Arrigo il savio - 07

Süzlärneñ gomumi sanı 4431
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1450
42.5 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
59.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
66.6 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
— Illustrissimo, è giunto il padrone.
— Solo?
— Col signor Ceprani.
— Ah diavolo! Ma già, si capisce, doveva venire insieme. Signora, io
esco, per andare a sentire questi due, ed anche per tirarli in un'altra
camera, più lontana di qui. Ella esca liberamente, e vada ad aspettarmi
da _madame Duplessis_.
— Signor Cesare, come le dimostrerò io la mia gratitudine?
— Le risponderò come _madame Duplessis_; — disse il Gonzaga, sorridendo.
— Questo è un servizio molto grande, e non ha prezzo. Piuttosto non mi
tradisca... non mi rinneghi, con la mercantessa di mode, dopo che io ho
dovuto inventare quella frottola... e ne arrossisco tuttavia. —
Quando il signor Cesare Gonzaga escì dalla camera, Arrigo, seguito dal
Ceprani, stava per entrare nella sala vicina, non badando alle occhiate
di Happy, che voleva trattenerlo. Il Gonzaga giunse in tempo per
costringerlo a ritornare indietro, impedendogli di sentire il rumore che
nelle stanze attigue faceva _madame Duplessis_, con le sue scatole e
casse di mercanzia.
Orazio Ceprani diede una lunga occhiata di curiosità a quella parte del
quartiere di Arrigo, nella quale non era mai penetrato, ma ritornò
anch'egli indietro, precedendo il Gonzaga, che faceva per allora da
padrone di casa, e voleva ad ogni costo esser l'ultimo.
Come fu nella stanza vicina, che era la sala da pranzo, il vecchio
soldato diede una rifiatata di contentezza.
— Dunque, zio, eccoci qua; — disse Arrigo. — Torniamo ora dalla nostra
missione.
— Scusami, ora ne parleremo; — rispose il Gonzaga. — Ho dimenticato una
lettera incominciata.
— Lasciala pure; Happy è un uomo scrupolosissimo.
— Sì, ma le lettere non suggellate debbono ad ogni modo essere chiuse.
Vado e torno. —
Ed escì, ma non per andare a chiudere la lettera, bensì per aver modo di
ritornare indietro, e chiuder l'uscio di comunicazione, senza aver
l'aria di usar precauzioni davanti ad un terzo.
— Vedi che uomo è mio zio! — disse Arrigo al Ceprani. — Ha una quistione
d'onore, non sa ancora che cosa gli abbiamo combinato, e, scambio di
domandarci notizie, va a chiudere una lettera dimenticata sul tavolino.
— Tuo zio opera da uomo prudente; — rispose il Ceprani, che non
immaginava neanche lui di parlar così giusto.
Il Gonzaga ritornò, richiuse dietro a sè l'uscio di comunicazione con
l'aria più naturale del mondo, e venne incontro ai due giovani.
— Eccomi qua; — diss'egli; — parlate. A che ora si parte per il campo
della gloria?


X.

Arrigo, lì per lì, non avrebbe saputo da qual parte incominciare; ma la
domanda dello zio gli dettò la risposta.
— Non si parte; — diss'egli.
Cesare Gonzaga, che si era seduto allora allora, balzò dalla scranna,
ficcando gli occhi addosso al nipote.
— Che? Come? Che hai detto?
— Che non si parte, per ora, e molto probabilmente non si partirà più.
Per noi, vediamo la faccenda accomodata.
— Ac... co....
— ....modata, sicuro. È la mia opinione, ed anche quella di Orazio, come
degli altri padrini.
— Sarei curioso di sapere in che modo.
— È troppo giusto; — rispose Arrigo. — E tu vedrai che le cose sono
precedute nei termini della più stretta cavalleria. Ci siamo abboccati
coi signori barone di Gleisenthal e duca di Roccastillosa; due bravi
giovani, che a tutta prima stavano molto tirati, ma, quando noi abbiamo
detto loro di esser pronti a scendere sul terreno, ci son divenuti di
pasta frolla. Si era venuti alla scelta delle armi. “Chi è lo
sfidatore?„ ci siamo domandati a vicenda.
— Io, perbacco! — interruppe il Gonzaga.
