Il diavolo nell'ampolla - 2

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lo Scricco —, entrarono nella stalla; lo Scricco a prender la sacchetta
per andare alla foglia; Sandro per salir dalla botola nella cascina a
dormire — disse — un bel sonno, tra il fieno.
Ma appena fu disopra, il padrone ridiscese, svelto.
Ascoltava allontanarsi la voce, che cantava la canzone di Castelfranco
e, interrotta, rispondeva a uno che moveva parola dalla strada. Quindi
sciolse, Sandro Molenda, il bue insano; lo spinse fuori della posta; lo
avviò fuori della stalla, guatando (il camiciotto rosso non era a metà
della capedagna); si nascose, svelto.
E pochi istanti passarono, eterni.
Chi non crederebbe a una disgrazia? Il bue insano (chi ne aveva colpa?)
si era slegato, era scappato; e lui, accorso subito — troppo tardi —
alle grida.
Ecco.
— Correte, gente! — gridò l’uomo che aveva mosso parola dalla strada.
— Madonna, aiuto! — lo Scricco gridò: una volta sola.
— Aiuto! — ripetè Sandro Molenda accorrendo con un forcale: — Aiuto! — E
giunse.... — troppo presto? —: no.


LA CASSAFORTE DI DON FIORENZO.

Quando don Fiorenzo fu in fondo alla chiesa, si voltò, disse a bassa
voce: — Signore, ve li consegno a Voi! —; e segnatosi con la solita
rapidità, uscì.
Il cielo schiariva. Pallidamente, il sole intiepidiva l’aria invernale.
E il prete si mise a sedere sul gradino per riscaldarsi un poco al sole
e quasi per rischiararsi lui pure dentro, nell’animo, che una commozione
strana conturbava: di letizia amareggiata da un prossimo timore; di
gioia impedita da una persistente gravezza.
— La mia cassaforte! — pensò; e sorrise. Ma il pensiero gli ricadde
inerte, ed egli restò a lungo così, seguendo con lo sguardo la vicenda
della nuvolaglia più o meno tenue, non ancora trapassata nè aperta da
raggi del tutto vittoriosi.
Finchè, grazie a Dio, irradiò una vivida spera.
— Mille e settecentocinquanta lire riscosse allora allora, calde calde.
Mille e settecentocinquanta! Che somma! Che cordiale! Ah!, i quattrini,
hanno proprio il vigore, l’ardore d’un cordiale che risuscita! — E
questa volta rise di gusto, e si diede a pensare rinvigorito,
infervorato, franco. Ne aveva abbastanza; finalmente non avrebbe più un
centesimo di debito, con nessuno al mondo! Finalmente potrebbe spendere
senza angustia per una veste (e si guardò la veste rossigna e tignosa),
per un paio di scarpe (e si guardò a quelle scarpe). Finalmente potrebbe
cavarsi qualche onesta voglia senza paura! No? Gli arriverebbe addosso
l’Americano, suo fratello, con la solita burbanza, con la solita
prepotenza, con i soliti assalti? — Che prete sei? Dove hai nascosti i
quattrini che hai riscossi da Bisaccia? Dammeli! Ne ho bisogno! Li
voglio! Bada!...
— No! non te li dò! Trovali!; e se li trovi, prendili! Cadrai fulminato!
Una pausa. Quindi don Fiorenzo rispose forte a suo fratello come
l’avesse davvero lì davanti, trattenuto dalla tremenda minaccia; e si
sfogò, finalmente.
— Che prete sono? Un prete che ha sempre fatto il suo dovere; un
galantuomo, sono, io, che ha sempre sofferto in lite con la miseria!
