Il diavolo nell'ampolla - 6

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improvvisamente e finalmente, quella del suo allievo!
E il generale Agabiti avrebbe potuto fare onore alla patria; ne era
sicuro. E sentiva l’amarezza del bene non mai goduto e perduto per
sempre; del bene conosciuto troppo tardi. Per qual causa? Per qual
colpa? Chiese, d’impeto:
— Chi, che cosa ti spinge, te, alla milizia?
— Una donna — Celso rispose senza esitare.
Fortunato giovane!
Il giovane infatti aggiungeva:
— Vuol sposare un capitano di cavalleria. Io divento sergente,
sottotenente, tenente, capitano; e....
— Alt! — interruppe il conte Mauro —; come si chiama.... _lei_?
— Amelia.
Celso si aspettava un nuovo scatto, una impressione visibilmente
profonda di meraviglia. Il filosofo invece parve rassegnarsi subito,
quasi si trattasse di un decreto della Provvidenza. Non mosse che
un’obiezione.
— Quando tu sarai capitano mia nipote avrà già marito da anni e anni.
Chi vuoi che la tenga?
Il giovane sorrise.
— Lei! — fece tendendo l’indice verso il suo protettore.
Questi chinò il capo mormorando:
— Speriamo che la storia finisca bene per tutti; anche per Gedeone.
————
Venne il dì dell’addio.
— Tu non mi scriverai — disse il filosofo. — Non voglio. Io t’impongo un
ricordo, osservabile, tangibile, sensibile, continuo e forte. — E
gl’introdusse un anello di ferro nel mignolo della destra; il chiodo
della scottatura piegato a cerchietto.
— Quando sarai al punto buono — conchiuse il conte —, portami o mandami
il chiodo, e se l’Amelia sarà anche lei al punto buono.... Via!, dammi
un bacio.
.... Così a Celso, prima di partire, non restarono da baciare che suo
padre, Gedeone e la Cleofe.

VII.

Quasi un anno dopo che la guerra era scoppiata in Libia e qualche mese
dopo che Celso Dondelli era laggiù, entrando nella bottega di Dondèla,
il vecchio conte non chiese, al solito: — Notizie?
Si abbandonò sulla seggiola e mormorò:
— L’ora è giunta.
Intimorito, domandò il fabbro:
— Per Celso?
— Per me.
Ma s’ingannava pur questa volta, povero filosofo! Per Celso l’ora era
già giunta (ed egli non lo sapeva); per lui doveva tardare non poco. Lo
portarono a casa apopletico.
Come, trascorso assai tempo, a forza di cure, poterono trarlo dal
letto.... che tristezza! Nella poltrona, con la testa reclinata allo
schienale pareva obbligato, adesso, a mirar sempre in alto; e tentava al
contrario di guardare in giù, quasi cercasse d’intorno, nella realtà, le
immagini che gli vaneggiavano nel cervello infermo.
Che tristezza! E come lunga!
————
E un giorno venne al palazzo Agabiti un tenente di cavalleria, il quale
disse di dover parlare al conte prima di ripartire per Tripoli. Si
presentò l’Amelia; lo stato dello zio non permetteva nessun colloquio.
Ma l’ufficiale insistè. Se il malato non aveva perduto del tutto la
conoscenza egli, per incarico di Celso Dondelli, caduto in battaglia
presso a lui, aveva da consegnargli una cosa attesa e cara.
La signorina raccomandò, pregò:
— Non gli dica che è morto. Tanto....
Poi lo introdusse. La Cleofe dietro alla poltrona sorreggeva il debole
capo.
— Guarda, zio, — disse l’Amelia.
Un breve silenzio. Finchè lo zio sorrise, quasi ridesto dall’erroneo
riconoscimento.
— Ah! Sei tu?... Il chiodo?
— Eccolo — disse l’ufficiale, mentre la signorina susurrava:
— Lasciamolo nella sua illusione!
Il vecchio chiamò: — Amelia!
— Son qui, zio.
— Celso!
L’ufficiale ne comprese, dalle mosse più che dalle parole, l’ultimo
volere. E mise l’anello nel dito che la signorina gli tendeva ripetendo:
— Lasciamolo nella sua illusione.
Allora la Cleofe ruppe in pianto.
————
Ed era passato un altro anno quando il tenente di cavalleria, vicino
alla promozione a capitano, tornò al palazzo Agabiti. Disse alla
signorina, erede del conte: — Quella che fu illusione estrema di suo zio
non potrebbe essere realtà per noi?
