Arrigo il savio - 01

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ARRIGO IL SAVIO

RACCONTO
DI
ANTON GIULIO BARRILI

SECONDA EDIZIONE

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1886.


PROPRIETÀ LETTERARIA
RISERVATI TUTTI I DIRITTI.
Tip. Fratelli Treves.


ARRIGO IL SAVIO


I.

L'ultimo giorno di gennaio dell'anno 1882, un signore, alto della
persona, dal volto abbronzato e dai baffi grigi, scendeva di carrozza,
sulle prime ore del mattino, come a dire fra le otto e le nove, davanti
ad un portone della via Nazionale, in Roma. Aveva l'aria assai nobile,
era vestito con severa eleganza e andava diritto, con soldatesca balìa,
come un colonnello in abito cittadino, che sotto le spoglie inusitate
lascia indovinare i suoi trent'anni di spallini. Entrato nell'androne, e
osservata non senza stupore la magnificenza delle scale, ascese al
secondo piano, dove era scritto, su d'una piastra di porcellana, “_Cav.
Arrigo Valenti._„
— Cavaliere! — esclamò il signore dai baffi grigi. — O che diavolo ha
fatto il mio signor nipote, per esser nominato cavaliere? Dei debiti,
m'immagino. E saranno certamente assai più di quelli che mi aveva
lasciati sospettare la sua lettera ad uno zio che non ha mai visto nè
conosciuto. Ahimè! Prevedo, — conchiuse egli, sospirando, — che pagherò
anche questa bella piastra di porcellana del Ginori. —
Tirò allora la maniglia del campanello, e un minuto dopo fu aperto
l'uscio da un servitore in mezza livrea.
— Chi cerca? — domandò questi.
— Il signor Arrigo Valenti.
— Il cavaliere, — ripigliò il servitore, battendo sul titolo, — non
riceve ancora.
— Ah, mi rincresce. Sono arrivato stamane col treno delle sette, e
credevo....
— Se il signore vuol lasciar detto il suo nome....
— Volentieri; ecco qua. —
Così dicendo, il signore dai baffi grigi aveva cavato di tasca il
portafogli, per prendere un biglietto di visita. Ma ci aveva troppi
biglietti di banca: e quelli di visita, o erano affogati nel mucchio dei
loro più degni fratelli, o erano stati dimenticati a casa.
— Bene! — esclamò il signore, facendo un atto di rassegnazione, dopo due
o tre d'impazienza. — Non ne trovo. Dite al vostro padrone che è passato
a cercarlo Cesare Gonzaga. —
Il servitore sgranò tanto d'occhi, a mala pena ebbe udito quel nome, e
s'inchinò per modo da far credere che volesse piegarsi in due.
— Perdoni, Eccellenza!... Si dia la pena d'entrare! —
Il signore sorrise sotto i baffi grigi ed entrò. Quell'altro, richiuso
prontamente l'uscio, corse a sollevare il lembo di una portiera in fondo
all'anticamera.
— Per di qua, signor marchese, per di qua! — diceva egli, frattanto,
inchinandosi da capo. — Questo è lo studio del padrone.
— Marchese! — brontolò il vecchio signore. — Per chi mi hai preso?
— Scusi, illustrissimo! Non è lei lo zio del cavaliere Valenti?
— Suo zio, certamente.
— O allora?
— Allora saprai, — disse gravemente il vecchio signore, — che si può
essere zii, senza essere marchesi.
— Ah, ah, sicuro! — rispose il servitore, facendo bocca da ridere. — Ma
egli è che i Gonzaga... scusi, illustrissimo! I Gonzaga sono... i
Gonzaga, e portano d'oro con tre fasce di nero. —
Il vecchio guardò con atto di stupore quel servo, che gli blasonava con
tanta sicurezza lo scudo.
— Come? — disse poi; — saresti un dilettante di araldica?
— Che vuole, illustrissimo! — replicò umilmente quell'altro. — Servendo
i gran signori, ci si piglia anche un'infarinatura di quest'arte.
