Arrigo il savio - 10

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gentiluomini che gli si pararono dinanzi, e chiese loro di volerlo
servire in una quistione d'onore.
— Con chi l'hai? — gli domandarono.
— Col cavaliere Valenti. Vi prego di andar subito a casa sua, per
portargli la sfida.
— Non occorre andar tanto lontano; — risposero quelli. — Il Valenti è
entrato poc'anzi, ed è nella sala d'armi a colloquio con due altri,
forse per la stessa ragione.
— Tanto meglio! — disse il Guidi. — Andate dunque di là. Voglio un
combattimento ad oltranza. Stamane, per un riguardo a certe persone, mi
son mostrato corrivo a far pace con lo zio. Ora il nipote ha da pagare
per due. —
Mentre queste cose accadevano di fuori, Cesare Gonzaga, rimasto nel
salotto dei Manfredi, girava inutilmente gli occhi di qua e di là,
cercando il nipote. Certo, conoscendo l'indole di Arrigo, l'ultimo
pensiero che gli potesse venire, anzi l'unico che non gli dovesse venire
affatto alla mente, era quello di un suo alterco col Guidi. Egli
sospettò invece che il suo caro nipote, sconcertato dal rifiuto di
Gabriella, avesse fatta la insigne sciocchezza di andarsene _insalutato
hospite_, contro l'usanza della casa, che non ammetteva questi esotici
modi. Turbato dal pensiero di quella ragazzata, che poteva guastare per
sempre il giovinotto coi Manfredi, lo zio Cesare stette ancora un pezzo
a discorrere con gli ultimi rimasti, che si erano raccolti intorno alla
signorina Gabriella. Finalmente, approfittando dell'arrivo del conte
Pompeo, che veniva molto in ritardo a cercare sua moglie, Cesare Gonzaga
si accomiatò, promettendo a Gabriella una visita per il giorno seguente.
— Che uomo, quel Gonzaga! — disse il conte di Castelbianco. — Par sempre
un giovinotto.
— Ed ha anche giovane il cuore; — aggiunse il Manfredi.
— Ah, quello poi ha vent'anni. Figuratevi ch'egli ha domattina un
duello.
— Un duello! — esclamò Gabriella. — Con chi?
— Col conte Guidi.
— E quando lo avete saputo? — domandò il Manfredi.
— Oggi stesso. A tutta prima aveva creduto che si trattasse di suo
nipote; ma invece è lui, proprio lui.
— Anche il Guidi, poc'anzi, era qui, e non ci siamo avveduti che ci
fosse nulla tra loro.
— Eh, capirete; i cavalieri perfetti sanno fare le cose con la debita
discrezione.
— Ma la ragione? Arrivato da due giorni appena, come può aver già avuto
da dire con qualcheduno?
— Che posso dirvi io? La ragione non la so. Del resto, le quistioni
personali non si maturano sempre lentamente; nascono qualche volta da un
nulla, come i funghi, e scoppiano lì per lì, come le bombe. —
Con questi bei paragoni conchiuse la sua imprudentissima chiacchierata
il conte Pompeo di Castelbianco, lasciando i Manfredi nella più dolorosa
ansietà.


XVI.

Cesare Gonzaga si era ritirato a casa molto inquieto per la fuga del
nipote, fuga che non sapeva a qual cagione attribuire. Giunto lassù, in
via Nazionale, rimase a chiacchiera col servitore enciclopedico, sempre
aspettando la venuta di Arrigo. Finalmente, verso la mezzanotte, un
fattorino dello _Sport_ venne e lasciò per il marchese Gonzaga una
lettera. Arrigo Valenti si scusava in essa con lo zio, per essere escito
così in fretta da casa Manfredi, senza dargliene avviso, poichè si era
ricordato di avere fissato un ritrovo allo _Sport_ con un banchiere
parigino, suo corrispondente ed amico. “Si farà tardi, cenando
(soggiungeva Arrigo), ed è molto probabile, anzi certo, che passerò la
notte fuori di casa, da vero ed autentico figlio di famiglia. A
rivederci dunque domani, e non esser più tanto severo, te ne prego, col
tuo povero nipote.„ Seguiva la firma.
