Il diavolo nell'ampolla - 5

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Finchè si mosse, si alzò. Baredi credè se ne andasse. Ferdina, invece,
si avvicinò a lui piano piano; s’accostò. Ad accertarsi che dormiva?
Egli stava per riaprir gli occhi, chiedere:
— Vai via? — Ma intuì. Sentì che si abbassava, che col suo viso gli
sfiorava il viso. Un attimo. E calde e lievi le labbra di lei si
strinsero e si chiusero a un bacio appena sensibile, su la guancia
deturpata.
Ah! afferrarla, stringerla al cuore, baciarla nella fronte gridando con
anima pura, con tutta l’anima: — Ferdina! Ferdina! — No: gli parve una
contaminazione; con uno sforzo supremo si contenne. Ella si era
allontanata rapida, su l’erba; ed egli, risollevando le palpebre, la
scorse che si fermava e si voltava. Dubitava d’averlo destato; temeva
che se ne fosse accorto. Rassicurata, scomparve dietro la casa.
E allora egli ruppe in singhiozzi.
Ma la mattina dopo partiva per la frontiera.


IL CHIODO.

I.

Quasi in mezzo al viale, fuori della polvere, un chiodo arrestò lo
sguardo, il passo e il pensiero del conte Mauro. Era un chiodo ancora
buono, benchè un po’ arrugginito e storto. Quanti l’avevano veduto? E
perchè nessuno di quanti l’avevano veduto si era chinato a raccoglierlo?
Trovate le risposte, del resto semplici ed ovvie, lo prese su lui, e
seguitò la passeggiata verso la chiesa dei Cappuccini.
Pensava intanto: — Ogni cosa, sia pur minima, ha il suo valore. Dunque:
cercate di non perdere nulla; non spregiate nulla; raccogliete sempre
ciò che fu perduto, o gettato via, e tenetene conto. Imparate, cioè, a
osservare e a riflettere.
Ai quali consigli altri ne seguivano, se non del tutto nuovi, sempre
belli. — Profittare anche andando a spasso; vincere la pigrizia;
esercitar la pazienza.
Ma dal considerare il chiodo che rigirava fra le dita il pensatore
arrivò a conseguenze di maggiore importanza, per lui. Nelle brevi soste
al Caffè Vecchio, dal tabaccaio nel Borgo, nella farmacia di San Rocco,
non era solito ammonire che a consolazione della vita bisogna mirar in
alto? Ora a vederlo prendere su da terra un chiodo tutti l’avrebbero
accusato di contraddizione. E no. Se quella era un’azione giovevole, se
un’azione giovevole in sè vale a pubblico esempio, ecco che si può
mirare in alto anche guardando in basso. Nè bastava. Per la democrazia
predominante là, nella piccola città romagnola, egli era forse un
aristocratico in cui l’orgoglio della razza aveva assunto l’abito del
filosofo fannullone, appartato e schivo.
— Ebbene — concluse Mauro Agabiti giunto che fu alla chiesa francescana
—, anche per questo, da stasera in avanti, cercherò dei chiodi. Chi si
umilia sarà esaltato.
————
Gli accadeva sempre così. Concepita un’idea, a forza di dedurre, la
tirava alle conseguenze estreme, che stupivano chi non possedeva
l’energia logica di lui. E avendo pensato che pur l’esercizio di
rintracciar chiodi non mancasse di morale efficacia, fu condotto a
cercarne dove più se ne trovassero, e quindi dove la necessità dei
chiodi nuovi rendesse maggiore la dispersione dei vecchi.
In via del Fossato, lungo le mura, erano botteghe di falegnami, fabbri,
maniscalchi. Ivi, due o tre volte la settimana, la persona del filosofo,
alta, magra, vestita di nero, il volto pallido e la bianca barba sotto
il cappellaccio grigio, passava adagio adagio rimuovendo la polvere con
la punta del bastone; talvolta arcuandosi nell’atto di tendere il
braccio e la mano. Allora, se coglieva qualche cosa, gli balenava un
