Arrigo il savio - 08

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— Che vuole? Siamo ancora giovani; — disse il Castelbianco,
pavoneggiandosi. — A proposito di movimento, abbiamo fatto una lunga
seduta, ed io me ne andrò. Lei avrà da fare. Il duello di cui mi
parlava....
— Ah, non ci penso neanche. Son cose che risguardano i miei padrini.
Quando è l'ora, si parte: alla guerra col piè destro, al “singolar
certame„ col piè sinistro.
— Non conoscevo questa distinzione. È indiana, forse?
— Non so, ma potrebbe anche darsi; — disse il Gonzaga, ridendo. — È
tutto indiano, in Europa: lingua, civiltà, superstizioni, sciocchezze.
— Ella è di buon umore; — ripigliò il conte Pompeo. — Ecco un augurio
che val quello del piè sinistro. Aggiungo i miei, e caldissimi.
— Grazie, e a rivederci.
— Dove? Quando? Va dai Manfredi, stasera?
— Forse... anzi, senza il forse.
— Bene! Ci darò una capatina ancor io. Buon giorno, Gonzaga. —
E se ne andò finalmente, saltellando nel modo che sapete. Era leggero
sempre, il conte Pompeo; ma dopo quella conversazione, che fu una
particolare fatica di Cesare Gonzaga, era anche più leggero del solito.


XII.

— Una grande ispirazione è stata la mia — esclamò il Gonzaga, appena fu
solo. — Come è vero che, quando si ha una cosa da fare, bisogna farla
subito! Si era teso un bell'agguato! Ah, bisogna accoppare questo conte
Guidi. Arrigo non capisce nulla; ma vivaddio, questa volta si rimedia a
tutto. Ora andiamo a vedere madama Duplessis. Happy! —
Il servitore, chiamato, apparve sulla soglia.
— Illustrissimo, comandi.
— Siamo soli in casa?
— Solissimi; anche il cuoco è uscito per le sue faccende.
— Bada, per cinque minuti non deve entrare nessuno. Se suonano, vieni
prima ad avvertirmi, bussando a quell'uscio; hai capito?
— Non dubiti. —
Appena fu escito il servitore, Cesare Gonzaga andò ad aprir l'uscio di
comunicazione. Immaginate la sua maraviglia, quando trovò là dietro,
appoggiata allo stipite, pallida, contraffatta nel viso, la contessa
Giovanna.
— Lei qui!... — esclamò egli. — Ancora!...
— Sì; — esclamò la contessa, restando immobile al suo posto, con gli
occhi spalancati e fissi, ma senza guardare il Gonzaga.
— Signora, si sente male? Mio Dio! — gridò egli. — Che cosa posso fare
per lei?
— No, non badi a me! — ripigliò la contessa. — La rabbia mi soffoca. Da
un'ora son qua, e senza potermi sfogare in un grido.
— Ma perchè rimanere? Io la credevo già fuori da un pezzo.
— Volevo, ma mentre stavo parlando con la signora Duplessis, per
colorire la mia presenza in questo luogo, mettendo il mio racconto
d'accordo con quello che aveva fatto lei.... Quante parole sprecate! —
gridò ella, interrompendo la frase e dando in un riso amaro che sapeva
di lagrime. — Mentre ero là, hanno suonato all'uscio. Era il conte. Ho
fatto in tempo a rifugiarmi qua, pronta a venire da lei, chiunque ci
fosse in sua compagnia, nel caso che egli, insospettito, avesse voluto a
forza visitar tutto il quartiere.
— Ma con qual pretesto è egli entrato dalla signora Duplessis?
— Cercando il signor Valenti. Fingeva di avere sbagliato, di non aver
visto il cartellino. Maravigliato, anche interdetto per le risposte
della signora, se ne andò, facendo le sue scuse.
— E qualche minuto dopo, perchè non uscire anche lei?
