Il ritratto del diavolo - 10

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San Giovanni erano da gran tempo sopiti. Riabbracciò il suo figliuolo
e gli parve di vederlo tornato da morte a vita; nè si dolse, nel suo
cuore di padre, aperto a tutte le ammirazioni come a tutte le
tenerezze, di dover mandare il rispetto di costa all'amore, trovando
Spinello così grande, per le sue opere, nella estimazione di tutti.
--Figliuol mio,--gli dicea, non sapendo saziarsi mai di guardarlo e di
baciarlo sul viso,--sei tu? proprio tu? il dipintore famoso, che
contende la palma ai migliori della scuola di Giotto? E sono io tuo
padre?--
Dopo una così lunga notte di amaro sconforto, Spinello Spinelli ebbe i
primi sorrisi di gioia, vedendo l'allegrezza di quel povero vecchio,
che per lui, per suo figlio, tornato alla quiete dell'animo, cresciuto
alla gloria dell'arte, dimenticava perfino le ebbrezze del fuoruscito,
che dopo tanti anni d'esilio rivede finalmente la patria.
Messer Dardano Acciaiuoli accolse anche lui amorevolmente il padre del
suo giovine amico e gli fece gran festa. Ambedue andarono dal
Bastianelli che lavorava, come vi ho detto, in una botteguccia d'orafo
sul Ponte Vecchio.
Il bravo e modesto artefice cascò dalle nuvole udendo quella domanda
di matrimonio fatta a sua figlia da un pittore famoso e recata a lui
da un uomo così ragguardevole, da uno dei maggiorenti di Firenze, qual
era messer Dardano Acciaiuoli. Non accettò lì, su due piedi, perchè
voleva interrogare sua figlia, ma in fondo in fondo perchè non credeva
a' suoi medesimi orecchi. Non poteva darsi che quei due visitatori
avessero preso un granchio e fossero andati da lui, scambio dì andare
da un altro?
--La mia figliuola, non fo per dire, è un'angiola;--rispose il
Bastianelli, com'ebbe udita la domanda di messer Dardano.--Ma forse
messer Spinello, di cui mi parlate, non l'ha vista bene. Agli occhi
del mondo, che non conosce il suo cuore, la mia Ghita è una povera
ragazza, senza garbo, come senza sostanze. Troppo le manca di ciò che
può far piacere una donna, specie ai pittori, che s'innamorano di
veduta, anteponendo, com'è naturale, i pregi della persona a quelli
del cuore.
--Via, mastro Zanobi,--rispose l'Acciaiuoli, non fate così poca stima
--del sangue vostro. Spinello conosce la vostra Ghita e ne è
--innamorato morto. E poi l'ho veduta anch'io, che me ne intendo, per
--antica esperienza;--soggiunse usando dei diritti che concede
--l'età.--Non vi date dunque pensiero di certi nonnulla. Piuttosto
--chiedete a lei che cosa pensi di questa proposta. Si sa, poichè col
--marito ci ha da vivere lei, è anche giusto che sia interrogata la
--sua volontà.
--È giusto, sicuro, è giusto;--disse il Bastianelli, che non sapeva
raccapezzarsi, tra il dubbio e l'allegrezza.
Siamo dunque intesi;--ripigliò l'Acciaiuoli.--Chiedete l'avviso della
vostra figliuola. Noi ripasseremo domani da voi.
--No, messere, so il debito mio;--replicò 11 Bastianelli facendo un
inchino.--Passerò io alle vostre case, messere.--
Quel giorno mastro Zanobi chiuse bottega alle undici del mattino,
quantunque non fosse giorno di festa. Ma era festa per lui, a bastava.
Gli sapeva mill'anni di essere a casa, di avere interrogata sua figlia
e di saperne l'intiero.
Monna Crezia, che tale era il nome della moglie dell'orafo, fece le
meraviglie, vedendo ritornare in casa a quell'ora insolita il marito.