sorriso dagli occhi chiari e guardava qua e là, come aspettasse di
essere interrogato. Ma coloro che l’avevano osservato, e ridevano, si
voltavano in fretta per non farsi scorgere; rispettavano in lui l’uomo
generoso e diverso dagli altri ricchi appunto perchè, a parer loro,
tócco nel cervello; e ne compativano la nuova, innocente manìa. Nessuno
gli chiedeva: — Cosa accatta, signor conte? —; nessuno lo pungeva
ironico o mostrava meraviglia; ed egli doveva mettere in tasca il chiodo
e rimettere il discorso, pronto da un pezzo, a migliore occasione.
Presto o tardi la sperimenterebbe, la virtù dell’esempio! — Infatti....
Una delle ultime fucine del Fossato era quella del fabbro Dondelli,
detto Dondèla; e un giorno che questi lavorava altrove, il conte, quasi
davanti al portone di lui, si chinò; con impeto allungò la mano.... Ahi!
che dolore! Scottato. Le dita lasciarono subito la presa. Scottava,
bruciava! Ma stringendo fra i denti il pollice e l’indice, in cui il
chiodo aveva lasciato l’impronta della strinatura, il filosofo restò
immobile ad aspettare. Il chiodo si raffredderebbe: no?
Intanto risate di ragazzi, trattenute a fatica, giungevano da ogni
bottega, come gemiti.
— Ridono? — pensò il pensatore —. Dunque è una burla!
E quasi il bruciore, che non scemava, gli affrettasse il raziocinio,
seguitò: — Una burla senza intenzione di ferire in me avarizia o
gretteria; tutti mi conoscono. È una burla ingenua, che attesta però una
intelligenza non comune. Bravi!
A questo punto nella bottega del falegname di contro il ridere si mutò
in pianto schietto, e sotto la grandine degli scapaccioni paterni un
garzoncello gridava: — Non sono stato io! È stato lui, là, che l’ha
riscaldato! Celso!
— Birichini! canaglie! — urlava il genitore per farsi ben udire dal
signor conte.
«Lui, là?» «Celso?»
Il filosofo pigliò su, risolutamente, il chiodo ancor caldo; lo mise in
tasca ed entrò nella fucina di Dondèla.
— Celso — disse con l’usata dolcezza —, mi daresti un po’ d’acqua?
Subito, di dietro all’incudine dove se la godeva ridendo piano piano e
solo, il ragazzo balzò a prender la secchia, la portò, la depose ai
piedi del signore. Il quale v’immerse la destra e sogguardò mentre,
refrigerato, seguitava tra sè:
— Ha dell’ingegno; molto ingegno! Si vede dagli occhi; si capisce dalla
prontezza degli atti. Dunque non è contento del suo stato. — E disse:
— A te non ti piace di fare il fabbro.
Il monello, che si aspettava tutt’altro discorso e tutt’altro tono,
sorrise e rispose franco:
— Nossignore.
— Bene. Cosa ti piacerebbe di fare?
Sempre più inanimito da quel "bene" rispose:
— Il signore.
— Ho capito — disse il filosofo. — Vorresti diventare ingegnere o
avvocato o medico, o che cosa?
Ma ora Celso rimase perplesso. Non erano dimande inopportune? «Fare il
signore» non significava «far niente»?
— Via! — insistè il conte rialzandosi e asciugandosi le dita nel
fazzoletto. — Quale professione sceglieresti?
Bisognava finirla.
— Nessuna.
Fu un nuovo colpo inatteso. Ma non doloroso; anzi! Al filosofo parve di
giungere improvvisamente a una felice scoperta; tale che tacque a lungo.
Poi tolti dal gilet alcuni soldi, li porse al ragazzo.
— Ti ringrazio; e ci rivedremo.
Era poco lungi, per la strada, quando udì dei passi dietro a sè. Si
volse. Celso col cappello in mano, disse (e le labbra gli tremavano): —
Mi perdona?
Il conte gli pose la destra sulla spalla e tornò a fissarlo. Che occhi!
— Sì, figliuolo!
E riprese la strada pensando: — Intelligenza; animo ardito; cuore, e,
per di più, inclinazione latente!

II.