Sempre! E adesso che ho quel che ho, un capitale mio, tutto mio (un
biglietto da mille, stupendo; uno da cinquecento, sudicio, ma stupendo
anche lui; due da cento, del Banco di Napoli, belli e buoni; due
marenghi d’oro lucidi e sonanti che consolano a toccarli, e una carta da
dieci per giunta), adesso che posso rifiatare, io, fratello, non ti
scongiuro più a mani in croce di non rovinarmi, di non sacrificarmi, di
non rubarmi, e ti domando, io, a te: — Che fratello sei? che cristiano
sei? che uomo sei? E ti dico:
Quando io digiunavo per tirar innanzi gli studi e arrivare a dir messa;
quando nostra madre rompeva il digiuno a fette di polenta, tu eri già in
America a far fortuna, e non mandavi un soldo, che è un soldo, a casa,
mai; e affrettavi con la tua condotta, col tuo silenzio, coi tuoi
misteri, la morte di quella santa! Che Dio ti perdoni! E quando sei
tornato e mi hai veduto qui, nella parrocchia più misera, più trista
della diocesi, e mi hai veduto nelle spese e nei debiti — la cascina,
bruciata, da rifare; il fondo da bonificare; la vigna da ripiantare, da
scassare, da curare —, sei venuto forse ad aiutarmi? Ti sei dato,
invece, alle gozzoviglie in paese, laggiù, perchè ti credessero un gran
signore e ti dicessero l’Americano; ti sei mangiato, bevuto, giocato
tutto. Spassi e bagordi! Donnacce! Faraone e goffetto! E io non conosco
nemmeno le carte! Poi, dopo: — Fiorenzo, prestami cinquanta lire, cento
lire! — Non le avevo: il capomastro da pagare; il solfato da pagare; la
banca da pagare. Povero me! E tu a rimproverarmi: — Che prete sei? — A
minacciarmi: — Bada che sono stato in America! — Come per spiattellarmi
che in America ne hai fatte di peggio. Dio ti perdoni! E appena in paese
ti informavano che avevo venduto qualche cosa, súbito mi correvi
addosso, a martirizzarmi. — Dammi i denari!
Io: — No! — E me li hai portati via: più di una volta; dal canterano, di
dentro il pagliericcio, di sotto i mattoni. Ladro! che Dio ti perdoni.
A tal punto la fosca immagine fraterna sembrava cedere, sopraffatta. Ma
risollevava il capo. Domandava: — Mille e settecentocinquanta franchi?
— Sì! E questi non me li becchi! Questi sono in una cassaforte, mio
caro, che non si tocca senza tremare. Questi li ha in custodia un
carabiniere che ferma le mani e le gambe anche di chi è stato in
America! Próvati; cadrai fulminato! —
Non c’era da ribattere. L’Americano sembrava allontanarsi intimidito da
un sacro spavento. E dileguava.
Don Fiorenzo oramai si sentiva libero e tranquillo; guardò nella realtà.
Gli olmi terrei e squallidi sfilavano con le vecchie braccia aperte,
quasi a reggere un peso grande, e reggevano due o tre esili rami. Tra
gli alberi, in un punto, l’acqua del rio specchiava, dentro una luce
opaca, la sponda di contro: scolorita; brulla. Ma sollevandosi e
ondeggiando, la nebbia scopriva a poco a poco tutta la costa e svelava
il verde vivo del grano. E anche l’aria si mosse. Lì dinanzi le
foglioline dell’erba tremarono, piegarono, brillarono inargentate nel
riflettere il sole che or sì or no le colpivano a pieno. Le galline
beccavano nel fosso, tra le foglie morte, e di tanto in tanto, mentre si
parlavano a grassa voce, ergevano il collo e la testa, per ascoltare e
occhieggiare. Una balzò fuori. Bene incappottata di piume, cercò luogo
da far covino al sole, e, sbattute le ali, si beò della polvere che le
fumava dintorno. Garrivano i passeri; si chiamavano i ragazzi lontano. E
una figura di donna sorse improvvisa alla riva, nera e lieve quale
un’ombra; si colorì nella gonna, nel fazzoletto che le copriva quasi
tutto il volto; e súbito disparve, per ricomparire e disparir poco dopo.
