Arrigo il savio - 06

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schiettamente noioso. Nella sua mente, incapace di due contemplazioni,
il pensare ancora ad uno studio così vano come quello del carattere di
un giovanotto già troppo a lungo veduto e non mai cresciuto nella sua
estimazione per grandi fatti, o accenni di magnanime idee, le parve
un'offesa, sì, proprio così, un'offesa a quel nobile uomo, che aveva la
doppia aureola del soldato di Roma e del cavaliere mondiale. Cesare
Gonzaga le arrideva infatti come una luminosa figura d'altri tempi, di
quei tempi che hanno sempre l'obbligo di parere e spesso anche la
fortuna di essere migliori dei nostri. Anche gli antichi Romani erano
fatti così: alle falde del Campidoglio per respingere i Galli e
rovesciare le superbe bilance di Brenno; tra i Persi e i Medi, nel
lontano Oriente, con le aquile infaticabili e coi prodigi del valore
latino.
Il conte Guidi, per altro, non si poteva mandarlo via come il primo
venuto. Quel malinconico cavaliere le aveva dette tante cose leggiadre,
ed ella le aveva già tanto ascoltate, anche senza commuoversi troppo,
che la consuetudine e la cortesia dovevano associarsi a consigliarle un
riguardo particolare di benevola attenzione per lui. Lo ascoltò dunque
ancora, mentre Cesare Gonzaga si allontanava, discorrendo con altri. Ma
il conte Guidi non fu troppo felice, quella volta; anzi, non lo fu
niente affatto. Figuratevi che ebbe il torto d'incominciare così:
— Signorina, ahimè, noi non ci siamo più, questa sera.
— O come? — diss'ella, guardandolo con aria di stupore. — Sarebbe
forse... altrove?
— Eh? — ripigliò il giovanotto. — Un triste presentimento mi dice che
potrei esser cacciato molto lontano.
— Perchè?
— Perchè, — rispose egli, sospirando, — io non sono, come vorrei, un
principe orientale, un personaggio delle _Mille e una notte_, un
Sindbad, un Aladino, un Arun el Rascid.
— Non so chi siano tutti questi signori, perchè non ho letto il libro; —
replicò freddamente Gabriella, che aveva capita l'allusione, — ma mi
pare che ella voglia essere troppe persone ad un tempo. —
Il conte Guidi si accorse di essere andato troppo oltre, e ripigliò
tutto confuso:
— Perdoni, signorina; in questo momento non so più quel che dico. —
Era ancora un bel modo di escire dal ronco; ma per quella volta non gli
valse. Gabriella Manfredi, non avvezza a tanta confidenza di discorso,
si chiuse nella sua severità di dea scorrucciata, e l'imprudente
assalitore levò tosto l'assedio.
Due amici lo presero subito in mezzo, per chiedergli notizie di una
quistione d'onore nella quale egli era mescolato come arbitro. Dovete
sapere che il conte era una specie di Possevino, versatissimo in materia
cavalleresca, padrino nato di tutti i duelli fatti e da farsi. Irritato
com'era in quel punto, avrebbe volentieri parlato di affettar mezzo
mondo e d'infilzare l'altra metà; ma la quistione di quel giorno era
invece finita con un verbale ed una stretta di mano, e perciò il conte
Guidi dovette restringersi a spiegare quel lieto fine, da lui stesso
consigliato, poichè si trattava di due figli di famiglia e a lui non
piaceva d'incorrere nello sdegno delle mamme. Così discorrendo, era
giunto all'ingresso della sala di lettura, dove il conte di Castelbianco
gli si avvicinò e prese parte alla conversazione cavalleresca. Prendeva
parte a tutte le cose dei giovani, il giovane conte Pompeo!
