Il diavolo nell'ampolla - 7

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— Le donne, chi le capisce? — pensava Raimondo. — Mia cognata si direbbe
leggera, eppure.... Si direbbe vana, eppure.... Si direbbe tal quale
tutte le signore della società sciocca e falsa, eppure.... Soffre:
questo è solo quel che ci capisco io!
Finchè un bel giorno egli, che tra le scienze in cui aveva delibato
noverava anche la psicologia, credè penetrare senza più dubbio nel
mistero di lei. Certe sue mosse, certe occhiate al marito, certe
attitudini sdegnose o certe ostentate espressioni d’affetto quando
Alfonso tornava a casa dopo le frequenti assenze, per osservatori
inesperti sarebbero state prove di stanchezza, di freddezza, magari di
un’antipatia insorgente e indarno repressa.
— Ma a me non me la dà a intendere! — pensò Raimondo. — Ho visto!
Adriana è innamorata pazza di Alfonso; ne è appassionata; è gelosa delle
occupazioni e dell’ambizione che glielo rubano.
Tanto vero che compiangendo sè stessa compiangeva chi sfuggiva alle
affannose gioie dell’amore.
A lui diceva:
— Innamoratevi, Raimondo! Amate, fin che siete in tempo!
— Amo — egli rispondeva.
— Già!, la vostra Sirio.
— Sirio è maschio.
— Vedete che sproposito? E intanto vi sfugge il meglio: la donna.
— Il meglio?
— Il meglio! Non avete ancora imparato che siamo stati creati appunto
per godere e per soffrire amando; amando come si usa in terra e non fra
gli astri? Non avete ancora compreso che la vita è amore e amore è la
vita? Non avete ancora pensato voi, signor pensatore, perchè la
fanciullezza è così bella? Perchè anche la vecchiaia può essere bella?
— No. Perchè?
— La fanciullezza — non ridete — è come l’antipasto dell’amore.... E la
vecchiaia può essere la tranquilla, beata, invidiabile digestione
dell’amore. Non ridete, vi prego.
— Filosofia gastrica! — esclamò ridendo Raimondo. — Ma io mi pasco di
luce.
— E siete cieco! Infelice!
Ebbene, sì: da qualche tempo egli si sentiva davvero infelice; ma non
perchè si era lasciato rapir dalla scienza: anzi perchè alla scienza non
si era dato con amore più saldo. Inoltrandosi negli anni e negli studi,
a quel dilettarsi di una cultura superficiale e varia, al compiacimento
di poter discorrere, con nozioni vecchie e nuove, di astronomia, di
fisica e di chimica, di botanica e zoologia e mineralogia, eccetera, e
di potere, con vive rimembranze, adornarsi di storia e filosofia e
poesia, gli era seguìto nell’animo un senso di rammarico, come in chi
s’avvede di consumare invano le sue forze.
E ora sapeva che non sapeva nulla di nulla, e sapeva tanto che
immergersi nell’ignoto con l’ingenuità d’un bambino o d’un barbaro gli
sarebbe parso ineffabile gaudio.
Ma anche ciò non poteva, perchè quanto aveva appreso gli suscitava dalla
terra e dal cielo, in mille modi e mille forme, le tentazioni
dell’ignoto e le prove della sua ignoranza particolare. E gli costava
uno sforzo dire a sè stesso:
— Che importa il tuo soffrire, la tua ambizione insoddisfatta, se ti
ricordi, Raimondo, che Sirio...?
————
Per fortuna Sirio non gli rifiutava tutti i conforti di quaggiù.
Con sincera stima — ne era certo — lo divagavano dall’intima cura un
discepolo e un collega. Discepolo gli si protestava il capitano Turri;
il quale, vedovo di una ricca signora, aveva da poco lasciato
l’esercito, ed essendosi comperato una villetta a Castelronco, presso a
quella dei Graldi, nell’amicizia dei Graldi trovava incitamenti a passar
bene i giorni e le sere d’estate. Con Alfonso, Turri combatteva, fuori,
in pro del partito dell’ordine; con Raimondo si riposava, in casa,
imparando senza discutere.
