Arrigo il savio - 05

Süzlärneñ gomumi sanı 4538
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1643
38.2 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
55.2 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
63.0 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
contentezza, poichè il suo martirio era sul punto di finire.
— Scusate! — diss'egli, interrompendo il discorso e mettendo avanti le
mani, per allontanare il noioso. — Vedo mia figlia, che mi cerca. Ah! —
soggiunse, osservando meglio il cavaliere di Gabriella. — Sei tu,
veramente?
E corse incontro a Cesare Gonzaga, che aveva riconosciuto, ad onta degli
anni molti, da cui erano abbastanza mutati ambedue.
— Qua, qua, tra le mia braccia! — proseguì il senatore Manfredi,
stringendo al petto l'amico della sua giovinezza. — Venivo, sai, venivo
questa sera all'albergo; ma il conte di Castelbianco mi ha detto che tu
dovevi capitare da lui, e sono rimasto qui ad aspettarti. Cesare... mio
buon Cesare! —
E lo abbracciava ancora, e lo ribaciava sulle gote.
— È un brutto momento, Andrea, un brutto momento! — disse, con voce
soffocata dalla commozione, il Gonzaga. — Ho fatto troppo a fidanza con
le mie forze. Era meglio che ci vedessimo altrove.
— Siamo quasi soli; — rispose il Manfredi. — Là dentro si balla, e noi,
qui in disparte... piangeremo come due ragazzi, non è vero?
— Eh, questo temevo, e ora si dà spettacolo, Andrea! Quanti anni
passati! Il meglio della nostra vita, senza vederci! E tua figlia, la
tua Gabriella, che angiolo!...
— Sua madre, vedi! Lo hai notato anche tu, che è tutta sua madre? Ed io
debbo amarla due volte, questa cara figliuola. —
La cara figliuola stava lì ritta, guardando quei due amici lagrimosi,
ch'ella era così felice di poter confondere in una sola ammirazione, in
una sola tenerezza. Ma essa, nella postura in cui era, aveva anche gli
occhi verso lo specchio, e quella perfida lastra le offerse l'immagine
del suo ballerino, ritto impalato dietro le sue spalle, come un
Mefistofele burlesco, venuto a rammentarle l'adempimento di un patto. E
si volse, la cara figliuola, non senza un pochino di stizza, quasi
volesse dirgli col gesto: — Ma ella vede, Dio buono, che ci ho altro da
fare?
— Signorina, — disse il ballerino, ossequioso nell'atto, ma inflessibile
nel proposito, sono sempre a' suoi ordini. Aspetterò, non s'incomodi. —
Gabriella fece un atto d'impazienza, ma tutto interiore, e, veduto che
non c'era verso di liberarsi, prese l'eroica risoluzione di vuotare il
calice amaro in un sorso.
— No, — rispose allora, — vengo subito. Badi, signor Cesare, — proseguì,
rivolgendosi al Gonzaga, — appena finito questo valzer, vengo a
discorrere con lei. Dev'essere questa sera il mio cavaliere.
— Antico; — rispose il Gonzaga. — Ma non dubiti, bella dama, non mi
muovo di qui, fino a tanto ella non venga a levarmi di sentinella.
— Perchè darle del lei? — disse il Manfredi.
— Che vuoi? Non l'ho mica vista bambina.
— Ragione di più per rifartene ora!
— Babbo dice benissimo; — disse Gabriella, prima di allontanarsi. — Ma
fra poco ne riparleremo. —
E andò, la cara fanciulla, andò nella sala da ballo, voltandosi ancora
una volta indietro, prima di lanciarsi nel vortice proverbiale della
danza. Il ballerino, di tanto in tanto, provò a collocare qualcheduna
delle solite frasi; ma Gabriella era distratta e rispondeva a
monosillabi. Finalmente, saltò in testa al ballerino di dirle:
— È ancora un bel cavaliere, quel marchese Gonzaga! —
Per quella volta la fanciulla si scosse, e rispose con una frase
intiera:
— È il re dei cavalieri, senza macchia e senza paura. —
Il ballerino non soggiunse più altro. Aveva da ballare e ballò
coscienziosamente, tanto da poter dire per una settimana, al caffè, nei
soliti ritrovi de' suoi giovani amici: — Il primo valzer della serata,
dai Castelbianco, l'ho ballato con la Manfredi, con la più bella ragazza
di Roma. —
I due amici erano rimasti nella galleria, finalmente soli, perchè il
primo seccatore del Regno, vedendo di non poter riattaccare il suo
discorso sulle proprietà del solfato di chinina, era andato a cercare
un'altra vittima; _sicut leo rugiens..._ con quello che segue.