— Temevo fosse appostato nella strada. Aspettavo lei, che mi aveva detto
di venire. Non vedendolo, ritornai fin qua. Egli, appunto allora,
giungeva in questa camera. Ho creduto necessario di fermarmi, per udire
ciò ch'egli diceva.... Mio Dio! Ed ho udito tutto, ho udito troppo. È
orribile, sa, è orribile, quello che ho dovuto sentire dalle sue labbra!
— La necessità mi ha costretto, signora; — rispose il Gonzaga. — Qualche
cosa bisognava pur dire, per convincere quell'uomo infuriato.
— Sì, mi lasci credere ora che non ha detto il vero! — replicò la
contessa. — Ella non è uomo da mentire, signor Gonzaga!
— Ho pure mentito per tutto il tempo che ho dovuto ragionare con lui! —
notò egli, sospirando.
— Ma per gli altri, per una donna, e non per sè; — rispose la contessa.
— Non avrebbe certamente gittato là il nome di una fanciulla, se non
fosse stato per dire la verità. —
Cesare Gonzaga chinò la fronte e non rispose parola.
— Il suo Arrigo è un infame; — proseguì la contessa. — E non aspettò
nemmeno che io, povera donna, lo pregassi di lasciarmi coi miei rimorsi.
E mentre io mi perdevo per lui, egli.... Perchè infine, una donna avrà
torto, meriterà il biasimo degli uomini come lei, ma ella è sempre una
povera disgraziata, che la passione accieca; mentre l'uomo che accanto a
quella donna medita un tradimento, e ordisce freddamente un intrigo per
liberarsi da lei, per volgersi ad un'altra, quell'uomo è un vile.
— Contessa, la supplico; — disse il Gonzaga, costringendola con atti
amorevoli a sedersi, poichè la vedeva così fieramente turbata e
convulsa; — pensi che troppo male è accaduto; pensi che io ho fatto
quanto era umanamente possibile per iscongiurare un grande pericolo;
pensi che, se io non ero, se perdevo anch'io la testa come tutti gli
altri, ella sarebbe stata scoperta, e una famiglia rispettata e
rispettabile sarebbe divenuta la favola di tutta Roma; pensi infine....
Lo so, è difficile; — soggiunse egli, notando gli atti di diniego della
donna esacerbata; — ma bisogna vincersi, perdio, bisogna sforzar la
mente a pensare, a considerar le cose, e tanto più attentamente, quanto
più sono gravi. Ciò che oggi le sembra un gran male, un male
irrimediabile, un mal da morire, è forse un bene, la liberazione, la
salvezza.
— Oh, non dubiti, non ne morrò; — non voglio morirne! — rispose la
contessa. — Ben altro mi resta da fare. Ma ella sappia, signor
Gonzaga.... Questo matrimonio è impossibile; è una follìa, a cui bisogna
rinunziare. Ella è amico del senatore Manfredi, ed ha certamente molto
potere sull'animo suo. Ma se ella abusasse di un tanto potere per
strappargli un consenso a queste nozze, avrebbe cagionata la rovina di
una povera fanciulla.
— Come sarebbe a dire? — gridò il Gonzaga, turbato.
— Gabriella non ama, e non amerà mai quell'uomo, che a lei piacerebbe di
darle in marito. —
Cesare Gonzaga rimase muto un istante, guardando la contessa, come se
volesse cercarle negli occhi il segreto di quelle audaci parole. Ma
quegli occhi fissi ne' suoi, come in atto di sfida, non gli dissero
nulla, e Cesare Gonzaga, dopo quell'istante di pausa, così parlò
gravemente:
— Senta, signora; a me non piace nulla, e da gran tempo, oramai. Pregato
da un mio congiunto, posso chiedere un assenso, e per cosa non
disonorevole, nè indegna di chi deve rispondermi; ma non soglio far
violenza all'animo di nessuno, nè con l'arte degl'inganni, nè con le
ragioni dell'amicizia. A chi non conosco, a chi non amo, quando
l'occasione si presenta, faccio anche servizio, nella misura delle mie
forze; a chi amo non impongo sacrifizi e non preparo pentimenti.