Questa dell’«inclinazione latente» era una delle sue idee. Anche nel
campo dell’intelligenza — diceva — la natura è non di rado riserbata,
quasi timida, gelosa dei suoi tesori; e ingegni non comuni restano
improduttivi e sconosciuti non solo perchè sono mancate le condizioni
propizie al loro sviluppo, ma perchè nessuno ne ha saputo intuire la
disposizione segreta, rimasta ignota a loro stessi; nessuno ne ha
eccitate le intime facoltà creative. — E soggiungeva candidamente: — È
il mio caso. Io non sono un imbecille, eppure a sessant’anni non so
ancora come sarei potuto riuscire più utile alla società e alla patria,
e divenire un bravomo.
— Facendo il professore di filosofia — insinuava qualcuno, credendo di
fargli piacere. Egli scuoteva il capo.
— No, sarei stato ugualmente inutile.
Per esser utile, da un pezzo, aveva rivolta l’attenzione psicologica
agli adolescenti che conosceva. Ma non uno che dimostrasse d’aver molto
sale in testa e alla domanda: — In qual modo, per che via preferiresti
diventare un uomo celebre? — rispondesse: «Non lo so». Lo troverò una
volta o l’altra — ripeteva il filosofo, saldo nella sua convinzione.
Finalmente! L’aveva trovato nella fucina di un povero fabbro!
Dondèla ebbe l’avviso di presentarsi la mattina dopo al palazzo Agabiti;
e vi andò di malavoglia, per causa del chiodo scottante, la cui storia
già esilarava tutta la città. Invece l’aspettava una bella fortuna. Il
conte gli propose di stipendiargli un garzone più abile di Celso e di
assumere Celso al suo servizio.
— Ho bisogno di un giovine che aiuti la vecchia Cleofe nelle faccende di
casa; ho bisogno di uno che aiuti me nelle mie faccende: contabile,
segretario, bibliotecario, ecc.
— Misericordia! — esclamò Dondèla in un impeto di lealtà. — Ma cosa vuol
cavarci da mio figlio? Non ha voglia di far niente! È la mia
disperazione!
— È la mia speranza! — ribattè il conte Mauro con solennità profetica.

III.

I libri dovevano prestar lo strumento più sicuro per l’assaggio
intellettuale. Due o tre ore al giorno furono dedicate alla lettura e
allo studio nella domestica biblioteca. E mentre uno ritornava ai
filosofi primitivi, che amava di più, l’altro pareva immergersi tutto
nei volumi dei novellieri, dei poeti e degli storici.
Ore deliziose! Beati pomeriggi! Maestro e discepolo s’addormentavano a
un tempo. Ma se si svegliava prima Celso, con una pagliuzza solleticava
il naso del conte; questi agitava la mano quasi a scacciare una mosca e
soffiava spalancando gli occhi, e chiedeva: — Hai letto? Bel libro, è
vero? —. Se invece si svegliava prima lui, aspettava che il discepolo
sollevasse il capo e guardasse confuso. Allora gli diceva: — La gloria,
mio caro, non si acquista dormendo come noi. Solo a prezzo di fatiche e
vigilie molti autori delle opere che ci stanno d’attorno sono arrivati a
non morir mai.
Col suo sorriso Celso pareva dire: — Eh via! che qualche buona dormitina
la facevano anche loro!
— Pensa alla gloria, ascóltati — seguitava il filosofo. — Non ti
piacerebbe di vivere in eterno, sia pure in uno scaffale di biblioteca?
Che cosa senti a tale pensiero?
L’altro annusava e rispondeva: — Sento puzza di muffa.
— Hai ragione — concludeva il conte Mauro —; apri le vetrate. Di quando
in quando bisogna dare aria anche agli immortali.
E uscivano a spasso. Non però in cerca di chiodi. La famosa raccolta era
già finita, se non con la piena efficacia che il filosofo aveva sperata,
in modo tuttavia abbastanza edificante. Più di una volta, uscendo di
casa, si era imbattuto in monelli che gli offrivano manciate di chiodi
spuntati e storti. Egli li ricompensava a soldi; e così il buon esempio
fruttava ai raccoglitori, almeno dal lato economico. Ma Celso non esitò
ad affermare che, per quanti chiodi perda l’umanità, quelli eran troppi,
e dovevano essere rubati.
— Bene! — fe’ il conte. E con le tasche piene della raccolta legittima o
illegittima, andò da tutti i fabbri e falegnami a chiedere: — Ve ne
mancano? — Rispondevano di sì? Risarciva di sua tasca e diceva: — Se io
non fossi andato alla mia ricerca, voi, ora, non sapreste d’aver un
ladruncolo in bottega. Educatelo a mirar in alto.

IV.