La signorina Amelia considerò l’anello che aveva nel dito; sollevò i
begli occhi a mirare in alto e:
— Quando sarete capitano — rispose —. Questo era il patto.


CINQUANTAMILA LIRE.

Al triste annunzio — il commendatore Demetrio Lecci, nell’attraversare
la strada, era stato investito da un’automobile; commozione cerebrale e
lesioni interne; smarrimento della coscienza; nessuna speranza —; appena
ricevuto il terribile annunzio, Corrado Amaldi aveva lasciato in casa la
moglie, affranta essa pure, angosciata e tremante, ed era corso al letto
dell’amico.
Povero Demetrio! Giocondo, come sempre, nella faccia serena, era stato a
trovar Corrado il dì innanzi. Ed ora.... ora Demetrio moriva senza
riconoscere l’amico. Moriva: l’occhio vitreo e immoto; il volto disfatto
e cereo; soli indizi di ultima vita, il respiro affannoso e uno scattare
intermittente del braccio e della mano sinistra.
Non reggendo a tal vista Amaldi, con un nodo alla gola, scappò nella
camera attigua e si abbattè su di una seggiola. Non poteva piangere.
Ma a poco a poco reagì in sè, cercò dominarsi riflettendo; e si obbligò
a considerare i doveri che l’evento calamitoso e repentino imponeva a
lui, l’amico intimo, prediletto. Al commendatore non restava che un
parente, quel nipote così diverso da lui, e gli avevano telegrafato
subito; ma quand’anche fosse arrivato in tempo a veder morire lo zio, il
discolo non ne avrebbe ottenuto il perdono.
E Amaldi ricordò che Demetrio gli aveva manifestato più volte il
proposito di diseredare il nipote vizioso e corrotto per beneficare le
pie instituzioni a cui aveva dato tutto sè stesso. E pensò: «Demetrio
avrà fatto testamento. Se lo trovasse qui in casa, il nipote lo
trafugherebbe». Possibile?
Possibile. Quando l’evento o il fatto che confonde e travolge è enorme,
anche i pensieri che a ragione fredda si giudicherebbero assurdi,
sembrano giusti.
Egli guardò allo scrittoio, quasi a confermarsi che ci fosse il
testamento del commendatore; poi, con improvvisa ripresa d’energia,
s’alzò, chiamò il servo, andò a sedere allo scrittoio, trasse dalla
cartella un foglio e una busta e, mentre scriveva, disse:
— Giovanni, a scanso della mia e della vostra responsabilità....: qui
dentro ci potrebbero essere carte di molta importanza; credo convenga
avvisare il notaio.
— Quel che fa lei....
— Il dottor Neri.... Sapete?... Via Goito....
Il vecchietto inchinandosi prese il biglietto; e uscì.
Con i gomiti puntati sullo scrittoio, per sorreggere il capo, e strette
le tempia fra le palme, Amaldi ritenne nella mente il pensiero di prima,
che non gli pareva più ben chiarito e compiuto.
No, non era possibile che un uomo come Demetrio Lecci avesse lasciato il
testamento in uno scrittoio aperto. No? Ma qual uomo è così prudente da
non cadere in qualche errore? Così prudente da aspettarsi a quarantadue
anni un infortunio mortale?
D’altra parte, non poteva Demetrio aver pensato giustamente che
Giovanni, meglio che servo l’uomo di fiducia, e lui l’amico,
vigilerebbero, e in ogni caso provvederebbero alla custodia delle sue
carte e all’adempimento delle sue disposizioni?
Fu così che la mano di Amaldi accompagnò il pensiero con moto spontaneo,
proprio per naturale conseguenza. Aperse il cassetto di mezzo e guardò.
Ma senza curiosità e intenzione ferma; con mente già inerte guardava,
sollevando le prime delle carte sparse che lo riempivano e....
Quasi a ricevere un urto nel petto, quasi per difendersi istintivamente
da un assalto impensato, respinse il cassetto dello scrittoio, si levò
in piedi con tutto il sangue al capo, al volto, in un’apprensione
ontosa, con un’impressione indefinibile di colpa e di repugnanza, con un
impeto d’ira e di rabbia contro sè stesso, che già si lasciava afferrare
da un dubbio insano; e non gli bastavan le forze a divincolarsi, a
sfuggirne la mostruosa, diabolica presa.