E l’ammirata sommissione del capitano era tale che — mentre egli
ascoltava — Raimondo, il maestro, provava gusto pur a dire delle
corbellerie. Quando il poeta superava in lui lo scienziato, la fantasia
gli rendeva verosimili le più strane ipotesi, le spiegazioni più ardite.
Dopo, se ne doleva, temeva. Se Turri consultasse qualche libro? qualche
scienziato?
Ma no!, fiducioso, Turri non consultava niente e nessuno, o, tutt’al
più, si rivolgeva a Adriana, allorchè assisteva alle severe lezioni,
chiedendo:
— Che fenomeni, eh, signora?
La signora rompeva in una delle sue gaie risate e rispondeva:
— E questo è poco! Chi sa in Sirio!
Ma con il collega le cose procedevano diversamente. Era l’arciprete.
Meditativi entrambi, don Paolo e Raimondo interrompevano di silenzi e
sospiri le discussioni serali e le cognizioni che s’impartivano a
vicenda: afflitto don Paolo che alla dottrina dell’amico mancasse la
direzione della fede, e malcontento Raimondo perchè all’intelligenza
dell’amico mancasse la travagliosa eppur feconda necessità del dubbio.
————
Alcune settimane dopo la sera che Alfonso aveva mosso al fratello
l’oscuro ammonimento — e Alfonso non ne aveva più tenuto parola nè
Raimondo se ne era più ricordato — l’arciprete, dalla via, sorprese
l’amico una mattina mentre curava i fiori prediletti.
E gli disse piano, timidamente, quasi:
— Ho da parlarle.
Andandogli incontro per il viale che metteva, un po’ di lungo,
all’ingresso della strada, Raimondo pensava:
— Don Paolo mi sembra stralunato. Parlarmi di che cosa?
Di che avevano discusso nei recenti colloqui? Degli elementi dell’atomo
(elettroni....); delle macchie solari in rapporto alla meteorologia....;
di Darwin in rapporto ai neovitalisti....; della — ah, sì! — della
pluralità dei mondi abitati — sì, sì — in rapporto alla religione e al
dogma. E in presenza di donne egli si era lasciato trasportar troppo
dall’argomento; aveva turbato, in grazia delle scandalizzate
ascoltatrici, la serena tolleranza, la coscienza del bravo prete.
— Colpa di Sirio! — si disse ancora Raimondo vedendo con la mente il
sorriso ironico di Adriana. Infatti al tema pericoloso li aveva
condotti, quella sera, l’accenno al pianeta che gira intorno a Sirio in
cinquant’anni.
Ma don Paolo parve anche più imbarazzato quando seduto sul sedile, tra
il folto, cominciò a bassa voce:
— La nostra amicizia e la mia prudenza, anzi il mio dovere....,
m’impongono....
Raimondo gli fu subito grato del tono dimesso, della soggezione
manifesta, e pentito com’era d’avergli fatto dispiacere, affrettò:
— Ho capito, don Paolo. Lei ha ragione.
Il prete sembrò ora meravigliarsi di quella consapevolezza; ma l’altro
abbassò gli occhi, quasi a significare: — Le dò ragione, sebbene l’amore
della scienza mi giustifichi.
— Lei capisce — seguitò il prete, grato a un tempo che gli fossero
risparmiate spiegazioni penose, e dolente di dover insistere per
condurre l’amico al suo prudenziale consiglio.
— Lo scandalo.... Le chiacchiere.... La perfidia degli avversari....
Già: felici di dare addosso a un povero prete, che per l’amor della
scienza si comprometteva in conversazione sopportando teorie
irreligiose.
All’insistenza però del collega, Raimondo non volle più cedere del
tutto; oppose, serio:
— Capisco; capisco. Ma non diamo troppo peso....