Il pretesto era buono, e Pico della Mirandola ricordò all'illustrissimo
signor marchese che altre volte il signor cavaliere aveva disertato,
come quella notte, dal domicilio legale. Ma l'ultima frase del
biglietto, che Cesare Gonzaga aveva letto e riletto una dozzina di
volte, non era tale da lasciar molto tranquillo un animo naturalmente
sospettoso, e per allora singolarmente eccitato. “Non esser più tanto
severo„ scriveva Arrigo allo zio. Perchè quel “più„ che aveva l'aria di
stabilire una data, un'êra nuova, come la nascita di Gesù Cristo, o come
la fuga di Maometto? “Povero nipote„ scriveva ancora il Valenti. Perchè
povero, mentre andava a cena e si disponeva a passare allegramente a
notte?
Cesare Gonzaga meditò lungamente su quegli enimmi, e andò a letto senza
averli sciolti; ma dormì poco, e quel poco, poi, facendo certi sognacci
che il ciel ne scampi e liberi ogni anima ben nata. La mattina si
svegliò per tempo, secondo il suo solito, e appena il servitore entrò in
camera per portargli il caffè, gli chiese notizie di Arrigo. Il signor
cavaliere non era ritornato. Per altro, non bisognava maravigliarsene,
soggiungeva Pico della Mirandola; quando il padrone saltava una notte,
la saltava intiera.
— Sono un gran matto, io, a pesar le parole di un biglietto vergato in
fretta al circolo, come se si trattasse d'una terzina di Dante! — disse
il Gonzaga tra sè. — Arrigo ha affogato nello sciampagna il dolore del
rifiuto di Gabriella, e a quest'ora dorme saporitamente in qualche letto
d'albergo. —
La mattina è stata data al giorno, come la primavera all'anno, per
destare i più lieti pensieri nella mente dell'uomo. Cesare Gonzaga si
rasserenò alla vista del bel cielo di Roma, e andò a farsi radere,
secondo l'uso quotidiano, poscia a fare una passeggiata al Macào; nè
ritornò a casa che verso le dieci del mattino.
— È rientrato? — chiese egli al servitore, anche prima di metter piede
sulla soglia di casa.
— Sì, illustrissimo; — rispose Happy con un accento dimesso e con una
cera da funerale.
— Che c'è? — gridò il Gonzaga, profondamente scosso.
— Ferito; — replicò il servitore.
— Che hai detto?
— Il signor cavaliere ha avuto un duello.
— Ah, il mio sogno! — esclamò Cesare Gonzaga. — E con chi?
— Col conte Guidi, che è in fin di vita, con una palla nel petto, e
perciò penetrante in cavità. —
Il Gonzaga non istette a sentir altro, e corse nella camera del nipote.
Arrigo Valenti era coricato sul letto, ancora mezzo vestito, e voltato
sul fianco. La camicia si vedeva aperta sulla spalla destra a colpi di
forbice. Il dottore stava a capo chino presso di lui, in atto di medicar
la ferita; e vicino al seguace d'Esculapio era un signore, sconosciuto
anch'egli al Gonzaga, ma certamente uno dei padrini di Arrigo.
Il ferito riconobbe lo zio al passo frettoloso, e gli diede il buon
giorno, senza voltarsi.
— Non è niente, sai! — aggiunse tosto, per calmare la sua inquietudine.
— Ti presento il dottor Mori e il barone di Santàgata. Signori, mio zio,
il marchese Gonzaga. —
Il dottore e il barone fecero un inchino. Cesare Gonzaga corse
dall'altra sponda del letto, per vedere in volto il nipote.
— Zio, mi perdoni? — disse Arrigo.
— Che perdonare? Ti adoro; — rispose il Gonzaga, baciandolo sulla
fronte. — Ma non ti affaticare coi discorsi, te ne prego.