— Lascia che io ti guardi ancora; — diceva il Manfredi; — così, nel
bianco degli occhi. Come sei sempre giovine e forte! Io, vedi, sono una
rovina.
— Eh, via! I capegli un tantino più bianchi de' miei, ecco tutto; —
rispose il Gonzaga.
— Aggiungi un'anima accasciata, Cesare mio. Dopo la morte di Lorenza...
avvenuta sei anni fa! e il mio dolore è acerbo ancora, come se l'avessi
perduta ieri. Ti rattristo, coi miei discorsi, lo so; ma oggi, che vuoi?
oggi è un lutto comune. Trentatrè anni fa, era un dolore tuo, che tu hai
sopportato virilmente, mio povero amico! Che fuga è stata la tua, e come
il tuo sacrifizio è stato inteso da noi! Perchè, infine, tu hai
rinunziato alla famiglia, alla patria, a tutte le soddisfazioni, a tutti
i conforti che potevi giustamente sperare. Ti amavo, lo sai, ti amavo
come un fratello! Ma ti ho amato anche di più, pensando che tu eri più
grande, più generoso di me, e che io non avrei saputo fare quello che
hai fatto tu, con tanta semplicità, con tanto eroismo. Sì, lasciami dire
tutto quello che io penso di te, e che ho dovuto tener chiuso qua
dentro, senza neanche sperare che avrei potuto dirtelo un giorno. Senti,
Cesare, amico e fratello mio, se mi fosse dato di versare per te fin
l'ultima goccia di sangue, ancora non mi parrebbe di averti pagato il
mio debito di riconoscenza.
— Sempre lo stesso entusiasmo! — esclamò Cesare Gonzaga. — E sei un
banchiere!
— Sì, un banchiere, ma che per ciò? Ho seguita la via de' miei vecchi;
ma il cuore non ha potuto mutarsi. Veramente, — soggiunse il Manfredi, —
per i tempi che corrono, mi sono ingegnato di nasconderlo, come si
nascondono i tesori e i difetti, o le virtù che fanno ridere. Che
giorni, amico mio! E come ce l'hanno barattata fra le mani, questa
patria, che avevamo immaginato di far così grande e così bella! Va tutto
alla peggio, sai, e la nuova generazione non ci affida di giorni
migliori. Penso spesso al vecchio di Orazio, per dar torto al mio
pessimismo; e non mi riesce, pur troppo! Noi brontoloni, forse, ma con
la fiamma dell'ideale nell'anima; i nostri successori, più ameni, più
graziosi, più dotti, anche più esperti; ma a conto loro e per le loro
ambizioni; ma senza il menomo pensiero di un gran debito morale e
politico nella coscienza. Vedo io troppo nero? Non so; ma questo è certo
e fuor di questione, che i giovani d'oggidì non mi aiutano punto a
vederci più chiaro. —
Cesare Gonzaga non poteva, per parte sua, dargli torto. Ma quella
intemerata del suo vecchio amico gli veniva proprio in mal punto, e
pareva fatta a posta per levargli il coraggio.
— E sia; — diss'egli, andando risoluto incontro alla difficoltà; — non
amiamo i giovani. Ma tu, almeno amerai mio nipote.
— Il Valenti? Questa sera soltanto, e dal conte di Castelbianco, ho
saputo che il cavalier Valenti è tuo nipote. È ricco, ed anche esperto
negli affari; farà molto cammino. È uno dei fortunati del giorno.