— Di bene in meglio! Sentimi dunque. Hai tu veduto mai uno stemma come
questo: cuor d'oro in campo d'argento?
— Ella scherza, illustrissimo. Non si può metter mica metallo sopra
metallo.
— Neanche in tasca?
— Oh, questo poi sì.
— Ottimamente; vedo che la sai lunga, giovinotto! Ma il tuo padrone....
— Vado ad annunziarla subito. Vuol essere contento il cavaliere, quando
saprà che è arrivato suo zio. Da tre giorni l'aspetta con impazienza.
— Eh, lo credo; va dunque. —
Il servitore si avviò sollecito, con una gran voglia di fregarsi le
mani.
— Ecco uno strano capriccio; — pensava egli. — Non vuole esser chiamato
marchese. Capisco che potrebbe pretendere il titolo di duca. Ma infine,
certi nomi storici hanno il titolo sottinteso. —
Fatta questa peregrina scoperta, il signor Happy (pronunziate _Hèppi_)
si allontanò dallo studio. Rimasto solo, il signor Cesare Gonzaga, non
marchese, nè duca, si avvicinò alla finestra, tanto per fare qualche
cosa, aspettando.
— Chi conosce più Roma, specie da queste parti? — mormorò egli,
guardando la strada.
— Trentatrè anni! Ah, come passa il tempo, quando i più belli anni sono
sfumati! Ma che cosa è la vita? Le falde, i primi passi, i primi
giuochi, le panche del collegio... poi l'università, un paio di duelli,
quattro amori bugiardi e uno che si vorrebbe creder vero... qualche
follìa, molti disinganni, molte amarezze... e allora una forte
risoluzione! Nessuna via di mezzo; o il nuovo mondo, o l'antico; o
l'America, o l'Asia. E là il lavoro, il febbrile lavoro, gli stenti, le
privazioni, e qualche volta la fortuna, che un altro c'inghiottirà, come
noi abbiamo inghiottita quella dei padri! Ecco la mia vita. Ed ecco,
meno l'Asia e l'America, la vita del mio signor nipote; già l'ho
indovinato dal gran desiderio ch'egli ha di vedermi. Avevo giurato di
non rimetter piede in Roma, ed eccomi qua. Bei giuramenti! Ma come fare,
con questo ragazzo che prega, invocando la memoria di sua madre, della
mia povera sorella, che non dovevo più rivedere? Di certo le somiglia,
perchè i maschi tengono sempre della madre. Poveraccio! Purchè non le
abbia fatte troppo grosse! Qui, per altro, c'è lusso; ci si sente
agiatezza. Chi sa? Forse è un quartiere d'affitto. E ci hanno messa
anche la cassa forte. —
Il savio lettore avrà capito che Cesare Gonzaga si era già allontanato
dal vano della finestra, per dare una scorsa in giro e una guardata allo
studio del suo caro e sconosciuto nipote.
— Arnese di parata, la cassa forte! — borbottò egli, proseguendo. — Gli
strozzini le conoscevano, ai tempi miei, queste alzate d'ingegno degli
studenti di legge. Ma il mio signor nipote non è più studente; ha la sua
laurea da due anni, da tre... che so io? Gran legista! Grande
giureconsulto, ha da essere! Ci fosse almeno la libreria, per dar negli
occhi ai clienti! Ah, ecco un volume sulla scrivania. È il codice di
commercio; meno male! Ma se valesse dugento lire, come certi libri rari,
sarebbe ancor qui? —
Come vedete, il signor Cesare Gonzaga non si lasciava confondere da
tutta quella apparenza di lusso severo, e ci odorava il quartiere
ammobiliato, e il conto da pagare ad un troppo credulo fornitore;
fors'anco a più d'uno.
Le sue malinconiche osservazioni furono interrotte dal ritorno del
servitore.
— Or bene? — gli chiese.
— Mi duole, illustrissimo....
