Arrigo il savio - 09

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grandissima che io nutro per lui. Speriamo intanto che egli stasera non
mi parli ancora di nulla. —
Il senatore non partecipava alle speranze della figliuola, sapendo che
Cesare Gonzaga era venuto a bella posta in Roma per ragionare di quel
matrimonio, e immaginando che non avrebbe voluto rimaner troppo a lungo
in sospeso. Ma anch'egli era molto perplesso, e lasciò volentieri che le
cose andassero come dovevano andare, fidando nelle ispirazioni del cuore
di Gabriella, cara e bizzarra fanciulla, che anteponeva i vecchi giovani
ai giovani vecchi.
In quel mezzo, fu annunziato l'arrivo della contessa di Castelbianco.
Giungeva forse un po' troppo presto, l'amica; ma ella usava con
Gabriella in quel medesimo modo che Gabriella usava con lei. Quella
sera, per altro, la contessa non giungeva in compagnia del marito. Il
conte Guidi era venuto con lei. Che novità era quella?
Per saperne qualche cosa, ci converrà di ritornare un passo indietro.
Quel giorno il conte Guidi aveva ricevuto un biglietto della contessa.
“Se andate stasera dai Manfredi, venite a farmi da cavaliere (scriveva
la signora), perchè il conte non potrebbe accompagnarmi di prima sera, e
sarei costretta ad andar sola. Vi aspetto dunque prima delle otto.„
Il conte Guidi non si era proposto di andare dai Manfredi, quella sera.
Chiamato dalla contessa, si accinse da buon cavaliere ad obbedirla, non
senza maravigliarsi di quello strano capriccio, che la consigliava a
voler essere accompagnata dove tante altre volte era andata, con la sua
carrozza e col suo servitore, da sola.
— Contessa, — le aveva detto il Guidi, presentandosi, — mi avete fatto
l'onore di crearmi vostro cavaliere, ed eccomi qua.
— Ringraziatemi, almeno; — aveva risposto Giovanna. — L'ho fatto per
utile vostro.
— Come?
— Sicuramente; non amate voi Gabriella? —
Il conte Guidi era un cavaliere tenebroso, già ve l'ho detto, e come
tutti i cavalieri tenebrosi si teneva sempre in bilico fra parecchie
dame, non dimostrando e sopratutto non confessando le sue preferenze per
alcuna. Perciò a quella bottata della contessa di Castelbianco, rimase
un pochino sconcertato.
— So tutto; — proseguì la signora; — dunque, venite. —
Il Guidi, vedendo che ella sapeva tutto, e immaginando ch'ella ne
sapesse più di lui intorno al modo di pensare e di sentire della
signorina Manfredi, non perdette il suo tempo a negare. Giunone lo aveva
sempre trattato con quella amabile confidenza che è naturalmente portata
dalla parità delle condizioni sociali, ma senza nessuna dimestichezza
particolare, senza ombra di sentimento, che lasciasse intravvedere
un'intenzione più tenera. Egli dunque ammise facilmente che davvero le
stesse molto a cuore di farlo entrare in grazia alla giovane Diana; ma
soggiunse che non aveva quasi ragione per andar quella sera da lei,
perchè l'ultima sera che si erano veduti, cioè ventiquattr'ore prima, al
ballo della contessa, Diana era stata un po' fredda con lui, ed egli,
dal canto suo, aveva commesso qualche errore di tattica.
— Ragione di più per presentarsi e ristabilire le sorti della guerra; —
rispose la contessa. — Venite, Guidi; mi racconterete i vostri errori
per via, e troveremo il modo di ripararli. —


XIV.

Gabriella aveva fatto un saluto assai cerimonioso al conte Guidi, ma
aveva abbracciata e baciata con grande effusione di cuore la sua cara
Giovanna. Non credeva alle calunnie distillate da un vile anonimo contro
la sua bella imperatrice, e le pareva, con una maggiore dimostrazione
d'affetto, di dare a quelle calunnie una mentita più solenne e più
forte.