— Ma è anche un giovane d'onore; — disse il Gonzaga, che aveva colto a
volo il sarcasmo. — Non siamo noi troppo severi, Andrea? L'hai detto tu
stesso, ricordando il vecchio d'Orazio. Poveri giovani! Abbiamo fatto
tante sciocchezze noi altri, ed essi non vogliono imitarci. Via, non
esser troppo rigoroso coi giovani esperti e savi, se, un po' più presto
che non abbiamo fatto noi, si mettono a combattere con accortezza di
vecchi capitani la gran battaglia della vita.
— Senti, io ti parlo schietto; — rispose il Manfredi. — Amo la gente
seria, ma mi piace che ognuno abbia i pregi, e, se vuoi, anche i difetti
della sua età. Siano i vecchi temperati ed accorti, siano ardenti i
giovani, ed anche un pochettino ingenui. Ora, che cosa t'ho a dire di
più? Quel cavalier Valenti, per la sua età, mi pare un fenomeno, un
prodigio di vecchiaia. Tanta esperienza, con quel sorriso angelico, in
fede mia, è piuttosto fatta per allontanare, che non per attrarre la
simpatia di un uomo come me. Ti dispiace?
— Sì, e molto... perchè dianzi, tenendo a braccetto Gabriella,
vagheggiavo un certo disegno!...
— Un disegno? Così presto?
— Eh, caro mio, non me l'hai forse detto tu, proprio tu, che io debbo
rifarmi del tempo perduto? Stringere un po' più saldamente i vincoli che
ci uniscono, è oggi il mio desiderio più vivo, e, direi quasi, l'unico
desiderio ch'io mi abbia. Arrigo, che ti è sembrato così serio e
calcolatore, non è freddo che alla superficie. Io l'ho studiato, questa
mattina, e posso aggiungere che gli ho dato un esame in piena regola.
Non si nasce mica perfetti a questo mondo! Vedi, Andrea. Tu devi usarmi
la cortesia di rifare con me lo studio di quel carattere, spogliandoti
di tutte le tue antipatie....
— Antipatie, no; — interruppe il Manfredi; — l'uomo savio non ne ha mai,
e l'uomo non savio, quando è giunto alla mia età, non ne ha più.
— Diciamo dunque le tue idee prestabilite; — riprese il Gonzaga. — Tu
devi lasciarle un momento in disparte, per considerare con me la
giovinezza di Arrigo. Quel povero ragazzo si è trovato solo, nel mondo,
a combattere; più che imparare a custodirsi da certe intemperanze
dell'età, è stato costretto dal bisogno a moderarsi, ad osservare, a
scegliere la sua via. Ti è mai occorso di vedere dei saltatori, che per
aver calcolata troppo lunga una distanza, o anche per assicurarsi contro
i pericoli di una caduta nel vuoto, prendessero una rincorsa maggiore
del bisogno, e, nell'impeto, nello slancio del salto, varcassero il
segno? Così e non altrimenti il mio povero Arrigo; ha fatto maggior
provvista di forze che non bisognasse al caso suo. Doveva esser più
giovane, egli, che non aveva tempo da perdere nei giuochi e nelle follie
dell'età? meno accorto, egli, che dubitava d'inciampare ai primi passi?
Ha diffidato, ha temuto; ma era onesta la sua diffidenza, rispettabile
il suo timore. Quasi si potrebbe esclamare: _o felix culpa!_ poichè
questa esagerazione di sforzo lo ha condotto alla ricchezza: ma questo
ragionamento utilitario sarebbe indegno di me, che ti parlo, di te, che
mi ascolti, e finalmente di lui, che ha lavorato con coscienza, avendo
solamente il torto, lui giovane, di non aspettare la visita e i sorrisi
di madonna Fortuna. Egli le è andato incontro, l'ha circuita, vinta e
incatenata, sempre per eccesso di precauzioni, per esagerazione di
sforzo. Poveraccio! Ma egli è più giovane che tu non creda; ha una retta
coscienza ed un cuore ardente, sotto quell'apparenza di freddezza e di
calcolo. Ti basti questo: che egli mi ha confessato stamane di essere
fieramente innamorato di tua figlia.