— Il mio timore — interruppe angustiato don Paolo —, il mio timore è che
le voci, le accuse anonime pervengano all’orecchio di chi deve
ignorare....
Dell’arcivescovo? Povero don Paolo!; si aspettava noie fin dalla Curia!
— Ha ragione — affrettò di nuovo Raimondo. — Le prometto....
Ma allora una bella risata squillò dietro di essi e li fe’ sorgere in
piedi. Adriana.
— Bravo don Paolo! — esclamò. E scendendo per l’erta, tra i lauri: —
L’ora è propizia!
Il prete, pallido, stentò a sorridere.
— Di giorno — la signora soggiunse — non si vedono le stelle, e adesso
le sarà più facile persuadere questo ostinato....
— A che? — Raimondo chiese.
— A non perdere di vista le cose terrene!
Don Paolo guardò la signora con ricuperato animo. Disse:
— Forse sarebbe meglio, certe volte, perderle di vista!
E la signora fissò il prete.
— Oh! Così non deve dir lei, reverendo, che con tanto zelo compie
quaggiù la sua missione di carità e di amore!
Anche Raimondo sentì l’ironia e gli dispiacque.
— Mia cognata — interloquì — mi giudica egoista, apate.
— Se non foste, non avreste sempre la testa in Sirio.
Sviato, il discorso proseguì scherzoso tra i due e lasciò libero il
terzo di andarsene presto. Se n’andò, don Paolo, convinto d’avere
provveduto alla sua missione.
— Ora la metterà in guardia — pensava. — Mi ha capito meglio lui di lei.
————
.... Ed era stata per Raimondo una notte quasi insonne, sebbene senza
sospetti di nessuna sorta.
S’alzò all’alba; spalancò la finestra.
E si rimise, così vestito, sul letto. Nella quiete ancora notturna
pesava l’aspettazione del giorno canicolare. Poi i suoni vi furono come
gettati dentro da lungi ed estesi da onde che vibrassero basse e dense,
quasi staccate dall’aria che le recava. Rari abbaiamenti e gallicini
fiochi. Nè questi suoni rompevano l’immenso silenzio; e lo dilatavano,
infinito, lo spesso zittìo delle locuste e il fondo e grasso gracidare
dei rospi.
Solo una voce umana avrebbe rotto il silenzio immenso, avrebbe ridestata
la vita; ma non si udiva una voce d’uomo. E guardando di là, da sedere
sul letto, agli alberi che nereggiavano lungo il clivo, Raimondo pensava
agli uomini, e gli parevano creature poco dissimili da quelli: la
superiore anima degli uni non era radicata alla terra come la vitalità
degli altri? Il pensiero non era forse vincolato alla materia bruta? O
forse Adriana, nella sua ignoranza, scorgeva il vero? Unica realtà
capace di idealità e spiritualità, unica illusione difesa e sostenuta
dalla realtà sarebbe l’amore? Unica felicità addentrarci amando nella
vita della materia, per illuderci godendo e soffrendo di superar la
terra che ci avvinghia con radici tenaci fino alla morte?
Un galoppo veniva di lontano lontano, e Raimondo l’accompagnò con udito
or più or meno sensibile. Lontano lontano.... E mentre la frescura lo
riassopiva, e mentre gli pareva che quel galoppo strappasse
affannosamente la strada, credè ricordarsi che Alfonso aveva detto di
restare assente tre giorni.... Ma nell’avanzare il galoppo cadeva a
trotto uguale; scemava; cessava. Alfonso? No. Non poteva esser lui che
ritornasse un giorno prima, a quell’ora, dal luogo ove gli affari
l’avevano intrattenuto, quantunque non di rado, per il caldo, viaggiasse
anche la notte col suo buon cavallo.