Una lettera..., in una busta fina..., tra quelle carte, tra quei
documenti..., interpostavi come per caso o dimenticanza.
Ricadde a sedere; riaperse; la tolse; ne guardò attento la soprascritta,
vinto. E: sì; la lettera, il carattere (.... anche il profumo) era di
Rina. Di Rina? Ebbene, fosse pur stata! Che cosa di male se sua moglie
aveva avuto bisogno di scrivere, una volta, a Demetrio?
Ecco: egli era tranquillo, padrone di sè. Ragionava. Poteva ragionare
freddamente. — Nessun male? Bisogno di scrivere a Demetrio? Perchè? No
no! Quella lettera non era di Rina, ecco tutto! Pazzo! pazzo a lasciarsi
allucinare da una somiglianza di scrittura. Dunque, via!; rimettere la
lettera dove era prima, pentito dell’azione indegna che stava per
commettere; violare, forse, un segreto dell’amico.
.... Vigliacco! Scampare, cercava scampare alla certezza?
E risolutamente levò il foglietto dalla busta, e vide che non c’era la
firma, e lesse, e vide che era di Rina. Fu certo.
Ma ecco: sentì che possedeva una forza meravigliosa.
Non si muore d’una ferita, ricevuta a tradimento, nel cuore? di dolore,
di spavento? Non si muore! Egli richiuse. Credè d’aver voce bastevole a
chiamar Giovanni appena fosse tornato. — Via Goito era a due passi — e
dirgli: — Vado a casa, per un momento —.
Si alzò.... (una forza meravigliosa!) e, come spinto da tutte le energie
superstiti, entrò invece nella camera del moribondo, si avvicinò a
guardarlo, con gli occhi sbarrati....
Ah! L’amico!
Allora il medico lo prese per il braccio, lo trascinò fuori. Cominciava
l’agonia.
Ebbene.... — una forza meravigliosa! —, di là, nello studio, senza
accorgersi dell’intimo schianto, della ferita ricevuta nel cuore a
tradimento, senza piangere, senza gridare all’infamia, senza morire,
Amaldi rilesse la lettera per confermarsi, di tutto, evidentemente.
Era un bigliettino scritto in fretta, dopo un convegno. Assicurava
l’amante da ogni timore d’imprudenza o contrattempi.
Ma questa l’infamia! questa la prova! questa: «A casa ho trovato la
cartolina che mi aspettava. Tornerà da Genova dimani o posdimani».
Egli era tornato da Genova.... Quando? Come gli era possibile
ricordarsene? Oh se avesse potuto non ricordarsene! Era tornato....: il
14 maggio. Aveva scritto, e se ne ricordava, all’albergo, due sere
prima. Due sere prima.
Nel biglietto amoroso mancava la data. Ma il timbro su la busta? si
leggeva benissimo: 12-5.... Dunque: c’era più appiglio a dubitare che
fosse di Rina?
Tutto evidente! Che infamia!
E come gli fosse strappata solo allora la benda dagli occhi, Corrado
Amaldi vide sua moglie affranta e pallida all’annunzio della disgrazia;
e solo allora sentì lo spasimo della ferita, l’atrocità del colpo,
l’insopportabile tormento. Fuggire! scomparire dal mondo! Ammazzarla!
Adagio! Aspettare! L’altro, intanto, agonizzava.
Ed entrò il notaio. E passò, trafelato, un prete.
Poi Giovanni annunciò:
— Il presidente del Consiglio Provinciale e un assessore del Comune.
Corrado Amaldi immobile, in piedi in mezzo alla camera, ora provava la
sensazione d’uno che sia trascinato da una forza irresistibile in un
precipizio. Quei signori si condolevano con lui, più che amico, fratello
del commendator Lecci.... Anche, volevano informarsi da lui, per
regolarsi nelle onoranze funebri. E l’assessore, più disinvolto, venne
dal notaio, presso lo scrittoio, e l’interrogò.
Mentre il Presidente seguitava nelle condoglianze, Corrado udiva il
notaio che rispondeva:
— Il testamento segreto è depositato presso di me; ma non si procede
all’apertura senza richiesta del presunto erede.
Udiva soggiungere l’altro: — E se il nipote, il presunto erede, ritarda
qualche giorno a tornare, come conoscere le precise disposizioni
testamentarie per i funerali?
— I familiari.... Il signor Amaldi....
Già, il signor Amaldi.