— Fieramente! Dici da senno?
— Non ne dubitare, ti prego. Egli lo ha confessato a modo suo, senza
abbondanza di parole, con una di quelle frasi concise e risolute, con
uno di quegli scatti, di quei lampi, che ti fan leggere nei più riposti
segreti di un cuore. Riconosci, mio caro Andrea, che ti eri ingannato
sul conto suo. E non potresti anche ammettere che Arrigo avesse lavorato
con tanta accortezza a formarsi uno stato, per potersi presentare più
sicuramente a te, con più fondata speranza di essere accettato per
genero? Ah, vedi? Ti carico alla baionetta. Ma che vuoi? Amo quel
ragazzo, che somiglia tanto a sua madre, alla mia povera sorella... e
vorrei vederlo felice. Or dunque, amico, la tua risposta! Senatore, il
tuo voto!
— Sarà un voto condizionale, — rispose il Manfredi, che non potè
trattenersi dal ridere. — In questo caso io non vorrei far nulla, senza
avere udito il pensiero di mia figlia.
— È giusto. Ma se tu mi permettessi di parlarne frattanto a lei, con
garbo, si capisce, e con la debita prudenza....
— Sei padrone di farlo. Non subito, per altro; non alla baionetta, come
hai fatto con me.
— Oh, non aver timore; troverò il momento opportuno. E poi, si tratta di
un negozio delicatissimo; non ne parleremo una volta soltanto. Se il mio
Arrigo ha dei difetti, dovrà anche lavorare di buona voglia a levarseli.
Gabriella è una creatura divina: non si conquista come la fortuna;
bisognerà meritarla.
— Tu, ora, guasti il babbo, Cesare mio! — disse il Manfredi, afferrando
la mano del Gonzaga e stringendola fortemente tra le sue. — Non guastare
anche la figlia, con le tue lodi soverchie.
— Che lodi! Che soverchi... e che coperchi! Io l'adoro, — replicò il
Gonzaga, — e voglio, vedi che bella pretesa! voglio che mi ami, come ama
te.
— Mi pare che sia una cosa già fatta; — rispose il Manfredi. — Vedila
qua, che ritorna. —
Gabriella appariva in quel punto, classica figura biancheggiante tra il
verde delle felci e delle latanie borboniche, con le sue belle guance
imporporate dagli ardori della danza. Il ballerino (dobbiamo rendere
questo omaggio alla verità) possedeva la sua arte, corrispondeva
perfettamente a tutti gli obblighi dell'ufficio. Si poteva non trovar
nulla da rispondere ai suoi sciocchi discorsi, ma si doveva aver
confidenza in lui, quando incominciava a muover le gambe; bisognava
abbandonarsi al vortice, descrivere le curve più violente e più rapide,
trattenuti e lanciati ad un tempo da un polso d'acciaio, girando come un
eccentrico sopra un asse ideale di rotazione, e fuori del centro di
figura. Ricordi matematici, andate via! Il ballerino condusse la
signorina Manfredi dov'ella voleva, allargò il braccio, fece un inchino,
e via anche lui, mentre la fanciulla, resogli il saluto con un cenno del
capo, riprendeva il braccio di Cesare Gonzaga.
— L'avete veramente conquistata! — notò la contessa di Castelbianco, che
passava allora, al braccio del conte Guidi.