Il conte Guidi rimase a discorrere col senatore Manfredi; ed egli e il
suo interlocutore erano per verità un pochino impacciati, poichè non
sapevano con quali discorsi trattenersi a vicenda. La contessa di
Castelbianco e Gabriella si erano sedute sopra un sofà, l'una a fianco
dell'altra, e là, sul fondo verde cupo della spalliera di stoffa
operata, davano sembianza di due belle rose accompagnate, sorgenti
insieme da un viluppo di quelle stupende foglione vellutate, in cui la
natura, cesellatrice meravigliosa, sembra aver voluto rivaleggiare coi
capricci dell'arte.
— Pompeo non poteva accompagnarmi così presto come io desideravo; —
disse Giovanna all'amica; — ma per fortuna è venuto il conte Guidi. Quel
povero giovanotto ha veramente una bell'anima, e avevi ragione tu,
quando mi dicevi di volerlo studiare. Sai che cosa mi stava dicendo, in
carrozza, di te? —
Gabriella non era molto curiosa di saperlo; ma, per compiacere
all'amica, dovette aver l'aria di desiderare quella piccola confidenza.
— Sentiamo che cosa ti ha detto; — rispose.
— Signora (sono le sue parole, che ti riferisco testualmente),
intercedete per me, presso la divina Gabriella. In un momento di follìa,
non giustificata, è vero, da nessun precedente, ma certamente scusabile
agli occhi di uno che potesse leggere nel mio cuore, ho detto alla
signorina Manfredi una frase di cui sono pentito. Darei, ve lo assicuro,
darei tutto il mio sangue per cancellarla, o almeno per ottenerne il
perdono. A voi non si nega nulla; vorrete dir dunque una buona parola
per me? Sono venuto a bella posta da voi. — Così mi ha parlato quel
poveretto, e ti confesso che in quel momento faceva veramente pietà. Da
brava, Gabriella mia, se è vero che tu a me non neghi nulla, perdonagli
quella frase malaugurata, che io non conosco neppure, poichè a lui mancò
il coraggio di ripeterla.
— Non la ricordo, questa frase terribile; — rispose Gabriella. —
Dev'essere ben poca cosa, come vedi, e il signor conte sicuramente si è
ingannato, immaginando che io avessi potuto dare importanza ad una frase
sfuggita nel calore di una conversazione. Ne dicono tante, quei signori!

Non era questo che la contessa voleva; tanto più che ella,
contrariamente alla sua fresca asserzione, conosceva benissimo la frase
che aveva fatto torto al conte Guidi nell'animo della signorina
Manfredi. E la ricordava anche Gabriella; ma quella frase toccava
l'argomento delle sue ammirazioni, ed essa non voleva profanare un
sentimento così nobile e puro come il suo per Cesare Gonzaga, mettendolo
in discussione, a proposito d'un sarcasmo del conte Guidi, di quel vago
cavaliere, che oramai poteva essere tenebroso a sua posta, poichè ella
non lo studiava già più.
La contessa Giovanna finse di contentarsi per allora, immaginando
giustamente che la giovine amica si sarebbe ostinata nel facile perdono
di una frase non voluta ricordare.
— Ah, bene! — diss'ella. — Temevo già che tu fossi in collera con lui, e
che la collera potesse consigliarti una risoluzione a suo danno.
— Una risoluzione! — esclamò Gabriella. — Io? E quale?
— Eh, per esempio... di sposare il signor Valenti. —
Al colpo inatteso Gabriella si scosse, e guardò in viso l'amica,
ricorrendo involontariamente col pensiero alla lettera anonima ricevuta
dalla sua cameriera. Sotto quelle parole sentì palpitare il dramma, la
candida ma non affatto inesperta fanciulla, e imparò presto a
dissimulare.
— Ecco un'altra novità; — diss'ella, volgendo in un sorriso il suo atto
di stupore. — E donde ti viene quest'altra?