— Che! Non soffro punto; — replicò il ferito. — Dottore, ditelo voi a
mio zio, che posso parlare senza pericolo.
— Sì, può parlare, per ora, ma moderatamente; — rispose il dottore. —
Non c'è febbre ancora, e forse non verrà prima di sera. Bisognerà dargli
piuttosto qualche cosa che lo rinvigorisca; un po' di cognac, un
bicchierino di Marsala....
— C'è del vino di Porto, che piace tanto al signor cavaliere; — disse
Happy.
— Anche il Porto è buono; — sentenziò il dottore. — Lo assaggerò
anch'io, quantunque non abbia fatto colazione. —
Il dottore apparteneva alla scuola moderna dei corroboranti; una scuola
che ha i suoi pregi, come li hanno i corroboranti medesimi, e in
particolar modo i noetici. Non so se mi spiego.
— Veda, signor marchese; — disse il savio chirurgo; — non c'è nulla di
grave. La palla ha colpito l'omero, tra il deltoide e il bracciale
anteriore. È entrata di qua, è escita di là, forse rasentando la
scapula. Il braccio era alzato; i muscoli tesi hanno fatto resistenza;
la palla, seguendo l'indole di tutti i corpi sferici, ha dovuto deviare,
davanti all'ostacolo. Il ferito è sano, di buona complessione; vasi
sanguigni importanti offesi non ce ne sono; sarà un affare di poco. Non
è vero, cavaliere? Tra dieci giorni andiamo a fare una scarrozzata
insieme.
— Magari fra cinque; — rispose Arrigo, sorridendo.
— Son troppo pochi; si contenti di dieci. —
Il dottore e il barone di Santàgata si erano allontanati dal letto, per
rivoltare le bende e distendere un po' d'unguento sulla pezza. Arrigo
approfittò della loro lontananza, per accennare sottovoce allo zio quel
che gli era avvenuto in casa Manfredi, e quindi a voce più alta per
raccontargli brevemente il duello. Si erano battuti alle otto, nei
pressi del ponte Nomentano; avevano sparato a quindici passi di
distanza, e simultaneamente, al comando; il primo colpo era andato a
vuoto; al secondo, Arrigo si era sentito tocco alla spalla, ma in pari
tempo aveva veduto cader l'avversario; egli giurava, per altro, di aver
lasciato andare il colpo senza toglier la mira.
— Ti credo, ti credo; — disse il Gonzaga. — È sempre così, con
quell'arme sciocca. Se toglievate la mira, c'era da scommetter dieci
contro uno che colpivate i padrini.
— Vedi, intanto, — riprese Arrigo, — che il conte Guidi non mi vogherà
sul remo. —
Cesare Gonzaga si chinò un'altra volta a baciare il nipote.
— Auguriamogli del bene; — diss'egli poscia — noi non vogliamo la morte
del peccatore, ma che si converta e viva. —
Happy, che era andato per il vino di Porto, rientrò nella camera per
dire al signor Cesare:
— Illustrissimo, c'è di là il senatore Manfredi.
— Ah! — esclamò il Gonzaga.
— Ed è con lui la signorina sua figlia.
— Diavolo! Cioè, diciamo invece angioli santi! — riprese il Gonzaga,
volgendo un'occhiata ad Arrigo. — E gli hai detto che c'è un ferito?
— Non gli ho detto nulla. Han chiesto di lei; ho risposto che venivo a
chiamarla.
— Tu sei saggio, Happy, e un giorno o l'altro, se il tuo padrone
permette, verrai a stare con me.
— Verrò a buona scuola, illustrissimo. —
Cesare Gonzaga fece un cenno affettuoso con la mano al nipote, e uscì
dalla camera, per andare nel salotto. Il senatore Manfredi, che stava
là, sempre in sull'ali, si gettò nelle braccia dell'amico. Gabriella era
lì lì per imitare il babbo; ma Cesare Gonzaga, da buon cavaliere, prese
la mano della fanciulla e la recò divotamente alle labbra.
Dopo un istante di pausa, il Manfredi incominciò:
— Ma che è stato, Dio buono? Abbiamo passata una notte terribile.
