Arrigo il savio - 02

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la corsa del mattino. Ier sera non eri giunto....
— Che vuoi? Appena ricevuta la tua lettera avrei fatto le valigie; —
rispose il Gonzaga. — Ma avevo anche un mondo di piccole faccende da
sbrigare laggiù. Speravo, veramente, di averti alle Carpinete; ma già,
con quel freddo!
— Oh, zio, il freddo mi avrebbe dato poca noia. Pensa piuttosto che mi
era impossibile di muovermi.
— Te lo credo, ora; ma laggiù, vedi, mi pareva che tu avresti dovuto
correre. Basta, non ne parliamo più a lungo. Ho fatto il miracolo di
Maometto. La montagna non volle venire a me; io venni alla montagna.
— Come si fa? — disse Arrigo, sospirando. — Tu eri anche il più libero
dei due. Per ciò sei venuto.... e perciò rimarrai.
— Non correr tanto! Vedremo, penseremo. Tu per ora fa i fatti tuoi.
Avrai forse da parlare col signor Ceprani. —
Il Ceprani, tirato in mezzo, cominciò con accento perplesso:
— Sì, ero venuto da te. Arrigo.... Ma ora che c'è tuo zio....
— Non badi a me; — interruppe il vecchio. — Io mi ritiro in buon ordine.

Orazio Ceprani era lì per lasciarlo andare; ma tosto cambiò di
proposito. Per quello che aveva da dire e da ottenere, la presenza di un
terzo non doveva guastare; che anzi!
— No, finalmente, perchè? — diss'egli, trattenendo il Gonzaga col gesto.
— Con lei si può parlare. Arrigo, — proseguì, rivolgendosi all'amico, —
ero venuto a chiederti un servizio. Oggi dovrei ritirare quelle duecento
Ausonie....
— E ci perdi ottomila lire; — notò Arrigo Valenti. — Te lo avevo pur
detto!
— Che vuoi? Promettevano così bene! Il Governo doveva assumere egli, da
un momento all'altro... Insomma, che farci? Tu hai veduto più lontano e
più giusto di me. Io m'inchino, e ti chieggo cinquemila lire in
prestito, per completare le mie differenze di questo mese.
— Ah! mi duole davvero! — esclamò Arrigo, levando i suoi begli occhi al
cielo. — Mi duole nel profondo dell'anima. Oggi è un cattivo giorno, per
gli affari. Non ne ho. —
Orazio Ceprani aveva chinato la testa, con un gesto tra incredulo e
rassegnato. Perchè, infine, non poteva credere che ad Arrigo Valenti
mancassero cinquemila lire da render servizio a un amico in un cattivo
quarto d'ora, e non poteva neanche, per le buone creanze, aver l'aria di
non crederlo.
Per altro, se Orazio Ceprani aveva chinata la testa, l'aveva in sua vece
rizzata il signor Cesare Gonzaga.
— Ma le ho io! — diss'egli, entrando terzo nella conversazione, e
facendo dare un balzo di maraviglia ai due giovani. — Non si sa mai, ho
detto tra me e me, nel partire da Reggio. Anzi, vedi, Arrigo mio, è
stata questa la ragione vera per cui ho ritardato un giorno a venire. Tu
mi perdonerai, Arrigo; — soggiunse, mentre metteva mano al suo
portafoglio, gonfio di biglietti di Banca e sprovveduto di biglietti di
visita; — credevo di aver a fare con un nipote.... d'altra specie, e
perciò ero venuto con molta munizione. Ho ventimila lire qua dentro, e
il resto in una tratta sul banco Manfredi. Eccole dunque, signor Ceprani
carissimo; questi son cinque da mille. —
Orazio Ceprani era rimasto interdetto; non sapeva se dovesse prender
subito, o rifiutare, almeno per cerimonia: intanto abbozzava un “ma io,
veramente...„ di un effetto assai comico.
— Non faccia complimenti, la prego; — ripigliò il Gonzaga. — Ella è
amico di mio nipote, e gli amici di mio nipote sono i miei. Alle corte,
non mi vuole per creditore?