— Dorme, ho capito; — ripigliò il signor Cesare. — Infatti, sono appena
le nove del mattino. Che ora è questa mai, da venire in cerca di un
nipote?
— O che, le pare? S'è alzato anzi per tempo e, se non fosse stato un
certo negozio, sarebbe anche già andato a fare la sua solita trottata
mattutina fuori di porta Pia.
— Anche il cavallo pagheremo; — pensò lo zio, sospirando. — Purchè non
sia bolso, come certi cavalli che appoggiavano a noi! Ma allora, —
soggiunse ad alta voce, — che cos'è che lo trattiene? —
Il servitore nicchiava un pochettino, ma sorrideva anche, mostrando
negli occhi maliziosi il desiderio di farsi cavare i segreti di bocca.
— Veda, non so se debbo dire.... Infine, non ho neanche potuto giungere
fino a lui, perchè l'uscio di comunicazione è chiuso.
— Comunicazione! con che!
— Ecco, — ripigliò il servitore con aria di mistero, — con lei, che è
suo zio, si può dire. Dev'essere... in conferenza.
— Già, capisco, con qualche pezzo grosso, un avvocato, un collega....
— Non so, perchè, da un pezzo che viene, io non l'ho mai veduto.
— Non gli apri tu?
— No, mai; l'uscio che mette dall'altra parte, in via Sallustiana, lo
apre il signor cavaliere. —
Il vecchio stette alquanto sovra pensiero; quindi osservò con molto
giudizio:
— La scienza è arcana, ed ama nascondersi. Aggiungi che alle persone di
riguardo certe attenzioni bisogna usarle. Come ti chiami?
— Happy, secondo l'uso di casa; Felice, secondo il registro battesimale
della Mirandola.
— Concittadino del tuo padrone, dunque!
— Sì, illustrissimo, e ci siamo conosciuti, dirò così, da bambini.
— Ah, meglio così! Tu devi amarlo molto, e conoscerlo... egualmente.
Senti, Happy Felice, tu mi sembri un giovanotto d'ingegno svegliato.
— Se ella lo dice....
— I fatti lo dimostrano; la patria lo vuole; dovresti chiamarti Pico,
senz'altro. Ho già avuto un saggio delle tue cognizioni in araldica. Il
metallo che non si può mettere sopra un altro metallo.... A proposito,
scommetto che ti piacciono i marenghi. —
E il vecchio Gonzaga avvicinava, così dicendo, il pollice e l'indice
della mano destra al taschino della sottoveste, secondo la buona usanza
degli antichi.
— Scommetta pure, illustrissimo; — rispose Pico della Mirandola. —
Guadagna di certo; specialmente adesso.
— Perchè adesso?
— Eh, si figuri! C'è l'aggio sull'oro. Stamane il listino porta
novantaquattro centesimi, con tendenza spiccata a salire, essendoci
molta domanda per i pagamenti all'estero.
— Tu sai di cambio come d'araldica; — gridò il vecchio, ammirato. —
Bravo! Vedi questo, se gli è di peso.
— E di pregio, caspita! — rispose Happy, dopo avere osservato il marengo
che gli aveva offerto così liberalmente il Gonzaga. — Conio del 1849,
con l'Italia libera sull'esergo; questi si vendono cari per le raccolte.
— E di numismatica come di cambio! — esclamò il Gonzaga, ridendo. — Ma
già, che cos'è il cambio? Numismatica applicata al contante. Suvvia,
arca di scienza, io ti ho aperto; — proseguì, mettendosi a sedere; —
parla dunque, ti ascolto.
— Di che cosa debbo parlare, illustrissimo?
— Di tutto quello che sai. Sono lo zio, una specie di zio d'America,
quantunque venuto dall'Asia, e posso, e devo, e voglio sapere ogni cosa.
Il tuo padrone è in conferenza; ne avrà ancora per un pezzo; occupiamo
dunque il tempo a parlare di lui. Come vive mio nipote?
— Bene. — rispose il servitore.