— E questa tesi sostenemmo noi. Ma essi dimostravano di essersi avanzati
primi a cercare di noi. Ad ogni modo, perchè noi volevamo essere gli
sfidatori, ma lasciavamo a loro la scelta delle armi, essi dovettero
riconoscere la delicatezza nostra, di voler vincere un punto, ma senza
trarne veruna conseguenza a noi vantaggiosa. Per altro, ci han detto, e
non senza ragione: “Si può egli accettare un simile atto di cortesia?
non sarebbe meglio che, lasciando da parte sfidati e sfidatori,
mettessimo la quistione sul vero terreno suo, tra provocati e
provocatori? Stabiliamo chi ha provocato; e se tutti e due i nostri
primi hanno avuto in questo la parte loro, stabiliamo da qual lato fosse
la provocazione più grave.„
— E allora? — chiese il Gonzaga.
— Allora venne il battibecco, e non fu possibile, con tutta la miglior
volontà di questo mondo, non fu possibile intenderci sul maggiore o
minor grado imputabile all'uno dei due.
— Ma io lasciavo al mio avversario la scelta delle armi.
— È vero, ma essi notarono e noi non potemmo negare, che questo era un
regalo. Ora, i regali si possono accettare e non accettare. Ricusando il
nostro, e con parole molto gentili, obbligavano noi a molta cortesia di
contraccambio. A fartela breve, non si stabilì chi fosse il provocatore,
e si passò all'esame coscienzioso delle parole che erano state dette da
una parte e dall'altra. Orazio Ceprani le aveva udite; e anch'io, che ti
ero vicino, ma che, come parente, non volli neanche aggiungere la mia
testimonianza. Dal canto loro, le aveva udite il duchino, e lui e Orazio
trovandosi d'accordo nelle frasi, furono anche d'accordo nel trovare che
c'era ben poco; donde la conseguenza, onestamente ammessa da tutti, che
il duello nasceva da un malinteso. Il conte Guidi, del resto, non aveva
nessuna intenzione di offenderti, ed essi lo hanno lasciato capire.
— Avranno allora ritirato in nome suo le parole offensive, o, secondo la
vostra comune ermeneutica, di dubbio significato.
— Non ci parve necessario di chiederlo, dopo che essi, investiti del
mandato più largo, avevano creduto opportuno di riferirci il pensiero,
la convinzione intima del conte Guidi. Riferire il suo discorso e
ritirare le parole offensive, o dubbie, non era forse tutt'uno?
— Non lo era, e non lo è; — disse il Gonzaga.
— Onestamente sì; — rispose Arrigo.
— Cavallerescamente no; — ribattè il Gonzaga.
— Zio, e sei tu che fai distinzione tra onestà e cavalleria? —
Cesare Gonzaga fece una spallucciata, vedendo da che pulpito gli veniva
la predica.
— Continua il tuo discorso; — soggiunse. — E voi altri?
— E noi dicemmo allora: siccome le parole del marchese Gonzaga si
riferivano ad una offesa, che non c'era; siccome, quando egli si rivolse
a parlare con le signore, fu il primo a dire ridendo che si era fatto
tra lui e il conte Guidi un semplice scambio di notizie indiane:
potremmo costituirci, salva la condizione _ad referendum_, in una specie
d'arbitrato, e, trovandoci d'accordo nelle testimonianze come nei
giudizi, ritener cancellata ogni offesa possibile e composta la
quistione nel modo più onorevole.
— A questo siete venuti?
— Zio!... da uomini calmi ed onesti. Si ha la vita di due uomini in
mano, e di questa autorità terribile bisogna farne buon uso.
— Buon uso! buon uso! — brontolò il Gonzaga. — E chi vi ha detto di
farne un uso piuttosto che un altro? Vi avevo detto semplicemente e
chiaramente di condurmi sul terreno. Per fortuna, — riprese egli, — c'è
di mezzo la condizione _ad referendum_.
— Ahimè! — rispose Arrigo. — Non ti ci fidar troppo! È stata detta, ma
poi non ci si è molto insistito. Anzi, vedi, abbiamo preso impegno di
usare tutta la nostra autorità presso i nostri primi, per vincere ogni
loro resistenza. Ricordo che il duchino di Roccastillosa ha soggiunto:
per il nostro rispondiamo; se non accettasse, avrebbe da fare con noi.
— Cosicchè, se da parte mia non accettassi....
— Potresti... bastonar me; — rispose Arrigo, sciogliendo la reticenza
dello zio.
