Il diavolo nell'ampolla - 8

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schiarirsi la mente come non mai; scorse piana e agevole, di súbito, la
maniera per risolvere l’ingarbugliato affare che l’aveva tenuto tanto in
pensiero.
E da quel giorno non perdè più nessuna causa. Conquise tutti i giudici,
superò tutti gli avvocati di Burgfarrubach; e naturalmente non rimosse
più di là lo strumento della sua fortuna: attese a convertire in belle
monete d’oro i cavilli, gl’inganni e le cabale della legge.
Nè è da credere che il diavoletto, pur aspettando il dì della
liberazione, si trovasse troppo male al fresco dentro la boccia, se gli
prestava occasione continua di vederne e udirne delle belle.
Ma degli avvocati non c’è mai da fidarsi. Quello di Burgfarrubach
diventò vecchio; e un giorno si imbattè nel priore di certi frati, i
quali avevano il convento su un monte lontano dalla città. Ed essendo
salutato dal monaco col sorriso di chi ha la coscienza in pace, egli
rispose con mal piglio: — Va al diavolo!
Ma appena fu a casa l’insolente si ricordò dell’incontro; gli si
rimescolò e agghiacciò il sangue nelle vene. Per consolarsi tolse dalla
cassa un sacchetto pieno di monete. Ahimè! a vederle pensò che con l’oro
si posson far molte e belle cose, non una: vincere la morte. Ond’ebbe
paura di morire; ebbe il dubbio d’andar lui, invece del frate, a
sgambettare tra le grinfe del diavolo sovrano di tutti i diavoli; e con
un febbrone addosso si mise a letto.
Vi penò, peggio che se fosse stato all’inferno, fino a che non si
risolse a mandare per quel tal monaco e fino a che non l’ebbe al
capezzale, in confessione.
Inutile dire come questa fu lunga e scrupolosa; basti sapere che
all’ultimo il peccatore disse: — Padre reverendo: in salvezza dell’anima
mia lascio al vostro convento il frutto di tutti i miei guadagni, leciti
e illeciti. A un patto....
— Quale patto? — chiese il frate.
— Che vi incarichiate voi dell’ampolla, là, sullo scrittoio. C’è
dentro....
— Che cosa? — dimandò il frate.
— Il più reo spirito che mai abbia infestato Burgfarrubach.
————
Si ricordò il buon priore del demonietto che, parecchi anni prima, aveva
dato da fare a non pochi esorcisti; e imaginò fosse lui a sprizzar fuoco
e a friggere dentro la boccia; ma non ne prese soverchia pena. A
studiare e meditar la vita di Sant’Ilario taumaturgo aveva imparato uno
scongiuro che nemmeno l’arcidiavolo potrebbe resistervi; nemmeno
Lucifero. Da uomo prudente gli bisognò tuttavia consultare i suoi monaci
che, confessandoli lui stesso, sapeva tutti savi. Doveva accogliere
l’eredità? E l’ampolla? Non era un lascito pericoloso alla buona fama
del convento?
No. Tutti furono di opinione che l’eredità si accettasse; ne avevan gran
bisogno; e quanto alla boccia, si rimettevano all’antico senno del
priore e alla pietà divina.
Così i sacchetti delle monete — appena morto l’avvocato — furono
trasferiti al luogo di quegli onesti servi di Dio; e l’ampolla, nella
celletta del priore. Il quale sorridendo un poco della paura che solo a
vederla avevano avuta i fratelli più ingenui, pensò: «Non si riuscì mai
a rimandare questo reo spirito all’inferno perchè non fu mai possibile
trattenerlo sin alla fine degli scongiuri. Ma ora è qui dentro, e ben ci
sta; e a suo dispetto dovrà udire sin in fondo quel che io ho imparato
da Sant’Ilario taumaturgo. Quando poi piacerà a me, lo lascerò andare a
casa di Lucifero, togliendo il tappo, ossia gettando l’ampolla in
terra». E quasi per prova si diede a recitar l’esorcismo che credeva
ineluttabile.
Ma come disse: — esci, maledetto, da questo corpo! lascia in pace.... —
fu costretto a interrompersi: la boccia, su la panca, parve accendersi
di gaudio; e ne scaturì una risata così gioconda, così arguta che al
buon priore cascarono le braccia. Rimase atterrito. Non aveva pensato,
poveretto, che l’esorcismo di Sant’Ilario era rivolto alle invasioni
diaboliche in corpo di cristiano — «lascia in pace quest’anima
cristiana» —, non in un’ampolla d’acqua chiara. E il poveretto dubitò,
capì che non c’era da fidarsi nel rimedio creduto infallibile.