Il campo dello scibile è lungo e largo, e quando un cervello balzano può
scorrazzarvi dentro secondo gli frulla la voglia, è difficile tenergli
dietro per vedere dove stia meglio, difficile sperimentare dove gli
aggradirà, alla fine, mettersi a posto. Nessuna meraviglia che
l’esperimento del conte filosofo durasse parecchi anni. Quante volte
esclamò dentro di sè: — Ci siamo! Si ferma! Lo fermo! —, e il cervello
di Celso voltava e scappava da tutt’altra banda!
Il procedimento alla scoperta fu metodico: per induzione o deduzione, ed
esclusione. E scartati, sin dai primi tempi, la letteratura e gli studi
affini, che addormentavano il ragazzo e gli davano il senso di muffa,
c’era da ritenerlo segretamente disposto alle scienze anzi che alle
arti. Ciò rispondeva pure al segreto desiderio del maestro. Farne, per
esempio, un grande chimico?
Questa speranza derivò logicamente dalla considerazione che la vecchia
Cleofe non salvava dalle mani di Celso neppur uno dei suoi garofani
fioriti.
— Mi piacciono tanto i fiori! — esclamava lui con la voce soave delle
ragazze che glieli chiedevano.
Ecco forse la via buona, che conduceva — oltre che alla floricoltura —
alla botanica, e allo studio degli elementi costitutivi e produttivi del
terreno: cioè alla chimica agraria, e quindi alla chimica in generale.
Tutto un inverno per il conte e Celso, e anche per la Cleofe, passò in
una illusione di primavera. Contemplavano cataloghi di giardinieri,
leggevano manuali di orticoltura, vedevano l’orticello attiguo alla casa
mutato in Eden. Celso, che aveva già quindici anni, ci vedeva anche,
nell’Eden, delle belle ragazze che esclamavano con voce soave: — Mi
piacciono tanto i fiori! —; e sopportava le spine: i trattati di chimica
organica che il conte, senza insistere, intrometteva a quelli del regno
vegetale.
A marzo furono provvedute le sementi dei fiori scelti. E pur troppo
insieme con esse e con i vasetti e i barattoli di concimi chimici,
entrarono nella biblioteca volumi pieni di formule, lambicchi e storte.
Ma le piantine erano appena spuntate nei letti caldi che lo studente
involontario misurò il pericolo. — Se il giardino va bene, son rovinato;
mi tocca sgobbare più di un farmacista!
Accadde così che, poste a dimora, le pianticelle dei fiori allevati con
tante cure, sembrarono svilupparsi tutte uguali: rigogliose, ma tutte
uguali.
— Come sarà? — si chiedevano stupiti il conte e la Cleofe.
Il loro stupore sarebbe stato meno grande se avessero saputo che nelle
aiuole Celso aveva profuso una certa semente, per cui, ad aprile, l’orto
di casa Agabiti era trasformato in una magnifica distesa d’ortica.
Logica conseguenza: il disgusto, la disperazione di Celso; i volumi
pieni delle formule internati negli scaffali più remoti; bottiglie,
storte e lambicchi banditi dalla biblioteca.
— Hai ragione — disse il filosofo —; la floricoltura non è per te.
— E neanche la chimica — aggiunse il discepolo.
Proseguendo, il metodo — infallibile — escludeva a poco a poco la
fisica, escludeva la medicina e studi affini, escludeva tutte le scienze
naturali, ad una ad una.
Quando il caso rivelatore, come si sa, di molte vocazioni famose,
condusse una sera il conte a esclamare: — Torniamo all’arte!
Celso stava disegnando a meraviglia una scacchiera su cui il dimani,
nelle ore libere, giocherebbe con gli amici di via del Fossato.
— Per bacco! — riflettè il conte. — Conosce quello che i pittori moderni
ignorano: il disegno! — Inclinazione, dunque, alla pittura o
all’architettura; e propose al ragazzo di andare a scuola da un maestro
che in città aveva voce di artista insigne. Celso prese volentieri
l’occasione propizia per star fuori di biblioteca e scappare più spesso
nel Fossato.
— Allorchè sarà in grado d’entrare all’Accademia, mi avverta — aveva
raccomandato il conte al maestro. Nè volle mai vedere gli scartafacci e
gli abbozzi che consumavano troppe matite, gomme e mollica di pane,
aspettando la sorpresa che gli togliesse ogni dubbio per sempre.
L’ebbe! Al sopravvenire di lui, l’allievo pittore, un giorno, ritirò in
fretta dalla tavola, e tentò nascondere, il foglio su cui stava
sgorbiando.
— Un artista modesto? — esclamò il filosofo —: un artista eccezionale! —
Chiese il foglio, guardò.... Ahimè! Che naso! E quel naso, e due occhi
strabuzzati, e una barba prolissa significavano un’intenzione di
caricatura nell’effigie proprio di lui, del conte.
Ma pur alle caricature non bastano le intenzioni; e il conte giudicò
l’opera dal lato serio. — Ti ringrazio — disse — perchè dimostri di
avermi sempre in mente; ma la pittura non è per te.
— Neanche la scultura — fe’ mestamente Celso —; neanche l’architettura.
— Neanche la musica — aggiunse il conte scuotendo il capo.
Quando infatti il ragazzo fischiettava le canzonette alla moda, stonava
come stonerebbe un cane, se i cani, oltre che abbaiare e cantare,
fischiettassero. E poichè non si balla senza orecchio, le arti restavano
escluse tutte quante!
— Torniamo alle scienze — il filosofo ripetè a sè stesso, fiducioso. —
Il campo è vasto; il caso rivelatore aiuterà!
————
Aspetta e aspetta.... E una sera, che era uno stellato fittissimo, Celso
esclamò, ammirato e rapito: — Sapere i nomi di tutte le stelle!
Commosso a sua volta, il filosofo cominciò a nominargli e indicargli
quella dozzina che ne conosceva di vista; e si domandava dentro: — Come
mai non ho pensato all’astronomia? Eppure io gli vo sempre ripetendo che
bisogna guardare in alto!
Celso sbagliava i conti; senza calcoli non si fanno scoperte
astronomiche. Verissimo. Ma la contabilità delle aziende non è la stessa
dell’astronomia: questa è matematica pura; quella, impura. Dunque,
avanti!
Fu disposto che di giorno studierebbero insieme il Flammarion e la sera
si eserciterebbero in escursioni pratiche per l’infinito. Quasi ci
prendesse assai gusto, il discepolo non discorreva più che di
costellazioni, di nebulose e di pianeti; sbigottiva la Cleofe
istruendola intorno alle vicende e ai cataclismi dell’universo e
annunziandole la prossima fine della terra; sperimentava la potenza del
cannocchiale prismatico, comprato dal conte, perlustrando dai tetti le
finestre della città e dei dintorni.
Ma tanta felicità non poteva durare. Il conte si alzava di notte e
faceva alzare il discepolo, per innamorarlo sempre più delle
contemplazioni celesti.
— Se seguitiamo così, mi rovino la salute — pensò Celso. E una notte
gemè:
— Non vado più avanti: ho paura.
— Di che cosa? Parla!
— Ma...., ho paura.
— Sfórzati a esprimere il tuo pensiero, il tuo sentimento — insisteva il
filosofo aspettandosi una rivelazione.
— In questo andar di qua e di là per il cielo, ho paura....
d’incontrarmi col Padre Eterno!
Non si poteva significar meglio il terrore dell’infinito.
— Hai ragione — disse il filosofo. L’infinito spaventa; e l’astronomia
non è per te.
— E neanche la matematica — esclamò il discepolo. — E neanche
l’avvocatura — aggiunse collegando la giurisprudenza alle altre
discipline nella speranza di finire, una buona volta, tutte le prove.
Ma dello scibile ne restava parecchio.
Restava, per esempio, la veterinaria.