— Ma, dico a te che lo conosci da bambino, ha debiti? —
Happy fece un gesto di meraviglia, e, se volete, anche di orrore.
— Debiti, il mio padrone? Ohibò! Queste cose si lasciano ai figli di
famiglia.
— Ah! tu dici?... Ma sai che mi levi un gran peso dallo stomaco? Sul
serio, non ha debiti?
— Neanche per sogno. E chi ha potuto darle ad intendere una simile
sciocch... Oh, scusi, illustrissimo!
— Dilla, dilla intiera; — replicò il vecchio giubilante. — E prendi
quest'altro, in ricompensa della tua buona notizia. È un Luigi XVIII;
servirà per la raccolta. Non ha debiti, dunque? Ma sai che è una
maraviglia?... —
Il servitore si strinse nelle spalle, dopo avere intascato
religiosamente la seconda moneta.
— Ma che debiti! — esclamò. — Roba d'un secolo fa. Chi è che fa debiti,
ora? Il mio padrone ha crediti, e molti; oserei dire fin troppi. —
Il Gonzaga fu per mettere la terza volta le mani al taschino, ma si
trattenne, per non dare nella caricatura,
— Con le tue buone notizie tu saresti capace di rovinarmi, — rispose. —
Dunque gli è un Creso?
— Eh, — disse il servitore, — se lo intende per ricco sfondato, metta
pure.
— E che fortuna gli fai? sentiamo.
— Così su due piedi, non saprei.
— Prendi una sedia; non far complimenti.
— Oh illustrissimo, le pare? Dicevo così per dire. Ma infine, calcolando
alla grossa, se sa liquidare a tempo, ha già un milione e mezzo, come è
certo che io ho, per grazia di Vossignoria, quarantuna lira e ottantotto
centesimi. —
Il signor Gonzaga non istette a fare i conti sull'aggio dell'oro.
All'annunzio del milione e mezzo aveva già dato un balzo sulla poltrona.
— Hai detto? — gridò, ficcando gli occhi addosso al servitore. — E se
non sa liquidare?
— Oh, non c'è questo pericolo, perchè il cavaliere conosce molto bene i
suoi interessi. Ma posto il caso....
— Sì, poniamo il caso; — disse il Gonzaga, che prendeva gusto alla
conversazione.
— Gli rimarrebbero sempre ottocento o che mila lire; — ripigliò il
servitore segretario. — Ecco qua: centomila lire di rendita, comperata a
ottantasei, rivenduta a novanta; veda un po' che affar d'oro.
Ventiquattro azioni della Banca; le aveva a duemila, e sono ora a
duemila trecento sedici. Buon titolo, perbacco; e crescerà, non dubiti,
crescerà. La Banca sostiene lo Stato; lo Stato sostiene la Banca. E il
Credito mobiliare? Il mio padrone è uno dei pochi che hanno creduto in
tempo, e potrei dire che ha fiutata l'aria. Ha comperato ducento azioni
a ottocento, ha rivenduto a novecento trentasei; ricavo netto... —
Il vecchio non volle saper altro.
— Va al diavolo! — gridò. — Ma come? Che zio d'America sono più io? Qui
si nuota, si naviga nell'oro. Mio nipote... il figlio di mia sorella
Cecilia... quel ragazzo che ancora tre anni fa, quando io ne ebbi le
prime notizie, studiava leggi a Bologna!... Ai miei tempi, l'oro, dagli
studenti, era ancora annoverato tra i metalli preziosi. Si parlava con
aria di mistero d'una miniera in Colco, custodita da un drago, che aveva
una faccia da strozzino. Basta, meglio così. Quei debiti non erano mica
la cosa più bella del mondo. Ci facevano anzi un po' di torto; senza
contare che ci obbligavano a certi studi di topografia! I nostri
successori, se Dio vuole, hanno mutata la faccia del mondo. Per altro,
amano ancora, come noi, — osservò il vecchio, sorridendo. — Qui c'è
discretezza e mistero. La conferenza lo dice chiaro. Anche di qua sento
l'ambrosia, indizio del Nume. Bravo il mio giovane Arrigo! — seguitò,
borbottando tra i denti, ed anche a volte mandando fuori le parole, alla
guisa degli uomini che son vissuti lungamente soli e pensano, come suol
dirsi, ad alta voce. — Amo chi ama la donna, e più ancora chi, amandola,
mostra di rispettarla. Quando ero giovane io... Ma che fai tu, Pico
della Mirandola? — diss'egli, interrompendo il monologo, per rivolgersi
al servitore, che s'era accostato e tendeva l'orecchio.
