Il diavolo nell'ampolla - 1

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DELLO STESSO AUTORE:
_Ora e sempre_, novelle. 3.º migliaio L. 1 75
_In faccia al destino_, romanzo L. 3 50
_Il zucchetto rosso e Storie d’altri colori_ L. 3 50
_Novelle umoristiche_ L. 1 75
ADOLFO ALBERTAZZI
IL DIAVOLO
NELL’AMPOLLA
NOVELLE

MILANO
_Fratelli Treves, Editori_
1918

*Secondo migliaio.*
————
PROPRIETÀ LETTERARIA.
_I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per
tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._
Tip. Fratelli Treves.
————


INDICE

LE FIGURINE.
IL CAMICIOTTO ROSSO.
LA CASSAFORTE DI DON FIORENZO.
LA FORFECCHIA.
LA CIOCCHETTINA.
IL NIDO.
FERDINA.
IL CHIODO.
CINQUANTAMILA LIRE.
LA STELLA SIRIO.
L’ASINO NEL FIUME.
IL DIAVOLO NELL’AMPOLLA.


LE FIGURINE.

— Mulattiere!
Al vicino, che gli chiedeva del suo servizio, rispose con l’impeto d’una
coscienza aperta a tutti i doveri e a tutti i pericoli della carica. E
per dimostrarne meglio la gravità, aggiunse:
— Addetto al vettovagliamento!
Anche la voce, forte, sonora, era espressione di vigoria.
— Di dove venite?
— Dal Trentino.
— E siete in licenza?
— Sì. Otto giorni di licenza straordinaria. Vado a casa a divertirmi.
Ora sorrise; ma l’ironia si adattava così male a quella sua faccia di
uomo sano e florido e a quei suoi occhi chiariti dall’anima schietta e
semplice, che gli ascoltatori rimasero incerti.
— Mi è morta la moglie quasi all’improvviso. — Dimenando la testa
significava: — Questa doveva capitar proprio a me!
Quando la porticella fu riaperta, che già il treno era in moto.
— Oh! Carlino!
— Oh! Saverio! Sei qui?
Il sopravvenuto atteggiava il volto a mestizia; nell’altro il piacere
dell’incontro pareva superar la tristezza dell’occasione.
— Ho viaggiato tutta notte. Sono arrivato, da Verona, a mezzodì, e ho
fatto appena in tempo a correre da mio cognato, all’arsenale.
— Rubata! — esclamò l’amico. — Ti è stata rubata, Saverio! Nemmeno il
dottore sa capire il come e il perchè della disgrazia, così, d’un
tratto.
— Cosa importa saper il come e il perchè? — il soldato disse a voce
anche più alta. — È morta, ecco!
— Hai ragione.
Inutile indagare; argomento concluso. Potevan passare ad altro.
— Ditemi, Carlino. Vostro nipote?
— Ferito a una gamba; ne avrà per qualche settimana.
— Me ne rallegro, che si tratti di poco. E gli amici? Otto mesi che non
ne ho nuova! Michele Costa?
— È prigioniero.
— Prigioniero! Michele? — La notizia conteneva per lui tale contrasto
fra l’idea di prigionia e l’immagine dell’amico spaccone o gaudente, che
il soldato scoppiò a ridere. E udendolo e vedendolo ridere, più d’uno,
ai prossimi posti, pensò: — Bel dolore ha costui d’esser rimasto vedovo!
Ma il dialogo seguitava.
— E Luigi dell’Osteria Grande?
— Imboscato.
— Figlio d’un cane! E Isidoro?
— È morto; a Bainsizza. Anche Giovanni del Poggio: ha lasciata la pelle
in Albania.
Il mulattiere stette un po’ a bocca aperta; e soggiunse:
— Io non trovo che morir qui o morir là sia lo stesso. Io preferirei la
fine d’Isidoro.
Non tutti eran del suo parere, e sorse una discussione; della quale
approfittò l’amico, che stava in piedi, per andar a un posto, in fondo
alla carrozza.
— Ehi, Carlino! — Saverio gli urlò dietro. — Vi ringrazio di quel che
avrete fatto per la mia vecchia.
E poi volgendosi alla donna dirimpetto a lui:
— Se tutti fossero galantuomini come Carlino, la guerra non ci sarebbe.
— Non ci sarebbero tante famiglie addolorate — sospirò la donna.
