Il diavolo nell'ampolla - 3

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Egli la tratteneva preso da un’altra paura, che fuggisse e si smarrisse,
insana, per la campagna.
— Voglio la mamma! — urlava divincolandosi con tutte le forze; ed egli
la teneva con tutte le forze. Lottavano, il vecchione ottantenne e la
bambina di sei anni. Ma vinta, disperata, lei piegò le gambe, e lui
vinto, disperato, la lasciò abbattersi ai suoi piedi.
E per non vederla svenuta o in convulsione, povero vecchio impotente,
reclinò il capo e invocò dal Cielo una fine.
Perchè, Dio? perchè? Da cinque anni campava inchiodato in una scranna, e
non aveva bestemmiato mai; e la gente diceva: — Siete bello, nonno!
Ammiravano la sua pazienza e la sua virtù. Rassegnato, lui, che era
stato un lavoratore, un gigante! E, in coscienza, era buono. Se
sgridava, sgridava sempre per buon fine, non per cattiveria; e quando
non ubbidivano, perdonava. E ringraziava Dio e la Madonna, mattina e
sera, di conservarlo al mondo pur inchiodato a letto e nella scranna.
Perchè dunque, perchè castigarlo in una maniera così barbara, in una
creatura innocente, che era la sua consolazione, il cuor del suo cuore?
Impazzire; morire!
Dio santo! no!
Il vecchione ebbe una scossa di tutti i nervi; tutta la vitalità che gli
restava insorse afferrata dalla volontà indomita, e lo sospinse a un
impeto prodigioso, a una possanza furibonda, a un miracolo. Fermò le
mani sui bracciuoli, si alzò. Si alzò, si resse. In piedi: diritto:
gigante; col baleno, col delirio, con l’animoso spavento del miracolo.
Credette di poter muoversi da sè, di poter camminare, di poter correre a
cercar qualcuno, solo che non avesse impedito il passo.
La bambina gli impediva d’andare. E trasmettendo nella voce la
ricuperata energia e il prodigio, egli urlò: — Aiuto! aiuto! —; e fu
come se la casa bruciasse, o come lo assassinassero.
Non si muoveva perchè dubitava che la bambina, lì, a terra, fosse
svenuta o morente. Per questo non si muoveva. Ma quando la udì ripetere:
— La mia mamma! —, le gridò inviperito di lasciarlo passare; con un
supremo sforzo avanzò il piede.
E ricadde, affranto, nella scranna, nella sua desolata miseria.
Un freddo mortale gli invadeva in fretta le membra, saliva a gelargli il
sangue in ogni vena. Sentì la morte.
Anche la bambina stette un pezzo senza dar segno di vita. Tutto il mondo
adesso taceva; tutto il mondo aspettava.
.... Ma, a un tratto, essa levò su il capo, la persona.
Indicando, a terra, esclamò vivace e giuliva:
— Guarda, nonno! Guarda che formicone che era!
Il nonno cercava con lo sguardo. E vide: proprio una forfecchia. E vide
che il sole risplendeva ancora; e che il mondo era tornato bello.
Sorrise. Eppoi non vide più niente.


LA CIOCCHETTINA.

I.

Abitavano nello stesso sobborgo e ogni sera rincasavano insieme, dalle
sartorie ove lavoravano, prima in tram poi a piedi. In tram era un
divertimento per tutte: cicaleccio, motteggi, compiacenze d’essere
osservate e d’osservare le meno belle di loro; ma nel tratto a piedi
seguivano le confidenze d’amore e le espansioni sentimentali; mutava il
tono. E l’Ida, la più giovane delle tre, interloquiva di rado; si
sentiva a disagio per un misto di timidezza e d’orgoglio.
Il suo innamorato guidava autocarri nel Carso, non era in trincea come
quelli delle amiche, e discorrendone le pareva di provocarle a ripetere:
— Fortunata te! —, quasi non avesse da star in pena lei pure.