Anche il Manfredi entrava da un altro lato: tirandosi dietro, ahimè,
l'eterno collega, il primo seccatore del regno, che lo aveva una seconda
volta agguantato. Ed altri vennero dopo loro, tra perchè c'era tregua di
danze, e perchè... debbo dirvelo? Veramente mi dispiace un pochino,
poichè si tratta di una cosa brutta, che accade in tutte le feste da
ballo. “Era in quell'ora che volge il disìo„ dei cavalieri più galanti a
piantar lì le dame; quasi altrettante Olimpie sullo scoglio, per
andarsene a dare una sbirciatina alla credenza, o a far crocchio nel
fumatoio. Già, gli uomini saranno sempre uomini, e, quantunque tirati a
pulimento da tanti secoli (si dice da trenta, per gli Europei
meridionali) faranno sempre come i selvaggi loro antenati, e
dimenticheranno le donne qua e là, per starsene a parlamento, occupati a
gestire e gridare. Che gusto ci trovassero gli antichi, e che gusto ci
trovino i moderni selvaggi, sa Iddio. Le dame, allora, consumati a mano
a mano gli ultimi argomenti di conversazione particolare, si avvedono
della mancanza, assoluta o quasi assoluta, del sesso forte; vorrebbero
dolersene, come di una grossa scortesia; ma tra i primi scortesi c'è il
marito, il babbo, il fratello, il cugino; e allora si prende la cosa in
burletta, e si fa, per proposta della dama più allegra, una levata in
massa. Le belle abbandonate vanno attorno per le sale, contente di fare
un po' di chiasso anche loro; e qualcheduna più ardita, penetrando nel
fumatoio, non dubita, ad onta della sua abbigliatura di raso color
crema, o di stoffa argentata, non dubita, dico, di prendere una
spagnoletta e di fumare, non già come un Mongibello, che sarebbe troppo,
ma come un grazioso vulcanetto delle isole Lipari.
— In fondo, hai fatto bene; — diceva il conte di Castelbianco al conte
Guidi. — Erano due ragazzi; e se per caso si facevano male, che strilli!
— Che è stato? Una disgrazia? — chiese il tormentatore di Andrea
Manfredi.
— No, un duello; ma il nostro Guidi, gran cavaliere e mastro di campo,
ha tutto accomodato, con soddisfazione universale.
— Meglio così; bisogna finirla, coi duelli. I Romani....
— Ah, che cervelli esaltati! — esclamò, interrompendo la citazione del
seccatore, la signora Robusti, quella bella che era senza spalle e
voleva farlo sapere.
— Esaltati! — disse il Guidi, inchinandosi con molta galanteria. — E se
lo fossero stati... per la bellezza?
— Allora... non dico più nulla; — rispose la signora, accettando il
complimento per sè, e provando a farcisi rossa.
— Il duello è sempre una pazzia, filosoficamente parlando; — ripigliò il
seccatore. — I Romani non lo conoscevano, e i Romani....
— Che ne pensi tu, Cesare? — chiese il Manfredi al Gonzaga, che stava
zitto, sostenendo le guardate superbe del conte Guidi.
Doveva rispondere il Gonzaga, il re della festa, l'uomo ragguardevole, a
cui l'esilio, i viaggi e le avventure indiane avevano dato come una
velatura di personaggio misterioso. Tutti gli occhi si volsero a lui,
tutti gli orecchi si tesero per udir la risposta.
— Il signore ha invocata la filosofia; — disse il Gonzaga, accennando
con gli occhi e con un breve saluto il collega di Andrea. — In nome
della morale, che è tanta parte della filosofia, il duello si potrebbe
anche chiamare una cattiva azione.
— Proprio, in genere? — disse il Guidi.
— Numero e caso; — rispose il Gonzaga. — È la mia opinione, e,
rispettando l'altrui, dico sinceramente la mia.
— E neanche vorrà tener conto del coraggio che ci vuole, per
commetterla?
— Il coraggio mi piace, ma quando non sia usato malamente, nè a sfogo di
privati rancori, nè a mostra di vanità.
— Il giudizio è molto severo; — notò il Guidi, con amarezza. — E la
guerra? Che altro è la guerra, se non lo sfogo e la mostra di una somma
di rancori e di vanità?