— L’Assunta che raccoglie la mia e la sua cena — pensò don Fiorenzo.
Povera vecchia! Quanto le doveva! Da anni lei e il figlio Andrea
condividevano la sua povertà; nè essa si lamentava: si lamentava Andrea,
mal rimunerato del triplice ufficio di campanaro, becchino e vignaiuolo,
ma essa lo quetava dicendogli: — Quando il curato ne avrà, ce ne darà,
anche a noi. È un santo.
Ora il curato ne aveva.... Dargliene?
— Faremo un buon desinaretto il primo dell’anno — pensò don Fiorenzo con
agevole trapasso. — Una bella mangiatina, fra tre giorni.
E sorrise, indulgente a sè stesso, alla sua debolezza. In verità, per
resistere alla gola aveva patito più che per ogni altra tentazione e
contrizione; forse perchè aveva patito tanto da ragazzo! E riebbe il
senso doloroso e strano d’allorchè, coi libri sotto il braccio e le mani
nelle tasche vuote, si fermava in città, davanti alle vetrine dei
pasticcieri e alle botteghe dei fruttaioli. In uno stupore avido
assaporava con gli occhi, con l’anima le ignote dolcezze; e quelle
delizie inafferrabili gli mettevano nel sangue e nei nervi come una
esasperazione e quasi uno spasimo; da piangere. Più tardi aveva
costrette in sè voglie ben più sostanziali ma non minori. Oh un cappone
arrosto! E i capponi bisognava venderli. Oh i cappelletti in brodo! E il
riso era la minestra dei dì solenni. Oh una torta vanigliata! E grazie
se gliene toccava, rare volte, alle feste d’altre parrocchie!
I colleghi non scorgevano che fatica egli durava a contenersi nei loro
pranzi e a ingoiar acquolina. Piuttosto essi lo accusavano di poca
sollecitudine, di poco zelo nel suo ministero.
A torto? del tutto? No? Forse no. Perchè..., perchè egli non era stato
abbastanza sincero nel confortare gli infelici sentendosi più infelice
di loro; non era stato abbastanza ardente e puro nei riti essendo
angustiato sempre dagli affari e dai debiti, quando non erano i terrori
delle cambiali in scadenza, delle citazioni e dei sequestri.
Maledetti i quattrini!, allora.... Ma adesso, oh!, adesso che gli
ridavano la pace e la gioia, eran benedetti, dentro quella cassaforte,
anche dall’invulnerabile custode!
— Signore, mi raccomando a Voi! — ripetè don Fiorenzo; e
nell’invocazione, congiunse al desiderio d’essere perdonato delle sue
mancanze, la piena fiducia di meritar tuttavia aiuto e difesa. Quindi
tornò a guardar fuori di sè.
Il sole risplendeva libero, ora, d’ogni velame; con raggi vibranti di
vita inesausta rianimava tutte le cose intirizzite, assopite, stinte,
spogliate, strinate dal freddo, e ai suoi raggi correva in tutto,
sensibilmente, una aspettazione benefica: di fronde e foglie negli
alberi, di acque chiare nel rio, di fiori tra l’erba, di spiche sulla
costa, di grappoli nella vigna, di opere e di canti agli uomini.
Potenza di Dio! Questo granellino di polvere sperso nell’infinito, che
dicono sia la nostra terra, come è grande!, che portenti racchiude!
Quante energie! Quante creature! Quante forme diverse di erbe e di
fiori, di colori e profumi! quante sorgive limpide e fresche! quante
messi e granaglie! quante sorti di uva bianca e nera, e che vini!
Nella ingenua ignoranza pareva al povero prete d’essere improvvisamente
illuminato quel giorno da una miracolosa rivelazione.