«Fortunata te!». C’era fors’anche, in fondo a queste parole, la punta
ironica, l’acredine di un’altra invidia — lei faceva all’amore con uno
di miglior condizione che i loro innamorati —; e non voleva mostrare di
accorgersene. Se però taceva o tentava invano di sviare il discorso
solito, l’Ida bene spesso bolliva dentro e stentava a frenarsi, a non
prorompere:
— Fatela finita una volta con i piagnistei e con le spacconate!
Che noia, tutti i giorni! L’Olga si martoriava negli stenti e nei
pericoli della trincea, accresciuti con fantasia egoista per concludere
che solo il pensiero di lei sosteneva il suo caro a superarli.
L’Adriana.... Eh! dopo che al suo Gustavo gli avevan dato la medaglia di
bronzo, non si campava più, con lei, che dietro sacchi di sabbia, in
mezzo a cavalli di Frisia, contro a reticolati, incontro a
mitragliatrici — _tac tac tac!_ — e bombe a mano, e sotto a shrapnel e —
bum! — a palle da trecentocinque. Si sarebbe detto che tante maledizioni
fossero state inventate non per meritar l’inferno a Guglielmo II, ma per
far onore a lei sola, la bionda Adriana, che aveva per innamorato un
giovane di fegato — e nessuno lo negava.
Quando poi ricevevano lettere, pretendendo non fossero scritte con
libera volontà, le commentavano a loro modo, leggevano tra le righe le
più strambe rivelazioni, le interpretavano a rovescio. «Non mi manca
nulla» doveva significare che morivano di fame. «Per adesso non si
combatte» significava — tac! tac! tac! e bum! bum! — battaglia e strage.
— E te, Ida? Cosa ti scrive il tuo Giulio? — spesso le chiedevano, forse
anche per mortificarla, chè lei riceveva meno lettere.
Rispondeva senza scomporsi:
— Niente. Dice che fa il servizio di trasporto e che sta bene, e io
credo a quel che dice.
— Fortunata te!
— Fortunato lui!
Ma una sera le fecero scappare davvero la pazienza. Fu così: lei che
aveva trepidato e trepidava non ignara dei pericoli che pur Giulio
correva, lei che a Giulio gli voleva un bene grande, non sempre si
sottraeva all’ipotesi di una disgrazia; ma cotesta paura la teneva in
sè, nel suo segreto; non ne avrebbe discorso nemmeno con sua madre,
quasi per una ripugnanza di una tristezza colpevole o di un malaugurio.
Invece l’Adriana e l’Olga, che in sentimento d’amore pretendevano dar
legge al mondo, non solo non rifuggivano dall’immaginare morti i loro
innamorati: ne discorrevano per vantare la passione che esse ne
proverebbero. E le frasi e le esclamazioni tragiche, per quanto potesse
essere sincero il sentimento che le suggeriva, urtavano i nervi all’Ida
come una finzione, una falsità.
L’Adriana affermò:
— Se Gustavo, che è troppo coraggioso, troppo! troppo!, ci restasse, oh,
io non mi farei suora; vorrei che tutti vedessero, capissero il mio
dolore e mi compiangessero. Uno uguale non lo troverei più! Nessun
altro, mai più!
— E io — lamentò l’Olga con un’aria e una voce che pareva la Duse —, io
diventerei matta! Lui, la mia vita, perderlo così? Non saper nemmeno
dove fosse sepolto? Matta, state pur sicure; mi getterei dalla finestra!
Breve pausa. Poi:
— E tu, Ida?
Ebbene: questa domanda, questo distaccarsi dal pensiero orribile e
passare a interrogar lei, quasi a provarla in una gara in cui
prevedevano resterebbe inferiore, la disgustò del tutto.
— Tu cosa faresti se perdessi il tuo Giulio? — insistette l’Adriana.
E all’Ida brillarono gli occhi. L’eccitava il bisogno di un contrasto
comico. Scoppiò a ridere, tanto era enorme ciò che le scappava detto, e
disse:
— Oh! Per me, morto un papa, fatto un altro!