V.

Compiuti i diciott’anni, Celso Dondelli non aveva ancora dimostrata
miglior vocazione che quella di star allegro e di corbellare il
prossimo. Dalla scuola del filosofo aveva però acquistata tanta coltura
da superare i coetanei studenti nei regi licei. — Il lievito c’è —
diceva il conte —; lasciamolo fermentare.
E scorgeva sempre un’intenzione seria, un motivo ragionevole in ogni
scherzo o birichinata che il suo protetto faceva. Questa benignità,
ingenua o filosofica che fosse, trovava un cuore non ingrato o sleale.
Per il suo protettore il giovine si sarebbe messo nel fuoco; e il conte,
che sentiva l’affetto sincero nella confidenza di lui, lo ricambiava in
modo così aperto che già tutti dicevano: — Lo adotterà per figlio.
Se non che all’Agabiti era rimasta una parente, press’a poco dell’età di
Celso; una pronipote, per via di sorella. Allevata in collegio a
Firenze, la signorina, orfana, tornò alla piccola città nativa assai di
malavoglia; e temeva che lo zio la prendesse seco, in quella casa
antica, con quella serva padrona.
Fu affidata invece alla custodia e alle cure di una signora che, secondo
le parole del conte, le farebbe da padre; cioè gliele darebbe tutte
vinte senza nuocerle con la tenerezza d’una madre troppo debole: — come
sarei io — seguitava per spiegarsi. E alla signorina Amelia non fu
consentito di visitare lo zio che di otto in otto giorni. — Termine
sufficiente — egli affermava — perchè tu non dimentichi che ti sto
vicino, e io non dimentichi che tu saresti contentissima a starmi più
vicina.
Contentissima! A ogni visita la ragazza lo soffocava di chiacchiere e di
carezze; e lui: — Ti ringrazio; ma come passa il tempo! Otto giorni
volano!
Essa rideva.
Ora, dopo tante scene gioiose, non era da prevederne una lagrimosa?
No; il filosofo non la previde, quantunque ritenesse la nipote non
diversa dalla maggior parte delle donne.
— Tutti lo dicono, zio, che vuoi più bene a Celso che a me!
A questa uscita egli alzò gli occhi al cielo pensando:
— Per mirar in alto le donne mirano al cuore; e forse dal loro punto di
vista....
L’altra procedeva:
— Bisogna dimostrare al mondo che non è vero.
Lo zio disse dolcemente:
— Suggeriscimi tu il modo.
— Pagandomi un viaggetto a.... Parigi.
Egli non si scompose punto, anzi ammise: — Hai ragione; per dare questa
dimostrazione al mondo intero non c’è che Parigi!
E gliela mandò; s’intende, con la tutrice, la quale aveva consigliata
alla pupilla la scena lagrimevole.
Avvenne che poco tempo dopo la partenza della signorina Amelia il conte
proponesse a Celso una passeggiata in campagna, a un suo podere fuori di
porta. Il tragitto non era breve; e per la strada maestra quanti
vedevano l’Agabiti camminare così, piano piano, con l’ombrellone di tela
cerata aperto a riparo della polvere più che del sole, si voltavano
indietro sorridendo.
Celso, quando non ne potè più, esclamò verso gl’importuni:
— Andiamo a Parigi!
Allora il conte si fermò, e disse:
— Hai ragione.
E riprese la via. Nel ritorno ripetè: — Hai ragione. Son vecchio;
comperiamo un veicolo —. Manco a dirlo, Celso esaltò i benefizi e i
piaceri delle automobili: non ultimi, quelli d’impolverare gli altri e
di guidarne una lui.
E appena a casa il conte Mauro gli fe’ scrivere, alla rubrica delle
spese imprevedute:
«Lire ventimila per un’automobile; spesa quattro volte più grande che un
viaggio a Parigi, perchè comprende la probabilità di un viaggio
all’altro mondo, con la guida di Celso Dondelli».
Ma Celso non aveva ancora sostenuti gli esami da _chauffeur_ che il
libro dei conti fu riaperto alle spese imprevedute e dato di rigo
all’automobile.
— Scrivi in sostituzione — il filosofo dettava: — lire diecimila al
Ricovero, cinquemila all’Ospedale, tremila e cinquecento all’Asilo, più