--Domine!--gridò ella, inarcando le ciglia. Che cos'è stato? Perchè
--avete lasciata la bottega?
--La bottega è la bottega e la casa è la casa; sentenziò mastro
--Zanobi.--Dov'è la Ghita?
--È di là, che lavora. Ma si può sapere che cosa abbiate, Zanobi!
--Crezia, voi saprete ogni cosa a suo tempo. Venga la Ghita; ho
bisogno di parlarle.--
Venne la Ghita. Una bella ragazza, a non guardare che la testa;
capegli neri come l'ebano, occhi neri e pieni d'espressione; nobili e
delicati i lineamenti, bianca la carnagione, e soave il sorriso, che
prendeva lume in giusta misura dalla bontà dell'animo e dalla bellezza
della bocca. Peccato che il collo non fosse lungo abbastanza, ma in
fine, era un collo bianco e tondeggiante, indizio di forte e serena
maternità. La vita era un po' tozza, ma seguitava anch'essa il
carattere e l'espressione del collo, quasi preparando l'occhio a
quella andatura impacciata, che in parte lasciava indovinare e in
parte nascondere il difetto già noto ai lettori. Un difetto da nulla,
in verità, quello che aveva meritato a monna Ghita il soprannome di
zoppina, e si poteva dimenticarlo, quando essa non si muoveva;
condonarlo, e trovarci anzi una certa grazia, quando ella si faceva
innanzi, con quella sua andatura di persona stanca e svogliata.
--Ghita,--incominciò gravemente mastro Zanobi,--dimmi la verità.
Conosci tu un giovane, qui presso, che ti fa.... mi capisci?
--Babbo, io non capisco;--rispose la Ghita.
--Vo' dire che ti fa l'occhiolino. Capisci ora?--
La Ghita si fece rossa come una fravola montanina.
--Padre mio...--balbettò ella, più confusa che mai.
--Rispondi! Non voglio mica mangiarti. Qui presso alla nostra casa,
abita forse un giovanotto, che tu vedi qualche volta?
--Non so.... Io non conosco nessuno;--rispose la fanciulla.--Ce ne
stanno due, qui presso, nella casa degli Ammannati. Si vedono qualche
volta sulla terrazza, senza volerlo, stando quassù, presso al balcone.
--Il loro nome!
--Non lo so. Si dice che siano due pittori. Ma la mamma potrà saperlo
meglio di me. Io non parlo con nessuno, lo sai.
--Che c'è? che c'è?--entrò a dire monna Crezia.--Perchè domandate il
nome dei vicini, Zanobi?
--Perchè? Perchè uno di costoro ha chiesta la Ghita in moglie. Vi pare
che io non abbia il diritto di domandarvi qualche ragguaglio?
--Ah!--gridò monna Crezia.--Messer Spinello Spinelli?...
--Bene! Voi sapete già il nome?--ripigliò ironicamente, ma senza
sdegno il marito.--E tu, Ghita, lo sapevi anche tu, non è vero?--
Ghita chinò la testa, arrossendo di bel nuovo. Voi capirete, lettori
discreti, che, alla sua età e nella sua condizione di figlia al
cospetto del babbo, la fanciulla non poteva far altro.
Mastro Zanobi seppe quel che voleva sapere, e rimase lì un tratto
senza parole, guardando la moglie e la figlia, con una cert'aria che
voleva parere arcigna, e con una gran voglia in corpo di abbandonarsi
alle più matte dimostrazioni di gioia. Maritare una figlia, levarsi di
casa la zoppina, che vi pare? Non c'era da far le capriole? Il re
David, uomo gravissimo pel suo tempo e per la sua dignità in Israele,
ballò davanti all'Arca per molto meno.
--Sicchè,--disse finalmente mastro Zanobi, conchiudendo ad alta voce
un suo ragionamento mentale,--non sarà neanche il caso di chiedervi se
siete contente? Meglio così. Io, tanto e tanto, avrei risposto di si,
anche senza il vostro consenso. Vi ho interrogate perchè la cosa mi
pareva strana, e ancora adesso non so capacitarmi in che modo sia nato
questo innamoramento del pittore.