Quand’ecco un rumore vicino riscosse dal dormiveglia Raimondo: un
repentino, affrettato rumor di passi, nella loggia. Ascoltò. Non
sognava. Qualcuno apriva le imposte della ringhiera. Balzò e corse alla
finestra e.... Come in un sogno volle gridare al ladro, e non potè. Giù,
d’un salto, dal balcone, il fuggitivo scompariva tra le macchie:
riconoscibile. Riconosciuto! _Lui!_
E altri passi più forti per le scale e nella loggia; e lo sbattere
violento d’un uscio.
Turri! Alfonso! Con la mente vacillante, col cuore stretto da
un’angoscia mortale, Raimondo percepì le due imagini nella rivelazione
istantanea, e tutto gli apparve in una improvvisa orrenda luce. Ah le
parole delle Raffi! Solo adesso le ricordava! E insieme, d’un tratto,
vide quanto avrebbe dovuto intendere prima, a poco a poco, se avesse
ricordato e riflettuto: l’ammonimento del fratello («sta attento»), le
parole delle Raffi («il capitano, dicono i socialisti, consola i mariti
fuori e le mogli in casa»), la prudenza di don Paolo, gli infingimenti
di Adriana. Vide Adriana, e tremò per lei. Di pietà tremò. Uscì,
disperato.
Scendendo dal piano superiore, scarmigliata, piangente, con le mani in
croce, disperata, lo affrontò la cameriera; e lamentando — Dio! Dio! —
pareva rinfacciare a lui la storditezza, la debolezza, la viltà che non
aveva saputo impedire, che non sapeva impedire. Raimondo si sentì
mancare. Ma.... — l’uccide, l’ha uccisa! — ecco il colpo. E si precipitò
verso là.
Alfonso uscendo lo respinse. Stringeva in pugno il revolver. Si
guardarono nell’attimo tragico.
Fratelli?
E con voce ferma, con la stessa voce con cui aveva detto quella sera: —
sta attento — Alfonso disse al fratello:
— L’ho uccisa.


L’ASINO NEL FIUME.

La maggior piena era passata: ora la fiumana, contenuta nella parte più
bassa, scorreva rapida, ma a piccole onde lievi lievi che s’inseguivano
riscintillando. Il sole, nel sereno purificato dalla pioggia della
mattina, la irradiava, vi si rifletteva quasi in liquido argento; e ove
dilagava nel letto più ampio, l’acqua pareva espandersi dall’agitazione
del mezzo e indugiare, di costa, in un tremolìo fulgido, frequente e
incessante; come in una trepida gioia infinita.
Per passare dalla riva sinistra alla destra a caricarvi la ghiaia, i
birocciai dovevano seguire la carraia che avevano praticata evitando
massi e borri e seguire, sotto l’acqua, i solchi delle ruote. Discesero
in fila: ritti su le birocce essi schioccavan la frusta ed incitavano
con voci di iù! mentre trattenevan le redini; ed i cavalli a testa alta,
scuotendo le sonagliere, entravano nella corrente e godevano a
diguazzare in quella vivida intermittenza, a precedere o a tener dietro
ai compagni attraverso quella confusione e quel palpito d’acqua e
splendore. E l’esser passati era per gli animali e per gli uomini come
un’allegra vittoria.
Venne ultimo, con la sgangherata biroccetta e l’asino, Sugnazza. Anche
lui! Urlava anche lui; e bastonava. Ma l’asino non aveva baldanza:
troppi digiuni e troppe bòtte. E quando non era ancor a metà del guado,
si fermò. Si fermò rigido, a orecchie chine, con intenzione dubbia.
L’arrestava l’ignota delizia del bagno, o lo atterrivano il luccichio e
la vertigine? E non bastavan più il bastone e le grida.
— Dàlli, Sugnazza! — Arrì! — Forza! — ripetevano i birocciai
sghignazzando, intanto che raccoglievano dai mucchi la ghiaia e la
caricavano con fragore di badili. — Forza! Se no, l’acqua ti porta via!
Dàlli!