— Perdoni! — balbettò la contessa. — Non volevo dir questo.
— E allora, — ripigliò il Gonzaga, — che cosa ha voluto dire?
— Quello che saprà ella stessa, se interroga il cuore della signorina
Manfredi, prima di parlare a suo padre. Gabriella non ama il cavaliere
Valenti.
— E chi ama?
— Io... non lo so. E se lo sapessi, non lo direi.
— Contessa, la prego....
— È inutile; — diss'ella, alzandosi con un gesto d'impazienza. — E sono
già troppo rimasta nella casa di quell'uomo. —
Cesare Gonzaga non la trattenne; ma la seguì, da buon cavaliere, sino
all'uscio del quartierino di via Sallustiana, passando davanti alla
buona signora Duplessis, che finse non badare a quella scena di
corruccio femminile. _Etait-elle coutumière du fait_, la bella
mercantessa di mode?
Certo, ella era molto caritatevole, e ne avea dato una prova luminosa.
Cesare Gonzaga, poichè la contessa fu escita, e senz'altra cortesia che
un freddo saluto di cerimonia, si fermò a ringraziare la gentil parigina
con tutta la effusione dell'anima. Poi, chiesta licenza, si affacciò
alla finestra per dare un'occhiata in istrada e assicurarsi che la
contessa Giovanna avesse passato il marciapiede senza incontri
spiacevoli. Così avvenne difatti, perchè il destino avverso si era
stancato di perseguitare la bella passeggiatrice, e Cesare Gonzaga la
vide girar tranquillamente il capo delle Tempeste, e andar diritta e
sicura per via Nazionale.
Andava sicura e diritta, la graziosa signora, anche serena nell'aspetto,
dopo aver data la sua notizia di colore oscuro, dopo averla gittata là,
come la classica freccia del Parto fuggente. Quella notizia, quella
frecciata, tornava molesta in singolar modo al Gonzaga. Era dunque vero
che Gabriella amasse già qualcheduno? E chi era costui? La contessa,
insistendo sulla necessità di parlare con la fanciulla prima di
rivolgersi al padre, confidava forse che il signor Cesare non avrebbe
ardito di commettere questa violazione delle buone costumanze sociali;
ma ella in ciò s'ingannava, poichè Cesare si era già rivolto al padre ed
aveva anche ottenuto licenza di esplorar l'animo della figliuola, nè
certamente si sarebbe astenuto dal farlo. Ma se davvero Gabriella gli
rispondeva in quel modo, che con tanta sicurezza pareva pronosticargli
la contessa di Castelbianco, povere combinazioni architettate da Arrigo
Valenti, e poveri sogni vagheggiati dallo zio! Perchè, infatti, anche
lui ci aveva posto l'animo, e in due giorni di riflessione si era
innamorato della sua parte. Se da principio la crudeltà di Arrigo verso
la contessa Giovanna aveva ferita la sua fibra di antico cavaliere, ciò
ch'era avvenuto in quei due giorni pareva fatto a bella posta per
levargli quella fisima dal capo e condurlo a desiderare più che mai il
matrimonio del nipote con la signorina Manfredi.
Si scosse, ritornando nelle sue camere, non volendo pensarci più a
lungo, e rimettendo a quella sera la spiegazione dell'enimma che gli
aveva proposto la Sfinge. Del resto, Arrigo ritornava in quel punto, e
per allora ci doveva esser altro da fare.
— Ne capisci niente, zio? — incominciò Arrigo, appena giunto alla
presenza del Gonzaga.
— Di che?
— Di ciò che è avvenuto or ora al caffè di Venezia. Leggi qua. —
E gli diede così dicendo una carta. Era il processo verbale compilato e
sottoscritto da quattro padrini. I considerandi ritenuti necessari dal
Gonzaga c'erano tutti, nell'ordine logico e naturale voluto da lui.
— Che è stato? — disse il Gonzaga, dopo aver letto e riletto il verbale,
e levando gli occhi a guardare il nipote.