— Scusi, illustrissimo, stavo a sentirla; — rispose quell'altro, col suo
ossequio condito di malizia. — È così istruttivo, il suo discorso!
— Ah sì, vorresti anche imparare la storia antica, briccone? —
Una scampanellata all'uscio di casa mozzò le parole in bocca a Pico
della Mirandola, che già stava per rispondere alla celia del Gonzaga, e
fu invece costretto a correre in anticamera.
Il vecchio riprese la sua rassegna, ma questa volta con animo mutato e
intieramente propenso all'ottimismo. Ottocento mila lire! Fors'anche un
milione e mezzo! Che si canzona?
Poco stante, entrava nello studio un nuovo personaggio. Era un uomo non
vecchio, nè giovane, e aveva una di quelle facce asciutte a cui dareste
trenta o quarant'anni, magari venticinque, o cinquanta, tanto è
difficile raccapezzarsi, tra la barba fitta di color ferrigno e la poca
carne che apparisce alla vista. L'aspetto poi era severo, quasi triste;
gli abiti signorili, l'aria disinvolta, il passo franco dinotavano
l'amico di casa.
— Credo che si stia vestendo, perchè è tornato dianzi dalla sua
cavalcata; — gli aveva detto il servitore, pronto alle invenzioni, e
senza darsi pensiero della versione più esatta che s'era creduto in
obbligo di confidare allo zio del padrone. — Se vuole aspettarlo qui,
c'è anche suo zio, il signor marchese Gonzaga. —
Il nuovo venuto si avanzò con molta premura, appena ebbe udito quel
nome.
— Oh, fortunatissimo di fare la sua conoscenza, e di presentare i miei
rispetti, — soggiunse. — Arrigo, da parecchi giorni, non fa che parlare
di lei.
— Ottimo cuore; — mormorò il vecchio, inchinandosi.
— Ah sì, cuor d'oro! — rispose quell'altro. — E l'ama molto, creda; io,
che passo le intere giornate con lui, ne so qualche cosa. Ed anche da
tre giorni lo aspettava a Roma.
— Sì, lo so; — rispose Gonzaga. — Il suo Happy me lo stava dicendo per
l'appunto, prima che ella giungesse.
— Ieri sera siamo andati insieme alla stazione, — incominciò il nuovo
personaggio, — perchè Arrigo l'aspettava col treno serale. Ma ella non
c'era, e il mio amico ne fu dolentissimo. Si figuri! Egli, per solito
così calmo, era proprio fuori di sè. Ma io ora l'annoio, con questi
discorsi.
— No davvero; prosegua; mi fa anzi piacere, signor....
— Orazio Ceprani, per obbedirla.
— Onoratissimo! — ripigliò il Gonzaga, facendo l'inchino d'obbligo. — Mi
fa piacere sentire da lei che Arrigo mi ama. Non ho più che lui, di
parenti, e quando mi ha scritto che aveva bisogno di me, si figuri, mi
sono augurato un bel paio d'ali. Ma il vapore non è l'elettrico. Avevo
anche qualche faccenda di campagna da assestare, e mi passò la giornata.
— Ella abita sul Reggiano?
— Alle Carpinete, si figuri, nei dominii della contessa Matilde.
Ritornato da tre mesi in Italia, ho subito trovato da comperare un
podere. Un po' lontano da casa mia: ma che vuole? Laggiù a Mantova non
mi conosceva più nessuno. Siamo vecchi, ecco il guaio.