Iersera il conte di Castelbianco è venuto a darci la notizia che tu
avevi un duello stamane. Sono escito per tempo, sperando d'imbattermi in
qualcheduno che potesse darmi notizie, e non ho trovato che il duchino
di Roccastillosa, il quale usciva dal circolo dello _Sport_... per
andarsene a letto. Egli non sapeva nulla di preciso; soltanto aveva
veduto nella notte il conte Guidi, che pareva inquieto e si era chiuso a
colloquio con due amici. Allora ho creduto che davvero fosse avvenuta
una quistione fra voi due. Ma ti vedo sano e sorridente; sia ringraziato
il cielo! Non c'è stato dunque nulla?
— Nulla per me, come vedi; — rispose il Gonzaga. — Il duchino ti avrà
anche detto che una quistione occorsa tra me e il conte Guidi era stata
composta onorevolmente fin dalle prime ore pomeridiane di ieri. Egli era
per l'appunto uno dei padrini del Guidi.
— Sì, mi ha raccontato anche questo. Ma le notizie del Castelbianco....
— Notizie in ritardo, caro mio!
— E l'affaccendarsi del conte Guidi, questa notte, al circolo... —
riprese il Manfredi.
— S'è affaccendato per altro, sicuramente: — replicò Cesare Gonzaga. —
Ma non parliamo di cose tristi; la nostra Gabriella è molto abbattuta.
— Per timore di lei, signor Cesare; — disse la fanciulla. — Ma ora
incomincio a respirare, e se ella mi assicura che non ha più duelli,
starò meglio senz'altro.
— Cara! Ne avrò uno, se babbo permette, e con lei. La sollecitudine loro
per me, ha condotta qua la figliuola insieme col padre. Il padre mi
consentirà di cogliere l'occasione per fare alla figliuola un certo
discorso, che doveva venire senza fallo qualche ora più tardi, in casa
sua. Meglio adesso, e qui, dove il destino ha voluto. Credete a me; se
c'era momento buono per farlo, quel tale discorso, questo a dirittura è
l'ottimo.
— Sai che ti ho dato ampia facoltà; — disse il Manfredi. — E se tu
riesci a persuaderla....
— Oh, la persuaderò senza dubbio. Ma siccome annoierei te, che conosci
già gli argomenti....
— Ho capito; me ne vado, — disse Andrea.
— Di là, — soggiunse Cesare, — dove c'è qualcheduno che vedrai
volentieri. —
E premeva frattanto il bottone del campanello.
Happy non tardò a presentarsi all'uscio.
— Accompagna il signor senatore dal cavaliere Valenti; — gli disse il
Gonzaga.
— Andiamo dal nostro cavaliere, — conchiuse il Manfredi. — Egli sarà
molto maravigliato di vedermi in sua casa, a quest'ora. —
E andò, l'onorevole uomo, assai lontano dall'immaginarsi lo spettacolo
che lo attendeva nella camera di Arrigo.


XVII.

Gabriella aspettava e sorrideva. Era sicura di vincer lei, la bella e
forte fanciulla. Non amava Arrigo il savio; amava Cesare, il generoso,
Cesare il buono, Cesare il grande. Non gliel avrebbe detto, no, glielo
avrebbe lasciato indovinare; ma se egli non si fosse apposto al vero, se
egli non avesse inteso l'animo della sua candida interlocutrice, tanto
peggio per lui! sarebbe stato Cesare... il semplice.
— Signorina... — incominciò egli, venendo a sedersi daccanto a lei.
— Mi chiami Gabriella, e mi dia del tu, come ha proposto mio padre, e
come desidero io; — diss'ella, con accento dimesso.
— Non oserò mai; — rispose il Gonzaga. — Facciamo un passaggio. Dirò
Gabriella ma darò del voi. Mi riserbo di dare del tu ad una bella
fanciulla che accetterà di essere mia nipote. Siamo intesi?