--Oh, non stiate a credere che noi si sia fatto un passo per andargli
incontro;--rispose prontamente monna Crezia.--Si vedevano qualche
volta i due giovani sulla terrazza degli Ammannati, nella casa qui
presso dove sono venuti da qualche mese ad abitare. Uno di essi ci
restava a lungo seduto, guardando in Arno, come se aspettasse una
barca, che non veniva mai. L'ho capito un po' tardi, che barca
aspettasse! Ma come indovinarlo subito, Dio buono, se non guardava mai
in alto, salvo una volta in principio, per salutarci, come s'usa tra
buoni vicini? Bisogna proprio dire che ci abbia gli occhi sulla
fronte, alla guisa delle chiocciole!
--Abbreviate, Crezia!--disse mastro Zanobi. Quando incominciate a
--parlar voi, benedetta donna!
--Oh, vi contento subito. Un giorno, sarà forse due settimane fa, è
venuta da noi monna Tessa, la cognata di vostro fratello, povero Meo,
che Iddio abbia in gloria l'anima sua, e m'ha detto che nel Borgo si
faceva un gran parlare d'una tavola esposta in Santa Lucia de'
Bardi.--Che importa a me di quella tavola?--Può importarvi perchè la
faccia della Santa è il ritratto puro e pretto della vostra
figliuola.--Che volete, Zanobi? La curiosità ci ha prese e siamo
andate a vedere anche noi questa Santa Lucia. Monna Tessa aveva
ragione; la Santa somigliava alla Ghita come... come... aiutatemi a
dire!
--Abbreviate, Crezia, abbreviate! Il paragone non serve a nulla.
--Che uomo impaziente siete voi! Ci avete sempre vent'anni. Basta,
sappiate che, dopo la faccenda del ritratto, monna Tessa, che conosce
i due pittori, è venuta a dirmi dell'altro. I pittori le avevano
chiesto di noi, chi fossimo, che cosa facessimo, se la Ghita avesse
già un fidanzato, ed altre scioccherie di questa fatta.
--E non mi avevate avvertito di nulla? Brava la mia Crezia!
--Madonna delle poerine! O che volevate che io venissi subito a
confidarmene con voi! Monna Tessa me ne aveva parlato così in aria,
senza assicurarmi nulla. Erano chiacchiere fatte tra noi donne, ed io
credevo che non ci avessero neanche ombra di fondamento, perchè dopo
quel discorso avevo incominciato a fare un po' di guardia e non m'ero
avveduta di nulla. Il giovanotto non veniva neanche più a sedersi
sulla terrazza. Oh, per questo, non dubitate, dev'essere un uomo
dabbene.
--Meglio così;--sentenziò mastro Zanobi;--senza contare che è un
artista di grido e che la domanda di matrimonio mi è stata fatta da
suo padre, venuto a bella posta d'Arezzo, e accompagnato alla mia
bottega da uno dei più ragguardevoli cavalieri di Firenze. Non capisco
come una sorte così grande sia toccata alla nostra casa. Ma già, dice
il proverbio: fortuna e dormi. Siete contente voi altre? Io sono
arcicontento. Preparatevi a ricevere il fidanzato, che un giorno o
l'altro bisognerà pure aprirgli l'uscio di casa. E a due battenti, se
lo accompagna messer Dardano Acciaiuoli. Voi, Crezia, mi direte poi
che cosa gli bisogna alla nostra figliuola, non siamo ricchi, ma
grazie a Dio, tanto da non farla sfigurare lo avrà.--
Così ebbe fine il primo dialogo dei coniugi Bastianelli intorno al
matrimonio di monna Ghita. La quale, poverina, ci perdette l'appetito,
tanto era sconvolta dall'idea di quelle nozze, che certamente
l'avrebbero fatta invidiare da tutte le ragazze del vicinato.