Ma il signor Amaldi pareva esagerare — un pochino — il suo cordoglio;
pareva troppo stordito. Rispondeva a stento che il commendatore sdegnava
i funerali chiassosi; che disapprovava l’uso dei discorsi, dei fiori....
Non altro. Giovanni, Giovanni forse ne sapeva di più.
Interrogarono anche lui; e rispose che il suo padrone non avrebbe
sdegnata una messa di _requiem_. Ma la messa, quando fosse richiesta o
permessa dal testamento, poteva celebrarsi giorni dopo il trasporto; non
era cosa urgente.
A ogni modo, Provincia e Comune stavano per accordarsi su le onoranze,
quando il medico s’affacciò sulla porta e aperse le braccia.
Amaldi, che si era seduto accanto al Presidente, balzò in piedi, livido;
rimase impietrato, con gli occhi torbidi; e Giovanni scappò via gemendo.
L’assessore guardò l’orologio e disse: — Sette e venti —; e il
Presidente disse: — Animo, signor Amaldi! —; e afferrò e strinse la mano
del signor Amaldi.
Il quale adesso sembrava non esagerar più; sembrava manifestare con il
dolore di chi perde il fratello lo stupore del mistero e lo sgomento del
nulla; o pareva rimasto senza pensiero.
Pensava: «Dovrò fingere, dissimulare fino all’ultimo!»
————
Fino all’ultimo, fino a che la salma fu deposta nel loculo, egli si
comportò così, come aveva sentito la necessità di comportarsi, come
volevano le convenienze sociali.
Ma dopo! Al ritorno, nella carrozza chiusa, libero della cappa di piombo
che la società vile e corrotta gli aveva imposta, in una commozione di
scherno e di rabbia Amaldi s’abbandonò a meditare, a pregustare la
vendetta. Oh sfogarsi! sfogare l’amarezza dell’onta patita e l’onta
dell’ipocrisia a cui era stato trascinato come in un baratro; sfogare
tutto l’odio che gli si era addensato in veleno nel cuore; esasperare
con voluttà di martirio la ferita dilaniante; gettar la maschera, e
accusare, e calpestare l’infame prostrata, nella confessione e nel
rimorso, ai suoi piedi; o colpirla, ammazzarla se sorretta dalla
passione e insolente!
Che benefizio nell’anima e nel sangue, a immaginare il castigo tremendo,
mortale! Ammazzarla!
Ma era illusione fugace. A poco a poco intravvedeva che a lui non era
concesso — no — nemmeno l’inconsulta attesa della catastrofe che fosse,
per sua mano, tragica!
No: egli, povero uomo, doveva riprendersi tosto, ragionare, riflettere.
No. Non gli era possibile vendicarsi in tal modo; non doveva ucciderla;
non cacciarla, sgualdrina, di casa; non trascinarla a un tribunale. No.
Perchè? Perchè sarebbe uno scandalo!
Era caduto in una contradizione; la contradizione in cui s’era messo non
tardò a stringerlo, ad attanagliarlo, a soffocarlo. Non poteva vendicar
il suo onore senza provocar uno scandalo enorme; ma per evitare lo
scandalo, per salvare il suo onore aveva dissimulato restando fin la
notte in casa del defunto, fin reggendo nel trasporto uno dei cordoni
del feretro!
Sciagurato! Rivelando adesso il suo disonore non darebbe forse diritto
al mondo di chiedergli: Come mai, tu, ad accorgerti d’esser tradito, hai
aspettato che il traditore sia stato morente o morto? Per quale
misterioso interesse hai dissimulato fin all’ultimo? Per quale
vergognoso passo hai accompagnata la salma all’ultima dimora? Per quale
inconfessabile ignominia hai taciuto sempre con tua moglie, e schiamazzi
adesso che Dio o un accidente ti ha liberato del più colpevole, del più
forte?...
In ogni persona che vedeva, egli vedeva un ridere osceno; e gli pareva
che tutti coloro che conosceva gli ridessero in faccia, gli gridassero:
— Anche tu! anche tu....; e finchè l’altro viveva...., eri contento!
Tutti, sempre, l’avevan tenuto per un uomo onesto, un gentiluomo; e
cadere, affogare nel fango! Aveva amata sua moglie e....
Al pensiero del suo amore di un tempo, non resse più. Ruppe in
singhiozzi; pianse.