— È la voce che corre; — rispose la contessa; — si dice anzi che lo zio
è venuto a bella posta in Roma, per fare a tuo padre la domanda formale.
Che c'è di vero?
— Una cosa sola, a quanto pare: la venuta di uno zio.
— Ma egli farà la domanda. Me lo ha detto anche Pompeo.
— Di bene in meglio; — ripigliò Gabriella. — Ecco uno zio che fa una
diplomazia molto strana. Tutti sanno già che cosa è venuto a fare, ed io
non ne so nulla ancora.
— Lo saprà il senatore tuo padre.
— Il senatore mio padre, — replicò Gabriella, confettando di un altro
sorriso la severità della risposta, — non fa mai nulla senza consultare
sua figlia; tranne, s'intende, le leggi dello Stato e le operazioni del
suo banco.
— Dunque, non c'è niente di vero?
— Nientissimo.
— E il cavaliere?
— Faccia i fatti suoi. È ricco e non ha bisogno di trovare una grossa
dote. Io son ricca e non ho bisogno di appoggiarmi a lui, nè ad altri
come lui. Tu vedi dunque che se ci son due al mondo che non sian fatti
punto l'uno per l'altro, noi siamo quei due.
— Tanto meglio.... per il povero Guidi! — conchiuse la contessa. — E
lui, come lo vedi? —
Era un assedio, un investimento in piena regola; ma Gabriella finse di
non avvedersene.
— Che dirti, mia cara? — rispose, — non ho ancora finito di studiarlo. —
Intanto che le due amiche discorrevano, sedute sul sofà verde cupo, sul
cui fondo spiccavano come le due belle rose che sapete, il salotto del
senatore Manfredi incominciava a popolarsi. Tra i primi era venuto, e
correva ad ossequiare la giovane Gabriella, il vecchio collega del
Manfredi, il primo seccatore del regno, che fu per la fanciulla un
soccorso del cielo; tanto è vero che tutte le creature hanno il loro
ufficio provvidenziale nel mondo! Gabriella non reggeva più al peso di
quella conversazione femminile, dopo che aveva ravvicinato nella sua
mente il discorso incalzante della contessa di Castelbianco con le
notizie che dava di lei quella brutta lettera anonima. La buona
fanciulla avrebbe desiderato tanto esser sola nella sua camera, per
meditare su tutta quella novità di casi che si erano affollati intorno a
lei, offuscando la serenità della sua vita verginale. Ma per due o tre
ore non c'era da sperar pace nè tregua, essendo giorno di ricevimento. I
giovedì dei Manfredi non avevano musica nè ballo; perciò, abbondando gli
amici gravi e i discorsi gravissimi, erano scarse le dame e più scarsi i
cavalieri eleganti. I farfalloni che si arrischiavano là dentro,
attratti da quel fior di bellezza che risplendeva nella casa senatoria,
si sentivano a breve andare perduti in quell'aria afosa di legislatori,
di accademici, di magistrati, di professori e via discorrendo. Il conte
di Castelbianco, che ci andava qualche volta sul tardi, per
riaccompagnare a casa sua moglie, si accostava a quei giovedì con un
sentimento di sacro terrore. — Prima di entrare nel portone (soleva dir
egli ridendo) respiro a furia, faccio provvista a larghi polmoni,
temendo sempre che l'aria mi manchi, in quella campana pneumatica. —
Povero salotto del senatore Manfredi! Esso non meritava mica quei
crudeli giudizî. In primo luogo il padrone non costringeva nessuno ad
andarci; e poi, come è vero che ogni uccello fa il suo verso, così ogni
compagnia di persone ha diritto di divertirsi a suo modo, e il torto è
di chi vuol portare le sue abitudini serie tra la gente allegra, o le
sue abitudini allegre tra la gente seria.
La contessa Giovanna trovò un momento opportuno per dare una buona
notizia e un'utile ammonizione al conte Guidi.
