Novelle - 11

— No! —
La gente s'allontanò a poco a poco.
Stanco di cercare inutilmente, il giovane si rimise a sedere,
prendendosi il capo tra le mani e scuotendolo in atto sconsolato.
Era già quasi buio, il giardino deserto e silenzioso; non si udivano
che le voci lontane degli ultimi bambini che andavan via.
— Senti, — diceva al suo compagno un monello ch'era rimasto ad
osservare il giovane di dietro alla cancellata del giardino, —
piange. —
Sentì queste parole un signore che passava, guardò dentro il giardino,
entrò, e s'avvicinò alla panca.
— Che cos'ha? — domandò al giovane.
Questi non rispose.
— Posso far qualche cosa per lei? — ridimandò l'altro. — Mi dica che
cos'ha; non glielo domando mica per semplice curiosità....
— Grazie, — rispose il giovane coll'accento di chi vuol terminare un
discorso.
— Mi dispiace — ripigliò il signore — di non ispirarle fiducia. In ogni
caso, qui c'è il mio indirizzo. Si faccia coraggio. —
Ciò detto se n'andò. Il giovine guardò intorno a sè e vide un biglietto
da visita sulla panca; se lo mise in tasca, e riprese l'atteggiamento
di prima.
In quel punto si sentì l'orchestra fragorosa del teatro Principe
Umberto.

II.
Ci sono in tutte le grandi città certe trattorie a terreno, composte
d'una sala e d'una cucina con un'avviso sulla porta che dice: _pensione
a quaranta lire il mese_. Si somiglian tutte: la sala è lunga e
stretta; in una parete si vede il busto del Re; in un canto un padrone
di cattivo umore, e in giro due o tre camerieri coi panni sudici, e
coi capelli scarmigliati, che servono di mala grazia. Gli avventori
sono quasi tutti giovani, che fanno il loro meschino desinare senza
discorrere e senza alzar gli occhi. Non sono poveri, non sono operai,
non sono studenti, non sono impiegati; è difficile determinare la
classe sociale a cui appartengono. Son gente che vive alla giornata,
sparsi pei fondachi, per gli Ufficii dei giornali e pei Ministeri; che
ogni tanto, man mano che l'occasione del lavoro manca da una parte e si
presenta dall'altra, mutan posto, occupazioni e nome; oggi procaccini
di gazzette, domani revisori di conti, un altro giorno scrivani
straordinarii. Dormono in una cameretta al quarto piano, fumano un
sigaro al giorno, e vanno una volta al mese al teatro. Alcuni hanno i
capelli lunghi; molti, l'inverno, son senza pastrano, e portano intorno
al collo una sciarpa di lana o uno scialle vecchio; spesso s'incontrano
fuor di città in qualche strada deserta, soli. Ce n'è degli scioperati;
ma molti pure che risparmiano dieci lire sulle cento che guadagnano al
mese; e le mandano a casa, o le mettono da parte. E sono i primi, per
lo più, a levare di mezzo alla strada un ragazzo, quando sopraggiunge
una carrozza, o a rialzare un vecchio caduto in terra, o a separare due
monelli che si picchiano. Alcuni hanno sul viso un espressione costante
di tristezza e guardan la gente in modo che par che rinfaccino a tutti
qualcosa; altri invece hanno una fisonomia che esprime serenità, pace,
sentimenti miti e benevoli. Tutti poi, o quasi tutti, mostrano di
tempo in tempo qualche viva allegrezza di cui può esser cagione una
lettera d'un parente lontano, o una buona parola d'un capo d'uffizio
o l'aver trovato una camera che costi cinque lire di meno al mese. Vi
sono nature ammirabili fra questa classe di giovani; cuori eletti, vite
nobilissime piene di sacrifizii e di dolori terribili, sopportati senza
lamento e in segreto.

III.