Riprese il mulattiere:
— La guerra non si può fare senza ammazzar il prossimo, e non c’è da
meravigliarsi che molti abbiano da patire. Non c’è da meravigliarsi che
uno si salvi e uno ci resti. Secondo il destino! Un giorno io conducevo
la mula su per un monte battuto dalla mitraglia. Tenevo la briglia a man
mancina, dalla parte bassa del sentiero. Un colpo, e la mula stramazzò
con la testa fracassata. Se ero a mano diritta, il colpo toccava a me.
Bene; chi mi avesse detto quel giorno: — Tu l’hai scampata; tua moglie
non la scamperà —, gli avrei dato del matto.
Sempre col tono d’uno che narra una storia non sua, il soldato continuò:
— Matto invece sono stato io, dall’altra sera fino a oggi, fino all’ora
che ho discorso con mio cognato. L’altra sera io e il mio compagno,
Biagini, un toscano, avevamo già caricate le bestie (si andava al
reparto, al lume di luna), quando mi consegnarono una lettera. Accendo
un zolfanello. Vedo che non è la scrittura di mia moglie; è della mamma.
— Uhm! — dico. — Scrivermi la mamma?: m’insospettisce. — Non ci pensare
— fa Biagini. — Siamo al Natale e tutte le mamme scrivono ai su’
figliuoli. — E non ci pensai più. Tornati, nella baracca ci avevo un
pezzo di candela. Lessi. È persuasa? Mi misi in mente che fosse un
raggiro di mia madre con qualcuno del Comune per ottenermi la licenza.
Anche il certificato di morte mi pareva una fola! Ma oggi ho dovuto
credere. Mia moglie il sabato avanti le Feste venne a Bologna a trovar
la sorella; stava bene; allegra; il ritratto della salute. Arrivò a
casa, e andò a letto, che non era più lei. Mio fratello corse dal
dottore, e lei in quel mentre spirava.
Una breve pausa; e dopo:
— Cosa importa saper il come e il perchè? È morta: ecco!
La donna chiese:
— Avete figli?
— Uno; di sei anni. Il giorno che partii, volli mangiare, prima
d’avviarmi. Mia moglie — piangeva — cominciò a tagliar del prosciutto. —
Basta! — diss’io. E il bambino: — No, mamma; tagliane pur molto, del
prosciutto, al babbo, che non ne mangerà più. — Fra poco il bambino mi
verrà incontro e mi dirà: — La mamma è morta.
Il vicino di posto guardò il mulattiere: immutato nel viso come nella
voce. Solo gli vide una lagrima, ferma, tra ciglio e ciglio, in coda
all’occhio.
Allora parlò colui:
— Sapete perchè l’avete perduta, la vostra donna? Perchè era onesta. Le
altre, che non si accorano d’aver il marito lontano, quelle, state pur
sicuro, non muoiono!
Gli ascoltatori approvarono, e la conversazione prese un andamento
piacevole. Saverio rideva non meno degli altri, e più forte.
Nessuno avvertiva in lui un’eccitazione strana: per l’insonnia — tre
notti che non dormiva —; per la fame — dalla sera innanzi non aveva
mangiato che una mezza pagnotta —; per il piacere stesso che, in
contrasto con la sua sventura, provava a riudire il suo dialetto, a
trovarsi fra gente delle sue parti, in vista ai noti luoghi, lontano
dalla vita di guerra. Nessuno, neppure il vicino, dubitava ch’egli non
fosse una clamorosa testimonianza del motto: «Chi è morto, giace; e chi
è vivo, si dà pace».
————
Carlino e Saverio discesero alla stazione di San Niccolò. Una stretta di
mano; buona sera!, e si separarono.
Il soldato s’incamminò a passo di marcia per la viottola solitaria.
Cadeva rapido il crepuscolo; la luce sfuggiva dalla tetraggine dei campi
arati, umidi e neri; dei filari degli olmi scheletriti; della nebbia che
celava le montagne e velava di desolazione le cascine e le case sperdute
nel freddo. I pappi delle vitalbe coprivano d’una bianchezza funerea le
siepi brulle ed irte. E Saverio andava per il fango.
Precorrendo col pensiero rivedeva il fratello, maggiore di parecchi
anni, sempre uguale: taciturno, rozzo, e robusto e paziente come i buoi
a cui s’affezionava più che agli uomini; rivedeva, invecchiata, la
madre; cresciuto il figliuolo. Che smania di stringerselo sul cuore! —
Giorgio! Giorgio! — Ma il timore di udirlo piangere, invocar la madre,
gli diveniva un senso di peso enorme, addosso.