II.

Non ebbe appena pronunciate queste parole, che ne fu pentita.
— Viva la sincerità! — Viva la tua faccia! — esclamarono le amiche
ridendo anche loro. E l’orgoglio non le permise di ribattere: — Non
avete capito che ho scherzato? —, e la timidezza non le permise di dire,
più duramente: — Voi non dovreste credere a me come io non credo a voi.
— Tacque, ma dubitò subito che la risposta data per impazienza passasse
di bocca in bocca in tutto il sobborgo come un’enormità fra vergognosa e
ridicola; e quando fu in casa, il dubbio divenne timore, spavento. Cosa
aveva detto! L’accuserebbero di aver poco giudizio e niente cuore;
l’accuserebbero di ritenersi così bella che perduto un amante non le
mancherebbero ammiratori e consolatori da sostituirlo. Figurarsi se
l’invidia non ne approfitterebbe! Se qualche anima buona non si
assumerebbe l’obbligo di aprir gli occhi al povero Giulio! E lui
allora.... Si vedeva lasciata e screditata: per una leggerezza! per uno
sfogo innocente! Stupide! causa loro....
Bisognava prevenire il colpo e confessar tutto a Giulio, subito; e lui
giudicasse. Di coscienza, lei si sentiva meritevole di perdono. E si
mise a scrivergli una lunga lettera, per dimostrare come il suo
carattere discordasse dalle amiche e come e perchè coloro le fossero
divenute antipatiche.
Ma arrivando al punto scabroso, alla frasaccia che pur doveva riferire:
«Morto un papa....», non ardì tirar innanzi.
Troppo distava la brutta, cattiva, crudele espressione d’insensibilità
dalle premesse e dalle proteste d’amore; e queste prendevano un aspetto
di ripiego insufficiente. Cosa aveva detto! E l’immagine di lui così
innamorato, così fiducioso, così fermo di volontà e d’animo per la
speranza di averla interamente sua appena nel mondo tornasse la
possibilità di esser felici, le si affacciò severa, ostile, minacciosa.
«Io — pensava che le direbbe —, io soffrivo a starti lontano; io
soffrivo nei pericoli che correvo a ogni ora, a ogni momento, perchè mi
figuravo il tuo strazio se mai ti portassero la notizia della mia morte;
io sospiravo il giorno di riabbracciarti e ridarti la forza di sperare,
di attendere la nostra felicità, e tu, intanto, non mi tradivi con un
altro, no, ma m’ingannavi, per adesso, forse peggio: ti vergognavi di
mostrarti innamorata di me: scherzavi indegnamente sul nostro amore, e
la gente aveva da ridere compassionandomi. — Povero Giulio! Ti sei messo
bene! Se una cannonata ti sfracellasse, eh! non dubitare che l’Ida si
consolerebbe presto; e lo dice —».
Pianse; non dormì in tutta notte. E la mattina dopo, quando le amiche la
chiamarono, al solito, dalla strada, sollecitandola che era tardi, e
discese e si accompagnarono, al solito, avrebbe voluto tornar lei nel
discorso e liberarsi dalla lunga ambascia; dire: — Badate, ragazze.
Giulio mi è molto affezionato, ma guai a me se imparasse!... — Stava per
vincere lo stento a umiliarsi; e provò invece un ineffabile sollievo a
non scorger segno di malignità nella faccia dell’Adriana e dell’Olga;
non un sorriso ambiguo. Le avrebbe baciate. Infatti non si era montata
la testa con un timore assurdo? E poi, se interveniva qualche cosa di
nuovo, dimenticherebbero del tutto per sempre quel discorso.... Erano
così leggere!
E, grazie al cielo, il fatto nuovo, la distrazione fu la neve. Oh che
danno per i loro stivaletti, che costavano tanto! L’argomento,
nell’andata, mentre nevicava, fu non solo il prezzo delle scarpe, ma il
costo della vita; la difficoltà a risparmiare per il giorno che
metterebbero su casa.