— Oh, che dice ella mai? — mormorò il Ceprani, commosso. — La ringrazio,
ed accetto, perchè il bisogno era urgente, e sono ottantamila lire che
mi costerà questa liquidazione di gennaio. Grazie anche a te, Arrigo, —
soggiunse, mentre intascava i cinque biglietti, — perchè in casa tua ho
ricevuto il benefizio. Vado dunque a raccogliere tutte le mie forze, i
miei ottantamila franchi, ed ahimè non per condurli alla riscossa. Si
pranza insieme, quest'oggi?
— Perchè no? — disse Arrigo. — Si potrebbe anzi incominciare dalla
colazione, se hai tempo.
— Lo troverò. Per che ora?
— Ma, non saprei; bisognerà sentire mio zio.
— Oh, non badare a me; — disse il Gonzaga. — Io son vecchio, e i giovani
sentono forse più presto le voci dello stomaco.
— A mezzodì, allora? O alle undici?
— Sia pure per le undici.
— Tra un'ora, dunque; — conchiuse il Ceprani, guardando l'orologio. — Mi
diano il tempo di correre alla Borsa, e sono subito di ritorno. Vuoi
nulla, tu?
— No, — disse Arrigo, — ci ho il mio agente. A rivederci. E bada, non
più Ausonia, per ora! —
Orazio Ceprani rispose con gesto, che voleva dire: “ho capito„ e poi
_si dileguò, come da corda cocca._
Arrigo fu molto soddisfatto di vederlo partire.
— Finalmente! — mormorò. — Il passo sarà libero, ora. Se permetti, zio,
vado a dare libertà a qualcheduno. Con questi amici, che ronzano sempre
ne' miei paraggi, bisogna sempre stare in vedetta.
— Fammi almeno sapere dove debbo ritirarmi, per lasciar passare i tuoi
misteri, — disse ridendo lo zio.
— Oh, non importa, c'è un'altra scala. Il guaio è che mette in una via
troppo vicina all'ingresso principale. Uno che esca di qua e svolti
nella strada di fianco... capirai!
— Capisco, può indovinare i tuoi segreti di Stato, o di Banca. Anzi,
diciamo addirittura di Banca, per restare nel genere femminile. —
Arrigo fece un gesto di ragazzo contrito, e andò nella camera attigua.
Due minuti dopo era di ritorno.
— Del resto, — disse il Gonzaga, tanto per riattaccare il discorso, — un
bravo giovanotto, quel Ceprani?
— Ah, sì, lascia che ti sgridi, caro zio! — rispose Arrigo, mettendosi
sul grave. — Che prodigalità son queste? Hai le mani bucate, a quanto
pare. Sei appena arrivato in Roma, e già ti adatti all'ufficio di
vittima. Caleranno i corvi, non dubitare, caleranno a centinaia, per
levarti i pezzi. Qui, dopo l'acqua, delle fontane, non c'è altra
abbondanza che di corvi.
— Non mi credere troppo stolido, via! — replicò il Gonzaga. — Una volta
non conta per uso. Ma non è tuo amico, questo Ceprani?
— Amico, sì, non lo nego. Ma gli amici non hanno da esser mica vampiri,
per succhiarci il nostro sangue. Caro zio, ci ho una massima, io: il
cielo per tutti, e ognuno per sè. A buon conto, io non ho mai chiesto
nulla a nessuno. —
E il viso di Arrigo aveva preso una espressione di durezza, che diede
nell'occhio, ma più ancora sui nervi, al vecchio Gonzaga. Non era più
quello, perbacco, il viso di sua sorella Cecilia.
— Ne sei ben sicuro? — diss'egli, dopo un istante di pausa. — Ed anche
senza ricorrere alla borsa altrui, non ci sono servigi che ci è mestieri
qualche volta di fare, o di chiedere? Le amicizie, così belle nel loro
disinteresse, in certi momenti, e senza secondi fini, non sono esse un
capitale che si sfrutta?
— È un'altra cosa; — rispose Arrigo. — Il Ceprani è mio amico. Spenda la
mia amicizia, la faccia valere, ma non tocchi la mia borsa.