Lo riscosse il rumore delle ruote sul ciottolato, rientrando in città. E
non osò rincasare fiaccato in tal modo dalla passione e dalla ragione.
Gli era necessaria una tregua; un po’ di riflessione pacata; di
silenzio; le forze umane hanno un limite, perdio!
E ordinò al fiaccheraio di condurlo, invece che a casa, all’uffizio del
Consorzio.
Ivi per fortuna l’aspettava un telegramma il quale lo chiamava,
d’urgenza, a Ferrara. Per non scrivere o telefonare alla moglie mandò un
impiegato a casa a mostrar il telegramma; dicesse alla signora ch’egli
ritornerebbe solo al dimani.
E partì davvero subito.
Ma non poteva fuggire, miserabile, da sè stesso; non poteva fuggire al
dilemma che gli si veniva determinando sempre più chiaro nella mente:
O il mondo sapeva, e sarebbe inesplicabile la sua condotta, la sua
ipocrisia, la sua dedizione alle convenienze quando e in qualunque modo
egli desse a vedere che non ignorava, già prima, la colpa della moglie;
o il mondo non sapeva, e guai per lui se si vendicasse. Rivelerebbe lui
la sua sventura. La pubblica moralità non giustifica il marito che
ammazza, o scaccia la moglie, o se ne separa, se il castigo non
chiarisce, non specifica la colpa.
Anche in treno, e poi la notte insonne, nel letto dell’albergo, cercò la
via a superar sè stesso. Invano. Il pensiero di rimettere all’avvenire
una decisione gli era insostenibile; nessun conforto, nessun consiglio,
nessun aiuto. Che poteva sperare dal destino?
E invano la mattina dopo si provò a un ritorno di vita normale nelle
faccende per cui era stato chiamato a Ferrara; anzi quei discorsi, così
lontani e diversi dell’intima cura, gli esacerbarono sempre più la
ferita, gli rintorbidarono la mente.
Ripartì con una più fiera tempesta nell’anima, con un senso di energia
ricuperata e prorompente, e un bisogno d’uscire da quella sua agonia;
con un solo pensiero fisso e, solo esso, ragionevole: che la risoluzione
del suo destino non dipendeva da lui; dipendeva dal contegno della
moglie.
Egli l’affronterebbe gettandole in faccia la lettera che ne attestava la
colpa, le direbbe: — Ho tentato di salvare il tuo onore salvando il mio.
Ora, a noi! E senza chiasso, senza scandalo! Che intendi di fare?
Ma una mossa sola di lei, una parola sola avversa alla sua passione
immensa lo trasporterebbe al di là del limite che divide la ragione
dalla follia; e allora non indietreggerebbe, non esiterebbe davanti alla
catastrofe sanguinosa. Una revolverata per lei e una, magari, per sè;
tanto, la sua vita era spezzata!
Così, mentre andava a casa, l’immagine della donna gli si confondeva
nella mente con le attitudini o del terrore improvviso, o della
negazione disperata; o della confessione umiliante, o dell’invocazione
di pietà e di perdono. La immaginava di nuovo in una crisi di lagrime e
di rimorso, a cui sovrastava imponente, spietata, tremenda, quale che si
fosse, la risposta e l’azione di lui....
A casa! A casa! Ma nell’entrare in casa pallido, fremente, ecco venirgli
incontro la moglie frettolosa e, al tempo stesso, tranquilla.
Tranquillissima! Diceva:
— Il notaio Neri t’ha cercato ierisera e stamattina per una cosa di
grande premura. Poco fa ha mandato questa lettera.
E la porgeva. Tranquillissima!
Amaldi per prendere la lettera del notaio e aprirla lasciò nella tasca
quell’altra, che già stringeva per gettarla in faccia all’adultera. E
lesse; e intanto che leggeva, Rina, nel vederlo affoscare sempre più,
dubitò di una nuova disgrazia e: — Che c’è, Corrado? Una nuova
disgrazia? — chiese con dolcezza.
Corrado non rispose respingendola: — Via, malafemmina! — Rispose: —
Nulla! —; e si diresse all’altra camera.
— Vuoi desinare subito? — Rina domandò ancora con dolcezza —. Sarai
stanco; avrai fame.
Senza volere, assentì, del capo.
Poi, nella camera di là.... Era una cosa incredibile! Una cosa turpe,
laida, lurida; una schifezza orrenda! Da ridere. Che vigliacco era stato
quell’uomo saggio!