Il giovane del giardino d'Azeglio era di questi. Si trovava da pochi
mesi in Firenze, impiegato come scrivano nello studio d'un avvocato che
gli dava novanta lire al mese. Era nato a Palermo, dove aveva fatto
i suoi primi studii, e perduto in tenera età il padre e la madre. Di
parenti non gli era rimasto che uno zio, il quale l'aveva raccolto e
mantenuto a malincuore per alcuni anni; e poi gli aveva fatto intendere
poco amorevolmente che in casa c'era una persona a suo carico. Allora
il giovane, sollecitato da un amico di Firenze a venire in cerca
d'un impiego nel gran mare della Capitale, se nera partito da Palermo
con qualche centinaio di lire, e molte speranze. Ma arrivato in riva
all'Arno, dopo molto scendere e salire per l'altrui scale, aveva dovuto
dare un addio alle speranze, e contentarsi di campare copiando. L'amico
se n'era tornato in Sicilia dopo poche settimane, e il povero scrivano
era rimasto solo nella città sconosciuta.
Toccava appena i vent'anni, ma ne dimostrava assai di più, come tutti
quelli che han cominciato per tempo a faticare per vivere. Aveva
l'intelligenza aperta e pronta, e non mancava d'una certa cultura,
benchè fosse stato costretto a lasciar le scuole, quando appunto
cominciava a capire e a studiare. Gli era rimasto in capo quello che
rimane generalmente a coloro pei quali il passaggio dell'adolescenza
alla giovinezza segna l'abbandono dei libri per le faccende; qualche
data istorica, qualche verso di Dante, e i nomi degli scrittori
contemporanei più popolari. Ma aveva quell'accorgimento modesto e
guardingo, comune a pochi, col quale, non oltrepassando mai i confini
del proprio sapere, si riesce a tenerli sempre nascosti; e si può
parlare di ogni cosa, senza mai dire uno sproposito, o si sa tacere in
maniera, che non paia vergognosa l'ignoranza.
Le sue novanta lire al mese gli bastavano; con quaranta mangiava in una
piccola trattoria, con diciotto aveva trovato una cameretta al quarto
piano, in una via appartata, in casa di una povera famiglia, che viveva
d'una piccola pensione e dei pochi quattrini della dozzina. Questa
famiglia era composta d'una vecchia, vedova d'un impiegato fiorentino,
quasi sempre malata; e d'una ragazza di diciott'anni, che non faceva
altro che assister sua madre.
Questa aveva fatto qualche difficoltà a ricevere in casa il nuovo
inquilino; e perchè non c'eran mai stati che dei vecchi, coi quali
poteva parlare dei suoi malanni, ed anco averne qualche aiuto, quando
occorreva, più che di parole; e perchè, d'altra parte, un giovane
avrebbe fatto chiacchierare il vicinato, e dato a lei la noia di
dover tenere gli occhi aperti. Ma Alberto, fin dalla prima volta che
l'aveva visto, le era parso così quieto, così raccolto, così pari pari,
che s'era indotta, dopo un po' di esitazione, a dargli la camera. La
figliuola, dal canto suo, non aveva fatto nessuna istanza, nè mostrato
desiderio ch'egli entrasse in casa a preferenza d'un altro; ed anche
per questo essa aveva acconsentito.
— Non ha di discreto che gli occhi, — aveva detto la figliuola il
giorno della sua entrata in casa.