— Sei troppo rigoroso; — notò il vecchio. — Ma che uomo è costui?
— Un buon diavolo, ed anche onesto, per quel che fa la piazza; ma di
affari s'intende com'io di greco, che n'ho avuta una tintura al Liceo.
Aggiungi che ha una mano così disgraziata, da guastare tutto quello che
tocca. Ha sempre qualche preziosa notizia, per certe sue attinenze con
uomini di governo, ed io ne cavo profitto... facendo tutto il contrario
di ciò ch'egli fa.
— Vedi dunque che tu lo spendi; in qualche modo fai capitale di lui.
— Eh, se tu la intendi così, caro zio, tutti avranno diritto ad una
parte della mia sostanza, mentre io so di non doverla che a me.
— Ah, sì, parliamone un poco, — disse il vecchio, cui capitava la palla
al balzo. — Ti sei dunque fatto uomo di banca?
— Come vedi, lavoro, senza affaticarmi troppo.
— E la giurisprudenza?
— Da banda. Ho compiuti i miei studi; serviranno a tempo opportuno,
quando sarà il caso di pensare agli onori. Anche con l'avvocatura si
arriva; ma il mondo mormora. Si ha invidia degli avvocati, caro zio, e
non c'è politicante da caffè che non tiri la sua sassata ai ciarloni.
Per altra via, e più sicura, io fo conto di arrivare.
— Arrivare! E dove?
— Zio! — sclamò Arrigo, guardando il vecchio con aria di stupore. — Sei
tu che me lo domandi? Tu, che sei arrivato.... dall'India?
— Sì, dall'India a Brindisi, e via discorrendo, — rispose il Gonzaga. —
Ma tu, dove diamine vuoi arrivare?
— Alla fortuna, alla potenza, alla felicità.
— Egregiamente, e lo studio ti ci avrebbe condotto, per una via più
lunga, lo concedo, ma più sicura, e con miglior compagnia. Perdonami la
franchezza.
— È la tua opinione; — rispose Arrigo, inchinandosi, — ma non è
egualmente il tuo esempio. Sicuro: che cosa hai fatto tu, mio ottimo
zio? È forse lo studio delle leggi, son forse i libri, che ti hanno dato
ricchezze e buon nome per giunta?
— Non parliamo di me; io le ho fatte grosse.
— Parliamone, anzi. Ti sei accorto un giorno di avere sprecata la tua
giovinezza e le tue sostanze in parecchie follìe....
— Tra le quali un paio di guerre per l'indipendenza del mio paese; ti
prego di metterle in conto; — interruppe il Gonzaga.
— Ci venivo dopo, — replicò Arrigo prontamente, — e volevo anche
aggiungere una pena di cuore....
— Lascia stare, non frugar nelle ceneri! — gridò il vecchio, turbato.
— Perdonami, zio; me ne aveva fatto cenno mia madre. Infine, ecco qua:
io, ammaestrato dagli esempi della tua prima giovinezza e non avendo più
nobili follìe da commettere, poichè ho avuta la... disgrazia di nascere
troppo tardi, incomincio da dove tu hai cangiato sentiero. So bene quel
che vuoi dirmi; le gaie spensieratezze, il vivere conforme alla propria
età, l'aspettare la fortuna, facendo versi cattivi e abbaiando alla
luna! Il secolo invecchia, caro zio, e non vuol più saperne, di questi
perditempi. “Essere o non essere, ecco il punto.„ Vedi? Se tu non ami la
prosa, questa è poesia, e di un sommo. Il mondo è di chi se lo piglia; e
perchè lo lascerei afferrare da tanti, mentre anch'io sento di avere una
mano, che può far servizio come quella degli altri? Ogni cosa a suo
tempo, lo capisco; ma chi ha tempo non aspetti tempo. Fare e far subito:
e poichè il denaro è il nerbo della guerra, pensiamo al denaro. C'erano
degli uomini, sai, i quali si credevano ogni cosa al mondo, solo perchè
avevano il denaro, e, mentre gli altri guardavano fidenti all'orizzonte
lontano, essi vogavano sodo, alla galeotta, tirando bravamente a sè.