— Come vedete, contessa; — rispose il Gonzaga, accogliendo con un
sorriso la celia garbata. — E son venuto di lontano assai, come tutti i
grandi conquistatori. —
Cinque minuti dopo, una grande notizia si spandeva per tutto quel
piccolo mondo di dame frivole e di cavalierini leggieri. Il ballerino ne
aveva buttato là il germe, il nocciolo, l'embrione, senza dare
importanza alla cosa, più per vezzo di chiacchiera che per isfogo di
malumore, e tutti ci avevano lavorato intorno, aggiungendo, sottraendo,
lisciando, adattando. S'era formata come i diacciuoli, sospesi alle
gronde dei tetti, quando una goccia d'acqua si rappiglia, un'altra la
segue, e via via di goccia in goccia si forma il candelotto; poi l'aria
ci si trastulla dattorno, accarezzando, operando di ricamo, di
filettatura, di traforo, di cesello e di sbalzo, questo ottenendo coi
caldi e quello coi freddi, secondo i capricci e i bisogni, come farebbe
un orefice.
Or dunque, ecco qua: il ballerino aveva dovuto conquistare la sua dama,
seguendola pazientemente qua e là per le sale, e finalmente strapparla
reluttante dal braccio dell'indiano; dopo averla conquistata, non era
riescito a farla parlare che in grazia di una lode accortamente data
all'indiano, da lei subito battezzato, con insolita energia d'accento,
il cavalier senza macchia e senza paura. Ma il valzer era finito, e la
dama, che aveva data la posta al suo Baiardo dai baffi grigi, era corsa
a cercarlo, a riprendere il suo braccio. Baiardo non era poi vecchio, e
ad onta di quei baffi grigi poteva sostenere il paragone con molti
giovani, forte, fiorente e maestoso come appariva agli occhi di tutti.
Aggiungete che ritornava dal Bengala, dove si era arricchito (insinuava
destramente il Ceprani) facendo la guerra agli Indù; che doveva aver
posseduto il cuore di qualche improvvida Rani, ottenendone i diamanti e
cedendone il principato agli Inglesi; ragione per cui aveva potuto
ritornarsene parecchie volte milionario in Europa. Il riccone, il
_nabab_, appena giunto in Roma, conquistava tutti i cuori, faceva girare
tutte le teste; oramai non aveva da far altro che gittare il fazzoletto,
poichè tutte le dame si erano invaghite di lui, incominciando da quella
stupenda ragazza, il cui babbo, uomo serio e di salda riputazione, era
addirittura incantato, e copriva coi ricordi di un'antica amicizia il
desiderio smanioso d'imparentarsi con lui. Ed anche era facile intendere
la preferenza dell'indiano. Questi vecchi gagliardi, per solito,
s'innamorano delle fanciulle, e non apprezzano la bellezza se non è
fresca, come la rosa, delle sue prime rugiade. La fanciulla, dal canto
suo, aveva sentito il fàscino e gradito l'omaggio del principe indiano;
egli aveva gittato il fazzoletto, ed essa aveva lasciato cadere il
tulipano, indizio e promessa di un amore violento. E poc'anzi, dopo il
valzer ballato di mala voglia, non aveva essa rifiutato di ballare una
polca con un altro fra i più brillanti cavalieri della festa, adducendo
a sua scusa che si sentiva un po' stanca? Stanca una fanciulla ai primi
balli, eh via! I _lanciers_, almeno, non l'avrebbero affaticata: ma i
_lanciers_ (vedete che caso!) li aveva già impegnati con Cesare Gonzaga.
Immaginate i commenti! Si sarebbe veduto il sultano eseguire le
riverenze, l'avanti e indietro, le diagonali e tutti gli altri passi a
contrattempo, che fanno dei _lanciers_ la confusione più amena e la cosa
più buffa del mondo.