Era un inquilino che dava poca noia. Tornava verso le nove della sera,
dava la buona notte, e andava a letto subito; la mattina, al levar
del sole, era già fuori. Così entrando, come uscendo, non faceva il
più piccolo rumore. Nella sua camera, quando la madre e la figliuola
entravano per rifare il letto, ogni cosa era al suo posto come l'avevan
lasciata il giorno prima; pareva che non ci fosse stato nessuno. I
mobili erano spolverati, i panni spazzolati e piegati; alle donne
non restava quasi nulla da fare. Pochi vestiti; scarsa biancheria e
di qualità infima, due o tre libri, un piccolo baule, eran tutto il
suo corredo; ma in ogni cosa c'era l'impronta d'una cura continua e
rigorosa, d'una lotta ostinata della spazzola, del sapone e dell'ago,
contro il tempo, le seggiole e i tavolini dello studio. — Povero
giovane, — esclamava la vecchia, — si vede che è corto a quattrini; ma
non gli manca il giudizio. — La figliuola, i primi giorni, le diceva
che per essere tanto assestato a vent'anni, bisognava non aver sangue
nelle vene, e che a lei gli uomini che rubavano il mestiere alle donne,
non le piacevano; ma dopo aver ripetuto molte volte queste parole,
una mattina aveva soggiunto: — Eppure, un giovane che vive in questo
modo.... è simpatico! —
Era quasi trascorso un mese, dacchè il giovane era entrato in quella
casa, e fra lui e le sue ospiti non eran corse altre parole che
il solito buon giorno e buona notte. Una sera la madre fu presa da
un accesso forte del suo male consueto, e il giovane venne pregato
d'andare a chiamar il medico. Andò, tornò col medico, e, dopo che
questi fu partito, restò nella camera accanto al letto della malata.
La ragazza doveva scendere nella strada a pigliar certe medicine
dallo speziale dirimpetto. Prima di scendere levò il lume di sulla
tavola, perchè sua madre pativa la luce, e lo pose a piè del letto,
accanto al giovane; poi s'avviò per uscire. Arrivata sull'uscio,
approfittò del buio che la nascondeva, per voltarsi a guardare il suo
inquilino. — O chi è quello là? — domandò a se stessa maravigliata.
Il lume, rischiarando di sotto in su il volto del giovane, gli dava
una sfumatura alla pelle e una vivezza d'espressione così nuova, che
appariva quasi trasformato. — Par bello, — soggiunse la ragazza, e
discese. Quando risalì, cominciò a discorrere, guardandolo. A ora tarda
si separarono, ed essa ripetè tra sè stessa: — Non ha proprio altro di
bello che gli occhi.... e la voce. —
Così, a poco a poco, ora per effetto d'un lume posto in un certo
punto, ora per la espressione insolita d'un atteggiamento, ora per il
suono particolare d'una parola, il giovane si venne mutando ai suoi
occhi a tal segno, che in capo a due mesi non le pareva più quel d'una
volta, accolto sulle prime con indifferenza e guardato non di rado con
dispetto.
La madre di tratto in tratto cadeva ammalata, e ogni volta egli andava
pel medico, e restava poi accanto al letto, quando la figliuola doveva
uscire. Così nacque fra loro una certa dimestichezza. La vecchia aveva
cominciato ad aprir gli occhi; ma non vedendo assolutamente nulla
che le desse motivo di tenerli aperti, li aveva richiusi. Ringraziava
spesso il suo inquilino delle cure che le prestava, e ne discorreva
affettuosamente colla figliuola. Finirono col far conversazione ogni
sera, tutti e tre, intorno al tavolino da lavoro; la madre parlando per
lo più dei pettegolezzi delle vicine, ii giovane della sua Palermo, la
ragazza di bazzecole, tanto per farsi veder sorridere e poter guardare
negli occhi il suo ascoltatore, mentre egli guardava lei. Oltre
gli occhi discreti e la voce bella, essa aveva scoperto il sorriso
simpatico e le maniere “proprio gentili„.
Una sera stavano affacciati tutti e due alla finestra guardando giù;
era buio e pioveva, e non si vedeva anima viva. A un tratto balenò
in fondo alla via una luce viva e tremula; eran le fiaccole della
Compagnia della Misericordia. — Che serata melanconica! — mormorò la
ragazza, voltando le spalle alla finestra; — è una di quelle serate che
verrebbe voglia di addormentarsi e di non svegliarsi più... Non l'ha
mai provato lei questo sentimento? —
Il giovane sorrise, poi mormorò: — Lei ha ancora sua madre; come le
possono venire in mente queste idee?