Mastro Zanobi temeva un pochino quantunque non lo lasciasse trapelare
a nessuno, che il pittore, entrato una volta in casa, non gli girasse
nel manico, trovando, come suol dirsi, il vino troppo diverso da
quello che prometteva l'insegna. Spinello venne, e fu proprio il caso
di aprir l'uscio a due battenti poichè messer Dardano Acciaiuoli si
era degnato di accompagnare il suo giovane amico. Per fidanzato gli
parve un po' grave; ma forse era da attribuirlo alla timidità del
carattere e alla confusione di un primo incontro. Infatti, come il
ghiaccio fu rotto, Spinello Spinelli parve rasserenarsi a grado a
grado, e mezz'ora dopo non c'era in lui più traccia di musoneria.
Comunque, egli l'aveva voluta; doveva pensarci lui. Mastro Zanobi andò
bravamente all'ultimo esperimento. Bisognava far onore agli ospiti, ed
egli mandò le sue donne a prendere nell'armadio una bottiglia di vin
Santo. Monna Ghita dovette muoversi dalla sedia, su cui era rimasta a
così dire inchiodata, e andare attorno come avrebbe fatto Ebe
nell'Olimpo, o Briseide nella tenda di Achille. Gli occhi del babbo
seguirono la fanciulla che camminava più stenta del solito; indi si
volsero a indagare il viso di Spinello Spinelli. Lo credereste? Il
giovinetto non parve darsi per inteso del difetto; anzi, da quel
momento, incominciò a mostrarsi più franco, e poco stante si alzava
anche lui, chiedendo licenza di aiutar la fanciulla in quell'umile
ufficio di servitù familiare.
E bisognava vederlo, con che garbo ci si adoperava. Forse un
osservatore più diligente e più acuto avrebbe trovato che Spinello
Spinelli mirava a dissimulare con quella mostra di operosità un
sentimento di freddezza che poteva benissimo essersi impadronito di
lui. Perchè gli uomini son fatti così, e si cavano volentieri
d'impaccio fingendo una gran voglia d'esser utili, che li dispensa dal
rimanere estatici. La sollecitudine s'inventa lì per lì; l'estasi non
si comanda. Essa, è come quel tal segreto degli artisti, che
A cui natura non lo volle dire
Nol dirian mille Ateni e mille Rome.
Per fortuna, mastro Zanobi non era un osservatore di quei tali, e a
lui la spigliata sollecitudine del fidanzato poteva e doveva parere
tutt'altro.
--Non siete scontento di noi?--gli chiese in un momento che potè
averlo in disparte.--Siamo povera gente, messere, e ancora tutti
confusi dal grande onore che ci fate.--
Spinello Spinelli si commosse a tanta semplicità di parole.
--Che dite mai, padre mio?--esclamò.--Son io che debbo esser confuso
di gratitudine. E che io lo sia davvero ve lo dimostra il non avere
ancora saputo trovar l'occasione di dirvelo. Nel seno della vostra
cara famiglia io troverò la pace che non ho potuto avere nella mia, da
troppi anni disfatta. Mia madre è morta, quando io ero ancora bambino;
mio padre, esule dalla sua Firenze e triste come tutti gli esuli, non
ha potuto circondare di gioie domestiche la mia fanciullezza. Son
venuto su triste come lui e lo sono rimasto, come vedete. Egli e
messer Dardano potranno dirvi che questa è la mia indole. Ma io vi
prego di credere una cosa, mastro Zanobi; la vostra figliuola non avrà
mai a dolersi di me. Questo posso promettere, sulla mia fede
d'onest'uomo.--
Mastro Zanobi, intenerito, strinse fra le sue braccia il futuro suo
genero.
--L'avete detto,--rispose,--l'avevo detto fin dal primo momento che vi
ho veduto: ecco un giovine dabbene!--
Le nozze furono affrettate quanto più si potè, senza danno dei
consueti apparecchi. C'era in tutti una gran furia di far presto.