Immaginate altresì lo stupore, dapprima, e poi la stizza del conte
Guidi. Era un tipo curioso, quel conte senza contea. Egli regolarmente
andava in tutte le conversazioni, in tutte le feste, dove il suo titolo
e la sua eleganza potevano renderlo accetto, e amava ogni stagione un
paio di ragazze, con preferenza spiccata per le più ricche borghesi, e,
tra queste, per le figlie uniche. Il bel giovane serio, gran cavaliere,
parlatore discreto ed efficace a quattr'occhi, non amante delle arguzie,
nè dei discorsi chiassosi, solamente disposto a sorrider breve quando
sentiva le arguzie e i motti festosi degli altri, faceva allora il suo
giuoco doppio. O vinceva la partita, e collocava la sua corona di nove
perle sopra un sacco di napoleoni; o la perdeva, e restava con l'aureola
di amante sfortunato, ma rispettabile e degno di consolazioni. Qual
donna non doveva essergli riconoscente, sapendo di essere stata la sua
prima e infelicissima fiamma? Ci sono tanti tesori di pietà, nel cuore
di una donna, e si spargono così facilmente, quando la donna è
inesperta! Perchè non crederebbe ella, infine, alla sincerità di un
affetto che si manifestò nelle forme più nobili quando ella era libera,
e che non ebbe esito felice per colpa di circostanze malaugurate, non
imputabili a lui?
E Arrigo, frattanto? Arrigo non sentiva nulla, non si accorgeva, non si
dava pensiero di nulla. Era andato nella sala di lettura a fumare una
spagnoletta e a leggere gli ultimi telegrammi e il listino della Borsa,
pronta cagione di parecchie operazioni aritmetiche mentali. Era fastidio
delle piccole vanità della festa, o sicurezza del fatto suo? Ci è
permesso di accogliere quest'ultima supposizione, senza rinunziare
intieramente alla prima. Arrigo si era avvicinato una volta sola, nel
corso della serata, alla gentil Gabriella, e aveva anche ottenuta la
ricompensa di un sorriso, forse il primo sorriso aperto e sincero, del
quale egli poteva chiamarsi debitore alla notizia, saputa quella
medesima sera da Gabriella, ch'egli era il nipote di suo zio. Ma egli
era un nipote così amato, e così pienamente consapevole di essere
aiutato, che potè rispondere con una cert'aria trionfale a quel sorriso
amorevole, ritenendosi dal chieder l'onore del solito giro di valzer, di
polca, o d'altra figura e tempo di ballo. Già, egli aveva sempre ballato
poco, e quell'anno, poi, non ballava più affatto. Un cavaliere,
figuratevi! Inoltre, quella sera, mentre un forte guerriero teneva il
campo per lui, egli doveva stare più che mai riguardoso. Era fresca la
scena in cui una povera donna confusa, amante ancora e pentita, più
bisognosa forse di essere consolata che esaudita, era rimasta colpita
dalla sua insigne freddezza, e, senza avere ottenuto da lui il conforto
di una parola calda, di una lagrima generosa, aveva dovuto riprendere la
sua via, in mezzo alle solite ansietà, ai soliti pericoli, sdegnata con
lui, ma più ancora con sè medesima!
Dopo i famosi _lanciers_, in cui Cesare Gonzaga non si era mostrato
niente più impacciato di tanti altri personaggi eminenti, che qualche
volta debbono pure mescolarsi in queste difficili imprese della
frivolezza elegante, la povera contessa entrò nella sala di lettura, e
trovò modo, passando, di gittare alcune parole all'orecchio di Arrigo,
mentre negli atti e nel sorriso mostrava di dirgli una frase gentile,
come è l'uso e l'obbligo delle padrone di casa.
— Egli sospetta, badate. Sono stata veduta per via, e devo solamente al
caso....
— Lo so; — rispose Arrigo, imitando la sua mimica prudente. — Non vi
esponete, vi prego. —
E fatto un inchino, riprese a leggere il giornale che aveva tra le mani.
Ferita al cuore da quel freddo “lo so„ la contessa era andata più oltre,
nel vano di una finestra, dove un altro de' suoi convitati, uomo maturo
e stracco, tirava le ultime boccate di fumo da un autentico e profumato
Manilla. A tempo, fortunatamente, poichè, a farlo apposta, il conte
Pompeo entrava allora, insieme col Gonzaga, nella sala di lettura.