Cesare Gonzaga rimase un istante pensoso; poi disse:
— Capisco; sono stato imprudente, scegliendo te per padrino. —
Allora, anche il Ceprani credette necessario di entrare in discorso.
— Signor Cesare, — incominciò egli, — potrei dirle che in luogo di suo
nipote sono qua io a pagare; ma, schiettamente, amerei meglio essere
bastonato, insieme con lui. Pensi almeno che noi siamo stati guidati da
un altro sentimento delicatissimo, fin qui taciuto da Arrigo.
— E quale, signor Ceprani?
— Un sentimento di riguardo verso la casa amica, e rispettabile tanto,
in cui era avvenuto quello scambio di parole vivaci.
— È vero, signor Ceprani; — disse allora il Gonzaga. — Ella mi accenna
una cosa che ha pure il suo valore. Quantunque, con un po' di buona
volontà, si sarebbe potuta trovare la gretola.
— Domanderò anch'io, alla mia volta: e quale?
— Questa, per esempio, che lo scambio delle parole... vivaci era
avvenuto dopo la festa, in un caffè, in un circolo, per istrada,
dovunque, tranne in casa di persone amiche. Ma oramai è fatta; —
soggiunse il Gonzaga, sospirando, — e del senno di poi ne son piene le
fosse. Io ringrazierò lei, ad ogni modo, del delicato pensiero. E
adesso, vediamo come se n'esce.
— Non ne siamo esciti? — chiese timidamente Orazio Ceprani. — Resta che
nel verbale noi dichiariamo tutti e quattro sul nostro onore di non aver
trovati gli estremi di un duello.
— Di una cattiva azione; — soggiunse Arrigo. — Sono le tue parole di
ieri.
— Taci, tu! — gridò il Gonzaga, stizzito.
— Ma infine, zio, che ti fa, di avere un duello?
— Che mi fa? Che mi fa? Or ora me la fai dir grossa. Tu, caro mio, per
certe cose, hai ricevuto l'ottavo dono dello Spirito Santo. Ma basta;
c'è una condizione _ad referendum_ e un verbale da estendere; ci avrete
tutti gli appigli per rifarvi da capo. Sicuro; nel vostro caso, io direi
press'a poco così: “Signori! voi, molto cortesemente, ci avete
dichiarato di poter rispondere del vostro primo; ma noi, per ragioni che
intenderete, non abbiamo potuto dirvi lo stesso. L'aver noi citato al
signor Gonzaga la clausola _ad referendum_ gli ha dato molto da pensare.
Quale delle due parti incomincierà, per dire che il suo primo... si è
contentato? E l'essersi egli contentato per primo, non lo metterà
rispetto all'altro in una condizione di debolezza? Or dunque, non
dichiariamo nulla, e consideriamo ancora un pochino il caso delicato.
Possiamo noi consegnare nel verbale quelle ragioni intime che ci hanno
persuasi a non vedere gli estremi di un duello? In altri termini,
possiamo scrivere, sulla fede nostra, che non avendo avuto il conte
Guidi intenzione di offendere, il signor Cesare Gonzaga non l'aveva
neppur lui? Se lo possiamo, il secondo considerando s'innesta
naturalmente col primo; resteranno le parole vivaci e noi le
cancelleremo d'accordo, come conseguenza di un malinteso. Ma se a voi
non paresse....„
— E non parrà; — interruppe Arrigo.
— Tanto meglio; — aggiunse il Gonzaga. — “Se a voi non paresse,
facciamone una, che salverà le ragioni dell'uno e dell'altro;
ritiriamoci tutti e quattro, lasciando che nuovi padrini sottentrino.„ —
Arrigo tentennava la testa; ma Orazio Ceprani s'intromise, e sciolse lui
la quistione.
— Il signor Cesare ha ragione; — diss'egli. — Non dovevamo noi vederci
ancora, per estendere il nostro verbale, ed anche per discutere, o per
dichiararci a vicenda, se i nostri primi potevano stringersi la mano?
L'appiglio c'è, anche senza obbligarci in anticipazione al discorso
proposto dal signor Cesare Gonzaga. Lascia fare a me, Arrigo; troverò io
il modo di escirne, contentando un po' meglio tuo zio.
— Ah, bravo, Ceprani! Ella mi ha inteso; — gridò il Gonzaga. — Vadano
dunque. O il verbale, coi due considerandi, nel loro ordine logico e
naturale, o il duello. Ma ella vedrà che avremo il duello, e vivaddio,
cattiva azione o no, mi piace più del verbale. —
Arrigo chinò la testa e non rispose parola. Quell'ottavo dono dello
Spirito Santo, appioppatogli dallo zio, gli era rimasto sullo stomaco.