Diceva la lettera del notaio:
".... Il testamento del compianto commendatore Demetrio Lecci, aperto a
richiesta del di lui nipote, lega lire cinquantamila a favore della S.
V...."
— Ed io — disse a sè stesso Corrado Amaldi sobbalzando con l’impeto del
martire che riconfermi la sua fede di fronte allo scherno osceno e
tirannico —, io rifiuto il legato, io rifiuto il prezzo della mia
vergogna! Rifiuto!
Ah sì? Rifiutava? Un eroe! Se non che il mondo vigilava e chiedeva:
Perchè? Perchè rinunciare al lascito del tuo miglior amico, che hai
tanto stimato e amato in vita, che hai tanto onorato in morte, che hai
accompagnato all’ultima dimora e hai visto, con tanto strazio,
seppellire?
O il mondo sa, o non sa....
Ma no (ragioniamo), no che il mondo non sapeva! Un uomo prudente, retto,
saggio quale Demetrio Lecci, non avrebbe avuto mai simile audacia senza
l’assoluta certezza che il mondo ignorava la sua colpa; non avrebbe
corso il rischio di contaminare _post mortem_ la fama di tutte le sue
belle virtù con un atto che disonorasse il benefattore non meno del
beneficato; anzi con illuminata esperienza egli aveva forse provveduto
così a smentire, a rendere inverosimile la malignità se mai qualcuno
osasse di mormorare!
E se il mondo ignorava, non sarebbe stata stoltezza metterlo in sospetto
rifiutando l’eredità?
Accettarla!
Ma (ragioniamo), ma accettandola come avrebbe potuto — povero marito —,
come avrebbe potuto investire, assalire l’adultera, chiamarla infame?
Essa avrebbe ribattuto, trionfante: — Chi più infame di te che accetti
l’eredità dell’amante di tua moglie?
Nessuno scampo, gran Dio! Così, proprio così: per salvare la sua
dignità, il suo onore; per serbarsi un galantuomo, un gentiluomo agli
occhi degli altri e di sua moglie, Corrado Amaldi doveva prendersi le
cinquantamila lire e tacere! Irremissibilmente; ad ogni costo: tacere e
prendersi le cinquantamila lire! Nessun rimedio.
— Corrado, vieni a desinare? — chiamò Rina con dolcezza.
Egli stracciò la lettera.... — non quella del notaio, l’altra —; ne
sparse i minutissimi pezzetti fra le carte del cestino; e raccolte tutte
le forze a superar sè stesso, rispose, con dolcezza:
— Vengo.
Non c’era altro da fare.


LA STELLA SIRIO.

Alfonso Graldi entrò nella stanza del fratello e gli chiese:
— Hai sentito che cosa han detto le Raffi: dei socialisti e di Turri?
Raimondo lo guardò, e tacque. Non ricordava e ricercava nella memoria.
Ma Alfonso interpretò quel silenzio e quello sguardo quali segni di
apprensione per lo stesso suo dubbio e di timore per una deliberazione
grave. E disse, calmo:
— Sta attento.
Poi, dominandosi e augurando la buona notte, uscì.
— Le Raffi? — Raimondo ricercava. — Vattelapesca! — Mentre discorrevano,
su la terrazza, egli osservava Vega, Arturo e Antares. — Attento? A che
cosa dovrei stare attento? Ai socialisti? A Turri? Perchè? Mah!
Turri non era venuto a conversazione, quella sera, e nemmeno
l’arciprete; e appunto perchè non aveva avuto gli amici con cui si
intratteneva volentieri egli, alle chiacchiere delle informatrici, aveva
preferito ascoltare ciò che gli dicevano le stelle.
— Domattina lo domanderò a Adriana — soggiunse —; se era presente e se
ci avrà badato.
Anche Adriana infatti non dimostrava mai d’interessarsi ai pettegolezzi
del paese, e, quando poteva, scampava dai fastidiosi argomenti di leghe,
di soprusi municipali, di studiate rappresaglie, e battaglie minacciate,
e sperate vittorie.
Raimondo si mise dunque a leggere il libro che gli giovava più del
bromuro. Finchè l’occhio gli scorse su le righe senza più afferrarne il
senso.
— Mio fratello — pensava — non è uno stupido; tutt’altro! Ma è vittima
di una ambizione meschina. Vorrebbe prevalere a Castelronco. Che gloria!
A dir vero Alfonso Graldi non viveva solo nel paese e del paese.