— Ah, bene; benissimo! — esclamò il conte Pompeo. — Ecco qui il nostro
cavaliere, che legge il listino della Borsa. Quando lo dico, io, che non
ci sono più giovani! Abbiamo dovuto ballar noi. Due bei lancieri per
altro! —
Arrigo sorrise, approvando, e rimase a discorrere con lo zio, mentre il
conte Pompeo, cutrettola eterna, saltellava verso sua moglie, che aveva
preso il braccio del fumatore solitario, e lo trascinava con sè, molto
maravigliato, anzi a dirittura rintontito, dai suoi graziosi discorsi.
— Perchè ti nascondi, Arrigo? — disse il Gonzaga al nipote. — Io ho
fatto finora tutto quanto ho potuto, passeggiando, tenendo a braccetto,
perfino ballando, per essere fedele alla consegna. Ma ogni bel giuoco,
lo sai, dura poco, ed io ho dovuto lasciare, per un quarto d'ora almeno,
la divina Gabriella.
— Ah! ti piace?
— Moltissimo; e perciò, vincendo un certo rimorso che mi aveva preso per
una povera donna, approvo pienamente la tua scelta. Vi voglio alle
Carpinete per questa primavera.
— Come corri! — esclamò il giovane. — Tu ti fai già in tasca il
contratto.
— In tasca, no; — rispose lo zio, rabbruscato; — in tasca io ci ho
solamente le cose che mi dispiacciono. Bada, Arrigo, mentre tu stai qui
a ragionare con tanta povertà di linguaggio, un altro si è fatto avanti.
E pareva non aspettasse altro che di vedermi muovere, il bellimbusto! Un
elegante, un tenebroso, tutto languori con le dame, e occhiate spavalde
coi cavalieri! A me, anzi, ne ha date parecchie, che volevano passarmi
fuor fuori.
— Ah, capisco, il conte Guidi.
— Sarà lui. Stamane, infatti, mi hai detto che quello che ti dava noia
era un conte.
— Noia, sì e no. Il fatto è questo, che io non lo temo. È uno di quei
vanerelli, tutti infatuati di sè, che sgallettano intorno a tutte le
ragazze ben dotate, e non possono sperar nulla, perchè non hanno la
croce d'un quattrino.
— Temili, ragazzo mio, questi cavalieri disperati. Chi li distingue ora
dai ricchi? Essi rimediano alla mancanza del milioncino con le belle
maniere, col sentimento, con la poesia, imparaticcia se vuoi, ma
egualmente pericolosa. Questi rivali bisogna batterli nel loro campo.
— Fammi Gonzaga, e trionfo senza combattere.
— Farti Gonzaga! Eh, vedo la coda del tuo ragionamento. Un'adozione?
— Non sono io il tuo unico parente? — disse Arrigo, incalzando. — Non mi
ami tu come un figlio? E i Gonzaga di Luzzara hanno da spegnersi anche
nel nome?
— Senti! mi ci fai pensare; — rispose lo zio. — Ma questo è anche un
curioso momento, per dirmelo!
— Si dice una cosa quando viene in taglio; — rispose Arrigo, niente
sconcertato dalla osservazione dello zio. — Quanto al Guidi, io dormo
tra due guanciali. Le ragazze, al dì d'oggi, vogliono ben altro che
sospiri e grullerie da medio evo!
— Lo vedi? Io ne ho una opinione diversa; almeno di Gabriella; — replicò
gravemente il Gonzaga.
— Ebbene, ecco che lei, per intanto, ti dà una graziosa mentita; — disse
Arrigo, ridendo. — Gabriella non è stata a sentire i madrigali del conte
Guidi.
— Come lo sai, stando qua?
— Stando qua, vedo il temuto rivale che s'avanza, dietro a te, in
compagnia di due altri sciocchi suoi pari.
— Tanto meglio; — disse il Gonzaga. — Allora fammi una giravolta sui
tacchi, da bravo soldatino, e va in sentinella un po' tu. Finalmente, si
tratta della tua felicità.
— Non è conveniente, ora; — rispose Arrigo. — Se quell'altra mi
vede!...
— Quell'altra, ahimè! — disse il Gonzaga in cuor suo. — Così le
chiamiamo, quando tutto è finito. —
E sospirò, il povero filosofo, che dei suoi nobili insegnamenti non
vedeva alcun frutto.