— E lei non l'ha più?
— Io non ho più nessuno. —
La ragazza fu scossa dall'accento di queste parole, lo guardò, e disse
a bassa voce: — Non lo aveva mai detto. —
Dopo un altro momento domandò: — Non ha neppure fratelli? —
— No.
— Avrà degli amici in Firenze....
— Nemmeno.
— Ma come si fa a vivere senza voler bene a nessuno?
— E chi le dice ch'io non voglia bene a nessuno?
La ragazza lo fissò, sorrise, mosse una mano per ravviarsi i capelli,
non potè, era imprigionata; mosse l'altra, era stretta anche quella;
chinò gli occhi, li rialzò, non v'era più alcuno; fuggì essa pure.
Da quel giorno, in quella casa, tutto mutò: pensieri, visi, atti,
discorsi; la madre aprì una terza volta gli occhi, ma cogli occhi anche
il cuore ad una speranza lontana; le conversazioni si protrassero ogni
sera fino ora più tarda; la dimestichezza divenne intimità; e solo una
volta ci fu un po' di malumore da una delle due parti. La madre propose
al suo inquilino di fargli il desinare in casa: egli rifiutò; ma dopo
due giorni si ristabilì la pace.
I due giovani eran tutt'e due piccoli e bruni; egli serio, essa
allegra, e più bella; e si chiamavano Alberto e Giulia.

IV.
Alcuni giorni prima che seguisse il caso del giardino d'Azeglio,
una sera, un po' avanti l'ora solita, Alberto tornò a casa col viso
stravolto, e si chiuse nella sua camera senza dir parola. La mattina
seguente si levò per tempo, e cercò d'uscire non visto; ma la ragazza,
che stava in guardia, lo fermò in tempo, e prima con un piglio
scherzoso di comando, poi con un accento commosso di preghiera, tentò
di farsi dire quello che gli era accaduto. Alberto, più serio, ma anche
più affettuoso del solito, le rispose che non gli era seguito nulla,
che la sera innanzi sera sentito un po' male, e che il riposo della
notte l'aveva rimesso. Ma era ancora pallido, e aveva gli occhi rossi.
Giulia non credette. Pregò ancora, lo prese per mano, versò qualche
lagrima, ma inutilmente; il giovane le strinse la mano e la guardò con
tenerezza, e poi uscì senza dir parola. Da quel giorno in poi non parve
più quello di prima. Anche le sue abitudini mutarono; tornava a casa
ora molto più tardi, ora molto più presto che per il passato, parlava
più di rado; e quantunque facesse uno sforzo continuo per parere, se
non allegro, tranquillo, si capiva, al solo guardarlo, che era agitato
e triste. La ragazza lo supplicava: — Parli! mi dica che cos'ha! non
mi faccia soffrire! — E lui ancora più caldamente pregava Giulia che
non si desse pensiero di quel suo cangiamento, ch'era effetto d'un
malessere passeggiero. Ma intanto ogni giorno diventava più pallido e
più melanconico, e lo sforzo che faceva per sorridere e per parlare,
appariva sempre più evidente e più doloroso. La sera della scena
del giardino tornò a casa per tempo, e Giulia lo pregò ancora, più
teneramente che mai, di parlare; egli le rispose con voce stanca e
tremante; — Fra qualche giorno.... oggi è impossibile; — e si chiuse
nella sua camera, lasciando la povera ragazza desolata. La mattina
dopo, prima che le donne si destassero, era già fuor di casa.

V.