Per la prima volta immaginava con anima partecipe la gioia del vivere in
ogni cosa vivente. Gli pareva di tornare nel mondo dopo esserne stato
escluso fin dall’infanzia, e di comprendere, di vederne solo ora le
segrete leggi di armonia naturale ed arcana. Mai, mai aveva riflettuto
così sulle semine che riposano nell’inverno e al lento sviluppo dei
germi e al verzicare; mai aveva pensato che le creature vegetative
fossero uguali, nell’immensa voluttà dell’esistere, alle animali, alle
umane; e tutte uguali nell’amplesso di Dio. Mai, mai aveva pensato alle
forze fecondatrici e vivificatrici e pensato anche, così, all’unico
palpito universale, al totale amore profondo e sublime.
E questo piacere che aveva adesso dalla mente e dal cuore, questa
coscienza di penetrazione, la quale pareggiava lui, povero prete
ignorante, allo scienziato e al sapiente, a poco a poco lo turbava,
l’affannava come un astemio che teme di inebriarsi e si inebria quasi
senza volere.
Ne resistè. Provò il bisogno di espandere liberamente quell’intima
gioia; ebbe voglia di cantare. Ma seguendo a voce sommessa la patetica
cadenza dell’inno a Santa Lucia, s’intenerì; dovè smettere, recitare,
con la solita fretta, una preghiera. E lo riprese il senso gioioso di
prima: anzi più alacre, più copioso, più possente. Gli pareva di sentire
il fluido che nutriva le midolle arboree, che a primavera dilatava le
scorze e rompeva in gemme; di sentire la virtù che faceva fiorire i
bocci, l’irrequietudine vitale che agitava in istrida e voli i passeri,
la tranquillità vitale che faceva chiocciar le galline vicine a lui; e
sentì da lontano, impetuoso, precipitoso, avanzare il trotto di un
cavallo. Avanzava, avanzava. Divenne, istantaneamente, quel trotto, un
galoppo furioso, il rombo di cento cavalli sfrenati in una confusione
enorme. Una confusione enorme, dentro, nel cuore; dentro nel cervello.
Un crollo, uno schianto dell’universo; e il sole rosso, di sangue. —
Gesummaria!
Tentò d’alzarsi in piedi. Ricadde.
————
L’Assunta, che rincasava con una grembiulata di duri radicchi e d’ispide
cicerbite, credendo che il curato dormisse, lo sgridò:
— Dorme al sole? Fa male.
Ma accostatasi vide meglio; e si diè a urlare:
— Andrea! Andrea!
.... Presto la voce della disgrazia corse dalla canonica alla prima
casa; di là, per tutta la parrocchia. In paese portò la notizia il
medico: il quale era giunto lassù quando non gli restava che constatare
il decesso, per aneurisma. E uno, entrando all’osteria del Gallo,
annunziò:
— È morto d’un accidente il curato del Palèsio.
L’Americano stava giocando. Volse il capo; e rimase con le carte a
mezz’aria. Appena però Bisaccia, il commerciante, che mangiava in
disparte, ebbe esclamato: — Gli ho pagato stamattina i quattrini
dell’uva e del grano, ed era tutto svelto! —, l’Americano gettò le
carte, si staccò dalla tavola, si raccomandò all’oste:
— Un cavallo, un biroccino, subito! È morto mio fratello!
————
Sì: suo fratello. Là in canonica, nel letto, scorgendolo quale se
riposasse queto e contento, ritrasse lo sguardo; e mentre l’Assunta in
ginocchio biascicava il rosario e Andrea smoccolava con le dita le
candele che gocciavano, l’Americano tolse dal portapanni la veste e il
panciotto, frugò nelle tasche, invano; borbottò parole incomprensibili.
Poi mise sossopra quant’era nel canterano e nella cassapanca. Poi disse
ad Andrea: — Aiutami!
Levarono il morto dal letto e lo adagiarono su la cassapanca. Ma anche
dentro al pagliericcio non si trovò niente. Nè si trovò nessun mattone
smosso. Allora lui, il fratello, aggrottando le ciglia, chiese:
— Questa mattina è venuto Bisaccia, il mercante?
Era venuto.
— E dove sono i quattrini?
La vecchia non rispose. Il figlio rispose:
— Non lo so.