— Ella, mi perdoni, rimpicciolisce la guerra; — rispose imperturbato il
Gonzaga. — Non c'è più vanità, nè rancori, quando si combatte per
l'onore del proprio paese e per il trionfo di una nobile causa.
— Ah, perdonami, zio! — entrò a dire il Valenti. — M'inscrivo per parlar
contro la guerra. È un controsenso, che il progresso ha oramai
condannato; senza contare che le industrie ne soffrono.
— Che argomenti, cavaliere! — esclamò la signora Robusti.
— Ma sai, Arrigo, — disse a sua volta il conte Pompeo, — che tu affoghi
nella prosa? Ti farai odiar dalle dame, che sono già in molte a
sentirti.
— Ah, sì, — rispose Arrigo, spronato anzi che rattenuto da quel mezzo
rimprovero, — un tempo... era assai poetica, la guerra. In primo luogo
la partenza, con la sciarpa trapunta, e i colori della dama sul cimiero;
da ultimo, il ritorno, con un occhio di meno.
— Ma anche con un occhio di meno!... — esclamò la baronessa di
Gleisenthal, quella che, a detta del conte di Castelbianco, avrebbe
oramai dovuto smettere.
— Ah, sì! — pensò Orazio Ceprani, che stava in un angolo, ascoltando. —
Per quella lì bisognerebbe averli perduti tutti e due.
— E lei, marchese, — entrò a dire la bella Carini, — è mai stato alla
guerra?
— Sì, signora, — rispose il Gonzaga, — ed ho fortunatamente salvato gli
occhi... per ammirar la bellezza. —
Non si poteva esser più galanti. Le parole del Gonzaga destarono un
bisbiglio di approvazione, e la bella Carini si fece rossa davvero.
Il conte Guidi, che era messo di punto in bianco da parte, il conte
Guidi, che aveva veduto comparire Gabriella in compagnia della contessa
Giovanna, e che a lei aveva veduto andare, insieme col complimento, lo
sguardo di Cesare Gonzaga, il conte Guidi perdette la tramontana
senz'altro.
— Ed ottenerne il premio! — soggiunse egli, con la sua solita amarezza.
— Chi sa? Fors'anche; — replicò il Gonzaga, sorridendo ironicamente e
rizzando con piglio altero la testa.
Qui proprio avvenne che il conte Guidi non ci vedesse più lume.
— Ma questo sia detto, — riprese egli, imbrogliandosi nel giuoco
dell'avversario, — per le guerre in cui si difende l'onore del proprio
paese....
— Avanti, avanti! — ebbe l'aria di dirgli col gesto il Gonzaga.
— Sì, queste, — continuò il Guidi, — e le altre che si combattono, come
diceva lei, per una nobile causa, e giusta, aggiungo io, son quelle che
fruttano il premio.
— Correggo quel “giusta„; — rispose il Gonzaga. — Non s'intendono cause
nobili, se non sono intimamente giuste. La nobiltà è la bellezza
estrinseca della giustizia. Ma chi le dice che le cause per cui io posso
aver combattuto non fossero giuste? —
Così dicendo, il Gonzaga aveva l'aria di soggiungere dentro di sè: — Ci
sei, bel figurino, non mi scappi più.
— Ma... — replicò il Guidi, oramai trascinato a tutta corsa, come un
povero cavaliere staffato. — Perchè in India, dov'ella è stata
trent'anni, come ho sentito dire, non erano che guerre d'aggressione e
di spogliazione.
— Che ne sa lei? Dato il fatto delle razze sovrapposte dopo la conquista
maomettana, potevano anche esser guerre per la liberazione degli
oppressi.
— Sì, che facevano guerre d'imboscate, guerre di coltelli!...