Tenersi dunque l’ampolla in cella?
Misericordia! Che pericolo! che orrore! Non ebbe più una notte di bene.
Vampe davanti agli occhi; strani cachinni agli orecchi; e quel ch’era
peggio, tentazioni che una non aspettava l’altra.
Urgeva liberarsi del gravoso lascito. Ma in qual modo? Rompere l’ampolla
dentro il convento? E se lo spirito ritornava al costume d’una volta e
s’annidava or qua or là, ora a infestar questa, or quella cella, senza
che un compiuto, efficace scongiuro bastasse a scacciarlo? Rompere
l’ampolla all’aperto? Le sacre storie riferivano terribili esempi delle
vendette che gli spiriti neri prendevano se fugati in ispazi indifesi:
súbite accensioni dell’aria, per cui uomini santi rimasero paralizzati o
fulminati; repentini turbini, che rapirono creature innocenti, e non si
trovarono mai più; frenesie delle quali, per orrore istantaneo, degni
sacerdoti infermarono la vita intera.
Dibattuto in tali dubbi, il priore sospirava, piangeva e lottava notte e
giorno contro le tentazioni. Pregava, invocava il divino aiuto.
Finalmente a suo conforto rilesse nelle sacre scritture che anche con i
diavoli grandi giova talvolta giuocar d’astuzia. Ora, se per rimandare
all’inferno il diavoletto, piccolo sì, ma protervo e spaventevole,
bisognava fargli intendere tutto intero uno scongiuro; se lo scongiuro
più efficace era quello di Sant’Ilario; se lo scongiuro di Sant’Ilario
aveva efficacia certa nelle invasioni personali, l’astuzia, la vittoria
stava nel trovar persona in cui allo sfuggir dalla boccia lo spirito
entrasse e si compiacesse d’entrarci e di restarci. Se non che, per
evitare ogni scandalo intorno all’eredità dell’avvocato, non era da
rintracciare fuori del convento la coscienza ottenebrata e laida che
allo spirito soddisfacesse pienamente.
In un frate, dunque? Imprigionarlo in un frate peccatore? Oh certo!: il
diavoletto sarebbe lieto di balzargli addosso, di sguazzarci dentro! E
senza dubbio si ostinerebbe a rimanere nella insolita ambita stanza (un
frate!) anche durante l’esorcismo; e allora....; battaglia vinta!
All’inferno, una buona volta! Non più triboli per l’eredità!
Era un pensiero cattivo? Un consiglio del gran Demonio? Perchè, badate,
ci voleva che uno di quei fraticelli così savi e pii cadesse in colpa, e
che il priore per conoscerlo all’uopo lo confessasse, e confessandolo
non lo assolvesse prima d’aver compiuto l’esorcismo e aperta o rotta
l’ampolla.... Ci voleva una tentazione irresistibile per qualcuno dei
suoi cari monaci!
Ebbene, le vite dei Padri non attestavano forse che anche le tentazioni
giovano? Giovano a provar la virtù? Non era lecito, doveroso forse,
mettere di quando in quando a prova le virtù del convento? E per la
fragilità umana non tornava possibile, possibilissimo, l’errore pur di
un fraticello che fosse savio e pio? Gran prudenza, sì, richiedeva la
buona fama dal monastero da mantener intatta. E il priore parlò ai
fratelli con grande prudenza. E disse che agevole sarebbe la via del
Cielo se non la impedissero le lusinghe del mondo; nè esservi vittoria
senza combattere. Andassero dunque, essi, i fratelli, per un po’ nel
mondo; in abito secolare e con le monete dell’avvocato sfidassero,
sconosciuti ma forti, il secolo. Se qualcuno cadesse nella lotta, i
vittoriosi l’aiuterebbero a risollevarsi.
————
Bontà di Dio! Che precipizio! che salti mortali! Quando i fraticelli
furono ritornati dalla città e li ebbe confessati tutti, il priore non
seppe più quale scegliere per la funzione dell’esecrata ampolla. Tutti
erano caduti, e come! Ah l’umana miseria! Ah la potenza del Demonio!
Tutti precipitati, tutti! E ciascuno rispondeva alle rampogne: — I
fratelli vittoriosi mi aiuteranno a risollevarmi.
Sbigottì il priore; ma sperò che il sacrifizio dell’uno affretterebbe la
cura degli altri infermi e, nello stesso tempo, la liberazione
affannosamente sperata. E con il panico dell’atteso evento, con la
smania d’uscire dall’angustia così a lungo protratta, corse a prendere
l’ampolla e fatti schierare i fratelli dinanzi a sè (il diavolo
scegliesse lui), la lasciò andare....