Dava; e l’asino, duro. Finchè, fosse una randellata di tal sorta da
affrettare il destino, o fosse una funesta illusione di riposo e di pace
che irresistibilmente l’attirasse, la bestia si abbandonò e cadde; e
Sugnazza battè il petto contro il riparo, dinanzi. Ahi! Calò, sì,
subito, nell’acqua e, furioso, percosse, bestemmiò e maledisse; ma era
finita. E quando fu certo....
— Gli è crepato l’asino! Gli è crepato l’asino! — esclamarono quegli
altri accorrendo a vedere e a ridere.
L’asino non si mosse più. E quando fu certo, Sugnazza tacque; risalì
nella biroccia prona su la bestia morta e vi si distese per il lungo, la
testa poggiata su le braccia e la faccia in giù, con apparenza d’uno che
cogliesse una bella occasione per schiacciare un sonnellino.
E per non disturbare nè lui nè la bestia i birocciai, al ritorno,
tirarono un po’ da parte. Ridevano ancora.
Quel disgraziato — che matto! — sembrava voler passarsela così la sua
batosta: pacificamente, dormendo!
————
Ma Sugnazza non dormiva. E non piangeva. Si vedeva, a occhi chiusi,
morto di fame, là, press’a poco come il suo asino. Dal dì avanti egli
non aveva ingollato cibo, e gli ultimi soldi gli erano andati, la
mattina, in grappa. Un pezzo di pane a credito per qualche giorno, da
qualche fornaio, lo avrebbe trovato; ma poi, cosa fare? Lavorare a
opera? Chi l’avrebbe preso, ormai che il cuore gli ballava il trescone a
ogni sforzo e i polmoni arsi pativan sete d’aria più che lo stomaco
d’acquavite? E chi l’avrebbe voluto a servire in casa con quella tara
che portava addosso da vent’anni? E chi gli avrebbe fatta volontieri
l’elemosina, a un uomo che non era vecchio, e, quando poteva, si
ubriacava?
O comperare un’altra bestia per la biroccia, o morir di fame. Questa la
conclusione.
Ma se questa, di un altr’asino, era la sola speranza, bisognava
persuaderne il mondo e dire: — O voi che potete mi aiutate, o io mi
lascio morir di fame qui dove sono, con l’asino. Sissignori! E mantengo!
Veramente nell’opinione pubblica Sugnazza godeva stima di essere
risoluto. Non per altro che per il modo con cui la vinceva sul suo
compagno di sventura aveva suscitata sempre l’ilarità e, perchè no?, la
simpatia dei compaesani.
Povera bestia!; più povera forse sotto la biroccia scarica che sotto il
carico. Allorchè il padrone, dalla biroccia, s’ergeva a sostener la
corsa per la maggior via del paese, l’asino dava uno spettacolo di
pazienza e di sofferenza così sproporzionate da divertire anche la gente
seria. Al grido annunziatore della tempesta incurvava il dorso quasi per
offrir più alto il campo al randello e uscir tosto di pena; teneva
stretta stretta la coda quasi per sottrarre sol esso, il suo unico
inutile schermo; e finchè i colpi erano sopportabili interrompeva un
istante l’andare abbassando la testa e rialzando un po’ insieme le gambe
di dietro quasi per accusar ricevuta. Ma se le legnate piombavano senza
misericordia, allora col torace vuoto e risonante l’infelice aderiva a
una delle stanghe, in un vano tentativo di allontanarsi, e pareva
piangesse con le orecchie.
— Dàlli, Sugnazza!
Dava; e quell’uomo lungo lungo, squallido, barbuto, brutto, sporco,
assomigliava al destino che non lascia tregua all’umanità. Tutti
riconoscevano un po’ sè stessi in quell’asino (siamo al mondo per
soffrire); ma la virtù del saper soffrire è così rara negli uomini che
diveniva amena a vederla in un animale di quella sorta.