— Vecchio, poi! A cinquant'anni!...
— Sì, bravo, mi canzoni. Cinquant'otto, signor mio, e si potrebbe dir
anche cinquantanove, se in materia d'età avesse valore la massima
romana: _annus incoeptus pro integro habetur_.
— In verità, se non lo dicesse lei... Potrebbe anche tacerlo, e far
credere ai cinquanta.
— Non ci son dame e mi fo coraggio a confessarli tutti; — replicò
allegramente il Gonzaga. — Li porto bene, non dico di no, quantunque
venticinque o trenta li porterei anche meglio. Ma proprio, ritornando al
nostro discorso, ma proprio, signor Ceprani, ella non poteva darmi più
lieta notizia, e sono anche più contento di essermi mosso dal mio èremo.
Questa Roma che ho lasciata a venticinque anni, — qui il vecchio trasse
un sospiro e corrugò le ciglia, — mi pare più bella, ora che so di
averci qualcheduno che mi ama. A noi, vissuti le mille miglia lontani
dalla patria, invecchiati di là dai mari, in mezzo a genti barbare, come
canta nel _Belisario_ il tenore, queste cose hanno un pregio immenso, un
pregio che non lo può intendere chi è sempre vissuto all'ombra dei
campanili e delle torri italiane. Eccole dunque, signor Ceprani, una
bella fine di mese. —
La faccia del signor Ceprani si rabbruscò, a quel ricordo innocente del
calendario.
— Ahi, non per me! — diss'egli in cuor suo.
— I miei ringraziamenti, adunque, e la mia amicizia; — proseguì il
vecchio Gonzaga, stendendo la mano al signor Ceprani. — Già, gli amici
di mio nipote debbono essere i miei. E badi che il titolo di amico io
non lo dò per celia. Vengo dalle terre dei barbari, io! —
Orazio Ceprani s'inchinò e strinse la mano del vecchio, sforzandosi di
sorridere all'arguto discorso, ma non riuscendo che a fare una smorfia.
— Ah! — disse Happy, andando verso un uscio di rimpetto a quello
dell'anticamera. — Ecco il padrone. —
Aveva sentito scricchiolare i denti di una chiave nei congegni di una
certa toppa, il sapientissimo servitore.
Orazio si mosse, per andare incontro all'amico. Cesare Gonzaga si tirò
indietro; anzi, per dirvi tutto, si strinse forte, si puntellò alla
spalliera della poltrona, su cui era stato dianzi seduto. Era commosso,
il vecchio Gonzaga, tremava tutto, all'avvicinarsi di quel nipote che
amava tanto, senza averlo ancora veduto, che aveva giudicato da
principio un giovanotto carico di debiti, e che lì per lì, senz'altra
preparazione, fuor quella di un discorsetto di Happy, doveva salutar
milionario.


II.

L'uscio si era aperto, la portiera alzata, ed entrava nello studio un
giovane elegantemente vestito da mattina, non molto alto di statura, ma
ben fatto e assai sciolto della persona, biondo, un po' pallido, dai
lineamenti finissimi, dagli occhi perlati sfavillanti, sebbene per vezzo
tenesse le palpebre socchiuse, e dalle labbra sottili, leggermente
colorate, che sporgevano un tantino, in atto tra cortese ed ironico,
come quelle di un principe, di un piccolo potente della terra, che è
consapevole della propria grandezza, e vuole mostrarsi benevolo, sì, ma
in un certo modo e fino ad una certa misura.