Anch'io ho imparato il loro giuoco, e _c'est pas plus malin que ça_. Non
sono io un savio ragazzo? Credevi di dover venire a frenarmi, fors'anche
a trattenermi sull'orlo del precipizio, ed ecco, tu trovi invece che io
vado di buon passo per la strada maestra. Non avrai che a lodarmi, zio,
e mi favorirai più volentieri in ciò che io sono per chiederti. Perchè,
vedi, di te ho bisogno davvero; non mi vergogno di ricorrere a te, e
sarò lieto di chiamarmi tuo debitore. —
Il discorso era stato brutto, o almeno poco simpatico; ma la chiusa era
molto migliore.
— C'è ancora qualche cosa, lì dentro; — pensò lo zio Cesare, che già
aveva incominciato a scandalizzarsi, fiutando l'egoista.
E rifacendosi la bocca in quella chiusa più garbata, rispose:
— Sì, per l'appunto, che cosa volevi da me? Se non ti occorrono consigli
di saviezza e non hai bisogno ch'io paghi i tuoi debiti, in che altro
può esserti utile uno zio? fammi il piacere di dirmelo.
— Ecco, in poche parole ti spiego ogni cosa; — replicò il giovinotto.
Ma proprio in quel punto, un'altra scampanellata all'uscio di casa ruppe
il filo del discorso di Arrigo.
— Diamine! — esclamò lo zio Cesare. — Ecco un altro importuno.
La maliziosa figura di Happy comparve poco stante sul limitare.
— Il signor conte Morati di Castelbianco; — disse il servitore,
tirandosi da un lato.
Arrigo si era prontamente alzato.
— Perdonami, zio; — diss'egli inquieto; — proseguiremo il nostro
discorso più tardi.
— O lo incominceremo; — commentò lo zio; — perchè finora non mi avevi
detto nulla. —


III.

Il nuovo venuto era un signore smilzo, dalla faccia scarna e dalla pelle
risecchita, che pareva di cartapecora; ma aveva i capelli e i baffi neri
morati, veramente degni del suo cognome. Gli occhi erano grigi, e non
dovevano vederci molto, perchè il conte, abbassando la testa con un atto
che pareva di consuetudine, e che lo aiutava a nascondere nella cravatta
le grinze del collo, si piantava, entrando nello studio di Arrigo
Valenti, una lente cerchiata d'oro nella cavità dell'occhiaia destra.
Era vestito all'ultima moda, d'un soprabito nero con le rivolte di seta,
la cravatta di colore, permessa soltanto di mattina ai moderni
cavalieri, i calzoni grigi, di stoffa e disegno autenticamente inglesi,
e finalmente un pastrano corto di panno chiaro, tra il verde oliva e il
lionato.
Arrigo gli era andato incontro con molta premura.
— Conte, — diss'egli, — che fortuna è questa per me!
— Caro Valenti, — rispose quell'altro, con una vocina di chioccia
infreddata e smozzicando l'erre, — dite il piacere di venire a vedervi.
Ci trascurate un pochino, sapete? Speravo di vedervi a cavallo,
quest'oggi, ma voi vi siete rintanato in casa, mio bel tenebroso! Perciò
sono venuto a scovarvi, e devo a questa amichevole risoluzione la vista
di un piedino meraviglioso. Finora, in parola d'onore, di piedini così
belli non ne avevo veduto che in casa mia.
— Che dite mai, conte? — esclamò Arrigo, sconcertato dal paragone.
— Sì, proprio; — continuò il Ganimede; — se non avessi veduto che il
piedino, avrei giurato che fosse quello di mia moglie. Ma la dama che ho
veduta qui presso, in via Sallustiana, era vestita di color marrone. Ora
la contessa odia i marroni; non può soffrire neanche il colore. —
Cesare Gonzaga osservò che suo nipote era sulle spine. Via Sallustiana,
la scala di là, il colloquio d'affari, gli si affacciarono alla mente
collegati per un filo arcano alla dama del piedino maraviglioso.