— Che i nostri avversari hanno riconosciuto tutto ciò che a noi è
piaciuto di far riconoscere. Dico noi, ma è più giusto di dire Orazio
Ceprani. Il processo verbale è scritto di suo pugno, come ti dimostrerà
la sua firma. È stato lui l'esecutore di questa mossa strategica, che tu
avevi consigliata.
— Ma, dico io, come ne è venuto a capo? — ripigliò il Gonzaga. — A me,
te lo confesso, a me sembra di sognare, con questa carta tra le mani.
— A me sembrò di sognare quando la sentii leggere, e sopra tutto quando
la vidi sottoscrivere dal duchino di Roccastillosa. Ma procediamo con
ordine; — soggiunse Arrigo. — Ti dirò che mi ero fermato per comprar
sigari, mentre Orazio era andato avanti, per trovare i nostri avversari
e colleghi al caffè. Quando giunsi, il discorso era già avviato e i
nostri personaggi persuasi. E tu eri sicuro di batterti? _pends-toi,
brave Gonzague_; per questa volta l'hai fatta bassa; il conte Guidi ti
sfugge.
— E sfugga finchè vuole, e passi anche l'Atlantico; — disse il Gonzaga.
— Ma qui sotto c'è qualche cosa.
— Che! Ne ho domandato ad Orazio, quando rimanemmo soli, col nostro
foglio di carta in mano, ed egli mi ha risposto: “Che cosa ci trovi di
strano? Non si doveva fare un cencio di processo verbale? L'ho ricordato
e mi han detto di sì; ho accennato ai considerandi, nella forma che
aveva detto tuo zio, e mi han detto di sì; tu sei capitato, io ho
incominciato a scrivere, e il resto ti è noto. A me pare la cosa più
naturale del mondo, che si ammetta di veder scritto quel che si è detto,
e che a quel che si è detto si apponga la firma.„
— Ti dico che c'è qualche cosa, qui sotto; — replicò il Gonzaga.
— Eh, infine, non ci vorrà molta fatica a capirlo; — disse Arrigo. — Per
esempio il timore di aver da incrociare il ferro con te.
— Lo aveva pure voluto! — osservò l'altro, facendo una spallucciata.
— Non credo. Aveva un pochino di stizza in corpo; ha cominciato a
parlare; tu l'hai stretto al muro, ed egli si è trovato dentro senza
avvedersene. Ma poi, ripensandoci a mente fredda, ha fatto i suoi
calcoli per dare ed avere; ha notato che tu eri preponderante, con
quella tua statura, con quelle spalle da Ercole, e che gli avresti
spezzato con un colpo il suo giuochetto da tiratore mingherlino. Poteva
benissimo accettare il duello alla pistola; ma anche qui, povero Guidi,
ti vedo e non ti vedo! Egli ha ricordato sicuramente che non dovevi aver
fatto invano per trent'anni il soldato. Sai, sono cose che si mettono in
conto, queste, e prima d'imbarcarsi ci si pensa due volte.
— Ah, gliele avrei fatte veder volentieri! — esclamò Cesare Gonzaga. —
Ma io penso un'altra cosa, più modesta e fors'anche più vera; penso che
il tuo conte Guidi abbia temuto di guastarsi coi Manfredi, e si sia
tirato indietro con me, per mettersi in buona vista con Gabriella. La
farà valere, questa sua debolezza; te lo dico io, la farà valere. —
Arrigo si strinse nelle spalle, e rispose:
— Con te per protettore, non ho paura di nulla.
— Eh, tu fai presto a dirlo!
— E come no? tu salvi tutto; è il tuo ufficio.
— A proposito, se ne sono aggiustate parecchie, ma non ancor tutte,
quest'oggi; — ripigliò il Gonzaga. — Fammi il piacere di correre dal tuo
padrone di casa e di raccomandargli che non ti tradisca. Sai quel che ho
fatto, stamane? La metà del tuo quartiere, quello di via Sallustiana, è
occupata.