Eppure aveva seco, nel tascapane, il modo di quetarlo. — Guarda cosa
t’ho portato! Un pastorino con l’agnello! — L’aveva comperato a Bologna,
sotto il portico della chiesa dei Servi, ove i venditori di figurine da
presepio indugiavano sin oltre l’Epifania. Quattro soldi! Per quattro
soldi, una volta, se ne avevan quattro delle figure di terracotta.
Il mondo, non c’è che dire, va a rovescio; chi però abbia voglia di
lavorare ci troverà sempre da far bene. E la guerra se molti ne porta in
su, molti ne porta in basso; calerà il prezzo del terreno, e fortunati
quelli che avran capitale da investire in campagna! A guerra finita, lui
e il fratello potrebbero lasciar la mezzadria e prendere in affitto un
buon podere; e industriarsi col bestiame. Mercante di buoi: era stato il
suo sogno fin da ragazzo. Occhio sicuro, astuzia, parola di galantuomo;
la frusta in mano, e il portafogli pieno di biglietti da cento.
Così, sognando per arrivare a casa di buon animo, arrivò finalmente a
casa.
————
Il cane pareva impazzito; balzava contro e guaiva; correva a furia
intorno e abbaiava; chiamava.
Il fratello, che aveva già rifatto il letto alle bestie, uscì dalla
stalla col lanternino acceso. Non si commosse.
— Cos’hai di licenza?
— Otto giorni.
— Va bene. Mi aiuterai a potare.
La madre, abbandonata la polenta al fuoco, spalancò le braccia.
— Quanto aspettare, figliol mio!
— Ehi, mamma!, non voglio pianti — ammonì il soldato entrando. — Pugni
al cielo non se ne danno: dunque.... E Giorgio?
— L’ho messo a letto; stanco; addormentato. Non sta mai fermo in tutto
il giorno!
Il soldato si levò il rotolo del mantello, che aveva a tracolla, e lo
depose sul cassone; appiccò la bisaccia a un chiodo; tolse di mano al
fratello il lanternino, e dicendo: — Vuotate la polenta, che son morto
di fame — salì, per la scala di legno, al piano di sopra. Ridiscese
tosto.
— Dorme. È bello. Son contento.
Gli lucevano gli occhi, ma il fratello e la madre finsero di non
accorgersene.
Sedettero; i due uomini, alla tavola, la vecchia, sul focolare; e
ingoiarono le fette fumanti.
— Hai saputo di Michele Costa? — chiese il fratello.
— Sì, me l’ha detto Carlino in treno.
Allora la madre pigliò coraggio.
— T’avrà detto anche, Carlino, che abbiam fatto quel che abbiam potuto?
— Sì. Non ne discorriamo più.
— E la guerra? — il fratello dimandò, dopo un poco.
Saverio scosse le spalle. C’era ben altro da pensare, da dire! Parlò con
voce ferma.
— La mamma è vecchia; e d’una donna giovine in famiglia ne abbiam
bisogno. Prendi moglie tu.
— No — rispose il fratello, risoluto. — Tribolare piuttosto.
— Ne prenderò un’altra io. Ma badate: una come quella non la trovo più
in tutto il mondo.
— È vero — confermò la madre. Soggiunse: — Sinchè io camperò, una
matrigna non lo tratterà male, il bambino.
— E dopo — esclamò torvo Saverio — non mi mancherebbe un randello da
romperle su la schiena se non rispettasse il mio sangue!
La vecchia si alzò in fretta; andò a deporre il piatto nel secchiaio; si
asciugò gli occhi col dorso della mano, e Saverio finse di non
accorgersene.
— Adesso — il fratello disse riempiendo la pipa — ti mostro i conti. Li
ha fatti Carlino iersera. Due volte è venuto per consolarci.
E tornò con le carte. Saverio accostò a sè il lume a petrolio e cominciò
a rintracciare e sommare rendite e spese. In fine, le spese del
mortorio: tanto, nelle torce; tanto, nelle messe; tanto, nel resto.
— Anche i preti non scherzano! — commentò.
Ma le rendite del grano e dell’uva erano grandi.
— Ti scaldo il letto? — propose la madre.
— No, vado a dormir nella stalla.
E riacceso il lanternino, i fratelli uscirono.