E al ritorno la neve era alta. Dovettero fenderla, calcarla, spesso
sprofondarvi.
L’Olga piagnucolava; l’Adriana malediceva il destino, e l’Ida, come se
Dio l’aiutasse, rideva tutta contenta.
Seguì il gran freddo; il pericolo di cadere per la strada ghiacciata.
Altro che conversare! Bisognava star dritte; e si sorreggevano a vicenda
strillando a ogni scivolone.
Ma si rinnovarono i giorni delle confidenze. Già ritornavano i soldati
dal fronte, in licenza invernale; e le amiche a lamentarsi e a
protestare che le licenze non si dessero a tutti quanti.
— Il tuo Giulio verrà di certo — dicevano all’Ida.
— Verrà; tu sei fortunata.
Finchè, una sera, l’Adriana disse, maligna:
— E se non venisse, poco male, eh, Ida?, per te e per lui.
— Perchè? — lei chiese trepidando.
— Perchè tu non ti guasteresti il sangue; e lui potrebbe consolarsi con
qualche ragazza di lassù. Dov’è il tuo Giulio ce ne sono che portano gli
stivaletti alti, dicono; e non se li guadagnano in sartoria.
L’Ida si morse le labbra; l’Olga rise sguaiatamente, e aggiunse: — Poco
male! Tanto, morto un papa, fatto un altro!
— Siete cattive! — allora esclamò l’Ida con la voce piena di pianto. —
Io ho scherzato, e voi....
— Brutto scherzo! — interruppe, senza guardarla, l’Adriana, con
solennità di rimprovero. — Brutto scherzo! Quel che hai detto è peggio
che dire: «lontan dagli occhi, lontan dal cuore»; è come dire: «io non
ti ho mai voluto bene, t’ho lusingato, e tu, sciocco che sei, m’hai dato
mente». Anche peggio! È come dire: «a me non m’importa proprio niente
della guerra, e che molti ci muoiano, e che tu ci muoia; io mi diverto
lo stesso». Un uomo che abbia del sangue nelle vene e innamorato, a udir
di queste belle proposizioni commetterebbe fino un delitto. Immaginarsi
Gustavo! Mi ammazzerebbe!
(Bum!)
E l’Olga:
— Il mio Attilio mi scrive sempre: «Non mi abbandonare, per carità, per
l’amor di Dio!» Se imparasse che io a dimenticarmi di lui ci durerei
così poca fatica e che già prima che morisse avrei il coraggio di
pensare a un altro, si accorerebbe di passione. Lui si ammazzerebbe.
(Buum!)
L’Ida si era riavuta: le cuoceva di essere stata debole. Le fissò con
una mossa del capo di sotto in su, che significava: «Avete finito?
Adesso parlo io». Ma non parlò a lungo. Gridò forte, perchè, nel
sobborgo, molti udissero la canzonatura: — _tac tac tac!... Bum! bum!_ —
E soggiunse, forte: — Come siete buffe! — Poi, essendo prossima a casa,
vi entrò di corsa, presa da un riso convulso. L’avevano amareggiata,
ferita, offesa, dubitando, oltre che di lei, dell’uomo che amava; si
contentassero se si era limitata a metterle in ridicolo, spasimanti
fastidiose e spropositate!
Ma il giorno dopo non l’aspettarono per andare e tornare insieme. Essa
finse di non curarsene e da quel giorno le prevenne nell’andata e nel
ritorno a casa. In cuor suo, però, temeva; ne paventava il rancore, la
vendetta; tanto più che Giulio veniva in licenza, e i fidanzati di
quelle due non si erano ancor visti.

III.

Oh! dargli una prova che il pensiero di lei non lo abbandonerebbe mai
più: sua per la vita e per la morte! Quante volte la morte lo aveva
rasentato!; e perciò essa lo amava, ora, di più.