La madre, benchè non avesse il capo ad altro che ai suoi malanni, s'era
accorta del mutamento seguìto in Alberto, e ne aveva parlato più d'una
volta colla figliuola; ma non le pareva cosa da doversene gran fatto
impensierire. — È una di quelle malinconìe, — diceva, — a cui tutti i
giovani vanno soggetti; qualche altro giorno e passerà. — Giulia però,
che aveva l'occhio fine e l'affetto divinatore, non era dello stesso
parere; il cuore le presagiva qualche cosa di sinistro; e l'ansietà
le era cresciuta a tal segno, che, sentendo di non poter più durare
in quello stato, risolvette di farsi dire la verità ad ogni costo,
avesse pur dovuto minacciare Alberto di togliergli il suo affetto e di
staccarsi per sempre da lui.
Venne la sera. Giulia e la madre cenavano, sedute l'una di fronte
all'altra, ai due lati d'un tavolino, rischiarato da un piccolo lume a
olio. La madre aveva fasciato il capo in modo che le si vedeva appena
il viso, e stava tutta raggomitolata in un vecchio seggiolone, col
mento sull'orlo del piatto e gli occhi socchiusi; sulla parete opposta
s'allungava l'ombra di Giulia, con una gran capigliatura disordinata;
la stanza era quasi buia, e non vi si sentiva che il monotono tic tac
dell'orologio.
A un certo punto sentirono un passo su per la scala, la porta s'aprì,
comparve Alberto.
— Finalmente! — esclamarono ad una voce le due donne.
Alberto sedette vicino alla tavola, Giulia lo guardò e gettò un grido:
— Dio mio! cos'ha? —
Alberto sorrise sforzatamente e rispose con dolcezza: — Non ho nulla.
— È impossibile! Lei ha un viso smorto che fa paura! — esclamò Giulia
alzandosi.
— La prego.... — mormorò Alberto, pigliando Giulia per la mano; — si
metta a sedere.... le assicuro.... che non ho nulla.... —
Giulia sedette, ma spinse da parte il piatto e incrociò le braccia con
un atto dispettoso.
— Vuol provare un dito di vino? — domandò la vecchia.
Alberto ringraziò, facendo cenno che non voleva, e poi cominciò a
guardar Giulia con un'espressione di tenerezza così triste, e stando
in un atteggiamento che rivelava una prostrazione dell'animo così
profonda, che la ragazza non si potè più contenere, s'alzò, accese un
lume, e disse risolutamente alla vecchia: — Scusa, mamma, bisogna ch'io
parli un momento con Alberto. —
La madre, alzando gli occhi a fatica, guardò lei e il giovane, e disse
a fior di labbra: — Malinconìe; — Alberto entrò nella camera colla
ragazza, lasciando la porta aperta. Appena entrato, si abbandonò sur
una seggiola; Giulia sedette davanti a lui, e prendendogli una mano fra
le sue, gli disse a bassa voce, e presto:
— Mi confidi quello che ha, glielo domando per l'ultima volta, così è
impossibile andare avanti.... Non mi dica che non si sente bene; non
mi basta; io voglio sapere il perchè non sta bene; una cagione ci ha
da essere, qualcosa le dev'esser seguìto; la prego, me lo dica, non mi
faccia più vivere in pena, ho già sofferto abbastanza; non ha fiducia
in me? e se non confida i suoi segreti alle persone che le vogliono
bene, a chi li andrà a confidare? —
Alberto, per tutta risposta, le baciò la mano; essa la ritirò.
— Vuol che glielo dica — riprese — che cosa le è accaduto? — L'ho
indovinato. Lei ha avuto qualche grosso dispiacere allo studio. Un
superiore le ha fatto un rimprovero a torto, lei s'è risentito, l'altro
le ha detto qualche parola offensiva, e lei per non perdere l'impiego
ha dovuto tacere, e per questo lei soffre; mi dica un po' che non è
vero, se può? Mi sostenga un po' che non ho indovinato!
— No, — rispose con voce debole Alberto, riprendendo la mano di Giulia.