— Rassicuratevi; non c'è nulla di nulla. Fate la vostra corte
liberamente; mostratevi il garbato cavaliere che siete sempre stato, e
vincerete la partita. Ma badate, per altro; qui bisogna lodar molto
l'antico, e in arte e letteratura, astenersi sopra tutto dal parlare di
corse, di tiri al piccione, di cacce alla volpe, e d'altre mode
d'oltr'Alpi. Gabriella è classica, e non ama gli usi nè le parole
straniere. —
Il conte Guidi stava per mettersi all'opera, quando giunsero il signor
Cesare Gonzaga e il cavaliere Arrigo Valenti. Lascio pensare a voi come
fosse contento quest'ultimo, di trovarsi faccia a faccia con la signora
di Castelbianco.
— Perdio! — mormorò egli all'orecchio dello zio. — La prima ispirazione
era la buona. Non avrei dovuto venire.
— Che diavolo dici tu ora? — rispose il Gonzaga. — Guaio per guaio,
meglio incontrarla qui, fra tanta gente, che altrove, a quattr'occhi.
Sta saldo, ragazzo, e mostrati cortese, mi raccomando. —
Egli stesso sarebbe corso ad ossequiare la signora contessa. Ma prima,
poichè gliene veniva il destro, volle chiedere certe notizie ad Andrea,
che per il momento non aveva nessuno alle costole.
— Ebbene, hai parlato alla nostra cara Gabriella?
— Sì, oggi stesso. Ma che debbo io dirti? Per ora non sa risolversi.
— Ahi! — esclamò il Gonzaga. — In questi casi una proroga vale quanto un
rifiuto. —
A questa interpretazione il Manfredi non seppe rispondere nè per sì, nè
per no.
— Cesare mio, — diss'egli invece, stringendo affettuosamente il braccio
dell'amico, — se tu sapessi come io ne sono afflitto! Vorrei vederti
contento, ed anche contro un certo dovere che la prudenza di padre mi
potrebbe comandare. Perchè, infine, tuo nipote, mentre desidera tanto
questo matrimonio, ha qualche legame... che dovrebbe trattenerlo.
— Saranno chiacchiere di scioperati. Chi te le ha riferite?
— Senti, a te non posso e non voglio nasconder nulla. Una lettera
anonima.
— È il giorno! — brontolò Cesare Gonzaga. — Ah, senza dubbio, bisogna
dare una lezione a quel conte che vedo laggiù, a fare il cascamorto
presso tua figlia.
— Che cosa dici? Il conte Guidi?... È venuto poc'anzi con la contessa di
Castelbianco, ma non è neanche tra gli assidui frequentatori di casa
mia.
— Ah! E lo ha condotto la signora? — ripigliò il Gonzaga, ridendo
amaramente e tentennando la testa.
— Ma che ci vedi tu di mal fatto? Che sospetti hai?
— Te lo dirò un'altra volta, quando mi sarò formato una vera certezza,
intorno a certe cose. E dimmi, intanto; la lettera accennava anche il
nome di una signora?
— Sì.
— Di una signora... che è qui? — proseguì sotto voce il Gonzaga.
Il senatore Manfredi chinò la testa, senza rispondere.
— Ah, infami! — disse il Gonzaga. — Senti, Andrea; qui, intorno a noi, è
stata ordita una negra congiura, e noi dobbiamo romperla. Tu sei un uomo
savio e prudente; non credi a nulla di ciò che ti hanno scritto. Ma tua
figlia ne sa qualche cosa?
— Sì, ma ci crede anche meno di me, che, per dirti il vero, son rimasto
un pochino sconcertato, e più per la persona indicata, che non per la
cosa in sè stessa.
— Ah, meno male; — disse Cesare; — Gabriella non crede. Ma la ragione
per cui non sa risolversi?...
— In verità, non saprei dirtela. È tutta in un suo particolar modo di
pensare. Del resto, io ti ho dato licenza d'interrogarla; parlane a lei.