Mentre si disponevano ad uscire, fu annunziato il conte di Castelbianco.
— Che cosa vuole quest'altro? — scappò detto ad Arrigo.
— Eh, lo so io, quel che vuole; — fu per rispondere il Gonzaga.
Ma egli si tenne la sua risposta fra i denti e si contentò di guardare
suo nipote, con aria di rimprovero, che, per muto che fosse, non era
meno significante.
Il conte Pompeo entrò, e rimase un po' sconcertato alla vista di quei
personaggi riuniti, due dei quali tenevano il cappello in mano, ed erano
in procinto di andarsene.
— Buon giorno, conte; — disse Arrigo.
— Buon giorno: — rispose freddo il Castelbianco, guardandolo un po' di
sbieco. — Non hai un duello?
— Io? — rispose Arrigo. — Neanche per sogno. —
Il conte Pompeo rimase sovra pensiero, e non disse più altro.
Orazio Ceprani era sulle spine; tanto gli premeva di correre al caffè di
Venezia, per far servizio al signor Cesare Gonzaga!
— Se permettete, conte, ci ritiriamo; — diss'egli. — Abbiamo qualche
cosa da fare. —
Il conte rispose con un cenno del capo, che poteva passare per un
saluto; indi si volse al Gonzaga.
— Resterò un pochino, se non la incomodo, a discorrere con lei.
— S'immagini! — disse il Gonzaga. — Se vuol passare nel salotto.
— No, non occorre; ho poche parole da dirle. Possiamo restare anche qua.
— Come vuole; — rispose quell'altro.
Ma in verità, avrebbe desiderato di condurlo altrove, lontano da un
certo uscio di comunicazione, davanti al quale lo aveva confinato la
leggerezza del suo signor nipote. Non già che temesse una violazione di
domicilio, avendo braccia abbastanza forti, non solamente per trattenere
un uomo come il conte Pompeo, ma anche, all'occorrenza, per metterlo
gentilmente fuori della finestra; ma egli temeva il rumor delle scatole
di madama Duplessis, ospite comodissima, sì, ma per allora un po'
molesta vicina.
Frattanto, quegli altri due se n'erano andati, e Cesare Gonzaga rimaneva
a tu per tu col conte di Castelbianco.
— Sentiamo che cosa avrà da dirmi questo qua; — pensò egli in cuor suo.
— Ha un'aria, in fede mia, che non promette niente di buono. Ah, per
tutti i diavoli! Era ben meglio restare un altro paio di giorni alle
Carpinete, e lasciare che questi sapienti di città sbrigassero le loro
faccende da sè. Basta, qui bisogna stare in cervello, avere un occhio al
cane e l'altro alla macchia. —
Con questi proponimenti Cesare Gonzaga stette ad aspettare i discorsi
del conte di Castelbianco, dopo avergli cortesemente additata una
scranna.


XI.

Il conte Pompeo si lasciò cadere, più che non sedesse, sulla scranna che
gli aveva offerta il Gonzaga. Era mezzo disfatto, quel povero conte.
— Sono lieto di trovarmi solo con lei; — mormorò egli poscia. — Ella è
un uomo con cui si può parlare a fede, e sfogarsi anche un pochino. —
Reclinò, così dicendo, il mento sullo spillone della cravatta, come se
avesse fatto uno sforzo sovrumano.
— Che ha? si sente male? — domandò il Gonzaga. — Infatti, ha la cera
alterata.
— Sfido io! M'hanno avvelenata l'esistenza.
— Oh diamine! E chi mai?
— Veda qua, si dia la pena di leggere. —
E trasse dalla tasca interna del soprabito una lettera, che porse al
Gonzaga. Era la lettera anonima, di cui aveva parlato dianzi la contessa
Giovanna. Aprendola, il Gonzaga vide che era scritta con un bel
caratterino di donna, segno evidente che l'aveva scritta, o fatta
scrivere, un uomo. La lesse, o, per dire più veramente, la scorse; indi,
con un gesto di ripugnanza, la rese al conte Pompeo.
— Ci possono essere al mondo dei vigliacchi come costui? — esclamò.