VIII.

Come mai il conte Guidi era venuto via da un colloquio, così lungamente
sospirato? La cosa, che parrà strana ai lettori, dev'esser chiarita da
noi.
Il conte Guidi si era avvicinato a Gabriella Manfredi, approfittando
dell'obbligo di cortesia in cui aveva posto il Gonzaga l'avvicinarsi
della baronessa di Gleisenthal, pur dianzi sua vicina di sinistra nei
famosi lanciers. Anche il Guidi, come altri parecchi, aveva chiesto a
Gabriella il solito onore del solito giro di non so qual ballo che
doveva seguire, ed anche a lui quell'altissimo onore era stato negato.
Gabriella, per quella sera, non ballava più. La signorina Manfredi era
in una insolita e bizzarra condizione di spirito, nella quale un
osservatore della “scuola ereditaria„ avrebbe trovato una eccellente
occasione per dimostrare che in lei operava il sangue di sua madre. Noi,
più timidi in materia di asserzioni, vi diremo semplicemente che
Gabriella Manfredi era commossa, turbata, soggiogata da quel fiero e
nobile uomo, il quale da tanti anni era tipico in casa sua, e quasi
leggendario per lei.
Nelle famiglie qualche volta ci sono, questi numi tutelari e viventi,
immagini rispettate e care di amici lontani nello spazio e nel tempo, a
cui si ricorre col pensiero nei momenti solenni, di cui si citano i
detti memorabili e le azioni virtuose, come se già si trattasse di
uomini che la morte ha consacrati e la storia circondati di una aureola
luminosa. “Questo egli disse, questo egli fece; conformatevi all'esempio
di valor singolare, di onestà incomparabile, di sacrificio sublime„;
ecco l'ammonimento dei vecchi, che nel ricordo dell'amico venerato si
sentono riviver essi medesimi con la loro fiorente giovinezza, e si
dànno con lui in gradito spettacolo alla ammirazione dei figli.
Di Cesare Gonzaga, nelle sue prime relazioni coi Manfredi, noi sappiamo
ancora troppo poco. Gabriella non ne sapeva quasi nulla; ma lo aveva
sentito citar sempre come un eroe, e quell'eroe, che ella vedeva
finalmente, corrispondeva nell'aspetto e nei modi al tipo ch'ella, fin
da bambina, se ne era foggiata nell'anima. Egli era anche bello di una
forte bellezza, e perfino quei capegli grigi tagliati corti, tirati
indietro alla soldatesca, non riescivano a farlo parer vecchio, poichè
il bronzeo color della pelle, prendendo risalto da essi, mostrava la
pienezza e la maestà della forza. Gli occhi di Cesare Gonzaga, azzurri
nella pupilla, biancheggiavano vivaci nel globo, con riflessi e
luccicori di madreperla. A guardarli, ci si vedeva la dolcezza e la
serenità di un bambino; ma quando li girava intorno, luminosi,
iridescenti sul fosco della carnagione, parevano metter faville, ed
erano gli occhi di un forte. Gabriella Manfredi ne fu soggiogata. La
bontà nella forza è sempre piaciuta in singolar modo alle donne; e
Gabriella amava già in quell'uomo forte e buono il primo amico di suo
padre, il tipo di cavaliere perfetto ricordato da sua madre.
Il conte Guidi, come vedete, capitava in mal punto anche lui. Alla
contessa Giovanna, la signorina Manfredi aveva confessato di studiare
quel giovanotto, che le era parso un po' diverso dagli altri; ma in
verità aveva confessato più del vero. Per allora non lo studiava più. Si
studia volentieri quando si ha libero lo spirito, e questo lo sanno
benissimo tutti coloro che non hanno perduta quella onesta consuetudine.
E non solo ella aveva smesso di studiare il conte Guidi; ma egli le era
diventato di punto in bianco.... Come s'ha a dire? Via, diciamo
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Çirattagı - Arrigo il savio - 06
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