— Allora.... — questa riprese — lo so io il perchè. Il perchè è un
altro. Vuole che glielo dica francamente? Lei ha giocato! — E lo guardò
fisso. — Lei ha giocato, ha perduto, e adesso ha dei debiti che non
sa come pagare. Mi confessi che il fatto è questo. Ma allora perchè
non me l'ha detto subito? Doveva capire che quel poco che possiamo
far noi, per cavarla d'impiccio, siamo disposte a farlo con tutto il
cuore. Per conto mio, veda, se non ci dovesse rimaner in casa altro che
un pagliericcio per dormire e quattro cenci per coprirci.... No, non
sorrida, lei non può immaginare il male che mi fa il suo sorriso; io
non dico nulla che non sia pronta a fare domani, subito, questa sera,
se lei ci vuol mettere alla prova,... io conosco mia madre. Mi dica che
ha giocato, via —
Alberto fece cenno di no col capo, e si coprì il viso con tutt'e due le
mani.
— Ma che può esser dunque? — continuò Giulia, facendogli tirar le
mani giù; — qualche promessa che ha fatto a sè stesso, e che ora le
rincresce di non poter mantenere? Un progetto, per esempio, che lei
aveva in capo, e che per eseguirlo aspettava, che so io? un avanzamento
nel suo impiego; e questo non è venuto, e lei ha perso ogni speranza? È
così? Un progetto, in cui entravo io forse? Dio buono, guardi che cosa
mi fa dire! Ma se fosse questo, io le darei la mia parola, le giurerei
qui, in questo momento, per quello che ho di più caro al mondo, che il
bene che le voglio sarà sempre uguale, qualunque cosa le accada e in
qualunque stato si trovi.... Lei non ha che vent'anni! C'è tanto tempo
ancora! Non ci sarebbe da darsi pensiero per il tempo! —
Alberto mise una mano sulla spalla della ragazza, la guardò negli
occhi, e mormorò: — Cara Giulia! se ti dicessi quello che ho.... ti
affligerei troppo! Lasciami solo, te ne prego, ti prometto che un
giorno ti dirò tutto; ora non posso, non ne ho il coraggio.... —
Giulia s'alzò improvvisamente, corse alla porta, guardò nell'altra
stanza: sua madre dormiva. Richiuse l'uscio, tornò, e si gettò in
ginocchio dinanzi ad Alberto.
— Per l'ultima volta, — proruppe con voce di pianto, — te ne scongiuro:
dimmi quello che hai! —
Alberto stette qualche momento sopra pensiero, guardandola; poi si
scosse, come se si fosse risoluto a parlare; aprì la bocca....
— Dunque! — esclamò vivamente Giulia.
— Guardami.., — ripose Alberto con un filo di voce.
Giulia si fece un po' da parte, affinchè il lume battesse in pieno nel
viso d'Alberto; lo guardò attentamente, e poi, afferrandogli tutt'e due
le mani, esclamò spaventata: — Ma tu soffri molto! Tu hai bisogno del
medico, Alberto! Che hai? che ti senti? —
Alberto lasciò cadere il capo sopra la spalla di Giulia.
— Mio Dio! — disse questa, tentando inutilmente di sollevarlo — Mamma!
mamma!
— No, non la chiamare, — mormorò Alberto senza alzare il capo, e
mettendo le braccia intorno al collo della ragazza inginocchiata; —
.... ti dico tutto.
— Presto!
— Senti, — continuò il giovane colla voce così bassa che appena si
sentiva; mi costa uno sforzo che tu non puoi immaginare.... il doverti
dire.... Non mi rincresce mica per me, Giulia, ma per te.... Tu mi
perdonerai.... Io credevo d'avere il coraggio.... di tacer sempre; ma
il coraggio mi manca.... io tradisco tutti i miei proponimenti.... ho
aspettato fino all'ultimo.... dimmi che mi perdonerai!
— Oh sì! sì! — rispose Giulia piangendo; — ma parla!