— Che idea! — esclamò Gabriella,
— È un'idea fissa, bambina. L'ho già detta a vostro padre, che non l'ha
disapprovata. Il mio Arrigo ne va pazzo; ed è giusto, poichè l'ha
trovata lui, perchè è lui che m'ha chiamato a Roma, dove senza di lui
non avrei rimesso piede.
— Perchè, signor Cesare? Che cosa vi ha fatto, questa povera Roma? —
Cesare Gonzaga trasse un lungo sospiro dal petto....
— Bambina, — rispose egli poscia, — sono storie dolorose ed antiche, in
nome delle quali io vi prego di appagare il mio voto. Permettetemi di
dire che voi non conoscete Arrigo. Gli uomini, prima di tutto, non si
giudicano bene dalle apparenze. Ci sono quelli che custodiscono
gelosamente i loro sentimenti delicati, e nascondono il meglio del loro
cuore alle turbe. Infine, se egli vi ama!... Perchè io lo so, io l'ho
veduto, io l'ho scrutato nei più intimi penetrali dell'anima, egli vi
ama. Mi credete voi capace d'ingannarvi?
— No, — disse Gabriella. — Credo che siate ingannato voi stesso. Io
stimo e rispetto vostro nipote. Vi dirò di più; lo vedevo assai
volentieri, anche ignorando ch'egli appartenesse alla vostra famiglia.
Ma io l'ho udito più volte, ed ho potuto giudicarlo. Non amo gli
scettici. Arrigo Valenti è un savio; lo dicono tutti. Sapete voi che
cos'è un savio a venticinque anni? È un uomo senza gioventù, senza
entusiasmo, senza idealità, senza cuore, la rovina anticipata di una
coscienza. Mio padre e mia madre, signor Cesare, mi hanno educata al
culto delle grandi anime, dei cuori aperti e leali, delle nobili idee,
dei generosi sentimenti. Non conoscevo ancora un uomo, fuori che mio
padre, e già ne ammiravo, ne amavo uno, che somigliava a voi. —
Il discorso era stato lungo, e Cesare Gonzaga lo aveva ascoltato con
molta calma, perchè, sebbene qualche volta gli fosse venuta la voglia
d'interrompere, si trattava di cose che egli aveva prevedute, di uno
stato d'animo e di un modo di sentire che egli già conosceva. Ma la
chiusa gli giunse nuova; la chiusa lo fece addirittura balzar dalla
scranna.
— Davvero? — diss'egli, fissando Gabriella negli occhi, come se temesse
di aver male udito e cercasse in quegli occhi la conferma delle parole.
— E quest'uomo, lo avevate già immaginato... coi capegli bianchi?
— Bianchi, no, ma un po' grigi, lo confesso; — rispose Gabriella. — Son
grigi i capegli dell'uomo che ha pensato molto, e molto operato. Vedevo
quei capegli grigi; vedevo la fronte alta, il labbro dolce e lo sguardo
sereno; vedevo l'uomo pronto ad infiammarsi per ogni idea generosa, e
gli esempi tutti della sua vita conformi a quella nobiltà di pensiero.
Le aspirazioni son belle, — soggiunse la giovine filosofessa, — ma senza
gli esempi, senza le prove, non valgono. Li conosciamo anche noi, povere
osservatrici, i bei parlatori, gli apostoli del sentimento, i paladini
dell'eroismo in parole, e non ci piacciono punto punto. Io amo soltanto
chi ha sentito, combattuto e sofferto, chi nelle prove dolorose della
vita non ha logorato il cuore, chi negli occhi limpidi mostra l'anima
sua, giovane sempre, perchè eternamente buona. —
Cesare Gonzaga ascoltava, meditando ogni parola, vedendo la sua triste
vita riflessa in quelle frasi, che la compendiavano, indovinandola quasi
con tanto intelletto d'amore. E guardava, ascoltando, e sorrideva, e
sentiva dentro di sè qualche cosa d'insolito, come un antico e pur mo'
rinnovato desiderio di piangere.