Se però la bestia era sempre una bestia, l’uomo era sempre un uomo; e
poichè pativa il tormento della fame, Sugnazza ora s’imaginava che
ognuno — anche chi rideva dell’asino sotto le sue bòtte — si
commoverebbe della sua disgrazia, della sua disperata decisione. Certo:
il sindaco, l’arciprete, la Congregazione di carità, gli avventori, e,
quantunque non fosse in lega, i fratelli della Camera del Lavoro, subito
raccoglierebbero sussidi e offerte affinchè il disgraziato non si
lasciasse morire là nel fiume, con l’asino. Certo: bastava informarli di
questo proposito che aveva in mente, e tutti si darebbero d’attorno per
aiutarlo. Nè a informarli mancherebbero messaggeri. Quanti, fra poco,
correrebbero a vederlo e a compiangerlo, povero diavolo, da venti anni
perseguitato dalla sfortuna; e adesso gli era spirato l’asino là in
mezzo!
————
Non appena infatti i birocciai della ghiaia ebbero data la nuova
all’osteria del borgo, qualche ozioso e parecchi monelli si affrettarono
gaiamente allo spettacolo inatteso. Gli uomini ristettero sul ponte o
sulla sponda sinistra; e chiamavano Sugnazza, e lo canzonavano con le
grida e le apostrofi che egli usava con il suo asino: i monelli
preferirono passare di là dalla strada e dalla sponda destra calar nel
greto già asciutto; indi metter mano ai ciottoli. Della bestia non si
scorgeva che la pancia gonfia, a fior d’acqua; dell’uomo si scorgeva
solo quel che del dorso superava i ripari della biroccia; e la
difficoltà di colpir giusto suscitava legittima emulazione. La sassaiola
cadeva nell’acqua, sollevava spruzzi brillanti.
Ma — bene! — un sassolino toccò Sugnazza proprio dove più sporgeva a
bersaglio.
Si alzò in piedi. Con quanta ira potè elevò il bastone, e sembrò sfidar
l’aria; e tendendo l’altro braccio, per allargare la minaccia alla
vastità della scena, urlò con quanta voce potè: — Lasciatemi stare! Il
fiume è di tutti! Qui sono e qui sto; qui voglio morire, se chi può non
mi aiuta! Diteglielo! — urlava. — Diteglielo! — urlò di nuovo rivolto a
quelli che eran sul ponte. — Se non mi aiutano a comperare un’altra
bestia, mi lascio morir qui, com’è vero Dio!
Ma a una nuova sassata, la lunga, grama, oscura persona di lui, che
nella luce meridiana e nello splendore dell’acqua si sarebbe detto un
fantasma non più pauroso rimasto là fuor d’ora, sopra una biroccia, per
un caso buffo, si rovesciò a rigiacere e non die’ più segno di vita.
Frattanto, di bocca in bocca, la notizia andava per tutto il paese.
Al Caffè grande la portò un assessore, e il sindaco, che giocava
l’ultima partita a biliardo prima di desinare, disse:
— L’asino deve essere seppellito dentro oggi; se no, si applica la multa
a termini del nuovo regolamento d’igiene.
— Avviseremo Sugnazza — disse l’assessore.
— Ma lascerà di certo l’asino ad appestar l’aria e l’acqua, perchè,
tanto, la multa non la pagherà mai!
— Gli si sequestra la biroccia — ribattè il sindaco. — Non varrà qualche
lira?
E in canonica l’arciprete già desinava, quando il campanaro venne a
raccontare che Sugnazza aveva accoppato l’asino attraversando la
fiumana.
— Povera bestia! Ha finito di soffrire — l’arciprete commentò. —
Speriamo che non ne capiti mai più nessun’altra sotto quelle mani!
Al pomeriggio il presidente della Congregazione entrava dal tabaccaio.
— Sa? Nel fiume, questa mattina, è crepato l’asino di Sugnazza.
Il presidente fece un comico atto di disperazione, e chiese:
— Aveva famiglia?
— Chi?
— L’asino?