— Conte, — diceva frattanto Arrigo, per rompere quel discorso così poco
piacevole, — permettete che vi presenti mio zio, giunto a Roma stamane.
— Ah, l'aspettato, il desiderato marchese Gonzaga? Fortunatissimo di
conoscerla! — disse il conte Morati.
— Sì conte; — rispose il vecchio inchinandosi. — Cesare Gonzaga, per
obbedirla, ma senza il titolo che la sua bontà mi attribuisce.
— Zio, ci hai diritto; — entrò a dire Arrigo, che non poteva mandar giù
quella rinunzia alla corona marchionale. — Sei l'ultimo dei Gonzaga di
Luzzara, e questi sono sempre stati marchesi. In casa tua c'era anche
l'albero genealogico.
— Ah, l'albero! — rispose il vecchio ridendo. — Sì, c'era, in casa; ma
il giorno che non diede più frutto, mano alla scure, e ziffe! Ho
bruciato l'albero, signor conte, e mi son rifatto modestamente dal
ceppo.
— Ella è molto ricco, da quanto mi ha detto Arrigo; — notò il conte
Morati. — È un'altra bella cosa. Io, per dirle la verità, vado
allegramente in rovina. —
E sedette, il vecchio Ganimede, facendosi una spagnoletta.
— Diamine! — pensò Cesare Gonzaga. — Debbo io tirar fuori il portafogli,
o tenerlo ben chiuso in tasca?
— Ma intendiamoci, — proseguiva il conte, scherzando con le parole come
le sua dita scherzavano con la carta velina, — adagino, senza fretta.
Non ho figli, nè conto di averne per ora. E mi verrà forse il desiderio,
più tardi? Io già non li amo, i ragazzi. Quando sarò più avanti con gli
anni, chi lo sa? Basta, mio caro Valenti, — soggiunse il conte,
accostando la spagnoletta alla fiamma della candela, che Arrigo gli
aveva premurosamente accesa, — ho veduto, venendo da voi, il più bel
piede d'Italia. E poco dopo, davanti al vostro portone, i due più bei
cavalli d'Inghilterra. Vengono, nientedimeno, dalle scuderie del duca di
Blackborne. Li possiede il Meissner, che se ne va da Roma e vuol
venderli. Che stupendi animali! Il piedino mi è sfuggito, perchè entrava
allora in un brumme, che andò via di galoppo; ma i cavalli, perbacco,
non dovrebbero sfuggirmi. Appena uscito da voi, passo dal mio ministro
delle finanze, e se ha danari in cassa, mi slancio a conquistar la
pariglia.
— Conte, — disse Arrigo, che aveva frattanto ricuperata la sua calma, —
se il vostro ministro delle finanze tenesse fermo sulle economie,
ricordate che la mia cassa è ai vostri comandi.
— Grazie, Valenti, grazie infinite.
— Accettate, dunque?
— Accetterei, dato il caso; ma il caso non si darà. Il mio ministro è un
brav'uomo; mi rizza un po' il muso, quando mi vede dare certi strappi;
ma poi si rimette, e quando non ne ha più, è segno che ne ha ancora. È
un ministro prezioso, in fede mia! Venite a pranzo da noi, quest'oggi?
La cosa spiacerà un pochino a mia moglie, che non vi ha tra le sue
simpatie; ma non importa, rideremo. —
Cesare Gonzaga stava ascoltando a bocca aperta quello strano
personaggio, che sfringuellava con tanta leggerezza i fatti suoi. Ma
quando il signor conte venne a parlare delle antipatie della moglie, non
seppe più trattenere una piccola osservazione.
— Arrigo, ti fai dunque odiare a questo modo?
— Non badi; — rispose il conte. — Si tratta di capricci, di ubbìe
femminili. La contessa stima molto il mio amico Valenti, ma le pare
troppo serio, troppo asciutto, e che so io. Del resto, mio caro Arrigo,
penso anch'io che Giovanna abbia un po' di ragione. Siete troppo grave,
troppo asciutto, troppo savio, per la vostra età. Si direbbe che non
siate mai stato giovane.