Furia del Bastianellì, a cui non parea vero di allogare la figliuola
in quel modo; furia di messer Luca, che non vedeva l'ora di veder suo
figlio sottratto ai pericoli dell'umor nero; furia di messer Dardano,
che adempiva con coscienza a tutti i suoi uffici di protettore;
finalmente (e forse era da metter questa innanzi alle altre) furia di
Tuccio di Credi, il quale voleva riconquistare la sua libertà. Non già
per abbandonare la bottega di Spinello Spinelli, che miglior
principale di lui non avrebbe trovato in tutta Firenze; ma per
liberarsi, diceva lui a messer Dardano, da quel faticoso mestiere di
angelo custode, che messer Luca gli aveva appioppato.
Monna Ghita accettava la sua sorte con una allegrezza raccolta, e
vorrei quasi dire concentrata, di cui ella stessa non misurava la
profondità. Era sbalordita, oppressa, e la felicità si mostrava per la
prima volta a lei sotto l'aspetto di una cosa inaudita. Perciò
immaginate voi se monna Ghita avesse tempo o modo di studiar l'animo o
il contegno di Spinello Spinelli. Era bello, famoso e aveva chiesto la
sua mano. Che cosa avrebbe ella potuto cercare di più? Quel fidanzato
era agli occhi di lei un essere soprannaturale.
Il matrimonio, per espresso desiderio di messer Dardano Acciaiuoli, si
celebrò nella chiesa di San Niccolò, fatta edificare da lui e dipinta
da Spinello Spinelli. Quelle Madonne, quei Santi e quelle glorie
d'angioli, che coprivano le volte, dovevano assistere alla cerimonia
che consacrava la felicità del loro celebre autore. E non erano i
soli, poichè quel giorno ci fu gran concorso in chiesa e le tribune
erano tutte piene di ragguardevoli cittadini e di donne gentili, che
la fama del giovine pittore chiamava allo spettacolo della sua fine
miseranda. Non parlo per celia. Il matrimonio di un artista è sempre
un fatto luttuoso, un evento lagrimevole, come a dire un suicidio
nella mente dei più.
Monna Ghita entrò in chiesa, vestita di bianco, secondo il costume
delle spose. Il suo bel volto, per verità, rosseggiava un po' troppo,
a cagione dello sforzo che ella faceva per camminare ritta e
nascondere la lieve imperfezione del piede; ma quelle fiamme si
potevano credere accese dalla verecondia, e la cosa appariva
naturalissima. Spinello, per contro, era contegnoso, impacciato, quasi
triste; ma quell'aria, che s'accordava così poco con la felicità del
momento, poteva essere attribuita ad un pochettino di confusione. Già
si sa, un uomo, con tutta la sua pratica del mondo, non può mica andar
franco in una congiuntura così difficile, che gli capita per la prima
volta in sua vita.
Quando giunse il momento di profferire il monosillabo che lo avrebbe
legato per sempre, Spinello ebbe una stretta al cuore e rimase un
istante perplesso. Intravvide, quasi in nube, l'immagine di
Fiordalisa, e chiuse gli occhi, come se da quel moto di riluttanza
infantile dovesse venirgli la forza di compiere il suo sacrifizio. Ma
fu invece la paura che lo vinse; quel momento di esitazione gli era
parso un secolo; ed egli si affrettò a rispondere un sì più vivo e più
sonoro, che forse non avrebbe fatto in una diversa condizione di
spirito. E più sonoro e più vivo glielo fece sembrare il rombo che
sentiva negli orecchi, per effetto della commozione del sangue.
Era inganno dei sensi, o realtà? Gli parve che a quel sì rispondesse
un grido dall'alto, un grido acuto e breve, come di persona colpita da
un improvviso stupore,
--Ah!--pensò egli, sbigottito.--Non è questa la mia dolce Fiordalisa,
che mi rimprovera di averla dimenticata?--
Ma proprio allora gli si fecero intorno congiunti ed amici, per
congratularsi con lui e con la sua gentile compagna; e la confusione
di quel momento e l'obbligo di rispondere a tante cortesie,
soverchiarono in lui lo smarrimento dell'animo.