Nella stalla Saverio guardò ai buoi giacenti. Fe’ rialzare i manzoli
nuovi; li palpò; li accarezzò.
— Belli! Da guadagno.
Poscia l’uno si gettò su la branda; l’altro — il soldato — nel mucchio
di paglia: vi si immerse; se ne ricoperse con un piacere di ragazzo.
E il russare degli uomini non tardò a confondersi col respirar fondo dei
buoi.
————
Allorchè, la mattina dopo, Saverio entrò in casa, nel camino
fiammeggiava un bel fuoco.
— Mamma, preparatemi i vestiti, da mutarmi.
— E alzerò Giorgio — disse la vecchia sorridendo. — Sgambetta per tempo.
Il soldato rimase solo. La cucina gli sembrava più ampia e più nera nel
contrasto delle due luci: la fiamma rossa e riverberante, e l’albore,
che entrava per la finestra appannata.
E d’improvviso, in quello schiarire incerto, ebbe dinanzi a sè
l’immagine della morta: così evidente da chiamarla. Volse il capo; e
ugualmente improvviso gli tornò un ricordo. Il dì che si sposarono, in
municipio, uno di coloro che scrivevano esclamò, serio: — Bella coppia
di sposi!
Un brivido gli corse per la vita; sentì una colpa nel ripensare a lei
bella senza pensare a lei buona. E cominciò a parlare, a mezza voce,
quasi ci fosse qualcuno ad ascoltar la lezione della sua esperienza.
— Alla passione non si comanda. È nel cuore? E anche se non ci date
mente, anche se discorrete d’altro, anche se scherzate e ridete, anche
se non ve ne accorgete, a poco a poco, la passione, dentro, cresce
cresce....
Si rivide nel tragitto a piedi sino al deposito, nel tragitto in camion
sino a Verona, nel viaggio da Verona a Bologna, e da Bologna a San
Niccolò, in piacevole compagnia.
Chi avrebbe mai detto che il cuore, intanto, gli si riempiva in questa
maniera? E lungo la strada da San Niccolò a casa non s’era divagato
facendo castelli in aria? E nell’incontro col fratello e con la madre, e
durante la cena non aveva provato come l’alleggerimento d’un peso? Non
aveva dormito tutta la notte, di gusto, senza sogni? Ma intanto, a poco
a poco, la passione cresceva, seguitava a riempirgli il cuore. E quando
è pieno, basta un niente perchè trabocchi.
No! Si contenne. Il bambino, di sopra, chiamava: — Babbo! babbo! —;
scendeva.
Gli mosse incontro; lo prese per mano gridando: — Vieni a vedere,
Giorgio, cosa ti ho portato!
E con lui andò a staccar dal chiodo la bisaccia; si sedè, con lui
accanto, alla tavola, presso alla finestra; introdusse la mano nel
tascapane, adagio, per aumentar l’aspettazione gioiosa.
Ma — addio pastorino di terracotta! —: la mano ne toccò due, tre pezzi.
Forse aveva sbattuta la bisaccia salendo in treno, o scendendo? Non
importava saper il come e il perchè; era rotta, ecco!
Ne ritrasse i pezzi, li osservò, e allora — basta un niente quando il
cuore è troppo pieno — allora stringendo di più a sè il figliuolo col
braccio destro, distese il braccio sinistro su la tavola, vi appoggiò la
fronte e ruppe in singhiozzi.
Il bambino taceva. Stupito, considerava la figurina infranta e il padre
piangente. Ma si divincolò.
— Aspetta, babbo! Lasciami andare! Lasciami andare!
Sfuggì, salì a gran passi la scala. Tornò che lo sfogo non era cessato.
— Guarda, babbo! Guarda! Questa è più bella della tua! Me la portò la
mamma da Bologna, prima di morire. Non piangere! te la dò a te.
Prendila.
Il padre sollevò il capo; sorrise tra le grosse lagrime; scorse negli
occhi del figliuolo, mentre gli offriva la figurina, gli occhi della sua
donna; e prese a tempestarlo di baci.
E il bambino si mise a piangere anche lui.


IL CAMICIOTTO ROSSO.

Un discorde mugliare: richiami angusti di vitelli, come impediti da un
soffocamento; aperte, disperate invocazioni di madri; risposte lunghe,
come estratte dal torace profondo, di buoi. E uno strepito di campanacci
e un romore di voci umane.