— Ero bambina inesperta, — riprese Gabriella, — e già si diceva davanti
a me che voi eravate un uomo singolare, valoroso in campo, mite e
modesto negli usi della vita quotidiana, amico sincero, infine, e, per
farvi il ritratto in due parole, un'anima eletta. Si aggiungeva che voi
avevate compiuto un atto eroico, partendo dall'Italia, sacrificando il
presente e il futuro, rinunziando alle più care speranze, alle più
giuste ambizioni. La vostra medesima lontananza, anche quando tante voci
possenti vi richiamavano in patria, dimostrava la grandezza del vostro
sacrifizio. E s'intenerivano, signor Cesare, parlando di voi. Se li
aveste uditi! Io ero una bambina, capivo poco, ma sentivo molto;
ascoltavo e pensavo.
— Vi prego... — disse Cesare Gonzaga, con voce soffocata da una violenta
emozione. — Non parlate dei morti.
— Perchè? Parliamone, se il loro ricordo fa bene allo spirito. Le mie
parole, io spero, non vi torneranno neanche spiacevoli, se è vero che mi
amate un pochino. Inoltre, noi donne, — soggiunse ella, accompagnando la
frase con un arguto sorriso, — siamo state sempre adulate, e finiamo con
credere a ciò che si è detto di noi, ed anche stampato. Siamo le
consolatrici; la nostra amicizia è premio al valore e conforto alla
sventura. Hanno aggiunto che un uomo buono non è completo, senza una
donna buona. Signor Cesare, io non volevo dirvelo, incominciando. Ma
voi, vedendomi ricusare ciò che mi offrite, potevate credere che io
fossi un'ingrata, una cattiva, e che pensassi ad altri. Ieri avete anche
avuto quistione con qualcheduno, e forse, anzi certamente, per me. Non
dite di no, perchè sarebbe una bugia, indegna di voi. Orbene, io ora vi
parlo a cuore aperto, come meritate, e senza arrossire. Mi faccio
coraggio, vedete? Vi guardo in viso, e vi dico: io vorrei essere quella
donna buona. Ho quasi vent'anni, già; non ho amato che mio padre, mia
madre e voi. Volete? Nessuna donna... — e qui la fanciulla abbassò la
fronte, sentendo le fiamme del rossore che aveva sperato di reprimere; —
nessuna donna avrà mai detto ad un uomo ciò che io dico a voi in questo
momento... che è solenne per me.
— Impossibile! — mormorò Cesare Gonzaga.
— Impossibile! E perchè?
— Perchè... vedete Gabriella... vostra madre... io... —
E così dicendo a parole interrotte, Cesare Gonzaga diede in uno scoppio
di pianto.
Gabriella si levò in piedi vedendo ch'egli si abbandonava col capo
arrovesciato sulla spalliera della seggiola, e fece uno sforzo supremo
per rialzarlo.
— Voglio saper tutto! — gli disse. — Ho acquistato il diritto di
pretendere da voi una confessione sincera.
— È una storia breve: — rispose il Gonzaga. — Ho amato vostra madre,
come si doveva amarla, con tutte le forze dell'anima. E l'ho fuggita,
vedete, l'ho fuggita, mentre stava in me di ottener la sua mano, a
preferenza d'ogni altro. Vostro padre era già ricco, ed io no, o ben
poco a paragone di lui. Ma il padre di quella donna mi era debitore di
molto... della vita e dell'onore di uno de' suoi. Siate mio figlio, mi
aveva detto; non ho che un tesoro ed è vostro. Io avevo veduto la figlia
di quell'uomo; e mi ero acceso d'amore, e, sperando di essere amato, mi
ero fatto stimare. Un giorno, Andrea Manfredi, l'amico mio, il mio
fratello d'armi, mi bisbigliò il suo dolce segreto: Cesare, amo una
donna. Anch'io, gli risposi. E parlavamo spesso dei nostri amori, delle
nostre speranze, delle nostre gioie future, in mezzo alle fatiche del
campo, nei brevi riposi della notte, nelle marce forzate, a Velletri,
tra i fumi della vittoria, a Villa Corsini, dove cadde Goffredo Mameli,
l'unico bardo della patria, e con lui Luciano Manara, Enrico Dandolo,
Pietra Mellara, Daverio, Morosini, fiore di cavalieri e d'eroi. Tra le
mura crollanti del Vascello, dove per tanti giorni fu pioggia di fuoco,
noi trovammo ancora il momento di mandare un pensiero ai nostri giovani
amori. Nè io avevo chiesto a lui il nome del suo, nè egli a me il nome
del mio. Ma la morte era librata su noi, e l'immagine della morte diede
coraggio ad Andrea. “Senti, mi disse, se io muoio, taglia una ciocca dei
miei capegli, e portali a lei.„ — “Il suo nome?„ — “Lorenza.„ Tremai e
un sudor freddo mi corse giù per le tempia. — “Lancillotti?„ gli chiesi.