— Da chi?
— Da madama Duplessis, la mercantessa di mode.
— Che follia è questa?
— Follia! Ah, tu la chiami follia? Sappi che stamane il conte di
Castelbianco ha ricevuto una lettera anonima. Gli dicevano: “Voi avete
creduto, davanti a un uscio di via Sallustiana, di riconoscere vostra
moglie. Pensate che il cavalier Valenti abita ad un secondo piano in via
Nazionale. Non potrebbe quel secondo piano continuare in via
Sallustiana? Informatevi, e date intanto a vostra moglie questo semplice
annunzio: Arrigo oggi ha un duello.„
— Che infamia! — esclamò Arrigo. — E chi mai ha potuto?...
— Non cerchiamo chi ha potuto, e consideriamo il fatto in sè; — rispose
lo zio. — Era anche l'opinione del conte Pompeo, diventato di punto in
bianco un filosofo. Quella povera donna, caduta nel tranello, è venuta
qua, ma prima che il conte non si aspettasse. Le ho aperto io; ho
capito, non so più come, e lì, senza metter più tempo in mezzo, ho fatto
un colpo da maestro. Dopo dieci minuti di colloquio con me, la brava
madama Duplessis è discesa al secondo piano, con una parte delle sue
carabattole, mentre Happy inchiodava sull'uscio il biglietto di visita.
Quell'altro è capitato, ha bussato, e s'è trovato a faccia a faccia con
una parigina, mercantessa di mode. —
Arrigo era rimasto muto, ascoltando il discorso dello zio.
— Ora ci sarebbe da raccontarti dell'altro, per dimostrarti che le hai
fatte grosse e che c'è voluto molto sangue freddo e molta chiacchiera da
parte mia, per rimediarci. Ma tu devi fare dell'altro, e senza un minuto
di ritardo; — disse il Gonzaga. — Il conte, che tu hai veduto qui,
reduce dalla sua impresa fallita, e che io ho finito di persuadere, non
andrà, spero, a prendere altri ragguagli dal padrone di casa. Ma
potrebbe anche andarci, e tu devi parare il colpo alla svelta.
— È inutile; — rispose Arrigo Valenti. — Non sono poi così sciocco come
tu pensi, mio caro zio, e avevo preveduto questo caso.
— Ah, sì? E che cosa avevi fatto? Sentiamo.
— I due stabili, — ripigliò Arrigo, — appartengono allo stesso
proprietario, ma non hanno comunicazione di quartieri che al secondo
piano.
— Appunto per questo tu devi pregarlo....
— Aspetta, ci ho dell'altro da dire. La comunicazione è stata aperta da
me.
— Ma se tu hai in affitto i due quartieri! — disse lo zio.
— Sì, ma quello di là non l'ho preso col mio nome.
— Davvero? Te ne lodo. Una almeno l'hai fatta giusta.
— Sicuro. Vedi? Gli ho fatto dare il primo nome che mi è venuto alla
mente: quello di Orazio Ceprani.
— Ah, matto! — gridò Cesare Gonzaga. — E avrai dovuto confidare il
segreto al Ceprani.
— No, non gli ho detto nulla.
— E come hai potuto fargli prendere in affitto un quartierino, senza che
egli lo sapesse?
— Sai? Pagando un anno anticipato, non c'è pericolo che l'esattore vada
a cercarlo per un pezzo.
— E sia; ma l'esattore, o il padrone, potrà parlarne a caso, e ad ogni
modo lasciar correre il nome di Orazio Ceprani, mentre noi abbiamo là
una madama Duplessis.
— Senti; si potrebbe in questo caso parlare ad Orazio, che andasse
lui....
— Sì, bravo! Questa è una trovata!
— Ma infine, — disse Arrigo, che notò l'ironia nell'accento dello zio, —
Orazio è un amico, che mi ha qualche obbligo, ed io non vedo il
pericolo....