— Proverò a diventarlo poi; — rispose Arrigo, sorridendo pacatamente,
come un dio dell'Olimpo.
— Ah, meno male! Venite dunque?
— Conte, quest'oggi è impossibile. Mio zio è arrivato stamane.
— È vero, non ci avevo pensato; bisogna star con lo zio. Ma più tardi,
almeno, per il tè? Presentiamo lo zio alla contessa, e son certo che le
piacerà più del nipote. Accetta, signor Gonzaga?
— La bandiera ha dunque da coprire la merce? — disse lo zio Cesare. —
Bandiera vecchia, ahimè! —
Il conte fece una spallucciata, a quelle parole del Gonzaga.
— Vecchia? Eh via! — esclamò. — C'è egli dei vecchi tra noi, se
escludiamo suo nipote? Badi, dunque, annunzio la sua visita. Ella
troverà molta gente, quel che ci vuole per esser più liberi. Avremo
parecchie tra le celebrità femminili di Roma, che, in punto di donne, ha
sempre l'impero del mondo; per esempio la Savelli, bellezza stagionata,
se vogliamo, ma solida; la Carini, che è sempre tanto carina; la
Manfredi, che è un fiore appena sbocciato.... —
Arrigo a quel punto interruppe la rassegna, che poteva diventar lunga
come quella delle navi, in Omero.
— Verranno i Manfredi? — diss'egli. — Senti, zio? Ecco una buona
occasione per te. —
Lo zio Cesare, che quel lieve accenno ad un fiore appena sbocciato aveva
già fatto fremere, sollevò lentamente il petto, come per chiuder la via
ad un sospiro; poi crollando la testa, rispose:
— Ti pare? Non ho ancora veduto Andrea.
— Conosce il senatore Manfredi? — gridò il conte Morati di Castelbianco.
— Un uomo d'oro, al proprio e al figurato!
— Se lo conosco! — rispose Cesare Gonzaga, mettendo quella volta
liberamente il sospiro che aveva trattenuto da prima. — Andrea Manfredi
fu il mio amico di gioventù, il mio compagno di studi, il mio fratello
d'armi. Abbiamo combattuto insieme, in questa Roma divina! Che direbbe
ella dei fatti miei, signor conte, se io, amico suo da tanti anni e
ritornato finalmente nella città dov'ella abita, la dovessi combinare in
casa d'altri, senza esser venuto direttamente, prontamente, a cercarla?
— Eh via, zio! — entrò a dir Arrigo. — Ci vai dopo colazione, e il colpo
è fatto.
— Arrigo consiglia bene, come sempre; — notò il conte. — È veramente
Arrigo il savio; lo ascolti. Siamo dunque intesi; a rivederla questa
sera, e lietissimo della fortunata occasione. Addio, Arrigo! Vado dal
ministro delle finanze, per quella pariglia che mi sta sul cuore....
come quel piedino di fata.
— Sempre? — disse Arrigo, ridendo per quella volta liberamente.
— Che ci volete fare? Sono un povero peccatore che il diavolo ha sempre
pigliato dai piedi. —
E se ne andò, ridendo della sua frase, che gli era parsa argutissima.
Rimasto solo con Arrigo, il vecchio Gonzaga si piantò davanti al nipote
e gli ficcò addosso gli occhi scrutatori.
— Dimmi, Arrigo.... il piedino di via Sallustiana....
— Non mi chieder nulla, zio; — rispose quell'altro. — Il Castelbianco mi
aveva fatto da principio una gran paura. E adesso, poi, adesso che son
vicino a ricogliere il fiato!... Se tu non fossi venuto quest'oggi,
direi che è un giorno nefasto.
— Ma lui.... il conte....
— Corteggia le ballerine, le mime, le cavallerizze. Ha sessant'anni e
tinge disperatamente. È una caricatura.
— Eh, l'ho veduto. E facendo ridere, il che è già brutto, va anche in
rovina?
— Non lo credere; — rispose Arrigo. — È un suo vezzo di parlare così, un
ticchio di gran signore. Ne ha spesi molti, in gioventù, ma ancora oggi
può valere un paio di milioni. Ed è conte.