Poco stante, egli esciva dalla chiesa, dando il braccio alla sposa. Io
veramente non saprei dirvi quale del due avesse maggior bisogno di
essere sorretto dall'altro.
Tuccio di Credi presentò alla sposa un mazzolino di fiori.
--Li ha colti l'amicizia;--diss'egli inchinandosi.--Rammentando questo
bel giorno, madonna, non dimenticate il fedel servitore della vostra
casa.--
Quel caro Tuccio di Credi, a tempo e luogo, sapeva anche mostrarsi
galante. Ma già quando si ha un cuore ben fatto, le son cose che
vengono spontanee come... come.... Domandiamolo a mastro Zanobi, il
paragone. Ed egli ci risponderà come fece a monna Crezia, sua moglie:
--Abbreviate, abbreviate! Il paragone non serve a nulla.--
E sia, facciamone dunque di meno.


XI. [2]

Non vi è egli mai occorso di pensare, o lettori, a tutte le cose che
si fanno, nel corso della vita, sapendo che non andrebbero fatte, ed
anche provandone un certo dispiacere? La più parte deboli di tempra,
perchè la forza è il privilegio di poche anime, e non sempre buone,
noi siamo troppe volte i servitori umilissimi dell'altrui volontà, più
spesso dell'ambiente in cui la necessità ci fa vivere. Sacrifichiamo
agli dei falsi e bugiardi dell'uso comune, delle convenienze sociali,
e via discorrendo; comperiamo la quiete del momento, a prezzo della
felicità, di tutta la vita.
Spinello Spinelli aveva dovuto farsi una famiglia. Non ne sentiva il
bisogno, eppure l'aveva fatta; non per sè, ma per gli altri, cioè a
dire per suo padre, che non avea pace, e per gli amici, che non gli
davano tregua. Ma la sua anima, si era come avvilita in quello sforzo
di obbedienza,
[Footnote 2: Nel testo "XI"] che lo conduceva a bandire perfino la sua
tristezza, quella tristezza che gli era tanto cara, dopo la morte
delle sue speranze giovanili, dopo la distruzione del suo bel sogno
d'amore.
E come se ciò non bastasse ancora, il povero Spinello doveva
contentare suo padre in un'altra cosa, e restituirsi ad Arezzo. Messer
Luca pregava, i maggiorenti della città mandavano inviti su inviti.
In Arezzo, lui! Mai e poi mai. Chiedessero pure i maggiorenti della
città l'opera sua e gli promettessero mari e monti; Spinello non era
avido di ricchezze e di onori; Spinello sarebbe rimasto a Firenze.
Ma un giorno, gli giunse la nuova che suo Padre era infermo. Gli onori
e le ricchezze non c'entravano più per nulla, il suo debito di figlio
lo chiamava in Arezzo. E ci andò, conducendo seco la moglie.
Malinconico ritorno, nel paese in cui si è sofferto! Ma egli bisogna
adattarsi anche a queste dolorose impressioni, e saper rivedere con
animo forte i luoghi delle tristi memorie. Con animo forte! Quando e
fin dove si può. Eravamo avvezzi a vedere quel tratto di paese
popolato dalla immagini della speranza; quella corona di monti
chiudeva tutto ciò che avevamo di più caro nel mondo; quelle mura,
quegli archi, quelle vie, prendevano luce d'allegrezza dal pensiero
che un'amata creatura vedeva con noi la medesima scena e vi respirava
le medesime aure vitali. Ad un tratto, più nulla. Aure, luce,
allegrezza, tutto è sparito; la città e morta, la corona dei monti non
vi dà che lo scheletro ignudo di ciò che amavate. È questa, e non ce
n'è altra, la vera sensazione del vuoto.