— Ebbene.... ho da dirti una cosa.... che non ti posso dire
guardandoti.... appoggia la testa qui.... così.... —
Giulia appoggiò la testa sul petto del giovane, e questi avvicinò
le labbra al suo orecchio. Stettero qualche tempo immobili in
quell'atteggiamento: essa col viso rivolto in su, e gli occhi
socchiusi, come se dormisse; egli col capo chino e i capelli sparsi
sulla fronte. Non si sentiva che il respiro affannoso di Giulia, e
un gemito monotono della madre che dormiva nell'altra stanza. Era
la prima volta che egli la teneva fra le braccia in quel modo, e per
qualche momento la dolcezza di quell'abbraccio fu in tutti e due così
viva, che quasi sospese in loro il senso del diverso dolore che li
agitava; le guancie di Giulia si soffusero di rossore, e le sue labbra
si apersero con un leggero sorriso; Alberto la baciò, e subito tirò
indietro il viso come se si fosse scottato; tornò in sè, mise un gemito
tronco, e riabbassando il capo in atto di profondo abbandono, mormorò
nell'orecchio a Giulia: — Ho fame! —
Giulia balzò in piedi gettando un grido, e restò immobile, chinata,
intenta, cogli occhi fissi in quei d'Alberto.
Questi si coperse il viso, ed esclamò con accento sconsolato: — Ah, non
lo dovevo dire, Giulia! Perdonami! —
La ragazza gittò un altro grido acuto, straziante, cadde in ginocchio
dinanzi ad Alberto, lo baciò, si rialzò, si guardò intorno, si cacciò
le mani nei capelli, diede in uno scoppio di pianto, e gridò: — Io
divento pazza! — Corse alla porta, chiamò ad alta voce: — Mamma! Mamma!
— Rivenne indietro e ribaciò Alberto, si slanciò nell'altra stanza
singhiozzando, ritornò a passi concitati tenendo il grembiale aperto
colle due mani, vacillò e cadde.
In quel punto s'affacciò sull'uscio la madre.
Alberto, pallido, cogli occhi fissi su Giulia, colle braccia penzoloni,
pareva fuori di sè; Giulia stava inginocchiata, col capo abbandonato
sulle ginocchia di lui, immobile; sul pavimento, intorno a loro, erano
sparsi dei pezzi di pane e delle frutta, che la ragazza s'era lasciata
sfuggire cadendo.

VI.
Lo studio in cui lavorava Alberto, era in una delle strade più
solitarie di Firenze. Vi lavoravano con lui tre o quattro giovani,
tra praticanti e scrivani, coi quali aveva poca dimestichezza, perchè
troppo diversi da lui di natura e di abitudini. L'avvocato, a cui
apparteneva lo studio, era un uomo sulla cinquantina, d'aspetto
severo, di modi bruschi e di poche parole; ma buono, si diceva, e
giusto, e qualche volta anche affabile coi suoi sottoposti; a patto
però che non gli contradicessero mai, che aspettassero la riparazione
d'un torto, quando ne facesse, dal suo pentimento spontaneo, senza
sollecitarlo con richiami o con proteste; galantuomo, in una parola,
salvo l'orgoglio e l'indole irascibile, che lo facevan più temere che
amare. Nei suoi giovani, anche più dell'operosità e del raccoglimento,
gli piaceva la deferenza manifestata col contegno modesto e colle
parole ossequiose; e perciò non gli era mai andato molto a genio
Alberto, che soleva obbedire tacendo, salutare senza sorridere e
rispettare senza inchinarsi. L'altro scrivano (eran due) era più
nelle sue grazie, e a questo egli affidava di preferenza i lavori
straordinarii che davano qualche piccolo guadagno, oltre lo scarso
assegnamento mensuale. Questi era premuroso, sorridente, pieghevole;
preveniva, con una rapidità mirabile, ogni suo atto; rifletteva, colla
prontezza d'uno specchio, ogni suo sorriso; ripeteva, colla fedeltà
dell'eco, l'ultima parola d'ogni sua frase; vestiva con un certo
garbo; non portava quei soprabitini e quei calzoncini slavati e spelati
d'Alberto, che pareva tenessero i punti per miracolo, e rinfacciassero
continuamente all'avvocato la meschinità dello stipendio e la miseria
dello stipendiato. Questi era intimamente e apertamente il prediletto.