Cesare Gonzaga non badò a queste inezie. Vide il giovanotto gentile e
gli bastò di aver riconosciute le sembianze di Cecilia, della sua amata
sorella. Ahimè, povera Cecilia! Cesare Gonzaga, nel 1849, abbattuto
dalle sventure della patria e percosso da un altro dolore tutto suo (Ugo
Foscolo li ha descritti, questi due sentimenti, associati nella persona
del suo _Ortis_), si era allontanato, non che da Roma, dai confini della
penisola. A Mantova, intanto, sotto il dominio dell'Austria, dopo la
parte ch'egli aveva presa nelle cospirazioni e nelle guerre recenti, non
poteva tornare; perciò, dopo la caduta di Roma, e dopo aver seguito il
generale Garibaldi nella sua marcia memorabile in mezzo a tante forze
nemiche, disperando oramai delle sorti italiane, si era rifugiato in
Grecia, donde, proseguendo la sua triste odissèa di fuoruscito, era
andato a cercare, non già la fortuna, ma la pace del cuore, sui lidi
estremi dell'Oriente. Solo alcuni anni dopo la sua partenza, Cecilia
Gonzaga era andata sposa alla Mirandola; e colà era vissuta nella
oscurità d'una famiglia non ricca nè povera, colà era rimasta vedova
dopo dieci anni di matrimonio, colà era morta dopo altri dieci o dodici
di vedovanza, lontana dal suo unico figlio, che studiava leggi a
Bologna, e senza aver potuto rivedere il fratello, di cui troppo scarse
erano giunte le notizie in famiglia. Cesare Gonzaga non era nato per la
mercatura; soldato, aveva fatto il soldato. Da principio si diceva che
col grado di colonnello tra i ribelli indiani avesse partecipato alla
epica impresa di Nana Sahib; più tardi, e dopo un mondo di notizie
contradittorie, si era venuto a sapere che militasse ai servigi di un
principe indipendente, nel centro dell'India. Una lettera sua era venuta
a confermare l'annunzio, e a rassicurare la famiglia (triste avanzo di
famiglia, poichè i vecchi erano morti da un pezzo) intorno alla sorte
del profugo. Uno scambio di notizie aveva potuto stabilirsi tra fratello
e sorella, e per tal modo Cesare Gonzaga, _rais_ e _gemadar_ del gran
signore di Revah, nel Bogelcund, seppe un giorno di avere un nipote,
Arrigo Valenti, avviato allo studio della giurisprudenza nella
università di Bologna. Qualche anno dopo, preso dal desiderio della
patria, era ritornato in Europa, ricco di una bella sostanza che gli
avevano fruttata i suoi lunghi servigi; da Brindisi era corso a Mantova,
per risalutare il suo duomo, da Mantova alla Mirandola, per abbracciar
la sorella, ma ohimè, per piangere invece sulla sua tomba. Aveva chiesto
notizie di Arrigo, e gli era stato detto che Arrigo, compiuti gli studi
legali, viveva a Roma, ove certamente a quell'ora aveva finite le
pratiche. Ora, di tutti i luoghi che Arrigo poteva scegliere per sua
residenza, Roma era l'unico in cui Cesare Gonzaga non sarebbe andato
volentieri a cercarlo.
Pensate ai dolori che lo avevano mandato esule volontario della patria,
e indovinerete la cagione di quella ripugnanza di Cesare. Arrigo, dal
canto suo, doveva pur sapere, per lettere dei Mirandolesi, che uno zio,
il suo unico zio materno, gli era ritornato dal centro dell'India; ma
sul principio pareva non averne fatto caso, lasciando che quello zio,
triste della solitudine che il tempo e l'assenza avevano fatto intorno a
lui, andasse a rinchiudersi, rovina d'uomo, tra i monti del Reggiano,
daccanto alla rovina di un antico castello della contessa Matilde. Da
tre mesi era il Gonzaga in Italia, da due spartiva il suo tempo tra
Reggio e la tenuta delle Carpinete, dove il freddo era rigido e dove
bisognava portare quasi tutto il necessario per allogarsi decentemente,
allorquando giunse la lettera di Arrigo. Era in singolar modo
affettuosa, chiedeva notizie, accennava al desiderio, che quel povero
giovanotto, rimasto solo della sua casa, aveva vivissimo nel cuore di
vedere il fratello di sua madre; e non pure accennava al desiderio, ma
all'urgente bisogno.