— Domani, se qualche altro guaio non viene a guastarmi la giornata,
vengo sicuramente da te. Non voglio a nessun costo aver perduta ogni
speranza.
— E non lo vorrei neppur io. Non già per tuo nipote, che a parer mio ha
bisogno di correggersi in molte cose, ma per te che amo tanto. Se questo
matrimonio non si fa, lo prevedo benissimo, tu fuggi da Roma ed io ti
perdo per sempre. Capirai che questo non mi convenga punto, dopo
trent'anni di lontananza.
— Tu sei buono, Andrea! — disse il Gonzaga commosso. — Ed io certamente
non farò colpa a te di un rifiuto, che distruggerebbe tutte le mie più
care speranze. Ma è certo del pari che non rimarrei a Roma un giorno di
più. —
La contessa Giovanna si avvicinava, e i due amici troncarono subitamente
il discorso, disponendosi con viso lieto a riceverla.
— Di che stanno parlando con tanto calore? — domandò la contessa. — Di
politica, m'immagino. È la nostra capitale nemica, la politica.
— No, contessa; — rispose il Manfredi. — Proprio in questo momento
parlavamo di gioventù. E questa è nemica nostra, perchè da troppo tempo
ci ha abbandonato. Cioè, dico male, ha abbandonato me, non il mio amico
Gonzaga, che è sempre un fior di giovanotto.
— Lo pensavo per l'appunto, guardandolo; — ripigliò la contessa. — Ma
non glielo dirò, perchè sono in collera con lui.
— Signora, e perchè? — disse il Gonzaga.
— Perchè mi ha veduta, e non è ancor venuto a stringermi la mano.
— Signora, mi perdoni; c'erano tanti all'adorazione, e giovani e vecchi,
che io non ho osato competere coi primi, nè accrescere il numero dei
secondi. Ma eccomi qua, desideroso di ottener la sua grazia.
— Ve lo lascio, contessa; — disse il Manfredi. — Sentirete da lui tante
cose galanti, che non potrete tenergli il broncio, e dovrete ripetergli
che è il più giovane dei giovani. —
La contessa sorrise, prendendo il braccio di Cesare Gonzaga. Ma appena
il senatore si fu allontanato, si volse al suo cavaliere per dirgli:
— Ebbene? Come vanno gli affari del suo protetto?
— Per ora, ch'io sappia, — rispose il Gonzaga, — vanno come quelli del
conte Guidi. È lei, contessa, che lo ha condotto qua?
— Sicuramente. E le dispiace?
— Un pochino; tanto più che non dovevo aspettarmi questo da lei.
— È buona guerra, Gonzaga. Ella è soldato, e non doveva aspettarsi
altro.
— Perchè? La guerra suppone la tregua, ed anche i trattati di pace. Dopo
ciò che è avvenuto stamane, credevo sinceramente alla pace. Non dovrei
vantarmi, contessa, ma ella mi costringe a rammentarle che l'ho salvata,
stamane.
— Doveva lasciarmi perdere; sarebbe stato meglio; — ribattè la contessa,
con accento sdegnoso. — Sappia, Gonzaga, che queste nozze io non le
voglio... non le voglio, ha capito? Si volga altrove, quell'uomo, non
alla signorina Manfredi.
— Calma, signora! Sarà quello che il destino vorrà, — disse pacato il
Gonzaga.
La contessa Giovanna gli volse uno sguardo bieco, che pareva dirgli
com'ella avrebbe anche saputo lottare col destino. Quindi, traendo il
suo cavaliere verso il crocchio di Gabriella, ricompose la faccia ad una
espressione di bontà e di allegrezza, che non pareva più lei.
— Carina! — diss'ella, avvicinandosi alla signorina Manfredi e lasciando
il braccio di Cesare Gonzaga. — Mi vuoi con te? Si terrà corte, mentre
laggiù i personaggi gravi ragionano di politica. Guidi, esponete un bel
fatto, perchè noi possiamo dar la sentenza.