— Lasciamo stare i vigliacchi; — rispose il conte. — La natura ha
fabbricato animali per tutti i gusti e per tutti gli uffizi; gli uni per
essere utili, e son pochi! gli altri infine per nuocere. Ma è il fatto,
il fatto in sè, quello che dobbiamo considerare. —
Il Gonzaga non sapeva che pesci pigliare. La lettera, fra le altre cose,
accennava al conte di Castelbianco la possibilità che il quartiere del
Valenti avesse un'escita sulle scale del portone di via Sallustiana.
Ora, che cosa voleva il conte? A che mirava, facendogli leggere quella
lettera?
— Conte, — diss'egli, vedendo la necessità di ridere, anche a rischio di
farlo stizzire, — lei, così allegro gentiluomo per solito, si butta oggi
alla filosofia?
— Mi hanno mutato, Gonzaga, mi hanno mutato in un giorno. Infine, sì,
sono sempre stato un buontempone, uno sbadato, e se si vuole, diciamo
pure un uomo leggero. Ancora ieri seguivo il precetto del quinto
Evangelio: “Non voler fatto a sè quel che si farebbe agli altri.„ È
questa la massima che ha più credito nel mondo.
— Pur troppo! — esclamò il Gonzaga. — Ma ella, per uno, si corregge?
— Per forza. Mi mettono tra le vittime! Ma vivaddio, qui c'è un'infame
calunnia.
— Ah, meno male! Lo vede anche lei, che questa letteraccia è un tessuto
di bugie?
— Per metà ne ho avuto la prova.
— Come?
— Andando a vedere coi miei occhi. A farlo apposta, nella scala che mi è
stata indicata abitano persone conosciute. Sono salito al secondo piano,
quello che dovrebbe corrispondere al quartiere del signor Valenti, e ci
ho trovato, occupata a sciorinare abbigliature parigine, una mercantessa
di mode che ci ha anche il suo nome sull'uscio: _Madame Duplessis_. Di
che comunicazione è venuto a gonfiarmi la testa l'anonimo
corrispondente? —
Cesare Gonzaga pensò all'uscio lì presso, senza osare di levar gli occhi
a guardarlo. E quasi (vedete un po' le allucinazioni della paura!) quasi
gli parve di sentir premere un battente sull'altro.
— Che cosa mi dice mai! — esclamò, come per soverchiare con la voce quel
lievissimo suono. — È andato a visitare la scala che le indicava un
anonimo?
— Sì, sono stato vile a questo segno. Veda dove può giungere un uomo,
che ha perduta la testa! Ma almeno ne ho veduta l'acqua chiara, e questo
è tanto di guadagnato.
— E allora, scusi, perchè s'inquieta? Non possiede oramai la certezza?
— Per metà; — disse il conte. — Rimangono altri punti oscuri. Ma, mi
perdoni, Gonzaga! A lei, amico di ieri, io son venuto a dar noia, come
se la conoscessi da anni.
— Non badi a queste inezie. Se sono un amico, poco importa la data.
— È giusto; ed io, vede, ho bisogno di parlare con qualcheduno che mi
capisca, che possa mettermi un po' di calma nello spirito. C'è stato un
momento quest'oggi, che avrei dato del capo nei muri.
— Povero conte! La intendo; — disse il Gonzaga. — La gelosia è l'inferno
dell'anima.
— L'ha provata anche lei?
— In altri tempi, sicuro; bisognerebbe non esser uomini, per non esser
passati di lì. Ma sentiamo, mi dica... che cos'altro la turba?
— Una passeggiata mattutina della contessa. Perchè oramai non c'è
dubbio, — disse il conte, — Giovanna è uscita di casa, quantunque
m'abbia detto di no. E veda, a farlo apposta, la lettera mi dice che
Giovanna veniva... dove? proprio dove anch'io avevo creduto di vederla.
— E questo, per l'appunto, — chiese il Gonzaga, — non dimostra la bugia
del corrispondente?
— In che modo?
— Sicuramente. Non l'ho sentito dir io, in questa medesima casa, che le
era parso, in via Sallustiana, di riconoscere sua moglie? E questo che
ha detto qui, scherzando, a proposito di un bel piede, che Dio guardi e
conservi, — soggiunse galantemente il Gonzaga, — non può averlo detto
anche altrove?
— Non mi rammento.
— Ma c'è chi li rammenta, i discorsi fatti per chiasso, e si diverte a
tesserci sopra le più infami supposizioni. —
Il conte di Castelbianco fu colpito da quella supposizione del Gonzaga.