— Che cosa vuol dire?
— Vuol dire moltissimo, zio. Anzi, vedi, ti prego di non incocciarti
nella tua democrazia, che fa a pugni col tuo casato. Qui il disprezzo
dei titoli non è di moda. Chi ne ha uno lo inalbera; chi non l'ha lo
inventa. I titoli nobiliari son tutto, perfino negli affari, ove non
dovrebbero aver valore che quelli di banca. Non si fa un consiglio
d'amministrazione di miniere, di strade ferrate, di vapori e via
discorrendo, che non ci mettano una mezza dozzina di corone. Non fanno
nulla; ne ho sentiti io che dicevano cose... dell'altro mondo; ma non
importa, ci stanno bene, decorano. Ed anche nelle livree, senti, una
corona non guasta.
— Che follìe! — esclamò il Gonzaga.
— Follìe! — Lo dici tu, che ritorni dall'India. Ma il nostro mondo
occidentale è fatto così; prendiamolo com'è. —
Il vecchio Gonzaga stette alquanto sopra di sè; poi disse, con accento
malinconico:
— Arrigo, Arrigo, sei tu che parli così? La nobiltà del sentire e
dell'operare, quella è la vera. Anch'io amo i bei nomi.... quando sono
portati bene da non degeneri nipoti. Ma poi, vedi, la penso come
Isocrate. Ti parrà strano che io venga dall'India per citarti Isocrate;
ma non ti stupire, è un ricordo di scuola. Per Isocrate, adunque, la
nobiltà risiedendo tutta nel capostipite e derivando da lui, valeva
meglio che l'uomo fosse egli capostipite della propria. Chi erano gli
antenati di Pipino d'Heristal? Se ne conosce uno, uomo dappoco, e solo
da Pipino d'Heristal incomincia il lustro dalla casata. Aggiungi a
questo Pipino la gloria di altri due nomi, Carlo Martello e Carlo Magno,
perchè io ti ho voluto citare l'esempio più favorevole alla tua tesi; e
che cosa vien poi? che cosa rimane della stirpe nobilissima? Un branco
di sciocchi. Dunque, ragazzo mio, non ci vantiamo tanto di una nobiltà
che non è discesa “per li rami„ e cerchiamo invece di fabbricarcene una,
che sia ben nostra, e frutto di azioni virtuose. —
Arrigo Valenti non la intendeva così.
— Parole! — mormorò egli. — Ma nel fatto....
— Orvia, non voglio sentir altro! — gridò Cesare Gonzaga, che
incominciava a perdere la pazienza. — Vedi, Arrigo, se tu non amassi, la
qual cosa mi riconcilia un pochino con te, ti crederei diventato
cattivo.
— Amo, sì! — disse il giovane, — e appunto perciò ti ho pregato di
venire a Roma.
— Alla buon'ora! E in che modo potrei servirti io?
— Presentandomi in casa Manfredi.
— Oh! — disse lo zio, inarcando le ciglia. — E dovevo venir io a bella
posta dall'India?
— Come per citarmi Isocrate, sicuro. Ecco qua, zio, lo stato delle cose.
Il senatore Manfredi è molto sostenuto con me. Con tutte le mie
relazioni, con tutti i miei denari, non mi riesce di penetrare in quella
casa. Ci troviamo spesso insieme, ora in una conversazione, ora in una
festa da ballo; ma niente mi serve; il banchiere senatore è sempre di
ghiaccio con me, ed io non ho potuto ancora rompere quel ghiaccio. —
Cesare Gonzaga era stato a sentire attentamente il discorso di suo
nipote. Appena questi ebbe finita la sua esposizione, il vecchio rimase
un pochino sovra pensiero, masticando qualche frase, che stentava ad
uscirgli di bocca.
— Parliamoci schietto; — diss'egli finalmente. — Saresti in qualche cosa
venuto meno a certi principii?... Andrea, se è sempre l'uomo che io ho
conosciuto, su certe materie non ischerza.