— Volentieri, per dar l'esempio dell'obbedienza; ma non un bel fatto; —
rispose il conte Guidi, inchinandosi. — Un cavaliere teme di aver
perduto la stima di quella dama a cui ha dedicato il culto più puro e il
più rispettoso. Che dovrà fare, per accertarsene? Che dovrà fare, per
ritornare in grazia?
— Ah, siamo in Corte d'amore? — entrò a dire il primo seccatore del
regno, che si trovava accanto al sofà verde cupo. — Usanza
provenzale!...
— I Romani non la conoscevano; — brontolò Cesare Gonzaga,
allontanandosi, per andare in una sala vicina, a cercarvi il suo caro
nipote.


XV.

Arrigo era poc'anzi vicino a Gabriella; ma il ritorno improvviso della
contessa di Castelbianco lo aveva messo in fuga.
— Che hai, zio? — diss'egli, vedendo il Gonzaga con le ciglia
aggrondate.
— Ho... ho, che tu potevi rimanere accanto a Gabriella. Il contino non
aspettava che la tua fuga, per occupare il tuo posto.
— Dovevo forse rimanere? Con quell'altra, che mi fa gli occhiacci!...
— Che vuoi, che ti divori? Ah, benedetto ragazzo! Tu commetti gli
errori, e non sai riscattarli con un po' di coraggio. Eccolo laggiù, il
contino, che fa il trovatore davanti alle belle! Sento una gran voglia
di schiaffeggiarlo.
— E perchè?
— Un'altra lettera anonima, capisci? E questa, poi, l'ha ricevuta il
senatore Manfredi.
— E tu sospetti di lui? — disse Arrigo. — Sei ben sicuro di non fargli
torto, e di non essere tanto più ingiusto verso di lui, dopo che egli ha
incaricato i suoi padrini di farti delle scuse?
— Si possono far delle scuse per debolezza d'animo, come hai creduto tu
questa mane, o per non guastarsi con qualche persona troppo amica
dell'avversario, come ho creduto io; — rispose il Gonzaga. — E in un
caso e nell'altro, si possono affidare le proprie vendette ad armi come
queste. Eccoti una delle lettere, che oggi sono state scritte; è quella
che fu mandata al conte Pompeo. Non ti par naturale di applicarle la
massima romana: “_is fecit cui prodest_?„
Arrigo diede una scorsa alla lettera, e fremette; poi osservò
attentamente la mano di scritto.
— Questo carattere non mi giunge nuovo; — diss'egli.
— Bada; è carattere di donna.
— Appunto per questo. Ho già ricevuto lettere, da questa mano, molto
tempo fa. E dopo che non ne ho più ricevute io, ne avrà ricevute un
altro. Ah, ecco! — esclamò Arrigo, che aveva finalmente trovata la via.
— Ma in verità, sarebbe una cosa orribile. Lui?
— Chi? — disse il Gonzaga. — In nome di Dio, chi sospetti che sia?
— Orazio; — mormorò il Valenti. — Ma la ragione di far ciò? Io non la
vedo. Un amico!...
— Al quale hai ricusato ieri cinquemila lire, in un momento difficile.
— Non gliele hai imprestate tu, zio? e senza ricevuta?
— Non è la stessa cosa, — disse il Gonzaga. — Ad ogni modo, se il tiro
viene da lui, il signor Ceprani è un tristo soggetto.
— Io non l'ho mai avuto per uno stinco di santo; — ripigliò Arrigo
Valenti. — L'ho sempre speso per quel che valeva, e niente di più. Ma
lasciamo stare il Ceprani. Tu restituirai ora la tua stima a quel povero
Guidi?
— Non vedo la necessità di correr tanto; quantunque veda quella di
ritornare di là, in mezzo alla gente. Guardalo laggiù, sempre
appiccicato alla spalliera del sofà dove siede Gabriella. Dio, quante
smancerie! E tu seguiti a far l'astratto, mentre egli ti voga sul remo.