Rispose uno:
— Aveva dei parenti, ma son tutti benestanti, e non dimanderanno
sussidi; stia pur tranquillo!
E alla Camera del Lavoro il segretario esilarò i compagni, che vi
riposavano e conversavano, esclamando:
— Poco male se a Sugnazza gli è morto l’asino. Con i quattrini che ha
risparmiato a far il crumiro si comprerà un camion!
Quanto al cliente che fin dal mattino aspettava la sabbia da Sugnazza,
non vedendolo arrivare e imparando il perchè, fece quel che avrebbero
fatto tutti nel suo caso: andò in cerca d’un altro birocciaio che, come
quello, non stesse alla tariffa della Lega. Nè il divertimento, dal
ponte e dalla riva, cessò prima di sera. Verso sera venne anche una
guardia municipale recando seco il nuovo regolamento d’igiene.
— Sissignore: seppellire i morti — borbottò Sugnazza. — Aspettate ancora
un poco.
————
Ancora un poco.... Allo spasimo della fame gli era seguito un senso di
ondeggiamento in cui gli pareva di sentirsi trasportar dall’anima. Ma la
pena era adesso nelle visioni dell’inedia: torbide, tristi; di pianto.
Bieca e cattiva più che ogni altra l’affannava l’imagine dell’uomo che
era stato causa della sua rovina: a quando a quando il Biondino entrava
evidente in quel turbine e gli diceva con un ghigno: — Muori?
Sì: moriva dopo venti anni di miseria, spossato nel cuore e nel petto,
bruciato dall’acquavite; moriva d’inedia. E per lui!
Un breve amore; l’invidia che la donna sposasse l’altro; la gelosia e la
provocazione dell’altro; la lite e la ferita — da niente — una
scalfittura seguita dall’infezione per cui all’altro — il Biondino —
s’era dovuto amputare il braccio; e il processo; e la condanna; ecco ciò
che era avvenuto in gioventù ad Andrea Porta non ancora detto Sugnazza;
ecco come l’odio aveva per venti anni avvelenato due esistenze; ecco
perchè il vinto or vagellava in una torbida, turbinosa tristezza, in
un’insania spaventosa, mentre l’imagine dell’odio, del Biondino poi
detto il Monco, gli diceva ghignando: — Muori?
Ed egli, il vinto, ora per la prima volta si sentiva l’anima. Ondeggiava
così leggera, così desiderosa di luce e di quiete! Per vedere se fuori
di lui, nel mondo silenzioso, fosse già buio, Sugnazza si voltò supino,
con fatica estrema. Quante stelle! E chiuse gli occhi senza più
rivoltarsi, come alla rivelazione di una cosa orribile. Tanto bello era
il cielo! e il mondo....
Nessuno aveva avuto compassione di lui che moriva. Nessuno! Nessuno!
————
— Ohe! Andrea!
Sugnazza trasalì. Da vent’anni non aveva mai più udito chiamarsi col suo
nome. Piegò a pena il viso; e diresse lo sguardo verso dove veniva la
voce; lontana lontana o lì presso?
— Ascolta, Andrea — seguitava. — T’ho sentito oggi quando hai detto
quello che hai detto. Ma non son ragioni. Chi vuoi che ti regali un
altr’asino?
Sugnazza udiva; e scampava, con lo sguardo, all’orrore di quella voce.
Quante lucciole sulla costa! Nel silenzio, palpitavano di luce quasi in
una gara instancabile; ed erano così fitte che elevandosi e ricadendo e
volteggiando, ciascuna sembrava immobile.
— Credi d’esser disgraziato sol tu? — seguitava l’intollerabile voce. —
A te ti è morto l’asino; io ho la donna all’ospedale, e non c’è speranza
che si rimetta; e sai che lavorava lei per me, e guadagnava molto; da
sarta. Io vado a ranocchi; ma adesso tutti son signori, e non ne
vogliono.
Maledetto! Era proprio il Biondino!