— Mi dice bene; — esclamò. — Per altro, quella mattina, la contessa
doveva essere escita di casa.
— Glielo aveva forse proibito lei?
— No; mi dispiace soltanto che m'abbia detto di essere rimasta in casa.
— E chi le assicura che non ci sia rimasta davvero? Del resto, senta,
Castelbianco mio; una dama può escire per cose da nulla, come ce ne
hanno tante le dame; non se ne ricorda, e dice di essere rimasta in
casa; l'ha detto, e non le piace disdirsi. C'è da farle un processo, per
questo? Abbia fede nelle donne, signor conte; è ancora il miglior modo
per vivere in pace con loro e con sè. Quando non abbia questa fede,
sospetterà di ogni cosa; e a questo giuoco anche una Genovieffa di
Brabante ne andrebbe di mezzo.
— Verissimo! verissimo, quel ch'ella dice! — gridò il conte Pompeo,
rianimandosi. — Ed è anche un consiglio da gentiluomo. Ritornerò a casa,
e non domanderò a mia moglie se è uscita quest'oggi.
— Perchè quest'oggi? Ci sarebbe qualche altro sospetto?
— C'è di peggio, e quasi mi vergogno di confessarglielo. Consigliato
dalla lettera anonima, avevo teso una trappola, dicendo, prima di
escire: il cavalier Valenti, quest'oggi, ha un duello. A proposito, e
questo duello? Suo nipote mi ha detto che non c'è nulla di vero. S'ha a
credere? Anche questa sarà un'invenzione?
— Come tutte le altre. Il duello, l'ho io.
— Ah, diamine! E con chi?
— Perdoni; è un mio segreto... per ora. Le basti, che sono invenzioni,
le notizie che hanno scritte a lei.
— Se la cosa è in questi termini, ecco un famoso inventore, che può dar
dei punti all'Edison! — disse il conte Pompeo. — Ma che proprio non ci
sia neanche l'ombra del vero? Dice un proverbio che non c'è fumo senza
fuoco.
— Orsù, — disse il Gonzaga, a sua volta, — sentiamo che cos'altro le
sussurra all'orecchio il suo demone interno.
— Ah, sì, dice bene, un demone interno!
— Ci sono ancora dei punti oscuri? Bisogna chiarirli.
— Ecco qua, Gonzaga mio. La contessa non poteva soffrire il Valenti. Sa
che gliel'ho detto io medesimo? Ora ricordo di aver letto in un libro
che queste antipatie dichiarate sono artifizi di donne, per nascondere
la verità, che è tutt'altra. —
Qui Cesare Gonzaga fu ad un pelo di perdere la pazienza.
— Ah, senta! — gridò. — Ne troverà molte, sui libri. Solo a leggerne uno
del Balzac, c'è da rinunziare per sempre alla vita matrimoniale. La
contessa, che io ho imparato a stimar tanto, può benissimo non
apprezzare il carattere di mio nipote, troppo compassato, troppo serio,
troppo calcolatore; e in ciò potrebbe aver ragione, per bacco! C'è
altro?
— Ella non ammette niente; — rispose il Castelbianco, mezzo raffidato e
mezzo dubbioso; — ella ha una risposta di trionfo per tutto. Ci sarebbe
ancora, a voler cercare il pel nell'uovo, ci sarebbe ancora da
informarsi se il padrone di questo stabile è anche il padrone dell'altro
di via Sallustiana, e se a qualche altro piano c'è comunicazione fra
due.
— Non ci mancherebbe altro! — pensò il Gonzaga, fremendo.
In ogni altra circostanza, e trattandosi di dare l'ultima prova palmare
ad un geloso feroce, si sarebbe potuto dire: “Venga qua, e visitiamo il
quartiere, dalla prima all'ultima stanza. Veda, non c'è una porta falsa,
e le pareti dànno tutte buon suono. Guardi anche i mobili; specialmente
gli armadi; non c'è traccia di doppio fondo, per nascondere un uscio.
Vuol venir sopra, o sotto? Chiederemo scusa ai casigliani, e leveremo a
lei anche questo dubbio dal capo; vedrà, toccherà, tasterà da ogni
parte, e poi andrà a farsi benedire.„ Ma per allora, e davanti a
quell'uscio, non si poteva parlare, nè, sopra tutto, operare così.