— Badate — disse l’altro — che saltin fuori prima di notte, o vi
denuncio!
E uscì a rovistare altrove.
— Siamo rovinati! — mormorò Andrea. Ma la madre, guardando a don
Fiorenzo:
— Pregherà lui, per noi.
————
L’Americano, infatti, non osò denunciarli neanche il giorno dopo.
— Mio fratello — pensava — era una gazza; nascondeva tutto. Dove li avrà
messi?
— Dove li avrà messi? — si chiedevano a vicenda la vecchia e il
figliuolo —. E se non si trovano?
Consultavano trepidanti, l’una le amiche, l’altro gli amici.
— Con sè non li ha presi — diceva Andrea.
E l’Assunta:
— In che rischio ci ha lasciati, se non ci avvia a trovarli!
— Non ve ne mettete — rispondevano amiche e amici —. Male non fare e
paura non avere! — Ma tra loro.... Oh tra loro, strizzavan l’occhio e
mormoravano: — Se li son presi; e fan bene a tenerseli!
Per poco i più arditi non gliela gettavano in faccia: — Meglio li
godiate voi che quel birichino!
E quei poveri incolpati capirono che cosa volessero significare certe
mosse di spalle, certe occhiate oblique, certi sorrisi sfuggenti, certe
parole finte. L’Assunta piangeva e si premeva d’una mano il cuore; e
Andrea scampanando, zappando e vangando ribatteva, quasi a persuadere in
sè ogni incredulo: — Ladro io non sono mai stato! Ladro, io, non sarò
mai!
Nemmeno il cappellano, che era stato mandato per economo dalla Curia,
súbito dopo il mortorio, li consolava. Non conoscendoli, sospettava,
taceva.
Ma più di tutto li sgomentava il silenzio di quell’altro, del fratello.
Uscito dalla canonica all’entrare dell’economo, non si era più veduto
lassù.
.... E due giorni dopo, all’ultimo dell’anno, che faceva un gran freddo,
la chiesa era piena di gente. Aspettavano la messa. Quando uno udì, o
credè d’udire uno scalpitìo e un suono di squadroni sbattuti; e susurrò:
— I carabinieri!
— I carabinieri! — susurrarono i vicini.
— I carabinieri! — avvertirono di panca in panca.
L’Assunta impallidì; gemè forte: — Signore! e Andrea, che per servir la
messa accompagnava il prete dalla sagrestia, fu assalito da un tremito
convulso. Intanto alcune donne si inginocchiarono alla balaustra per
ricevere la Comunione.
E il prete sale il gradino, depone il calice sull’altare, apre il
tabernacolo, si volta a segnar nell’aria, con la mano, la croce: ricorda
ad Andrea che deve recitare il _Confiteor_. Ed ecco; il prete si volta
ancora, tende il braccio a trar fuori dal tabernacolo la pisside; ma....
Che è? che non è? Un cartoccio. Cade sull’altare, si apre: una di qua,
una di là, due cose lucide scappan via, in terra, sonando. Monete?
Marenghi? Che è? che non è?
— Miracolo! — esclama Andrea, più bianco in faccia che la sua cotta.
E le donne che sorreggono l’Assunta esclamano:
— Miracolo! Miracolo!
E tutti, in punta di piedi, ansiosi:
— Miracolo! Miracolo! I quattrini di don Fiorenzo!
————
Ricuperato l’onore, l’Assunta e Andrea si rallegrarono come fossero essi
gli eredi del curato.
Solo, si sentivano in credito verso l’Americano appunto per quanto li
aveva fatti soffrire; e quando poi egli tornò a prendere le cose
dell’eredità, coraggiosamente gli dissero che da anni non avevano avuto
nulla da don Fiorenzo. Domandare era lecito: la carità di un centinaio
di franchi.
Ma l’Americano li guatò stupito.
— Oh non ne avete avuto abbastanza del miracolo?


LA FORFECCHIA.