— Mi ascolti, Andrea?
Sugnazza non avrebbe voluto vederlo, eppure era costretto a cercarlo con
lo sguardo estremo. E una luce rossa, gettatagli contro, gli raccolse lo
sguardo.
Allora lo vide, il suo nemico, illuminato in faccia dalla lanterna che
aveva aperta per osservar lui — la lanterna con la quale affascinava i
ranocchi —; e la luce rossa si diffuse nell’acqua intorno all’asino
morto.
— Dunque — soggiunse il Biondino d’un tempo, ora il Monco —; dunque
senti che pensiero ho fatto. Noi siamo stati disgraziati tutti e due,
uno per causa dell’altro. Destino! tu hai rovinato me, io te. Ma io ho
qualche risparmio, della donna, e ti posso aiutare; e tu, me. Ti compero
io la bestia; e conduciamo il lavoro insieme. Io ti guido la bestia e tu
mi dai biroccia e braccia: entriamo nella Lega per guadagnar di più; e
il guadagno a mezzo. Ci stai?
Sugnazza voleva rispondere: — Tu, solo tu hai avuto compassione di me! —
Ma per rispondere sospirò, e in quell’istante, in quel sospiro si sentì
rapir lieve lieve via, fra una infinità di luci: lucciole o stelle.


IL DIAVOLO NELL’AMPOLLA.

Nella nobile città di Burgfarrubach un piccolo spirito maligno faceva da
un pezzo questo curioso scherzo: quando un sacerdote, chiamato per
scacciarlo dalla casa che metteva a soqquadro, procedeva nell’esorcismo,
non ne aspettava il compimento; scappava via troppo presto, lasciando
l’esorcista con un palmo di naso. E appena era al nuovo luogo e un altro
esorcista arrivava con le benedizioni, le maledizioni e gli scongiuri —
fst! —, esso ripeteva il giuoco.
Così nessuno aveva mai potuto rimandarlo una buona volta, per sempre,
all’inferno.
Il destino però ha tale possanza da prevalere anche alle bizzarrie
diaboliche, e, se non a castigarlo come si meritava, pervenne almeno ad
arrestare l’instabile diavoletto di Burgfarrubach.
Dove? Come?
In quella stessa città dimorava un certo avvocato, astutissimo
nell’imbrogliare la giustizia e il prossimo. Un giorno che costui se ne
stava nel suo studio esplorando un’aggrovigliata matassa, senza che gli
riuscisse di trovarne il bandolo per dipanarla come di solito a suo
profitto, e bestemmiava, e si rodeva dentro, eccoti, per la porta
aperta, ecco apparirgli una fiammella vivida; una sulfurea fiammella che
roteava a mezz’aria e si dirigeva, pari a una freccia, verso di lui. In
un istante, per istintiva difesa, egli afferrò di su la scrivania ciò
che gli venne alle mani, e fu l’ampolla dell’acqua con cui allungava le
chiacchiere da inzeppare i clienti; e il caso volle che seguendo a un
punto il sollevamento della boccia inclinata e l’obliquo arrivo del
globulo di fuoco, questo s’infilasse dentro di quella. Sfriggolò,
sobbalzò: invano; vi rimase, perchè l’avvocato, più svelto del diavolo,
appose all’ampolla il tappo e lo rigirò e suggellò ben stretto; e poi,
senza paura, stiè a guardare. E rideva.
Bel colpo! Una meravigliosa presa, una portentosa conquista! Non già che
il furbo leguleio ammirasse soltanto quale un prodigio la fiammella che
palpitando e cessando solo di tratto in tratto, quasi per brividi, non
si smorzava nell’acqua, anzi si riaveva più fulgida; ma godeva perchè,
conosciuto che era uno spirito, egli pensava d’aver in sua balia una
forza da trarne inestimabile partito. E rideva; e mentre contemplava
l’ampolla e la luce che sfavillava dall’acqua attraverso il vetro, sentì
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