— E anche di lame più lunghe, signor conte; — ribattè il Gonzaga,
avanzandosi verso il suo interlocutore e fissandolo negli occhi, mentre
con l'accento pacato, quasi dolce, pareva volesse dire la cosa più
naturale del mondo. — Potrei fargliene conoscere la misura... poichè ne
ho portata una bella e interessantissima collezione con me.
— Vedrò volentieri; — rispose, sorridendo a denti stretti, quell'altro.
Queste cose erano state dette rapidamente, a mezza voce, col sorriso
sulle labbra. Gli stessi vicini, a cui era parso che i due interlocutori
si dovessero riscaldare fino a staccare i bollori, videro con piacere
che la quistione finiva in una risata. La contessa Giovanna, rimasta
lontana dal crocchio degli uomini, in compagnia di Gabriella e delle
altre dame che si erano riaccostate a lei, alzò la voce per dire:
— Ma, signori, parlino almeno più alto, che noi lontane possiamo udire e
giudicare, come le dame degli antichi tornei. —
I cavalieri si tirarono da banda, per allargare il cerchio: e Cesare
Gonzaga rispose:
— Bella dama, non eravamo ancora in giostra. Il signor conte Guidi mi
chiedeva notizie dell'India e delle guerre di laggiù. Che guerre,
contessa! Da un lato la conquista, ma con la civiltà; dall'altra il
diritto, ossia una specie di diritto acquisito, ma con la barbarie per
giunta. Quistioni complesse, e perciò guerre brutte; — conchiuse il
Gonzaga, — ma come son brutte tante altre guerre in Europa, che il
signor conte Guidi ha ben definite, guerre di rancori e di vanità.
Belle, quantunque infelici, le nostre, mio caro Andrea, quando
combattevamo, l'uno a fianco dell'altro, per il diritto dell'Italia e di
Roma! La fortuna non ci sorrise; nemici stranieri e nemici domestici
congiurati strinsero ancora una volta le catene ai polsi della patria, e
noi, rincorsi come fiere, abbiamo dovuto disperderci sulla faccia della
terra. Onore a chi ci ha vendicati, risollevando il nostro vessillo;
onore a chi sostiene il diritto e la maestà della patria risorta! Anche
noi, se non sarà troppo tardi, anche noi, quando la bellica tromba... la
rammenti, Andrea, la bellica tromba cantata da Gabriele Rossetti?...
Anche noi, quando la bellica tromba chiamasse un'altra volta alle armi i
figli d'Italia, proveremmo un gusto matto a rifarci la mano, a rivivere
un'ora di gioventù!...
— Il tempo di questi sacrifizi è passato; — sentenziò Arrigo Valenti. —
Paghiamo già tanto, per le nostre difese! Duecento venticinque milioni,
e qualche cosa di più, ci assorbe ogni anno il bilancio della guerra;
cinquanta, o poco meno, il bilancio della marina.
— Finiscila, computista! — disse il Gonzaga, prendendo a braccetto il
nipote e tirandolo fuori, con atto di paterna autorità.
E sottovoce, aggiunse, poichè si fu allontanato dal crocchio:
— Le tue cifre ti guasteranno con Gabriella. Pensa piuttosto a farmi da
padrino.
— Oh, diamine! — disse Arrigo, fissando gli occhi nel volto dello zio. —
Dici da senno?
— Sicuro; o lui manda a me, o io mando a lui. Signor Ceprani, —
soggiunse, vedendo quell'altro, che si accostava, — vorreste servirmi in
una faccenda che vi dirà mio nipote?
— Marchese, son cosa vostra, da ieri mattina.
— Non parliamo di queste piccolezze, e mettetevi d'accordo con Arrigo. —
La contessa Giovanna pensò che fosse tempo di condurre i suoi convitati
alla credenza.
— Gonzaga, — diss'ella, avvicinandosi, — ella mi offrirà il braccio. Si
va all'assalto della cena.
— Volentieri, contessa; — rispose il Gonzaga, mettendosi tosto a' suoi
ordini, ma non senza aver dato un'occhiata di intelligenza a quei due.