Gli uomini e le ragazze — cominciata la mietitura — prestavan opera
fuori del fondo, e le donne erano andate tutte e tre al fiume, a
risciacquare il bucato, perchè nel rio vicino mancava l’acqua. A guardia
della stalla avrebbe dovuto rimanere il garzone; e a servire il vecchio,
se lo chiamasse.
Ed ivi, all’ombra del noce, il nonno ottantenne e la bambina di sei
anni, l’uno adagiato sulla scranna a bracciuoli, l’altra seduta su la
sponda del fosso invaso dalle erbe, guardavano con indifferenza lo
spazio conceduto ai loro occhi.
Tacevano i campi nella lunga ora pomeridiana e nella ferma calura della
fine di giugno; la casa, vuota delle solite voci, sembrava aspettare in
un abbandono tranquillo; e la vita, che urgeva d’intorno e di cui non
percepivano l’arcano senso, infondeva nel loro animo una letizia quieta,
come se nel mondo ci stessero solo loro due, e così paghi, o come se il
mondo fosse un bene dato a lor due soltanto. Anche, per essi soltanto le
cincie e le averle pareva che pungessero di pigolii e gridii l’immoto
silenzio. E se abbassavano le palpebre e poi le rialzavano, la luce
vibrante al limite dell’ombra era quale un fulgido e tremulo velo
diffuso sulla terra perchè essi, a scorgerlo, fossero contenti di
trovarsi, così, sulla terra.
— Cosa fai, dunque? — domandava sorridendo il vecchione.
E la piccolina rispondeva seria:
— Lavoro. Non vedi? — Si provava a intrecciare spiche di loglio. Nè,
attenta all’impresa, poteva curarsi di lui, che cercava attirarla coi
più dolci nomi e le promesse più dolci per afferrarla, sollevarla su le
ginocchia e simulare di divorarsela in un boccone, vólto contro vólto; i
capelli bianchi contro i capelli biondi. — Hamm! ti mangio!
Quelle per lei eran carezze faticose, sì valide braccia aveva ancora il
vecchio; ma in compenso, quando lui allentava la stretta, lei scappava
sicura di pareggiar la partita.
— Prendimi!
Prenderla? Da anni il nonno aveva perduto l’uso delle gambe. E rideva o
sgridava. Sgridava a tutti, fieramente, donne e uomini; quasi
pretendesse veder ripartita e accresciuta in ognuno l’energia che non
aveva più e l’energia che gli era rimasta, o quasi volesse garantirsi
del comando — sebbene costretto a farsi reggere a braccia ogni volta che
desiderava mutar luogo. Ma a lei, la figlia minore del figlio minore e
prediletto, non aveva mai rivolta una parola cattiva; e guai a chi la
toccasse!; e se non l’aveva vicina, sempre gli si offuscava la faccia
chiara, intorbidava lo sguardo limpido. Con lei diveniva bambino nei
discorsi; nei giuochi le era uguale.
— Vieni qua! Porta qua — le disse —, che ti aiuto!
No. Diffidava; non aveva voglia di resistere alle tentazioni dei morsi,
di premere le mani contro la faccia rugosa, per non soffocare, nè di
strillare a difesa.
Ma poi la sedusse la proposta di una nuova gabbia da grilli. A comporla
occorrevano gambi di erba volpina e non di loglio; e il nonno glieli
indicava; e la esortava di non andar al sole a coglierne, e di non
piegarli e romperli nello strappo.
Quando bastarono, la gabbia fu presto in ordine. Non appena però fu
compiuto il lavoro, si compiè il tradimento.
— Hamm! Ti mangio!
Le strida sbigottirono fin i passeri, su per il tetto.
E il grillo?
Rispondeva il nonno che i grilli di giorno stanno in casa, per uscir la
sera a cantare alla luna e alle fate.
E lei, credula, ripigliò la faccenda di prima; decisa a non lasciarsi
ingannare mai più.