— Un giorno — raccontava Giulio — una nespola abbastanza grossa cadde
proprio sul mio carro, s’internò fra i sacchi. Se scoppiava, addio Ida!
Essa, mentre egli parlava, mutava colore; egli sentiva fredda la mano
che stringeva nella sua. E si guardavano negli occhi sorridendo.
Era arrivato, Giulio, la mattina. Un saluto ai suoi, ed era corso da
lei. E discorrevano, soli, davanti al fuoco. Guardandosi riconoscevano
il loro amore più vivo, più forte, più buono; le parole che dicevano,
vibravano di un sentimento che ne superava il senso e il suono: così
profondo e così grande che il silenzio e la luce degli occhi parevano
esprimerlo meglio; e di quando in quando tacevano e si ascoltavano,
finchè il silenzio diveniva una pena. L’Ida allora interrogava; ma non
una delle domande gli fece che le amiche si sarebbero immaginate gli
rivolgerebbe per gelosia. E lui, quel ragazzone di ventiquattro anni,
che aveva una infantile dolcezza negli occhi chiari e aveva nel viso la
serenità di un animo saldo e di una mente padrona di sè, lui non solo
non dava segno di aver dubitato o di dubitare, ma dimostrava, a vederlo,
che vicino a lei, nulla, nessuno al mondo avrebbe potuto turbarne la
fiducia e l’amore. Nè lui nè lei dimenticavano intanto che la felicità
era breve; che sarebbero di nuovo divisi, e sentivano che a soffrir meno
dopo il nuovo distacco avrebbero dovuto fermare per sempre, nella
memoria, quegli istanti gioiti. Come? Con una prova d’amore
indissolubile, superiore a ogni lontananza, a ogni timore, a ogni
evento; superiore a quella stessa felicità che il cuore palpitando e la
mano stringendo la mano promettevano nell’avvenire.
— Ho da farti una confidenza — Giulio disse a un tratto.
— Anch’io.
— Prima io! Sai che trasporto non solo munizioni e materiali, ma feriti
e morti?
— Non me l’hai mai scritto.
— Certe cose a voi donne è meglio non dirvele; ci piangete sopra o le
esagerate.
— L’Adriana, sì, e l’Olga! — esclamò la ragazza —; a me fan rabbia per
questo!
Senza badarle egli seguitò: — Dopo una avanzata, avevo avuto l’ordine di
raccogliere i feriti austriaci e portarli, dalla prima linea, giù, al
posto di medicazione; di dove le autoambulanze li trasferivano alle
sezioni di sanità.
Descrisse il camion attrezzato, con le barelle sospese al di sopra per i
feriti più gravi e le panche, sotto, per i meno gravi; insistè a
dimostrare come era il luogo delle prime cure.
— Una casa di là dalla strada, al riparo dalle altre, tutte scoperchiate
e rovinate. E stando col carro nella strada noi non vedevamo quelli
dell’infermeria, e non eravamo visti.
— Ho capito — ripetè l’Ida.
— Io e il mio compagno, il meccanico, calavamo a terra, nelle barelle, i
feriti; due soldati venivano a prenderli, a uno a uno. Ma non era finita
la musica; squassava ancora l’aria il rombo di qualche cannonata e
allora i feriti leggeri, che pensavano d’essersela cavata con poco e che
forse avevano combattuto da bravi, si prendevano una gran paura e si
raccomandavano:
— Jésus! Jésus!
L’Ida rise; ma chiese subito:
— E quelli più gravi?
— In una delle barelle ci avevamo un ufficiale, giovine; bel giovine!
Moriva, e lo lasciarono lì, vicino al camion. Tanto, non c’era più
niente da fare. Portarono via prima tutti gli altri; e si allontanò
anche il mio compagno. Non avevamo mangiato dalla mattina, e andò
all’infermeria a cercar del pane. Io, rimasto solo, stendevo una coperta
da campo su quel disgraziato; quando riaprì gli occhi, e mi guardò.