E sorridente si avviò, con la contessa Giovanna al braccio, verso la
sala della credenza.
Il conte Guidi non fu così pronto nelle sue ricerche cavalleresche, e
perdette una stupenda occasione di offrire il braccio a Gabriella. Il
fortunato fu presso di lei il loquace collega di suo padre, quello degli
antichi Romani, non potuti smaltire.
Pochi minuti dopo, due amici del conte Guidi, il baroncino di
Gleisenthal e un duchino di Roccastillosa, si accostarono con molta
circospezione ad Arrigo Valenti e gli dissero:
— Cavaliere, siamo stati incaricati dal conte Guidi di una commissione
poco lieta, ma necessaria, presso vostro zio, il marchese Gonzaga. E voi
probabilmente....
— Sì, ho capito; — rispose Arrigo con aria infastidita. — Son io
l'incaricato di mio zio; e Orazio Ceprani, qui presente, è il mio
collega. Domani, cioè quest'oggi, perchè oramai siamo al tocco, ci
vedremo dove e quando vorrete.
— Al caffè di Venezia, verso lo tre, vi fa comodo?
— Ottimamente.
— E chi arriva primo, aspetta: non ci metteremo mica troppa furia, con
una notte perduta?
— Benissimo, chi arriverà primo aspetterà. Ed ora, non ci facciamo
vedere a conciliabolo.
— È giusto; queste cose non si hanno a sapere. Anzi, diciamo pure, che
non è avvenuto nulla.
— Nulla di nulla, è naturale; — disse Arrigo, salutando.
Rimasto solo con Orazio Ceprani, Arrigo diede la stura al suo malumore.
— Ma lo capisci, mio zio!
— Già, parla contro il duello, e se ne procaccia subito uno.
— E così, in un giorno solo, due pazzìe!
— Questa, la capisco; — disse il Ceprani; ma l'altra?
— L'altra! — ripetè Arrigo, guardando il compagno. — Mi domandi l'altra,
tu? L'altra... la so io.


IX.

Un colloquio di quattro persone incaricate di risolvere una quistione
d'onore, di stabilire il grado delle offese e le condizioni d'uno
scontro, è sempre un argomento degno di studio, non solamente perchè c'è
di mezzo la vita di un uomo, o di due, ma anche perchè ci si conosce,
meglio che in ogni altra circostanza, il vero carattere di quelle
quattro persone: le quali, insieme col così detto punto d'onore, mandano
spesso avanti il loro medesimo puntiglio. Ma io suppongo i miei lettori
abbastanza istruiti di queste miserie umane, e vado ad aspettar l'esito
dei negoziati cavallereschi accanto al signor Cesare Gonzaga, uomo con
cui si sta molto bene. perchè, viva l'anima sua, è vissuto a lungo tra i
barbari.
Non crediate che io voglia rifarvi la tesi di Gian Giacomo Rousseau
contro la civiltà e in favore dello stato selvaggio, tesi che ha pure il
suo lato buono, poichè tra i selvaggi e tra i barbari, loro stretti
congiunti, non si vive poi tanto male, come generalmente si crede.
“Tutto sta nell'adattarsi alla cucina„ mi diceva a questo proposito un
gran viaggiatore, amicissimo mio. Vedete dunque che si tratta di un
piccolo guaio, a cui rimedia oramai facilmente il signor Cirio, con le
sue brave conserve alimentari. Del resto, lasciando la cucina da parte,
io ho sempre pensato che un uomo incivilito guadagni due tanti a vivere
un po' di tempo tra i barbari. In primo luogo, ci ha il vantaggio non
lieve di sfuggire per tutto quel tempo la società degli uomini
inciviliti; secondariamente egli si spoglia colà di molti pregiudizi,
scioccherie, invidie, rancori, vanità puerili ed altre somiglianti
piccolezze, che qui rendono la vita infelice ai mortali: e poi, quando
ritorna finalmente a casa, si sente per un pezzo più franco, più sano,
più semplice, più forte, resistente agli attriti, inattaccabile, per
dirla sì e no chimicamente, dagli acidi.