— Ah, poveri quattrini di tuo padre! — gridò il Gonzaga, mozzandogli le
parole in bocca. — Della giuris...prudenza non hai ritenuto che il
_giuris_, dimenticandoti volentieri del resto. Bene... anzi male, e
basta così. Andrà come potrà. Se si esce sani da questo ginepraio, credi
a me, bisognerà portare un voto a san Crispino, quello che non le
faceva, povero a lui, ed era sempre costretto a rattopparle. —


XIII.

Il senatore Manfredi, quel giorno, fra le sette e le otto del
pomeriggio, aveva una faccia rannuvolata che mai. Quali cure lo
affliggevano? Non già il pensiero della legge sul riordinamento del
Genio Civile, presentata due giorni prima dal ministro Baccarini in
Senato, e affidata allo studio di una commissione in cui egli non aveva
parte. E neanche la legge per l'applicazione del nuovo Codice di
Commercio, poichè questa doveva presentarla il ministro Magliani due
giorni più tardi, e la commissione che l'avrebbe studiata, sebbene egli
dovesse entrarci di pien diritto, era ancora di là da venire. Comunque,
nè questo tema, nè l'altro, nè gli annunziati provvedimenti per
soccorrere i danneggiati di un recente uragano in provincia di Forlì,
erano tali da doverlo impensierire a quel modo.
Gabriella, che lo aveva veduto sereno a colazione, non potè vederlo
rannuvolato a pranzo, senza domandargliene il perchè; aspettando,
s'intende, che la gente di servizio si fosse allontanata. Quella bella
diavolina, quando voleva una cosa da suo padre, la spuntava sempre, e
per due buoni ragioni: in primo luogo perchè era amata molto dal babbo,
e secondariamente perchè, essendo una savia ed accorta figliuola, non
domandava mai se non ciò che poteva domandare.
— Babbo, tu sei pensieroso, stasera; — aveva ella incominciato. — Che
cos'hai? Me lo dici?
— Che t'ho a dire, bambina? — rispose il senatore. — Sai bene!...
— Non so nulla, e perciò ti domando.
— Ma... — rispose egli, impacciato. — Finalmente, ho dato licenza
all'amico Cesare di parlartene egli stesso. —
A quell'annunzio, Gabriella levò la fronte, sgranò tanti d'occhi e
sorrise.
— Ah! — esclamò ella. — Si tratta di un discorso che ha da farmi il
signor Gonzaga, e sei triste? —
Il Manfredi contemplò un istante la figliuola, non senza maravigliarsi
di vederla così lieta all'udire quel nome.
— Sei dunque molto contenta che egli ti parli? — le chiese.
— Babbo... non so. Con che aria me lo domandi! Ma infine, che c'è di
male? Non mi avete assuefatta da bambina, tu e la povera mamma, a
stimarlo come un uomo nobile e buono, ad amarlo come il migliore amico
della famiglia? È venuto, dopo tanti anni che si aspettava; l'ho veduto
ancor io, e m'è parso superiore all'idea che m'ero fatta di lui. Sai? a
forza di sentirlo nominare come un giusto, come un uomo virtuoso, come
un'anima eccelsa, mi ero figurata un Socrate, un Platone, un Pitagora,
che so io! uno di quei tanti filosofi antichi, di cui tutti parlano, di
cui generalmente non si conosce che il nome, e che appunto per questo si
ricordano con maggior reverenza, anzi con venerazione. Che cosa ho
trovato, invece? Un gentiluomo, un perfettissimo gentiluomo, più vero di
tutte quelle immagini della mia infanzia, più grande e più giovane della
sua fama. E vuoi che io mi spaventi di ciò che quest'uomo ha da dirmi?
Non mi dirà, ne son certa, che delle cose gentili, delle cose piacevoli,
come me ne ha dette tante iersera.
— Ah, bambina! — esclamò il senatore Manfredi, non potendo, con tutta la
sua tristezza, trattenersi dal ridere. — E se egli ti chiedesse....
— Oh Dio! La mia mano? Col tuo permesso, gliele darei tutt'e due. È
questo che ti turba?