Arricchiva sempre più usando ingegno, energia e volontà in imprese
agricole e industriali; estendendo l’opera sua in tutta la regione;
acquistandosi stima invidiabile pur in città, dove si trasferiva
l’inverno. Ma nel luogo nativo quasi per necessità doveva sorreggere i
conservatori, e prepararli alla riscossa. — Bel gusto! — mormorava,
malcontento, Raimondo. — Bel gusto consumar gioventù, forze, ingegno in
simili lotte, per simili conquiste! Al solito: dispetti, ire,
arrabbiature. E inganni da opporre, e insidie da evitare.... Ah ecco!
Aveva trovato: credè aver trovato ciò che avevan detto quelle pettegole
Raffi. Una delle solite: la storia di un appalto favorito dal sindaco e
conceduto alla lega dei birocciai, per la ghiaia; di una frode nella
misura delle birocce. — E io, forse, dovrei stare attento quando passano
di qua, per la strada, le birocce, e accertarne la misura, io, che non
ho niente da fare? Io? Povero Alfonso! Ma, e come c’entra Turri?
Per non perdere il sonno che arrivava, Raimondo si disse: — Domani sera
lo domanderò a lui. — E chiuse il libro. E lo schiarimento ultimo sembrò
venirgli appena spento il lume:
— Turri avrà gridato alla frode senza prove sicure, e i socialisti se la
prenderanno, al solito, con lui e con noi. Anche con me? Oh io non ci
penso, povero Alfonso, a queste gran cose! Sta pur sicuro! Sirio....
————
— In cielo non c’è soltanto la luna per attestare, anche adesso, con la
figura di Caino la nostra ignoranza, o non c’è soltanto il sole per
abbarbagliare il nostro orgoglio, o Marte coi canali perchè possiamo
riferire agli altri pianeti la nostra intelligenza e la nostra scienza,
o Venere e Giove perchè troviamo lassù un termine di paragone al
brillante e allo smeraldo che abbiamo in dito: c’è, a centro di un altro
sistema planetario, una certa stella che si chiama Sirio, che in inverno
e in primavera risplende mirabilmente e che col suo fulgore dovrebbe
esortarci tutti a considerar più in là del nostro naso, della nostra
terra e del nostro sistema planetario. Sapete con quale velocità corre
la luce? Trecentomila chilometri al minuto secondo! Dico trecentomila
chilometri al minuto secondo. Bene: sapete quanto tempo impiega Sirio a
mandar a noi il suo fulgore? Sedici anni. Dico sedici anni! E sapete a
che distanza corrispondono sedici anni di luce? A centocinquantasei
bilioni di chilometri! Quando si consideri ciò, e quando si rifletta un
poco che Sirio è vicinissimo in confronto alle nebulose, pare che le
faccende dell’orbe terraqueo, non che gli avvenimenti della cronaca
cittadina, i dibattiti del Consiglio comunale a Castelronco, gli
interessi dei nostri amici o nemici, i casi e i beni e i mali delle
nostre rispettabilissime persone, non possano avere una grande
importanza nell’universo; non debbano avere nemmeno per noi l’importanza
che crediamo noi.
Così Raimondo Graldi risolveva ogni questione, commentava ogni fatto,
s’alleviava di ogni noia.
Ma non perciò era egoista e apate. Non era felice. Infermiccio sin da
ragazzo, aveva trovata e protratta negli studi la sua illusione; e s’era
consolato con la superiorità intellettuale che l’agiatezza gli
consentiva di esercitare, in città e in villa a Castelronco, su un
contorno di conoscenti e d’amici. E per un pezzo non si era accorto come
in quella deferenza che gli dimostravano sottentrasse un sentimento di
compassione, e doveva a Adriana — moglie di Alfonso da quattro anni — se
aprendo gli occhi nella realtà del suo dominio egli aveva cominciato a
disgustarsene. Non però un’intenzione maligna induceva Adriana ad essere
sempre ironica con lui. La frivolezza e la mondanità (del mondo,
naturalmente, fuori di Castelronco) sembravano accrescerle grazia, e la
sua ironia era amabile perchè toccando solo gli studi che rendevan
strano Raimondo e lo distoglievano dalla vita comune, significava
insomma un riconoscimento della superiorità male riconosciuta dagli
altri. E, anche, egli sentiva che il brio della cognata celava un
segreto rovello. Forse perchè Adriana ormai disperava di divenir madre?
Mah!
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