Allora....: un fracasso di cento ampolle infrante a un tempo; una
vampata; un grido atroce, tra il fumo; e puzzo di zolfo; e il lamento
che si mutava in riso di follia.... Orribile! Al diradar del fumo,
esterrefatti, videro, tutti i frati videro il lor priore che si
contorceva in una convulsione, al suolo; gli occhi fuor dell’orbita; la
bava alla bocca; invasato. Bontà di Dio! Invasato il priore!
Atterriti da questo castigo totale, rimorsi nel cuore e nell’anima,
mentre alcuni soccorrevano il misero, gli altri si gettarono in
ginocchio a implorar dal Cielo pietà. Piangevano. Non perciò cessava lo
strazio orrendo! E i più anziani diedero il buon esempio; cominciarono a
confessare ad alta voce le loro colpe, a far atti di contrizione, a
rimbrottarsi a vicenda per meritarsi l’assoluzione che s’impartivano a
vicenda. E assolti, avrebbero tentato la prova degli esorcismi.
Tentarono. Chi, imposte le mani sul capo dell’ossesso, invocava l’aiuto
dei santi, angeli, arcangeli, patriarchi, profeti, apostoli, martiri,
confessori: chi gli appendeva al collo un breve coi nomi
dell’Onnipotente: _Hel Heloym, Sother, Emmanuel, Sabaoth, Agia,
Tetragrammaton, Otheos, Athanatos, Jehova, Saday, Adonay, Homusion_ — e
a gran segni di croce minacciava il demone e gridava: — Esci, immondo!
esci, aspide e basilisco! Scorpione e iniquo spirito, vien fuori! Fuori!
Ma no: lo spirito d’iniquità non usciva. L’ossesso or sghignazzava, or
parlava una strana lingua, or fremeva sputando e digrignando i denti, or
bestemmiava come un saraceno.
E chi gli copriva il capo con la stola e cantava il salmo: _Vicit leo de
tribu Juda_; e chi l’ungeva con la cera del cero pasquale e recitava
antifone e oremus.
Invano, tutto invano!
E chi leggeva gli evangeli al passo di Gesù scacciante i demóni; e chi
aspergeva l’invaso, lo inaffiava a dirittura, tutto quanto, di acqua
benedetta.
Invano. L’unione fa la forza. I poveri fraticelli si studiavano di
operare insieme; ma lo spirito invasore pareva più possente che quello
famoso di Simon mago.
Ne fecero di tutte le sorta. La notte si flagellarono sui nudi dorsi, e
il giorno dopo digiunarono; sempre in preghiera. Il giorno seguente si
recarono alla città e per le campagne a largire in carità i quattrini
dell’avvocato....
Invano. Non valevano discipline, vigilie, digiuni, orazioni, elemosine;
nulla! Che diavolo! che strapotenza di un diavolo!
————
Era accaduto più di quel che il priore aveva previsto. Lo spiritello,
fornito d’immensa energia, d’una resistenza che ogni più grosso demonio
avrebbe potuto invidiargli, restava, pervicace e tenace, nel luogo di
sua soddisfazione; nel corpo di colui che, maggior colpevole, aveva
mandato gli altri alla colpa. Nè i fratelli sapevano più a che santo
votarsi: quantunque alcuni, sorretti dalla speranza e dalla fede, si
attendessero di giorno in giorno un miracolo: l’intervento di un messo
di Dio.
.... Quando, una mattina, dopo forse un mese di tante angosce, il laico
che vangava l’orto scorse venire alla volta di lassù un uomo di aspetto
venerabile, a cavallo d’una mula d’aspetto venerabile. Giunto che fu, e
legata che ebbe la mula a una caviglia, il solenne pellegrino avanzò
verso la portineria.
— Sono — egli disse — il dottor Papenwasser, professore all’università
di Koenisberga, e vengo qui a studiare su di voi frati l’«elaterio della
facoltà di astrazione». — Ma che elaterio! L’ortolano e il portinaio
cominciarono a gridare: — Il messo di Dio! È arrivato il messo di Dio!
Accorsero. E tutti i monaci gli si fecero incontro con riverenze e
benedizioni. Nemmeno perdettero fiducia udendo — i più istruiti — chi
egli era; anzi si persuasero meglio che venisse mandato dal Cielo. Era
un dottore, e un dottore d’Università, e un professore dell’Università
di Koenisberga! Non avevano dunque ragione di ritenerlo capace d’ogni
sapere?
Infatti, com’essi umilmente e timidamente l’ebbero informato della loro
disgrazia, egli sentenziò:
— Ho capito. Son dotto in materia. — E con l’occhio della mente corse
subito al profondo magazzino della sua mente; guardò al ripartimento
_demonografia_ e scórtovi argomento per una erudita lezione, soggiunse:
— Son da voi. Purchè procediamo con metodo.