— Sì questo.
— Ma che c'è? — ripigliò Gabriella, accostandosi. — È egli forse
diventato meno nobile, meno buono, meno degno di te?
— No, Gabriella, no; ma vedi? l'uomo per cui egli verrebbe a chiedere la
tua mano.... io non so se sarebbe intieramente degno di te.
— Tu mi spaventi, babbo. Non si tratta dunque di lui!
— O come?... — gridò a sua volta il Manfredi, guardando con aria di
stupore la sua bella figliuola, quel fiore a mala pena sbocciato. — E
pensavi davvero che potesse trattarsi di lui?
— Eh, senti.... Ora mi fai arrossire della mia.... leggerezza. Ho fatto
male a pensare una cosa simile?
— No, no, no; — rispose il senatore, con una progressione ascendente di
tono. — Gabriella mia, tu sei più bambina che io non ti credessi, o più
vecchia. Si tratta, come ora spero che avrai capito, del nipote di
Cesare.
— Ah! — disse Gabriella. — Il signor Cesare deve parlarmi.... di suo
nipote? —
E accompagnò le parole con un cenno del capo, tra cerimonioso e ironico,
che era una delizia a vederlo.
— Volevi... dunque, volevi proprio che ti parlasse di sè? Un uomo maturo
come lui?
— Non me lo sembra; — rispose Gabriella. — Del resto, hai detto poc'anzi
che anch'io sono più vecchia che tu non credessi.
— O più bambina; — soggiunse il Manfredi. — La cosa restava un po'
dubbia.
— Ebbene, babbo, la si decida, come dicono a Firenze. Per me, scelgo di
esser più vecchia. Osservo molto, sai; e osservando ho anche
riconosciuto che i giovani... siete voi altri. So anche abbastanza di
storia antica, e tra zio e nipote...
— Oh, sì, vediamo come c'entra la storia antica fra Cesare e suo nipote.
— C'entra per dirti che Ottaviano valeva meno di Cesare.
— Ma divenne Augusto; — osservò il Manfredi.
— Per decreto del Senato; — replicò prontamente quella birichina; — ma
si troverà oggi il Senato per far la proposta? Io credo di no, tanto più
che vedo il signor senatore un po' inquieto.
— Di' pure impacciato e scontento; — riprese il Manfredi. — Già, vedo
che Ottaviano ti piace poco. Io, poi, che avevo dato licenza a Cesare di
parlarti per lui, oggi, dopo una certa lettera che ho ricevuto....
— Anonima? — interruppe Gabriella.
— Che ne sai tu? — disse Manfredi, rizzando la testa e ficcando gli
occhi addosso alla figliuola.
— Indovino; — rispose Gabriella. — Siccome ne ho una anch'io!
— Anche a te hanno scritto?
— Non a me, veramente, che non l'avrei ricevuta senza il tuo consenso,
ma a Carolina, che ne è rimasta tutta sconcertata. “Veda un po',
signorina (mi ha detto), che cosa mi scrivono; io non ne capisco nulla.„
— E dice, la lettera?
— Oh, delle cose stravagantissime. Questa, per esempio, che Carolina si
guardi bene di dare ascolto al cavalier Valenti, il quale ha già
un'altra passione. Ma io non te ne dico altro, perchè in verità mi
vergogno di ripetere ciò che ha scritto l'anonimo, e particolarmente il
nome di una persona rispettabile, che noi amiamo e stimiamo.
— Lo stesso nome scritto nella lettera che ho ricevuta io; — disse il
Manfredi. — E siccome non si poteva credere che quella lettera io la
facessi mai leggere a te, si è trovato il modo di darti la notizia per
mezzo di Carolina. Che infamie!
— L'ho capito benissimo, sai, che il ricapito era a Carolina, ma che la
lettera era scritta per me! Io, per altro, non le ho detto nulla di
questo mio pensiero, ed ella è ancora tutta sconcertata da quelle
raccomandazioni caritatevoli, e giura che il cavalier Valenti essa non
lo conosce neanche di vista. Sfido io! Ella è sempre nelle camere di
servizio, e l'unica volta che il cavaliere Valenti è venuto a portarci
il suo biglietto di visita, lo ha ricevuto il servitore. —
— L'hai tu, questa lettera?