Voleva dirmi qualche cosa. Capirlo! Io capii che cercava di spiegarsi in
italiano, ma lo spasimo delle ferite e la morte che arrivava
gl’imbrogliavano la memoria.
L’Ida tacque ansiosa.
Finalmente si toccò con la mano destra il petto e con uno sforzo riuscì
a dire: — Qui.... moneta, vostra. Carte, no. Fuoco, prego.
— Voleva che tu le bruciassi.
— Ah come disse «prego»! Preghiera di moribondo, pensai io. Gli apersi
la giubba, tolsi il portafogli. E, nell’atto, il sangue mi si gelò nelle
vene. Se qualcuno mi vedeva? Potevano vedermi i soldati che tornassero
per portar via anche lui; o il mio compagno; o qualche altro camion di
passaggio. Ladro! Sarei parso un ladro! E non era ancora morto!
— Che momento! — esclamò l’Ida.
— Mi sentivo cento occhi addosso; ma una idea mi rincorò; cavai le
carte; lasciai i denari; rimisi il portafogli nella tasca. Non avrebbero
potuto più dire che rubavo!
— Facesti bene. E le carte?
— L’angustia fu tale che non mi accorsi nemmeno che era spirato. Quando
me ne accorsi, gli chiusi gli occhi, e gli tirai la coperta sul viso.
— E le carte?
— Le ho qui, con me....
Erano alcune lettere di mano femminile, in una busta; una fotografia e
una ciocca di capelli biondi.
— Com’è bella! — esclamò l’Ida considerando, presso la finestra, il
ritratto della giovine donna. Ma la sua ammirazione crebbe quando,
sciolto il filo di seta che stringeva la ciocca, s’avvide che solo tre
capelli bastavano a comporla, tanto erano lunghi! Disse: — Sono più
belli dei miei.
Giulio scosse il capo e ribattè, serio:
— No; noi italiani preferiamo i capelli neri e lucenti, come i tuoi.
E ritornarono al focolare. Ripigliò lui:
— Bruciar tutto. Perchè?
— Volontà di moribondo.
— Perchè distruggere? — Giulio domandò.
— Si indovinerebbe dalle lettere, chi sapesse leggerle.
— Ho un superiore che lo conosce, il tedesco, ma non gliele ho mostrate.
— Hai fatto bene — disse l’Ida. E soggiunse: — Forse temeva, quel
poveretto, che un giorno, se verrà la pace, le lettere e i ricordi
fossero rimandati al suo paese. Temeva di compromettere la donna.
— Già — mormorò il giovine. — L’ho sospettato anch’io: la moglie di un
altro. Io però non lo credo.
— E allora? — essa rifletteva. Mormorò: — Forse hai ragione tu. Non
avrebbe aspettato all’ultimo momento se avesse temuto di comprometterla.
Ma Giulio scosse di nuovo il capo.
— No. Ignoranti o istruiti, in guerra si è tutti eguali; tutti persuasi,
mentre si vedono cascar gli altri, che le pallottole, le spolette o le
schegge debbano rispettar noi. E sai chi ci dà questa persuasione?
Proprio i ricordi che si portano sul petto; di nostra madre e di chi ci
vuol bene.
L’Ida sorrise, con gli occhi pieni di lagrime.
Egli prese dal portafogli il ritratto di lei; lo considerò quasi per
rinnovarsi, ora che le sedeva vicino, le impressioni che aveva a
considerarlo quando era lontano, lassù; e pacatamente lo ripose. Dopo,
afferrò le lettere e la busta con la fotografia e la ciocca di capelli,
e buttò tutto nel fuoco.
— «Fuoco, prego». — Cercava rendere con la sua voce il suono delle
parole indimenticabili, e osservava le carte accendersi, la fiamma
invaderle raggrinzando la busta. Esclamò:
— Vampata d’amore! —; e la frase gli parve così bella che guardò,
contento, l’Ida. Ma essa:
— Di’ dunque: perchè distruggere?