Sotto l’ombria dei tigli e delle acacie arboree l’agitazione delle
bestie e degli uomini da lontano appariva confusa di bianco e di scuro;
lenta, folta. Ma a penetrarvi si scorgeva un comporsi e uno scomporsi di
gruppi nelle vicende del mercato; un diradar della folla quando, a ogni
prova di compera, si facevan andare le paia che i garzoni tiravano per
le mordacchie. I sensali schioccavan le fruste; frustavano seguendo per
alcuni passi; e arrestandosi nel dar l’ultimo colpo, piegavano innanzi
la persona e la risollevavano quasi a ritirarsi dagli animali lasciati
in libero movimento.
— Guardate!
Cominciava l’esaltazione dei pregi; la speculazione dubitosa dei difetti
e dei vizi; e mentre i venditori attendevano con le braccia conserte o
le mani aperte sul petto, il pollice entro i giri del panciotto, i
compratori esaminavano a fatica i denti, sorridevano al vecchio inganno
delle corna ingiallite e lustrate con olio e mallo di noce, scostavan le
moscaiuole per veder del tutto la quiete degli occhi, tastavano le gambe
ai malleoli se non celassero vesciconi, raccoglievano in pugno la pelle
del fianco per accertarne la morbidezza, accostavano l’orecchio ad
ascoltar il respiro e il cuore. E venivan, dopo, le chiassose richieste
e le proposte commentate da bestemmie, da risate, da gioconde
contumelie. Finchè il sensale tratteneva per un braccio l’acquirente che
fingeva di voler scappare; afferrava sotto il braccio o col braccio
dietro al dorso il venditore, che si fingeva irremovibile, e
trascinatolo in disparte, gli parlava sottovoce e lo riconduceva
all’altro. Nuova richiesta; nuova proposta.
E si ripeteva la disamina; e si trovavano non abbastanza diritte o
asciutte le gambe, non perfetto l’appaiamento. Intorno, i curiosi
aspettavano. Poi, all’ultima proposta del sensale, avanzavano
faccendieri e amici a sospingere il braccio del venditore, il braccio
del compratore; e le due destre s’impalmavano che l’accordo non era
ancora pieno. Con dinieghi aspri si svincolavano le mani; con qualche
piccolo rialzo e ribasso di prezzo, concesso a stento, si riprendevano.
E se, dopo tanto, il contratto era concluso, che strapponi lo
consacravano! Il sensale da un lato, gli amici dall’altro, con ambedue
le mani premevano alla poderosa, imprescindibile stretta finale.
————
Fra i paltonieri che al mercato cercavano di buscar qualche soldo e tra
gli spettatori più attenti lo Scricco non mancava mai, da poi che era
tornato in paese. Ma non infastidiva nessuno. Là in mezzo sentiva meno
la fame e si saziava di innocua invidia e di una speranza che solo nel
suo segreto si arrovellava in minaccia. Perchè, uscito dal penitenziario
dopo la lunga condanna, non l’avevano commosso troppo i mutamenti del
mondo: i traffici intravveduti alle stazioni ferroviarie, i transiti
delle biciclette e delle automobili per ogni strada, le fabbriche sorte
anche nel paese nativo non gli avevano distolto l’animo dalle
rimembranze per amareggiarlo con lo spettacolo di ricchezze e
soddisfazioni impensate, di una felicità ignorata. Per lui i beni grandi
e invidiabili restavan quelli per cui aveva ceduto alla colpa e
sopportata la pena; erano i campi verdi e solatii; erano le case ove i
sacchi di frumento, di frumentone e sementi si addossavano lungo la
loggia ed ove fermentava l’uva nei tini enormi; erano le stalle ove non
una delle dodici poste si lasciava mai vuota.
Ah, il sogno della sua giovinezza! Accumular denaro che bastasse
all’acquisto di un pezzo di terra, e di là estendere possedimento e
fortuna, e conquistar la ricchezza che non muta per mutar di tempi e di
progressi e di macchine; ed essere felice!
Invece, ecco: ricettando e rivendendo le cose rubate, aveva perduto
tutto; resistendo alla forza, aveva aggravato il delitto; tacendo
ostinatamente, sempre, il nome dei complici e salvando il maggior
colpevole, aveva aggravata la condanna su di sè. Diciotto anni! E
intanto Sandro Molenda, Sandro il ladro, il maggior colpevole che egli
aveva salvato col silenzio, si era fatto ricco lui. Possedeva fondi e
bestiame!