mille e cinquecento per un cavallo e una carrozza. Che ne dici?
Il giovine alzò gli occhi al cielo:
— Miriamo in alto — rispose. E aspettò cavallo e carrozza; acquisto
fatto dal filosofo senza intermediari.
Ecco. La carrozzella era della prima metà del secolo decimonono.
Meno antico, sebbene bianco di pelo, il cavallo; e non brutto: solo,
aveva il vizio di camminare con un po’ di lingua fuori. Celso lo
battezzò _Gedeone_, nome che piacque moltissimo al conte e ai
concittadini. Parecchi di essi ogni volta che l’equipaggio attraversava
adagio adagio la via principale per uscire alla campagna, ammiccavano al
cocchiere con certe strizzatine d’occhi che significavano: «Te lo godi,
eh, l’automobile?»; oppure: «Il tuo cavallo suda nella lingua come i
cani».
Le quali corbellature a mezzo disturbavano il mancato _chauffeur_.
Preferiva le risate aperte e intere; e non tardò a provocarle, per
ridere meglio lui, in ultimo.
Del resto, non era vero che tafani e mosche infastidivano il buon
Gedeone?
— Se gli facessimo fare una coperta da passeggio?
— E tu fagliela fare — consentì il conte.
Figurarsi quando la quasi centenaria carrozza comparve preceduta da
un’ampia gualdrappa di mussolina rosea, coi fiocchi, da cui uscivano due
orecchie, una mezza lingua, una mezza coda e quattro mezze gambe!
— Gedeone in veste da camera!
— Ridono per noi? — il conte chiese.
— Sì — rispose Celso —; ma non basta.
— Hai ragione — confermò il filosofo sopra pensiero —. Non basta.
Pochi giorni dopo evidentemente Gedeone era zoppo al piede destro,
davanti.
— Chiama subito il veterinario.
— No — Celso disse —; lo curo io.
Fu allora che gli balenò l’idea, al conte Mauro, della veterinaria quale
inclinazione latente.
Non ci aveva pensato mai perchè si era convinto che al giovine non
piaceva la medicina. Ma adesso riflettè:
— C’è differenza. C’è più soddisfazione. Gli animali non aiutano a
sbagliare la diagnosi. — E mormorava sospirando: — Purchè io non ci
rimetta il cavallo!
Tutt’altro! La cura permise presto una passeggiata in campagna. Gedeone
riapparve al pubblico con la gualdrappa rosea e un piede fasciato e
grosso, simile a quello di un elefante.
— Oh! Gedeone ha la gotta! Gedeone ha la pantofola!
Il successo sperato da Celso non fallì.
— Ridono per noi? — chiese il conte.
— Sì. Ma vedrà al ritorno!
E immaginare che bocche aperte quando il presunto gottoso attraversò la
città di trotto; diritto; a dorso scoperto; senza pantofola! Un
miracolo! un trionfo stupefacente! Scendendo, a casa, il conte esclamò:
— Veterinaria! veterinaria!
Ma Celso smorzò l’entusiasmo. Disse che per guarire Gedeone non aveva
dovuto che levargli il sasso confitto tra il ferro e l’unghia.
— Bravo! Occhio clinico!
— No — corresse il giovane —; perchè il sasso gliel’ho messo io.
Il conte riflettè; indi concluse:
— Capisco. Hai fatto bene.
————
Non fu della stessa opinione la signorina Amelia, appena reduce da
Parigi. Ella tentò persuadere lo zio che certe buffonate non conferivano
decoro alla nobiltà di casa Agabiti. Ribattè il conte che, a fil di
logica, non è ridicolo chi si burla della ridicola mentalità paesana; al
contrario, dà prova di serietà. E la nipote a sua volta osservò che i
giovani seri fanno onore a chi li aiuta, con gli studi e con le opere.
— Sì, ma non prima che quelli a cui spetta ne abbiano scoperta
l’inclinazione latente. Questo còmpito è mio.
— Eh! ci vuol altro!
«Ci vuol altro?» La frase colpì il filosofo. Disse dolcemente, dopo un
po’:
— Forse hai ragione anche tu. Ci vorrebbe la donna; la donna che io non
trovai: una donna capace di mirare in alto, più in su del cuore.
La signorina Amelia allora tacque. E poi si propose d’innamorare lei
Celso Dondelli.