— Ascolta — rispose Giulio. — Quando due che si sono amati, si lasciano,
cosa fanno perchè ogni legame sia troncato per sempre? Si restituiscono
i pegni d’amore. Un pegno è una memoria, è un obbligo a ricordare: è
vero?
— È vero.
— Quell’ufficiale sentendosi morire pensò che la sua fidanzata, se
riavesse le lettere, il ritratto, i capelli, non resterebbe legata alla
sua memoria, come ci resterebbe invece se credesse che qualche cosa di
lei fosse andato sottoterra con lui.
Se non che l’Ida obiettava ancora:
— Avrebbe pregato di seppellir le carte, non di bruciarle.
— Rifletti — ribattè Giulio. — Doveva dubitare che non lo seppellissi
io; e non si fidò di altri, anche se io promettevo. Nel modo che mi
guardava io capii che intendeva dirmi: di voi posso fidarmi. Sembran
misteri e sono verità così semplici!
Alla ragazza tornarono a luccicare gli occhi.
— Ma io sarò più spiccio — seguitò Giulio. — Sul tuo ritratto ci
scriverò: «Seppellitelo con me, prego». — E sorrise.
— Giulio! — gridò lei.
— E tu, se io morissi? — dimandò lui, pacatamente.
Ah, la prova; la gran prova d’amore!
L’Ida corse a prendere le forbici, si disciolse una treccia. E lui
tagliò tre capelli, li compose in ciocchettina, li baciò e li pose col
ritratto nel portafogli. Pacatamente.
Ma allora la ragazza gli gettò le braccia al collo singhiozzando.
Piangeva come piange una bambina per meritar perdono.
— Cosa ti salta in mente? — fe’ Giulio scostandola a un tratto, e
fissandola. Una nube gli passò per lo sguardo. Si ricordava adesso le
parole di lei. — Che confidenza dicevi d’avermi a fare? — chiese.
— Questa — essa rispose rasserenata e felice: — che niente, nessuno al
mondo mi separerà più da te. Capisci? Con te, vivo o morto, l’anima mia.
Per sempre!


IL NIDO.

Mai più splendido cielo; mai aria più olente e queta.... E soli lor due
andavano per l’argine che limitava la risaia dall’immensa prateria.
I colori del maggio inoltrato vi superavano la verde mèsse e la
trapungevano: giallo di graziole, di tulipani e ranuncoli; lilla di
porrette; gridellino di vecce; viola di prunelle e di salvie; bianco di
ornitogali e nigelle, di eriche e giunchiglie; rosa e azzurro di
giacinti; bleu di fiordalisi; rosso di trifoglio e papaveri. E
margherite da per tutto. Quante!
Andavano, gli amanti, soli, guardando intorno; guardandosi e sorridendo
senza trovar parole. Nei tardi passi, vicendevolmente e quasi
timidamente, avvertivano che i loro sguardi eran pieni di ricordi, dei
più lieti ricordi. E così parevano accrescersi l’intima gioia d’un
ritorno a sè medesimi e approfondire la coscienza della loro anima;
parevano estendere la capacità vitale d’ogni senso, schiarire il
pensiero all’esistenza come ridesta, risorgere nell’essere loro,
reintegrati d’ogni minima forza, a una vita rinnovata e a una
sconosciuta armonia. Era una letizia lieve, di sogno, eppure tenace e
valida; era un’illusione suscitata e mantenuta dalla divina realtà che
li accoglieva; era un vago desiderio continuo e di continuo esaudito in
quel fluire degli attimi; era la consapevolezza di una felicità certa e
immanente.
Essa, di tanto in tanto, si chinava al margine e spiccava un fiordaliso
o un ranuncolo o un geranio campestre.
Poi, tendendo le mani al prato in cui non ancora piede d’uomo aveva
lasciato traccia e da cui la concordia delle tinte assorgeva come quella
dei suoni in una sinfonia, esclamò:
— Vorrei correre, gettarmi là in mezzo!