E tutti lo rispettavano. E scorgendo al mercato chi l’aveva salvato
dalla galera, non dava segno di riconoscerlo. Temeva. Ma verrebbe l’ora
di comparirgli dinanzi, guardarlo in faccia e dirgli: — Son qui!
L’occasione venne il dì che Sandro Molenda contrattava un bel paio di
bestie con un contadino di Romagna bassa. Quando chiese: — Son fidi? —,
il venditore rispose: — Fidi —; e, volto l’occhio in giro, fe’ cenno a
quello che tra i presenti gli parve prestarsi meglio alla prova. Poco
più alto di un ragazzo, spelazzato nella faccia strana, in testa un
cappellaccio da risaiolo, lo Scricco si avvicinò. Con vecchia esperienza
palpò nel collo, l’un dopo l’altro, i mirabili buoi; li grattò tra le
corna; avvicinò il volto ai musi abbassati tirando la cavezza; tolse le
mordacchie: non si muovevano. Fidi! Guardavano lontano, come in uno
stupore di sogno perduto.
I due tentarono, strinsero il contratto.
— Ve li guido a casa io? — disse lo Scricco a Sandro, piantandogli gli
occhi in faccia, appena avvenuta la compera.
Quasi non l’avesse mai conosciuto o lo avesse sempre conosciuto per
galantuomo, Sandro disse:
— E tu guidali.
Poi si scostò col sensale e il venditore; rimise in tasca il grosso
taccuino; e si rivolse:
— Avvìati, che ti raggiungo.
Un amico gli strizzò l’occhio. Mormorò:
— Li hai consegnati a buone mani!
————
Con il cavallo al passo dietro i buoi che lo Scricco conduceva, Sandro
Molenda trovava sollievo in un sospetto che altra volta gli sarebbe
stato gravoso.
Quei due animali così belli e forti e bene appaiati, da esposizione, li
aveva comperati per meno di quanto valevano in apparenza. Qualche
difetto dovevano averlo. Quale? Li considerava; li immaginava sotto il
giogo, a timone del carro o dell’aratro: quale dei due gli sfigurerebbe?
Ma perchè impensierirsi se aveva agio a sperimentarli, e otto giorni di
tempo al referto e alla restituzione? Perchè confondersi in quel
pensiero? Lo minacciava ben altro pericolo: un pericolo tale che la
mente rifuggiva dal chiarirlo e il cuore se ne angosciava quasi a una
oscura rovina, a un disastro travolgente, mortale. L’energia e l’astuzia
che l’avevano tirato fuori dal fango, che nelle prime furfanterie
l’avevan difeso dai pericoli e dalle paure, che l’avevan sospinto, dopo,
a camminare per la via diritta, lo sosterrebbero ancora. Voleva! Ma
intanto non poteva concepire l’azione liberatrice se non afferrando,
fermando l’idea che dal dì che aveva riveduto lo Scricco gli era
balenata tremenda. Non c’era scampo; o non lo soccorreva, l’antico
complice, e lo Scricco avrebbe presto o tardi rivelato a tutti l’antica
complicità, la generosità che non riceveva compenso; lo soccorreva, e la
gente chiederebbe per che vincoli egli fosse tenuto a un avanzo di
galera, e qualcuno rinvangherebbe il passato e scoprirebbe il principio
di quella fortuna che ingelosiva gli uguali d’un tempo e i nemici
d’adesso. Nessuno scampo.... finchè il complice, che aveva scontato per
lui, viveva. Diciott’anni! Pareva ieri; e una denunzia sarebbe forse
ancor valida! Diciotto anni, a Portolongone, a Castelfranco; ed era
tornato, quel miserabile, a guardarlo in faccia e a dirgli con gli
occhi: — Son qui. O mi aiuti, o ti smacco!
Ma che varrebbe comperarne il silenzio? Dimostrando obbligazione a un
galeotto non dimostrerebbe che ladro era stato anche lui?
Così Sandro Molenda — lo saprebbe tutto il mondo — aveva fatti i
quattrini. Ladro! Nessuno scampo finchè lo Scricco viveva!
.... D’improvviso, al passare d’un biroccino, i buoi balzarono; e lo
Scricco fece appena in tempo a scansarsi, a trattenerli.