— “Sì, la conosci?„ Chiusi il mio cuore a forza, balbettai qualche
parola, e promisi. Povero amico, egli si era profferto di ricambiarmi il
favore, se io avessi dovuto soccombere. “No, grazie, — risposi, — è
inutile; io amo senza speranza; nessuno piangerà la mia morte.„ Il
destino ci volle salvi; rientrammo in Roma, nella nostra Roma
inutilmente difesa. Il padre di Lorenza, potente presso il Governo
papale, sentiva l'obbligo suo e voleva salvarmi. Gli chiesi di
proteggere anche Andrea, che non avrebbe potuto nè voluto escire da
Roma. L'amico mio indovinò tutto, ponendo piede in quella casa, e udendo
certe parole del vecchio. Quel giorno mi diventò freddo, il mio fratello
d'armi! Non ebbe fede, sospettò allora di me, ed io, che potevo esser
salvo, io, che potevo ottenere quella donna, nè solo per l'assenso del
padre, poichè ella sapeva il debito della famiglia verso di me e
l'avrebbe nobilmente pagato col sacrifizio della sua vita, io me ne
andai esule da Roma, inseguito come una fiera per tutti i dorsi
dell'Apennino, dopo aver chiesto perdono della fuga a quell'uomo, dopo
avergli resa la sua parola e raccomandata la felicità del povero Andrea.
Un mese dopo, abbandonavo la patria; per trent'anni non l'ho più
riveduta, e considerate voi il dolor mio!... non ho più potuto darle il
braccio, valido ancora, nel giorno della riscossa.
— V'intendo! — mormorò la fanciulla, piangente.
— Voi somigliate a quella donna, Gabriella; — riprese il Gonzaga. — Un
senso della bontà sua, della compassione che ella sentì per il mio
sacrifizio, si è trasfuso nel vostro cuore, e vi parla oggi per me. So
che sareste un angiolo consolatore; so che meriterei d'essere amato da
voi, ma dite; posso io amare la figlia di Lorenza, e del medesimo amore
che fu la delizia e il tormento di tutta la mia vita raminga? No,
bambina; voglio coprir la tua fronte di baci, come la copre tuo padre,
quando gli comparisci davanti, ricordandogli tua madre. Ed ho bisogno...
non mi dire di no! ho bisogno di confondere in uno i due amori della mia
vita, Lorenza e Cecilia, tua madre e mia sorella, la custode solitaria
della mia casa distrutta, la mia povera sorella che si è spenta così
lontana da me, invocando il mio nome e lasciandomi il suo unico figlio,
il suo giovane Arrigo. Anch'egli, povero Arrigo!... Non ve l'ho ancor
detto, Gabriella; egli è là, sopra un letto di dolore, e poteva morirmi,
stamane, se il piombo maledetto....
— Che dite? — gridò Gabriella.