Per la qual cosa Alberto lo guardava bieco, non per invidia della
predilezione, chè non era anima capace d'invidia; ma per l'ostentazione
maligna che quegli faceva dei suoi privilegi, con un perpetuo
leggerissimo sorriso di benevolenza protettrice, più insolente che la
superbia. Aveva qualche anno più d'Alberto, era mingherlino, sempre
vestito da zerbinotto, gaio, parolaio, seccante.
Era una mattinata piovosa degli ultimi di marzo, sette giorni prima
che seguisse in casa di Giulia il fatto che s'è raccontato; faceva
freddo ed era stato acceso il fuoco in tutti i camminetti dello studio.
Alberto scriveva in una stanza accanto a quella del principale, poco
distante dall'altro scrivano, il quale si alzava di tratto in tratto
per andarsi a riscaldare. All'improvviso si presentò sulla soglia del
suo gabinetto l'avvocato, e col solito cipiglio accennò ad Alberto che
aveva bisogno di lui. Alberto s'alzò e corse nel gabinetto. L'avvocato
sedette davanti alla sua scrivanìa, ch'era di fronte al camminetto, e
cominciò a cercare tra i suoi fogli, dicendo: — Ho da darle una cosa
a copiare. — Alberto stava ritto nella posizione d'un soldato, un
passo discosto dalla sua seggiola. — Non c'è, — disse l'avvocato, e,
chiudendo con impeto un grosso libro di conti che gli stava dinanzi,
s'alzò ed uscì. Tornò poco dopo con un foglio di carta in mano,
dicendo: — Eccolo, — lo porse ad Alberto, e fece un atto della mano che
voleva dire: lo copii. Alberto ritornò nella sua stanza e cominciò a
copiare. Dopo pochi momenti sentì nel gabinetto dell'avvocato un romore
confuso come di libri e di fogli messi sossopra, voci d'impazienza,
sbuffi, e poi silenzio; di lì a poco di nuovo il romore, più forte e
più affrettato di prima, e poi daccapo silenzio; finalmente udì il suo
nome. Corse nel gabinetto e si piantò come sempre dinanzi al tavolino,
dicendo: — A' suoi ordini. —
L'avvocato lo guardò. Alberto, non abituato allo sguardo di quell'uomo,
a cui sapeva di non esser simpatico, arrossì.
— Mi dica la verità, — disse l'avvocato severamente, abbassando gli
occhi sulla scrivanìa.
Il giovane lo guardò stupito. L'avvocato fissò lui di nuovo, corrugò
le sopracciglia, parve un momento incerto, e poi ripigliò con tono
risoluto:
— Mi dica la verità.... e resterà sepolta fra me e lei per sempre.
— Non intendo! — rispose il giovane sorridendo.
Ci sono dei momenti sfortunati, pur troppo, in cui basta il più
fuggevole indizio a mutare un vano sospetto in una certezza profonda,
risoluta, cieca, che strappa dal labbro parole fatali.
— Qui — disse con vivacità l'avvocato — c'era un biglietto da cento
lire.
— Oh! — esclamò il giovane diventando pallido, e facendo un gesto
vigoroso come per respingere da sè quel sospetto.
L'avvocato lo fissò come per leggergli nell'anima.
— Signor avvocato! — gridò Alberto con una voce che non pareva più la
sua — le proibisco di guardarmi in quel modo!
— Ci sono io solo, — rispose imperiosamente l'avvocato, — io solo che
posso dire qui: proibisco! Ed io le proibisco di rimetter più piede nel
mio studio!
— Ma badi a quello che fa, in nome di Dio! — gridò Alberto con un
accento supplichevole e disperato.