— Zio, — rispose Arrigo con accento sicuro, — non ho mai fatto cosa di
cui debba arrossire. Ho imparato da ragazzo a meditare sulle mie azioni,
e se sono venuto al punto di non far mai se non quello che metteva conto
a me, credi pure che ci sono riuscito senza offendere il diritto degli
altri. Il Manfredi non mi ha in grazia. Perchè? Lo saprà lui; fors'anche
non lo saprà. Ci sono qualche volta delle antipatie irragionevoli. A
buon conto, egli non sa che io sia tuo nipote, nè io ho creduto prudente
di dirglielo, amando meglio di aspettare, per ferire un gran colpo. Una
sera, in casa Savelli, me presente, ricordando nomi ed uomini del
passato, egli venne a parlare di te, e il suo gelo si squagliò come per
incanto; ti citò come un esempio di alto carattere, come un modello di
amico; insomma, ne disse tante, che lasciò tutti maravigliati, non
solamente dei tuoi meriti, ma anche della sua eloquenza. In verità, non
ne aveva mai sfoderata tanta in Senato.
— E allora, — osservò il Gonzaga, ridendo — ti è venuto in mente di
chiamare a Roma quel fior di virtù? Guasti pur troppo la bella immagine
che io m'ero formata dell'amor tuo. Bene! bene! La gioventù è sempre un
pochino egoista. Già, per dirtela schietta, mio caro nipote, in
parecchie cose ti vorrei vedere, per la tua età, meno uomo. È una mia
idea, ed avremo tempo a discorrerne. Dimmi, invece, come e perchè ho da
servirti io, presso il banchiere Manfredi? Di credito non ne hai
bisogno, a quanto so. Vorresti forse entrare in qualche operazione
bancaria con lui?
— Ha una figlia; — rispose Arrigo.
— Ah! Il fiore appena sbocciato; — disse lo zio Cesare, sospirando da
capo. — E l'ami?
— La voglio.
— È un po' diverso, ma potrebb'essere, in certi casi, lo stesso. Ma,
scusami, e quell'altra? Povera donna....
— Oh, Dio mio! Ce ne son tante, di queste povere donne!
— E perchè ce ne son tante, tu vorresti aggiungerne un'altra?
— Infine, — disse Arrigo, vedendo che lo zio si rabbruscava, — non
credere che ella mi ami. Mi ha detto, anzi, che tutto ha da finire tra
noi.
— Giuramelo! che cos'hai di più sacro?
— Per la memoria di mia madre; — rispose Arrigo.
Il vecchio si rasserenò, udendo l'invocazione, che non poteva essere
bugiarda.
— Quand'è così; — riprese, — tanto meglio! In fondo, non mi mettevo io a
predicare la costanza.... nella illegalità? Bei consigli da vecchio! Or
dunque, mio bell'Arrigo, sebbene mi dispiaccia un pochino di rifar la
vita dei salotti e delle conversazioni, spendimi pure; sarò il tuo uomo.
E dimmi, ci sono già vincoli, in aria?
— No, — disse Arrigo, che aveva capito a volo, — ma potrebbero venire.
C'è un conte che mi dà noia.
— Sei amato?
— Credo.
— Ma bravo! E navighi così, tra questa e quella, tra la riva e gli
scogli?
— Credi, buon zio, che sono assai più vicino alla riva.
— Ehm! — rispose il Gonzaga. — Se debbo giudicarne da poco fa, tu
rasenti ancora troppo gli scogli. —
Arrigo diede in uno scoppio di risa. Passato il pericolo, anche un
marinaio può ridere così.
— Caro zio! — esclamò egli, abbracciando il vecchio cortese. — Sei
giovane, tu, pieno di fuoco. Ci scommetto che a te piacerebbe più lo
scoglio, anche a rischio di dare in secco.
— In secco, no! — rispose lo zio Cesare. — Ma via, non mi far parlare...
come il tuo conte di Castelbianco. —
Ridevano le due età, così lontane l'una dall'altra, che la voce del
sangue aveva ravvicinate. Arrigo Valenti intravvedeva la vittoria e già
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