— Va!
Ella scosse il capo.
— Non si può, senza calpestare!
Più avanti, al serbatoio, discesero nella barca. Remava lui.
Anche l’acqua sembrava riposare e godere in distesa azzurra, chiazzata
qua e là dal verde delle ninfee e sparsa di macchie or scarse or copiose
in canne e giunchi, e chiusa all’ingiro dalle sponde ombrose di salici;
mentre la barca procedeva piano piano, soavemente, per quella frescura.
Canerini di valle si levavano con un vocìo sottile e così vivace da
crederlo non segno di paura ma di più viva gioia nel volo.
Finchè la barca trovò adito in mezzo alla macchia più folta di cannelle
e saracchi, e ristette dove l’acqua bruna, sotto l’ombra, rivelava un
brivido, al rezzo. Udirono uno svolazzar forte, di folaghe e anitre. E
più nulla.
— Restiamo un poco? — A lungo ella sarebbe voluta restar là con lui. Gli
abbandonava la mano nella mano.
— Sei contenta d’esser venuta?
— Non te l’avevo promesso...: a primavera? E di’: non ti sembra che se
non fossi venuta in un giorno così bello la nostra felicità sarebbe
stata meno grande?
Egli strinse forte la bianca mano.
— Sei mia!
E lei:
— Quanto bene mi vuoi!
Di nuovo tacquero cedendo alla dolcezza di quell’ora, in quella
solitudine e nel silenzio che solo qualche pigolìo interrompeva, o
qualche canto lontano. Il profumo dei fiori lontani perveniva fin troppo
greve. A quando a quando un murmure fra il canneto.
D’improvviso l’amata chiese a bassa voce:
— Hai sentito?
Si rivolse a rimuover le fronde e gli esili fusti più prossimi; volle
ch’egli avanzasse la barca a quella parte, per veder meglio nel folto.
— Là! — dissero a una voce.
A limite dell’acqua, poggiato sui giunchi che il peso piegava, era un
nido di folaghe. Avanzando ancora la barca, ecco balzar dal nido
nell’acqua, con un doloroso richiamo, la folaga spaurita; e si levò a
svolazzare su l’acqua intorno chiamando disperatamente il compagno.
Più nero, con un _cóvv_ minaccioso, il maschio giunse, dalla macchia;
cadde di volo, lì appresso; ma a scorgere il pericolo enorme si mise a
correre per terra, con tal fretta e con tanta smania di fughe e ritorni
che pareva impazzito.
— Povere creature! — disse la signora.
Nè volle affliggerle a lungo. Anzi, poi ch’ebbe visto da vicino il nido
mirabilmente contesto di cannucce e ciperacee e steli:
— Andiamo via! — pregava. Una strana ripugnanza la trattenne
dall’osservare dentro il nido.
— Che impressione strana! — mormorò intanto che la barca ritornava
all’aperto.
— Tu vedessi i piccini gettarsi nell’acqua appena nati! — diceva
l’amante.
E raccontava della caccia feroce che danno alle piccole folaghe i falchi
di palude. Ma la sua voce non aveva pietà.
L’amata non gli badava. In lei a poco a poco l’impressione ricevuta
diveniva sentimento, diveniva avversione sommossa dal fondo dell’anima,
diveniva pensiero.
Teneva lo sguardo fiso nell’amante, che non dubitava, chiedendosi:
«Perchè mi ama? perchè l’amo?» Leggeva la risposta in quegli occhi. Il
loro amore aveva per fine sè stesso: null’altro. S’attendevano
l’ebbrezza dei sensi in cui soffocare l’anima..., e non più. Questa,
questa era la colpa: che il loro desiderio non oltrepassasse il loro
piacere. Null’altro! E non dalla coscienza le insorgeva il rimprovero o
l’ammonimento, ma le veniva da mille voci di vita feconda e di vita
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