Il nostro semplice e forte uomo era in casa del nipote, dove quella
stessa mattina aveva fatto trasportare le sue valigie, allogandosi in
quella parte del quartiere, che guardava sulla via Sallustiana.
— Sarà per questi pochi giorni il mio nido; — aveva detto egli,
occupandola. — Tanto, non ci ha più da venire nessuno in conferenza, non
è vero?
— Sicuramente; — aveva risposto Arrigo; e mi rendi anche un servizio,
liberandomi....
— Zitto lì; questo, poi, non lo voglio sentire da te; — gridò Cesare
Gonzaga. — Si può cambiar d'umore, ma non si deve mancar mai di rispetto
alla memoria di una donna, a cui si è detto un giorno che era un angelo.
Hai capito? Non voglio di queste... che dovrei chiamare birbanterie, se
non sapessi che sono smargiassate. —
Arrigo aveva masticata male la lezione; ma chi la dava era suo zio, ed
egli dovette mandarla giù in santa pace. Pochi minuti dopo egli esciva,
per andare con Orazio Ceprani al caffè di Venezia.
Come si trovasse il Ceprani a far da padrino in quella quistione di
Cesare Gonzaga, avete veduto poc'anzi. Forse, dopo certi discorsi da lui
fatti al conte Guidi, il signor Ceprani avrebbe dovuto, per la decenza
almeno, tirarsi in disparte. Ma questo e tutto il resto degli atti di
Orazio Ceprani è affar suo; e noi lo lasceremo con la mala compagnia
della sua propria coscienza.
Cesare Gonzaga, dopo aver messe in ordine tutte le cose sue nel nuovo
domicilio, si pose a tavolino per scrivere una lettera al suo fattore.
Capiva che avrebbe dovuto fermarsi a Roma più giorni che non fosse a
tutta prima risoluto di restare, e provvedeva con le sue istruzioni a
parecchi lavori che aveva lasciati sospesi. Quanto al duello, non ci
pensava neppure. La cattiva azione (perchè infatti la credeva tale) gli
aveva dato da principio un pochino di noia: ma oramai s'era imbarcato e
non guardava più a terra. Il fatto, poi, considerato nella sua sostanza,
non aveva nulla di piacevole nè di dispiacevole per un vecchio soldato
come lui; diremo anzi che egli lo metteva in quel certo numero di cose
sciocche o bestiali, che gli uomini di buon senso fanno qualche volta
per conformarsi alle usanze del mondo, ed anche semplicemente per mo' di
esperienza, _comme étude_. Egli aveva conosciuto anni prima un vecchio e
strano olandese, che, sotto la coperta di questa frase burlesca, faceva
passare ogni maniera di pazzie. _Comme étude!_
Ora, mentre egli stava chiudendo la lettera, venne Happy, in punta di
piedi e con aria misteriosa, a dargli un annunzio.
— Illustrissimo, sente? Hanno bussato.... di là.
— Ebbene? E tu apri.
— Scusi; il cavaliere non c'è; favorisca di andar lei. Da quella parte,
a certe ore del giorno, io non ardisco.
— Caspita! Sei discreto. Sarà poi qualche mendicante... magari uno
spazzaturaio.
— Tutte persone che conoscono la scala, e a quell'uscio non bussano più
da un pezzo; — rispose il furbo servitore.
— Ho capito; — borbottò Cesare Gonzaga, — sarà il personaggio delle
conferenze. Va pure per i fatti tuoi; aprirò io. —
E andò, aperse l'uscio, e si vide davanti la contessa Giovanna.
Ella era tanto turbata, che non badò punto a ciò che quell'uomo avrebbe
potuto pensare di lei, nè al bisogno di giustificare con un pretesto la
sua presenza colà. Infine, se anco ci avesse pensato, non era egli lo
zio di Arrigo, ed anche e soprattutto un uomo d'onore?