Sandro strinse gli occhi. Nel riflettere raccoglieva sempre lo sguardo
sotto le grosse ciglia. Dunque erano ombrosi? No: uno si era spaurito
alla mossa repentina dell’altro, e l’altro, il destro, aveva dato un
balzo innanzi come per assalire, di furia.
Allora Sandro rincorse con lo sguardo il biroccino che era oltrepassato;
vide e disse: — Ho capito. — Avevano cercato d’ingannarlo nella compera,
e per la rabbia si mordeva le labbra; sfogava il segreto sgomento con
imprecazioni a mezza voce contro il venditore.
Se non che, a poco a poco, spianò il viso; gli rifulsero gli occhi e le
idee torbide scomparvero quasi al seguire di una vivida speranza, o al
risolversi dell’animo in un savio proposito.
E quando furono a casa il bifolco e gli altri uomini ammirarono i buoi.
Sorridente, senza interloquire, lo Scricco ammirava tutto intorno, e
sembrava lieto. La casa, tozza e massiccia, attestava uno stabile
benessere; la cascina era gonfia di fieno e di paglia; il campo arato,
tra i diritti filari, aveva le zolle nere di concime, al sole. Sotto il
portichetto una delle nuore allattava un bambino paffuto; la reggitora,
nell’aia, diffondeva palate di mondiglia a una moltitudine di galline e
pollastri, faraone e anitre.
— A te! — chiamò Sandro contando pochi soldi e porgendoli allo Scricco.
Questi li intascò; disse: — Vi saluto, gente! —; e se ne andava. Ma si
fermò là, dove, presso la catasta di legna e di fasci, erano ammucchiate
le zucche per i porci.
— Vuoi una zucca? — gli chiese a voce alta Sandro, per ridere.
Rise anche lo Scricco tornando indietro; e quando gli fu presso disse a
mezza voce:
— Fareste meglio a tenermi qua da voi, per garzone.
L’altro strinse gli occhi fissandolo; poi rispose:
— E io ti tengo.
————
Così lo Scricco fu contento. Cominciata la vendemmia, accettò volentieri
di portare con gli operai più robusti i cesti e i bigonci; e sapendosi
da che parte veniva, i compagni l’incitavano a raccontare. — Cosa facevi
in collegio? Come ci campavi? Stavi allegro? — Egli, durante le soste
dell’opera, raccontava; teneva allegra la compagnia per il modo con cui
esaltava le delizie del reclusorio. Cantava anche a squarciagola una
canzone che aveva sommessamente imparata a Castelfranco; e ridevano,
sebbene fosse una canzone da piangere.
Ma per il campo lo Scricco si meravigliava e godeva — e non lo diceva —
delle piccole cose che ritrovava dopo tanti anni, e che gli ridestavano
impressioni di sogni avuti là dentro, nella cella, alle notti grevi.
Allodole trillavano invisibili contro il sole; cincie e lui si
chiamavano, mai stanchi, d’albero in albero; le passere frullavano a
frotte. Nei prati, i fiori d’inverno rompevano di lilla le verdi
distese, brillavano gocce di guazza; candide famiglie di funghi
spuntavano dalle radure. Si spandeva lontano l’odore dei pioppi. E al
sole la dolcezza dell’aria faceva ricordare i giorni più tristi, ma
passati per sempre.
Frattanto con cautela, in segreto, il padrone si era accertato del vizio
che aveva uno dei buoi acquistati da poco. Come aveva dato un balzo al
passaggio di quel biroccino su cui era una donna col fazzoletto rosso,
la bestia infuriava a mostrarle un fazzoletto rosso: tentava assalire
cozzando. Terribile, se potesse! Era pericoloso irritarla anche là,
legata alla posta. Quando i buoi han l’ira del rosso, nel sangue, guai;
per ammazzare si lascerebbero ammazzare.
Pure, Sandro non fece il referto; non ne parlò con nessuno.
E temeva se ne accorgesse il bifolco.
E fece fretta al sarto che, a norma dei patti, venisse a trar di cenci
il garzone. Comperò anche, per il garzone, la flanella da fargli un
camiciotto; rossa; e lo cuciva una delle nuore.
— Vi nomineremo Garibaldi — dicevano ridendo le donne.
Allo Scricco pareva di tornare ragazzo, quando aspettava ansioso il
giorno della festa che indosserebbe il vestito nuovo, la camicia nuova.
————
E fu un giorno di festa. Tutti, fuor che lor due — reggitore e garzone —
erano ai vesperi. Giuocata che ebbero una partita alle bocce — la vinse
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