Il figlio di Cecilia scriveva; e Cesare Gonzaga, a mala pena collocato
nella sua tenuta, dove faceva conto di morire tra le sue memorie e con
gli occhi alla santa natura, amica e consolatrice di chi ha molto
sofferto, Cesare Gonzaga, dico, si era spiccato dal suo nido per andare
dal nipote, vincendo la ripugnanza che lo teneva lontano da Roma, dalla
eterna città che egli non aveva più veduta dopo l'eroica difesa del
Vascello, dopo la dolorosa morte di tanti compagni d'armi, e la
vergogna, più dolorosa a gran pezza, di nuovi stranieri entro le mura di
Camillo. Ed era là, il tardo reduce, era là, in quello studio,
appoggiato a quella poltrona, col cuore trepidante e gli occhi gonfi di
lagrime, davanti al giovanotto sorridente, che nei lineamenti gentili
del viso e più nei vividi occhi perlati gli ricordava la sua povera e
cara sorella. Come si sentiva destinato ad amarlo! Come disposto a
sacrificargli tutto sè stesso! E frattanto, quel biondo ragazzo che gli
aveva scritto con tanta premura: “Venite, ho gran bisogno di voi„ era un
milionario, in apparenza, e, secondo l'opinione dei più, anche nella
sostanza, un felice. Ma allora, che bisogno aveva Arrigo di lui? Certo
era il bisogno di un parente, di un amico vero, di un consolatore. Si è
tanto poveri, quando si è soli!
Orazio Ceprani si era fatto avanti, per stringere la mano di Arrigo.
— Veramente, — diss'egli, — non dovrei essere io il primo, quest'oggi.
Eccoti lo zio tanto aspettato. —
Arrigo Valenti si volse a guardare verso il fondo della camera, e un
lampo di gioia gli balenò dagli occhi, che, manco male, aveva finalmente
aperti e spalancati. Guardò un istante quel vecchio alto e severo, che
si faceva forza per vincere la sua commozione, e gli andò incontro col
sorriso sulle labbra.
— Zio, come ti son grato! — esclamò quindi, cadendogli nelle braccia.
Quell'altro non seppe più reggere alla piena degli affetti, e diede in
uno scoppio di pianto.
— Come son sciocco, non è vero? — diss'egli, con voce rotta dai
singhiozzi. — Per un soldato, è veramente troppo. Ma vedi, ragazzo mio,
tu somigli a tua madre... come una stella somiglia ad un'altra. Lasciati
abbracciare, Arrigo! Lasciami piangere! Sono i baci e le lagrime che non
ha avuto tua madre. —
E lo abbracciava ancora, e lo guardava e piangeva. Arrigo lasciava fare
e sorrideva, anch'egli intenerito da quella semplice e quasi epica
dimostrazione di affetto.
Finalmente, chetato un poco quell'ardore di abbracci, Arrigo provò di
avviare il discorso.
— Zio, — diss'egli, — che cosa avrai pensato di me, che ho fatto tanto a
fidanza col tuo buon cuore? Senza esser neanche conosciuto da te, ho
ardito pregarti....
— Che! che! — interruppe il Gonzaga. — Era naturale. C'era forse bisogno
di conoscerti, per accorrere alla tua chiamata? Infine, eccomi qua.
— Era di Cesare il venire, come il vedere ed il vincere; — osservò
modestamente Orazio Ceprani.
Arrigo ricordò allora il suo debito di padrone di casa.
— Permetti, — incominciò, — che io ti presenti il nostro Orazio Ceprani,
uomo di borsa, e di cappa e di spada, poichè è sopratutto un
compitissimo cavaliere.
— Ah, ci conosciamo da mezz'ora; — rispose il Gonzaga. — Ed io l'ho già
per amico, perchè egli mi ha detto un gran bene di te, mentre stavamo
aspettandoti.
— Perdonami, zio! Avevo un colloquio d'affari.... Non ti aspettavo, con
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