— Lei, contessa? — esclamò invece il Gonzaga, credendo necessario di
manifestare un tantino di maraviglia.
Giovanna chinò la testa, balbettando poche parole confuse.
— Si calmi, ed entri, la prego. Dio come arde! Si sente male? —
diss'egli, che aveva dovuto prenderla per la mano.
— Dica, per carità, non mi nasconda nulla; — mormorò la bella smarrita.
— C'è un duello? Non mi risponde? La supplico, signor Cesare, non mi
faccia morire di ansietà. Arrigo si batte?
— E chi gliel'ha detto?
— Mio marito, stamane... due ore fa. Ed io, appena ho potuto, son corsa.
— Che imprudenza! Ma come può aver detto il conte una cosa che non è
vera, o che, se è vera, non riguarda punto mio nipote?
— Come? non si tratta di lui?
— No. C'è un duello in aria... forse nulla; — soggiunse il Gonzaga, che
la vedeva sempre turbata, — e tutto potrà accomodarsi. Ad ogni modo,
Arrigo non è che padrino. Ma, le ripeto, chi può aver data al conte una
falsa notizia, mentre, essendo rimasto tutto fra quattro persone
d'onore, non c'era tempo nè modo di conoscer la vera?
— Che so io? Deve averlo letto in una lettera, ricevuta dopo colazione.
— Anche una lettera! — esclamò egli stupito.
— Sì, e che lo ha messo molto in pensiero, tanto che io volevo
sapere.... Da ieri vivo in mezzo a continui terrori, e c'è voluta una
gran forza, che io non avrei più creduto di possedere, per trascinarmi
fin qua. Infine, signor Cesare, egli non ha neanche risposto alla mia
curiosità, certamente indiscreta. Pochi minuti dopo, fatti molti passi
avanti e indietro per la stanza, mi ha detto: Arrigo Valenti quest'oggi
ha un duello; me ne rincresce davvero. Son queste, lo ricordo, le sue
precise parole. La notizia era dunque nella lettera.
— Notizia falsa, data per lettera! — borbottò il Gonzaga. — E veniva
dalla posta, la lettera?
— Non so. Era con quelle della posta; ma poteva anche essere stata
lasciata al portiere, che la mandò con le altre.
— Notizia falsa, — ripetè il Gonzaga, meditando, — data per lettera, a
quell'ora!... E la lettera, forse, sarà anche anonima.
— Dio! — gridò Giovanna, rabbrividendo. — Sono dunque perduta? —
E si nascose il volto tra le palme, poichè allora soltanto pensava alla
condizione in cui si era posta davanti a quell'uomo.
— Contessa, — disse allora il Gonzaga, — non farò il moralista, io, nè a
quest'ora. Sia sincera con me, che desidero giovarle. Come ha potuto
fidarsi di venire anche oggi? Non temeva di essere spiata?
— Sì, e ne temo ancora. Ma dopo quella notizia, non so come, ho perduta
la testa. Non son più io, signor Cesare; non mi riconosco più. E
ieri.... Dio mio!... ieri avevo creduto di venire per l'ultima volta!...
— Si calmi, si calmi, e vediamo di provvedere al caso suo; — disse il
Gonzaga. — Parleremo poi, povera donna, dei giuramenti e delle nobili
intenzioni! Come ha potuto, ripeto, fidarsi di venire... in via
Sallustiana?
— Al pian di sopra, — balbettò Giovanna, abbassando gli occhi, — è
venuta ad abitare una _madame Duplessis_, mercantessa di mode. Sono anzi
salita poc'anzi, con un pretesto, da lei.
— C'è stata anche ieri?
— Sì.
— Ed ha corso rischio di essere scoperta; — soggiunse il Gonzaga. —
Ieri, il conte ha fatto qui, mezz'ora dopo la sua partenza, un certo
discorso!... Ma non ci perdiamo in chiacchiere inutili. Qui bisogna
provvedere.