— Eh, caro mio, — disse il giovane, mentre seguiva lo zio nella sala
grande, da cui si erano allontanati, — non trovo da fare di meglio, in
questo momento, e penso di riposare tra due guanciali, fidandomi in te.
Lo sai, il proverbio? Fortuna e dormi. E si può dormire, quando la
fortuna sei tu.
— Arrigo, Arrigo! Se tu seguiti a prender le cose con tanta fiacchezza,
ti do la mia parola d'onore, che piglio il primo treno di domani, e me
ne ritorno alle Carpinete, donde non mi caveranno più neanche gli
scongiuri.
— Come? Ti darebbe l'animo di abbandonarmi? Proprio ora?
— Senti; che serve rimanere? Intanto, ella non vuol saperne di
matrimonio.
— Non vuole? Lo ha detto a te? — chiese Arrigo, turbato.
— Lo ha detto a suo padre, e mi pare che basti. —
Il giovane non fece parola; ma il suo aspetto disse chiaramente allo zio
che egli era stato profondamente colpito.
Cesare Gonzaga, chiamato a dire la sua opinione in una disputa
amichevole tra il senatore Manfredi e parecchi colleghi, si allontanò
dal nipote, che rimase solo, taciturno e smarrito nel salotto, come un
povero forastiero in un paese di cui non sappia la lingua e dove non
conosca un'anima.
Quanto rimase là solo? Un bel pezzo, di certo, e senza avere il coraggio
di accostarsi al crocchio delle signore. Da principio lo tenevano
lontano le guardate feroci di Giovanna; allora, poi, sentiva vergogna di
presentarsi a Gabriella Manfredi, alla fanciulla che lo avea rifiutato
lì per lì, senza dubitare un istante. Povero amor proprio! In esso ci
tocca di soffrire, quando non vive in noi altro sentimento più degno.
Arrigo Valenti avrebbe voluto essere mille miglia lontano; ma non c'era
verso di muoversi da quella sala, dove tutti erano seduti a crocchi, e
dove il timore che la sua partenza fosse troppo notata, lo teneva
inchiodato. E tutti, vicini e lontani, parevano aver gli occhi su lui.
Si accostò allora ad una tavola, prese un giornale illustrato, e fece le
viste di leggere. Aveva finalmente trovato un atteggiamento; non faceva
più la figura dell'uomo impacciato, abbandonato, sfuggito da tutti, che
è tanto ridicola in mezzo alla gente, a quella gente tutta composta di
prossimo nostro, e perciò così pronta ad avvedersi delle nostre angustie
e a farne argomento di beffe. Là ritto alla sponda della tavola, col suo
giornale tra mani, un giornale su cui teneva gli occhi e non vedeva una
sillaba, udiva dietro di sè le voci dei cavalieri e le risa della
contessa di Castelbianco, risa frequenti ed alte, ma troppo asciutte, e
certamente poco sincere. Comunque fossero, beata lei, che poteva ridere
ancora! Quella ilarità continuata, che a volte tradiva lo sforzo, era
sempre una gran cosa, al confronto di quella confusione che teneva lui
in disparte, solitario, con un giornale in mano, come un uomo che fosse
andato in società non per altro che per vedersi lasciato in un angolo.
La contessa chiacchierava e rideva, ma nel fatto soffriva moltissimo. Ad
un certo punto non resse più, e parlò improvvisamente di andarsene.
Erano le dieci, e la sua carrozza doveva essere davanti al portone in
attesa. Quante volte, e con la pioggia fitta, la carrozza non era
rimasta là sotto, ad aspettare la signora, che non avrebbe mai detto di
muoversi! Ma quella volta non voleva farla aspettare neanche un minuto.
Il conte Guidi, che l'aveva accompagnata all'arrivo, si offerse
gentilmente per accompagnarla alla partenza.