A sviare un tratto i dolorosi pensieri, Spinello ebbe le onoranze de'
suoi concittadini. I sessanta che governavano Arezzo, saputo del suo
arrivo, deputarono quattro dei maggiori a muovergli incontro sulla via
di Firenze e gli fecero accoglienze così schiettamente amorevoli, che
avrebbero reso invidioso un trionfatore, tornato pur mo' dagli
splendori del Campidoglio, per ricondursi a più semplici dimostrazioni
di gioia, a Tuscolo, a Lanuvio, ad Arpino.
Messer Luca era meno ammalato di quello che a tutta prima paresse. Ma
fosse stato anche più grave, l'arrivo del figliuol suo, tanto
invocato, lo avrebbe certamente rimesso in salute. Madonna Ghita,
angiolo di bontà (questa giustizia le va resa anche dai divoti di
madonna Fiordalisa), non si spiccò più dal capezzale del vecchio.
Frattanto, i rettori della città erano tutti intorno a messer
Spinello, al valente pittore, e lo richiedevano con gran desiderio
dell'opera sua.
--Vedete, maestro,--gli dicevano, additandogli il San Donato da lui
dipinto nel Duomo vecchio,--quello è il vostro primo lavoro, donde
incominciò la vostra fama. Non farete voi altro per la città che ha
salutato il vostro ingegno nascente?--
Spinello non seppe resistere a tante preghiere, e fece promessa di
trattenersi qualche tempo in Arezzo, per dipingere nel Duomo vecchio,
secondo la richiesta dei massari, una Storia dei Magi.
Ma dopo i massari del Duomo vennero quelli di San Francesco. La chiesa
mancava affatto di affreschi, ed era quella una eccellente occasione
per dar campo all'ingegno di Spinello Spinelli. I Marsupini, ricca
famiglia di Arezzo, ottennero primi che egli dipingesse nella loro
cappella un Papa Onorio, in atto di confermar la regola dei santo
fraticello di Assisi.
Dopo i Marsupini venne la volta dei Bacci. Messer Giuliano Bacci aveva
il patronato di una cappella in San Francesco, e volle che il valente
artista vi dipingesse una Nunziata. A questo nuovo desiderio rispose
prontamente l'opera di Spinello Spinelli, ed anche a quello dei
massari di San Francesco, che vollero un arcangelo San Michele, nella
cappella intitolata al gran giustiziere del cielo.
Lavorava, il povero e glorioso Spinello, lavorava assiduamente ogni
giorno, ma senza che il lavoro lo aiutasse a dimenticare per un'ora il
suo profondo rammarico. L'immagine della bellissima estinta era sempre
davanti agli occhi dell'artefice:
Madonna Fiordalisa, come sapete, era stata seppellita nel chiostro del
Duomo vecchio. Spinello trovò nel suo memore affetto il coraggio di
andare fin là, ad inginocchiarsi sulla pietra che copriva le spoglie
mortali della sua fidanzata, e vi rimase lungamente piangendo e
chiedendo perdono a quell'ombra adorata di aver data la mano ad
un'altra donna.
Gli perdonò Fiordalisa? Ahimè, il povero Spinello non ebbe neanche
quel triste conforto al dolore. Nessuna voce arcana giunse dal regno
della morte alla sua anima afflitta. Fiordalisa era muta, ed egli
sentì più vivo il rimorso di ciò che aveva fatto, per appagare il
desiderio di suo padre. Era poi necessario di appagarlo? E non sarebbe
stalo meglio persuadere messer Luca Spinello che quel matrimonio era
impossibile? Il cuore d'un padre non avrebbe intese le ragioni del
cuore di un figlio?