— Sì, bambina! Vostro padre, che sento singhiozzare qui, presso a noi,
vostro padre che ha tutto udito e che mi legge nel cuore, vi dirà che
Arrigo ha cancellato con un moto generoso dell'anima, con un impeto di
gioventù, e se volete di gelosia, i difetti che voi vedevate in lui. Non
è freddo, Arrigo, non è calcolatore, nè scettico, poichè non ha dubitato
per l'amor suo di cimentare la vita, questa gran vita, che tanto si
pregia e che val così poco! Gabriella, egli aspetta la vostra sentenza,
e anch'io l'aspetto e la invoco. Amo in voi vostra madre; amate me in
Arrigo. Egli è sangue del mio sangue, e porterà d'ora innanzi il mio
nome. —
Gabriella piangeva, nascondendo il bel viso tra le palme.
— Povero amico! — mormorò ella finalmente.
— Ah, così va detto, bambina! — ripigliò Cesare Gonzaga. — Sono un
povero amico. E presto, se il vostro bel cuore si piegherà al nostro
desiderio, sarò il solitario, l'orso delle Carpinete. Noi, feriti nelle
battaglie della vita, noi naufraghi di una memoranda tempesta in cui
abbiamo perduto tante cose caramente dilette, vedete, dobbiamo esser
soli. Siamo rovine di uomini, e non vivono intorno a noi che memorie. Un
raggio tardo c'illumina qualche volta; ed è riflesso di soli già spenti.



XVIII.

Due mesi dopo.... Ci volete venire, fin là? Ho in animo, come vedete, di
risparmiarvi le noie del racconto, e tutti quei minuti particolari di un
lieto fine, che vanno lasciati alle favole. Due mesi dopo, Arrigo il
Savio era guarito largamente, non pure dalla ferita, ma anche da quella
saviezza precoce, che lo rendeva tanto uggioso alle dame. Il conte
Guidi, poveraccio, con una costola rotta e una palla alloggiata a tempo
indeterminato tra due apofisi della colonna vertebrale, incominciava a
ricogliere il fiato, ma non a scender da letto. Orazio Ceprani, andato
una volta in casa di Arrigo, si era veduto metter sott'occhio tre
lettere che non aveva voluto riconoscere: ma un “vada via!„ proferito
tre volte con fiera progressione di accento da Cesare Gonzaga, i cui
occhi erano lì lì per schizzar fuori dalle orbite, lo aveva fatto
correre come un veltro, e senza voltarsi più indietro. Non va
dimenticato che il signor Orazio portava con sè la consolazione di non
sentirsi più domandare quelle cinquemila lire che sapete; giusto
compenso alla perdita di un'utile amicizia.
E due mesi dopo, il signor Cesare Gonzaga, alzatosi di buon mattino da
letto, sentì che non poteva più reggere alla vita di Roma. Del resto,
non sapeva come occupare il suo tempo, perchè le faccende per cui aveva
fatto il viaggio erano tutte sbrigate.
— Happy, — diss'egli allora al servitore, — farai le mie valigie. Io me
ne andrò questa sera.
— Vuol partire, illustrissimo?
— Sì, ritorno alle mie Carpinete.
— Mi duole! — disse Happy.
— Ti duole! E perchè?
— Perchè.... Scusi, illustrissimo, la familiarità del linguaggio. Ma ci
sono dei momenti.... —
Cesare Gonzaga non gli lasciò il tempo di finir la frase.
— Nella vita degl'individui, come in quella dei popoli; ho capito, va in
fondo.
— Mi ero avvezzato così bene a lei!
— Davvero! Ed io che volevo per l'appunto invitarti a venire con me!
— Dice da senno?
— Non ischerzo mai. Ne avevo anzi già parlato a mio nipote. Tu sei un
giovanotto d'ingegno, Happy, e sai molte cose, molte cose! Il tuo posto
è di segretario; ma non al fianco del cavaliere, intendiamoci bene,
perchè egli non ha più segreti da confidare, nè da lasciar trapelare.
Verrai con me; parleremo di storia antica, di numismatica, e se ti
piace, anche di araldica.
— E si lascierà chiamare marchese?
— Se ciò ti consola, sì. Del resto, avrai anche da tacere su parecchie
coserelle vedute ed udite. Io ti dirò come Filippo II al suo Gomez, o al
suo Perez, che non rammento più bene, tanto si somigliano fra loro: — _A
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