Ora il vecchio l’udiva borbottare senza ascoltarla e seguiva il ronzo
d’un calabrone tra il folto dei rami. E, come la piccolina quando egli
protraeva una tiritera noiosa, chinò il capo; e a poco a poco si
addormentò.
C’era tuttavia da dubitare che fingesse, per tradir poi di nuovo; e
l’altra venne a lui adagio; lo considerò un pezzo, lo toccò a un
braccio; fuggì zitta. Dormiva? Ripetè, più ardita. Lui non si mosse; una
mosca gli passeggiò sul naso: essa rise, e si convinse che dormiva
davvero.
Che cosa fare adesso? Pensava di scappar via; di correre dal garzone, il
quale sapeva formar bambocci con la paglia o con la mota; pensava di
inseguire una farfalla al sole.
Ma rammentava le minacce materne e l’imposizione di non scostarsi dal
nonno; e trovò meglio imitare il nonno. Per dormire allo stesso modo di
lui si assise al piede del noce, appoggiata al tronco. E il calabrone
che, tra il folto, ronzava per addormentar lei pure, l’addormentò.
————
Il vecchione intanto sognava. Sognava di essere a mietere; e il frumento
era tanto bello che pareva d’oro. Ma le grane d’oro uscivano dalle
loppe; cadevano. Egli rampognava i figliuoli d’essere andati a mietere
prima quello degli altri, a stagione avanzata; e si sentiva stanco di
curvarsi a recider mannelle e di sgridare mentre tutti cantavano.
A poco a poco gli rifluiva nel cuore una soavità immensa. L’aria
affocata s’alleviava, si affinava in una deliziosa frescura; e al di là
del grano, il campo fioriva sotto il cielo d’un nitido turchino. Rose e
garofani; papaveri e gigli. Poi sorgeva un’immagine, che avanzava passo
passo: e sorrideva. Sembrava domandare: — Non mi riconosci?
Se la riconosceva! La sua donna, quando era giovane. E gli parve di
sognare nel sogno, perchè la sua donna morta mutava il colore dei
capelli e il colore degli occhi. E il sorriso, non più triste, la
giocondava tutta, trasformandola. Un sogno nel sogno. L’immagine mutava,
lentamente e distintamente, in una ragazza bionda, dagli occhi celesti,
bellissima. Chi? Era lei; la bambina, ingrandita come se andasse a
nozze; felice.
Egli vedeva bene che era un sogno, che non poteva essere già sposa;
nondimeno a scorgerla così felice, non godeva: soffriva in fondo al
cuore. E l’afflizione cresceva cresceva, e la nipote, che egli amava più
di sè stesso, lo guardava in uno stupore muto. Ah ecco, tornava quale
doveva essere: bambina; lo chiamava; e poichè, stretto al cuore, egli
non ricuperava la voce a risponderle, rompeva in pianto.
Finchè, del tutto desto, il vecchione la vide che piangeva davvero,
presso a lui. N’ebbe un insolito dispetto.
— Cos’hai da piangere? Smorfiosa!
Poverina! Aveva ragione di lamentarsi. Soffriva.
— Nell’orecchia? Cosa ci hai nell’orecchia?
— Una formica. — Piagnucolando portava la mano alla guancia, quasi per
attenuare il fastidio. La formica, che le era entrata nell’orecchio, era
tanto grande!, e pregava il nonno di liberarla dalla pena, che era tanto
grande!
— Cávala, nonno!
Il nonno la confortò, già impietosito, ma senza timore. Si fece dare un
fuscello a cui si appigliasse l’intrusa, ed estrarla. Nel dubbio però
che fosse peggio, le disse:
— Non ci badare! Non è niente!
Anche a lui, mentre dormiva su l’erba, un giorno, era successo lo
stesso; ma le formiche hanno giudizio, e, a non stuzzicarle, tornan
fuori, riprendono l’andare.
La bambina lo guardava per credergli. Tacque un poco; indi, quasi il
fastidio s’accrescesse d’un tratto ad acuto tormento, si gettò in terra,
agitata e piangente. Non valevano più le parole a quietarla.