Credettero i monaci che a procedere con metodo prima di tutto fosse
necessario condurlo dove avevano vincolato, in un lettuccio, il
miserabile ossesso.
Che! A quel fiero spettacolo, il quale avrebbe intenerita una pietra,
non si commosse affatto l’erudito dottore; come non udisse quelle
strida, non vedesse quelle contorsioni convulse, quegli impeti di
atrabile, quei ghigni osceni. E intanto egli predisponeva, severo e
tacito, l’argomento della sua lezione:
— Dèmoni e spiriti in Egitto, Assiria, Caldea, Persia; in Frigia, a
Colchide; in Tracia — presso i Greci e i Romani.... (Oh che bella
lezione!) — Magia operativa e magia divinatoria — riti di espiazione —
formole, erbe e pietre magiche.... (Oh che profonda lezione!) —
Negromanzia; lampadomanzia; dactilomanzia; lecanomanzia.... (Oh che
colossale lezione!) — Ragolomanzia; palomanzia: petchimanzia;
partenomanzia; pegomanzia....
Poi, fatti sedere intorno intorno tutti i frati, il dottore incominciò:
— Narra Erodoto di Alicarnasso, dai latini erroneamente detto il padre
della storia, che gli antichi Egizii....
Stupirono i frati. Non comprendevano quale fine potesse avere un tal
discorso; pareva loro che più importasse la liberazione dell’infelice.
Ignoravano, poveri frati, che scopo degli eruditi è di mostrarsi
eruditi; nè immaginavano l’efficacia dell’erudizione quando trascende
alle contingenze della realtà.
Il dottore di Koenisberga parlava da mezz’ora appena, e già i monaci,
nei loro sgabelli, chinavano il capo sul petto e a occhi chiusi
riposavano in un delizioso oblio della loro corporea salma e dei loro
guai.
E già l’ossesso sbadigliava. Da prima furono sbadigli a bocca spalancata
e lamentevoli, mentre gli occhi smarriti ricercavano la perduta
coscienza. Indi, a poco a poco, seguiva un languore, un assopimento
benefico.
Finchè, a due terzi della lezione, il priore mandò un fragoroso sospiro,
e dopo, alto, un grido di gioia.
Destati, i fraticelli balzarono in piedi; guardarono; videro. Miracolo!
Il miracolo del messo di Dio! — _Laus Deo! Osanna!_ — E corsero a
sciogliere il redento. E — _laus Deo! laus Deo!_ — tutti si
inginocchiarono ed elevarono braccia e voci in rendimento di grazie al
Signore. Salvo! Il priore era salvo! _Tedeum!_
————
Ma poichè fu cantato il _Tedeum!_ accadde un fatto forse più strano
della stessa liberazione che aveva sollevato gli animi oppressi:
l’erudito, fedele al suo metodo, per cui non abbandonava mai un
argomento senza averlo, secondo diceva, sviscerato o esaurito, ripigliò
il discorso dal punto in cui era rimasto interrotto. Come se nulla fosse
accaduto! Come se a colui non importasse nulla del gaudio che rianimava
tutto il convento, dell’esultanza in cui tutti i monaci furono concordi
quasi per una comune resurrezione!
E allora sdegnati, essi non videro più nel dotto di Koenisberga l’angelo
salvatore ma lo strumento involontario, inconscio, indegno della
Provvidenza; e tanta era la foga che egli metteva a seguitar con la
fastidiosa discorsa, che dubitarono lo spirito maligno si fosse
trasferito dal priore in lui. Per non più patire esperienze diaboliche
afferrarono dunque gli sgabelli, e gli mossero incontro:
— Via! Fuori di qui! Fuori l’invasato! All’inferno!
Oh frati ingenui nonostante i loro recenti scapucci nel cammino del
mondo!
Il diavolo che aveva resistito tanti anni dentro un’ampolla, in elemento
contrario; che aveva resistito a tanti scongiuri e religiosi assalti e
rituali invettive, non aveva potuto, no, resistere all’intera lezione
d’un erudito tedesco. Figurarsi se si sarebbe trovato bene dentro il
corpo di lui! No, no, preferiva....
— Via, scorpione! via, basilisco!
Preferiva, aveva preferito....
— Via, dragone! All’inferno! — i frati urlavano.
E il dottor Papenwasser fu costretto per la prima volta, da che era
professore a Koenisberga, a mancare al suo metodo.
Uscì di trotto, alla volta della mula.
Ma la mula non c’era più. E la capezza, con cui l’aveva legata alla
caviglia, bruciava ancora.
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