lo vedevo,
come riflesso da cento specchi, in cento immagini; qui seduto al
tavolino, occupato a rigare i miei quaderni di scuola; là appoggiato
al camminetto, in atto di declamarmi dei versi di Vondel; più in là