— Come?
— L'uscio per cui ella è entrata, non deve più mettere al quartiere di
mio nipote. Questo è l'essenziale. Che donna è la signora Duplessis?
Giovane? Vecchia?
— Giovane, ed anche bella abbastanza. È una francese, come le dice il
cognome.
— Bella e francese? È sicuramente una donna di spirito; — disse il
Gonzaga. — Mi faccia il favore di restar qui una quindicina di minuti.
— Dove va?
— Ho da sbrigare una piccola faccenda. Non tema di nulla, per ora. Da
questa parte non si apre a nessuno, e ad ogni modo in questa camera
nessuno entrerà. Lasci fare a me. Quella lettera, certamente anonima, mi
dà molto da pensare. Ma sono un vecchio soldato ed ho imparata la guerra
delle imboscate. Astuzia per astuzia, ed agguato per agguato. —
Escito a furia, senza voler rispondere alle domande di Giovanna, il
Gonzaga richiuse l'uscio della camera, diede la consegna ad Happy e salì
sveltamente al piano di sopra. Quindici minuti passarono, quindici
minuti di ansietà per la contessa; ma dopo quei quindici minuti,
puntuale come aveva promesso, il vecchio gentiluomo, l'esperto soldato,
era di ritorno nella camera.
— Ebbene? — diss'ella, andandogli incontro a mani giunte.
— È fatto il più importante, e si sta facendo il resto.
— Ma che cosa, signor Cesare?
— Ho vergogna, a parlarle di sciocchezze, in questi momenti. Ma poichè
ella vuol saper tutto... le dirò che parecchie scatole scendono dal
piano di sopra. Le due prime le ho portate io stesso. _Madame Duplessis_
è quaggiù, ed Happy, con due bullettine, sta piantando sull'uscio il
biglietto di visita della gentile mercantessa francese.
— Come è riescito?
— Dicendo poche parole, come venivano dal cuore. È una donna di spirito,
ed ha capito subito; ha posto mano alle prime scatole ed è discesa.
L'idea di mettere il biglietto di visita sull'uscio è sua. A me, lì per
lì, non era venuta; ed è un lampo di genio! Ella dirà, se occorre, che
abita qui da un mese, e che occupa i due quartierini, del secondo piano
e del terzo. Avevo accennato, discretamente, a fare il mio dovere con
lei; ma non ha voluto lasciarmi proseguire. “Questo è un servizio molto
grande, e non ha prezzo„ mi rispose ella argutamente; “vi rivolgerete a
me per l'abbigliatura di nozze, ecco tutto.„ Perchè, debbo confessarle
una mia bugia, signora contessa, — soggiunse il Gonzaga. — Era
necessario darle una spiegazione del fatto, ed io, non trovando niente
di meglio, ho accennato confusamente ad una gelosia di donne, e al mio
desiderio di sposar quella a cui la pregavo di render servizio,
scendendo al secondo piano con una parte delle sue mercanzie. Mi
perdona?
— Ottimo signor Cesare! E suo nipote che dirà?
— Che è stato un solenne imprudente, e che io dovevo esser savio per
lui. Adesso, signora mia, siamo salvi contro ogni imboscata possibile.
Venga da _madame Duplessis_; concerteremo con lei il modo di farla
escire.
— Ma... — disse la contessa, che incominciava a sentirsi più raffidata.
— Credeva ella proprio che qualcheduno potesse venire da questa
parte?... Al più, mettersi in agguato per via....
— Temo tutto, io; — rispose il Gonzaga. — E poi, chi provvede al più, ha
provveduto al meno. —
In quel mentre, si udì una forte scampanellata. Giovanna ne tremò tutta.
— Niente paura; — disse il Gonzaga. — Se suonano di qua, c'è madama
Duplessis, con la sua cameriera. Se suonano di là, c'è Happy. —
Ciò detto, andò in ascolto dietro all'uscio della camera. Poco dopo
giungeva Happy, per dirgli:
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