Il vecchio pativa con lei; nè trovava più parole da dire.
Quando, a un tratto, aprirsi nella sua mente il ricordo di un male
tremendo, di una orrenda sciagura! Mosse rapidi gli occhi dal lato del
noce, lì vicino. E scorse. In fila le nere forfecchie andavano su e giù
per il tronco.
— Dov’eri a dormire? — domandò rabbrividendo d’angoscia.
La bambina non rispondeva, piangeva.
E lui ripeteva la domanda; pregava, scongiurava che rispondesse. Ah le
abominevoli bestie!
— Dov’eri a dormire? Dimmelo! dimmelo dunque!
Essa accennò al noce; e singhiozzando si contorceva. Soffriva tanto!
Nessun dubbio: un pericolo, una disgrazia terribile; enorme!
Affannosamente, con quanta voce aveva, il nonno si diede a chiamare il
garzone. Lo manderebbe a chiamare il medico: corresse subito, per l’amor
di Dio! Sempre lo aveva inteso dire, sempre, che le forfecchie entrano
negli orecchi di chi dorme, e se non si han pronti i ferri e la mano
dell’arte, bisogna morire. Impazzire, e morire arrabbiati come per
rabbia di cane. Quella bambina!
Chiamava quanto più alto poteva:
— Cleto! corri, qui! Cleto! ohe!
Invano. Il garzone se ne era andato o alla bottega per la foglia, o
altrove. Maledetto!
E la poverina gemeva, mentre lui, il nonno, atterrito, con le sue grida
ne copriva il gemito; e inveiva contro le donne che avevano lasciata la
casa vuota, sciagurate!, e contro gli altri che eran via, lontano, senza
pensare.
Nessuno udiva; e cosa poteva far lui, vecchio impotente, inchiodato in
una scranna, con quella angustia nel cuore, con quella certezza che
aveva di un pericolo, di un male — a tardare — irrimediabile! Impazzire,
morire! La bambina!
Ma forse non era vero quel che aveva inteso dir tante volte? Se era
vero, no, Dio non lo permetterebbe! Avrebbe misericordia. Infatti ora
piangeva più piano. Smise di piangere, un istante, come a persuadersi
che il tormento cessava. Non cessava. E tornò a lui con rinnovata
speranza; e l’abbracciava, il suo nonno, e lo scongiurava, per carità! —
Cávala, nonno!
La liberasse! In che modo, Dio santo? Non osava: temeva far peggio;
tremava. Un medico ci voleva, súbito!; e nessuno lo udiva, povero
vecchio, solo nella sua impotenza, nella sua miseria, nel suo terrore!
L’ignoranza e il pregiudizio eccitavano la senile fantasia a un
immaginare atroce. Con le pinze della coda, le robuste e aguzze forbici,
l’animaluccio mostruoso, portato dall’istinto a nascondersi, forava a
penetrar nel cervello, e vi penetrava a poco a poco, finchè vi
zampiccava, atroce, dentro. Qual tormento, qual martirio, quale spasimo
più grande? Impazzire; morire di spasimo!
Nè la bambina fremendo, con la faccia sul suo petto, con le braccia su
le sue spalle, perdeva la speranza. Dal nonno attendeva il sollievo; dal
nonno il rimedio all’intollerabile male, che la frugava, la fustigava a
dentro, sempre più a dentro. E il nonno non diceva più nulla, non faceva
più nulla, non sapeva far più nulla. Tremava tutto. E allora essa si
ritrasse ostile e gli rivolse un’occhiata livida. Ah che atroce patire
doveva essere, se una bambina, quella bambina, la sua bambina, aveva
potuto esprimere dal più profondo senso vitale tant’odio, mostrarsi così
crudele, spietata! O forse era quell’occhiata il primo indizio della
demenza?
— Voglio la mamma! — urlava tentando staccarsi dalle braccia tenaci.
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