— No, grazie, conte, rimanete; non voglio che nessuno si scomodi per me.
Fate chiedere piuttosto se la carrozza è giunta. Il mio domestico sarà
già in anticamera. —
Il conte Guidi andò a prendere informazioni, e tornò subito dopo,
annunziando che la carrozza era giunta. Frattanto il circolo delle dame
si era disfatto, e la contessa di Castelbianco, andando verso il
senatore Manfredi, che stava in conversazione col suo sinedrio di gravi
personaggi, passò accanto ad Arrigo, che si tirò indietro, salutando.
Essa gli diede un'occhiata sdegnosa, rise e gli gittò sul volto una
frase, che sibilò come un colpo di frusta:
— Siete un vile!
— Signora!... — disse Arrigo, sbalordito.
— Siete un vile! — riprese ella, incalzando. — Volete che vi schiaffeggi
qui, alla presenza di tutti? —
Arrigo si ritrasse ancora, chinando la testa, e si allontanò prontamente
da lei.
Cesare Gonzaga aveva veduto l'incontro e indovinato facilmente uno
scambio di parole aspre fra i due. Avvicinatosi al nipote, mentre la
contessa stringeva la mano al senatore Manfredi, gli disse:
— Che è stato? Che cosa ti ha detto la contessa?
— Nulla, zio, nulla; parole amare, sciocchezze da non farne caso. —
E fremeva, parlando così, e guardava sempre intorno a sè, come cercando
qualche cosa. La contessa, frattanto, era partita, e poco stante, fatti
i suoi saluti alla signorina Manfredi, anche il Guidi si mosse per
uscire. Arrigo lo seguì in anticamera, indossò il pastrano anche lui, e
si avviò per le scale sui passi del conte. Quell'altro se lo era veduto
benissimo alle calcagna; ma a tutta prima non ne avea fatto caso,
credendo che si trattasse di una combinazione fortuita. Ma dovette
ricredersi nell'atto di escire sulla via, quando Arrigo Valenti,
affrettando il passo per raggiungerlo, gli disse:
— Signor conte, avrei qualche cosa da chiederle.
— Parli, sono a' suoi ordini; — rispose egli, assumendo tosto un'aria di
cerimonia.
— Poc'anzi, — riprese Arrigo, — una donna ch'ella ha accompagnata in
casa Manfredi....
— Una signora, non una donna; — interruppe il conte Guidi; — la prego di
correggere.
— È giusto; — rispose Arrigo, dopo un istante di pausa. — Non era mia
intenzione di venir meno al rispetto che a quella dama è dovuto. La
signora, adunque, passandomi daccanto, non so per qual cagione di sdegno
contro di me, mi ha detto: vile. —
Il conte Guidi, che si era fermato a guardare il suo interlocutore,
ascoltando pazientemente il suo piccolo racconto, si strinse nelle
spalle, con aria di dirgli: che c'entro io?
— Le signore, — continuava frattanto il Valenti, — hanno parole che
colpiscono peggio dei ceffoni. A noi uomini restano le mani, per
restituire ai cavalieri quello che abbiamo ricevuto da esse. —
Così dicendo, levò la mano e percosse.
Il conte Guidi si aspettava un alterco, e fors'anche un'offesa; ma non
aveva preveduto tanta prontezza di mano. Cacciò un urlo e si scagliò sul
Valenti, che era preparato a riceverlo. Ci fu il solito pugilato, il
solito accorrere dei viandanti, e la solita separazione dei combattenti,
senza che nessuno degli accorsi riconoscesse quei due inferociti
cavalieri e sapesse perchè si fossero accapigliati. Allontanatosi primo
dalla calca, Arrigo vide passare una vettura da nolo, fortunatamente
vuota; vi saltò dentro e disse:
— Allo _Sport_, in via Condotti, e alla svelta! —
Anche il conte Guidi, liberatosi dalla ressa degli importuni, andò di
buon passo allo _Sport_. Giunto colà, prese in disparte i due primi
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