Abbandonato da quella speranza, l'animo di Spinello Spinelli cadde in
balla dello scoramento. Era malinconico e si buttò al disperato;
desiderava la morte e si compiaceva soltanto nella solitudine, che gli
consentiva di pensare al più bel giorno della sua vita, il giorno in
cui sarebbe cessata ogni sua pena. Lodato a gara da tutti, non dava
retta alle lodi, o mostrava solamente di udirle, per mostrarne
impazienza. Voleva esser lasciato solo, per darsi tutto alle sue
smanie, alle sue alternative di fatica e di lagrime. Infatti, spesso
deponeva i pennelli per piangere; poi rasciugate in fretta le lagrime,
afferrava i pennelli e lavorava a furia, come un uomo che non ha tempo
da perdere. Ineffabile angoscia, quella che non può avere neanche una
lontana speranza di pace, poichè la tregua è solo di là dalla tomba!
Intanto, la religione dei sepolcri si era impossessata dell'animo di
Spinello Spinelli. Quante volte gli era dato di escir solo dal suo
lavoro quotidiano, egli andava nel chiostro del Duomo vecchio, per
inginocchiarsi sulla pietra di madonna Fiordalisa, e ripetere con
pienezza d'affetto la sua triste domanda: mi avete voi perdonato?
Ahimè, povero Spinello! La pietra sepolcrale era muta; la voce arcana,
invocata da lui, non si faceva sentire. Si sarebbe dello che le anime
dei trapassati sdegnassero di vigilare qualche volta sulle ossa
abbandonate, o che la salma di madonna Fiordalisa non fosse là dentro.
Spinello, nel suo disperato dolore, pensò che ella non volesse
ascoltarlo, amando meglio tacere, che dirgli una troppo amara parola.
Infatti, la risposta di Fiordalisa egli se la immaginava qualche
volta, e gliela ripeteva il suo rimorso.--Sei tu che l'hai voluto,
disgraziato; sei tu che l'hai voluto. Di che ti lagni ora, nel tuo
tardo pentimento, e che cosa domandi ad un cuore, che hai contristato
con la tua ingratitudine?--
Per avvicinarsi meglio alla morte, a questo pensiero dominante di chi
non trova più consolazioni nella vita, Spinello Spinelli incominciò
allora a metter l'animo in quelle pratiche di coraggiosa pietà che i
tempi consigliavano ai cuori angustiati. Pareva a lui che l'amante di
una persona morta dovesse pensare più che ad altro agli estinti;
epperò si ascrisse alla confraternita di Santa Maria della
Misericordia.
Non invento nulla; sèguito passo passo il nostro malinconico eroe. La
confraternita della Misericordia, che io accenno qui per necessità del
racconto, era nata da un sentimento di gentile pietà, cresciuto nel
cuore di parecchi buoni ed onorati cittadini d'Arezzo, i quali
andavano attorno, accattando limosine per i poveri vergognosi e per
gl'infermi, vegliavano al capezzale dei moribondi e portavano a
seppellire i trapassati. E Spinello, essendo entrato a far parte della
compagnia, andava anche lui con la tasca al collo e il martello di
legno in mano, picchiando all'uscio dei ricchi, ed entrava nelle case
visitate dalla morte, per recarsi sulle spalle i cadaveri. La cosa non
era senza un grave pericolo, perchè allora la peste entrava di sovente
nelle mura indifese delle città italiane, e quell'ufficio di
misericordia, era una vera e propria milizia per gli animosi
spregiatori della morte, o per coloro che amassero dissimulare con un
debito di carità cristiana il tedio dell'esistenza.
Di queste nobili cure il valoroso artefice aveva più lode in Arezzo,
che non delle stupende tavole dipinto senza compenso per l'oratorio
della confraternita, a cui, tra l'altre cose, una bella invenzione
artistica, di Spinello, destando gli spiriti caritatevoli dei
facoltosi aretini, aveva grandemente accresciute le entrate, e per
conseguenza le forze necessaria ad operare il bene. Della quale
invenzione io vi dirò solamente questo: che egli dipinse sulla
facciata della chiesa dei Santi Laurentino e Pergentino una Madonna,
che, avendo aperti davanti i lembi del mantello, vi raccoglieva sotto
il popolo di Arezzo, nel quale si scorgevano molti uomini tra i primi
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