VI.

A scorgere Celso così mutato, pallido, con gli occhi or vaghi ed or
fissi come in contemplazione, il conte dubitò che, per l’assiduo
ammonimento di mirare in alto, il giovine fosse colto da un accesso di
misticismo e si fosse destata in lui la vocazione di farsi frate. Per
fortuna, una mattina mentre prendeva il caffè e latte, se lo vide
davanti ancora diverso; in posizione di «attenti!», con l’aspetto dei
grandi propositi; con la energica decisione dell’eroe o di chi ha
perduto la testa.
— Signor conte — disse calmo —; vado allievo sergente, in cavalleria.
Soldato! Un colpo di mazza sul cranio! Ma non una di quelle mazzate che
stordiscono; no: di quelle che spalancano tutte le finestre cerebrali a
una luce repentina, inattesa, illimitata. Al filosofo s’illuminarono il
passato, il presente, l’avvenire: il passato suo proprio, l’avvenire di
Celso, il presente di tutti e due.
Oh portento! Soldato! Soldato d’Italia! Ecco l’inclinazione latente,
rivelata a un tratto! Di chi? di Celso? solo di Celso Dondelli? No, no:
anche di lui, del conte Mauro Agabiti! La capiva adesso, di colpo, quale
era l’inclinazione sua propria, adesso che aveva manifesta,
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