— Sì, eccola qua; l'ho tenuta io, per il nome che c'era scritto, e che
non deve rimanere in mano di una cameriera. Volevo bruciarla, dopo
averla mostrata a te.
— Benissimo fatto; — disse il Manfredi. — Io nondimeno la conserverò
insieme con la mia, per confrontare i caratteri.
— E dimmi, babbo; nella tua... si parla anche di Carolina?
— Pazzerella! Si parla di un'altra personcina, che mi pare poco disposta
ad ascoltare i consigli dell'anonimo e le domande del cavaliere Valenti.
Non è così?
— Sai, babbo? Io sto così bene, con te! Ti dà noia il tenermi in casa?
— No, davvero; ma pur troppo ha da venire il giorno che io debba
lasciarti andar fuori.
— Non parliamo di quel giorno; ci sarà tempo.
— Capisco; — disse ridendo il Manfredi. — Non trattandosi dello zio,
rimani volentieri in casa del babbo.
— Come sei crudele! — esclamò la fanciulla. — Ho detto che se il signor
Cesare mi avesse parlato, col tuo permesso, lo avrei ascoltato. Non
debbo io obbedirti?
— Sicuro; ma egli, col mio permesso, ti parlerà per un altro. Che cosa
gli risponderai?
— Gli risponderò che son troppo giovane, ma che tu, del resto, disponi
della mia volontà. E siccome tu, della mia volontà, non ne disporrai per
questa volta, io sarò tranquillissima.
— Santa ingenuità! Vedete come trova le risposte! — disse il Manfredi. —
Ma senti, bambina mia; poichè io gli ho dato il permesso di parlare,
sapendo benissimo di chi doveva parlare, sarà conveniente che tu, per
questa volta, ti cavi d'impiccio da te. È un caso particolare, un caso
strano, ed io debbo rimettere al tuo senno lo scioglimento di queste
difficoltà.
— Bene; allora gli dirò schiettamente.... Senti, gli dirò così: Signor
Cesare, io, per mia scelta.... Ma no, mi vergognerei di parlargli in tal
modo.
— Ho capito; gli diresti volentieri: signor Cesare, se si tratta di lei,
eccomi qua. Eh, brava, la mia Gabriella; questo sarebbe un bel coraggio.
Digli invece, con molta grazia, che non avevi ancora pensato alla
possibilità di separarti da tuo padre, che dovresti aver tempo a
meditare, e prendere altrettanto tempo a rispondere.
— E se egli insiste?
— Digli di sì. Ti senti di dirglielo?
— Per lui, volentieri; per un altro, no.
— E che cos'hai contro quell'altro? Ti spiace tanto?
— Mi è indifferente. Mi pareva meglio la prima volta che l'ho veduto; ma
poi, a sentirlo parlare, col suo scetticismo, coi suoi calcoli eterni,
con la sua serietà d'apparato, che vuoi? mi è scaduto. Quello lì è un
giovane... vecchio.
— E tu preferiresti un vecchio... giovane.
— Il signor Gonzaga non è vecchio; — replicò Gabriella, girando la
difficoltà.
— Torniamo sempre lì! — conchiuse il senatore Manfredi. — Insomma,
bambina mia, farai quel che vorrai. Cesare Gonzaga è il mio migliore
amico, anzi fratello. Spero che con la tua risposta non vorrai dargli
dispiacere, e se proprio hai da dirgli di no, lo farai con buona grazia,
senza ch'egli abbia a dolersi di me, nè di te.
— Il modo di fargli intendere che gli vogliamo bene lo avrei; — rispose
Gabriella. — Ma tu non la intendi così. Gli parlerò dunque come il cuore
m'ispirerà, pensando alla vostra antica e leale amicizia e alla stima
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