Cesare Gonzaga credette anzi necessario di sviare il sospetto, nella
speranza di guadagnar tempo, e rimediare a quell'altro pericolo. Ora, il
miglior modo di sviare il sospetto, era di fargli una confessione tale,
che mostrasse Arrigo le mille miglia lontano da un ripesco amoroso.
— Creda a me, — incominciò, fingendo una calma che non aveva nel cuore,
— non si fermi in queste idee, che, mandate ad effetto, potrebbero
nuocere alla riputazione della donna rispettabile che porta il suo nome.
Intanto, vuole una prova convincente, una prova solenne dell'errore in
cui è caduto, per opera di un birbaccione, che sarà, se Dio vuole, anche
un amico di casa? Ella è gentiluomo, Castelbianco. Ha avuto piena
fiducia in me, ed io debbo averla in lei, confidandole un segreto, che
ella custodirà gelosamente.
— Non dubiti! — disse il conte Pompeo. — Segreto per segreto.
— Orbene, vuol sapere perchè sono io a Roma? Perchè, stia bene a
sentirmi, perchè Arrigo Valenti, mio nipote, ha il desiderio di sposare
una bella e cara fanciulla: la signorina Manfredi. —
Per quella volta, davvero, Cesare Gonzaga sentì gemer l'uscio. E pensò
dentro di sè, mentre batteva l'ultima sillaba del cognome:
— Ah diavolo, diavolo! Ora c'è madama Duplessis che sta a sentire i
nostri discorsi. Benedette donne! —
E tossì, per coprire il rumore, tossì come un quaresimalista, quando ha
finito l'esordio, con la proposizione del tema.
— Ah! — fece il conte Pompeo, che era tutto scosso dalla grande novità.
— Ed io non me ne sono accorto! Ed egli non me ne ha mai fatto parola!
— Non era lei, perdoni, non era lei che potesse servirgli, in questa
circostanza; ero io, suo unico parente, io, vecchio amico del senatore
Manfredi. Ed io, pregato, scongiurato, sollecitato da parecchie sue
lettere, ho dovuto lasciare il mio dolce èremo delle Carpinete, per
venire in Roma, a far la domanda formale.
— Che cosa mi dice! Io casco dalle nuvole. E il nostro Arrigo è
innamorato di Gabriella?
— Ne è perdutamente innamorato. E non ha torto, perbacco.
— Lo credo: oh, se lo credo! — esclamò il Castelbianco. — Gabriella
diventerà una stupenda signora. Peccato, non aver dieci anni di meno,
per farle una corte spietata!
— Ah, ecco, — disse ridendo il Gonzaga. — Ritorna in scena il Don
Giovanni, col suo quinto Evangelio?
— Scusi, Gonzaga, è la natura che ripiglia il sopravvento. Son fatto
così, e porterò il mio difetto alla tomba. Ma sa che ella mi confonde,
con le sue belle notizie? E da quando il nostro bel cavaliere ha
incominciato a perdere la pace del cuore?
— Che ne so io? — disse il Gonzaga. — Per passare dall'ammirazione
all'amore, e da questo a una risoluzione matrimoniale, ci sarà pur
voluto il suo tempo. Se mi ha chiamato dieci giorni fa, mettiamo pure
che da quaranta ha lo spirito afflitto. Quaranta giorni, come a dire una
quaresima!
— Gli auguro buona Pasqua; — rispose il conte Pompeo. — Fortunato
briccone! Ma badi, Gonzaga mio, badi bene! Ora capisco una cosa.
— Ahi! — pensò Cesare Gonzaga. — Questo qui mi capisce troppe cose,
quest'oggi!
— Sì, veda, pensando alla lettera anonima...
— Che ella mi regalerà per la mia collezione.
— Oh volentieri! Eccola. Pensando dunque alla lettera anonima, mi viene
in mente che sia da vederci la mano di un nemico di Arrigo.
— Eh, lo avevo pensato ancor io.
— Scusi; — ripigliò il conte; — ella ha l'aria di dirmi: bella scoperta!
Ma ella non sa che razza di nemico.
— E lei lo ha scoperto?
— Mi pare di sì: nemico di Arrigo, perchè suo rivale, ed amante di
Gabriella.
— Amante!
— Sì, diciamo innamorato, pretendente. Non è della mia opinione?
— Ma... che debbo dirle? Bisognerebbe conoscere le persone. E poi, come
c'entrerebbe una calunnia contro la contessa?
— Ecco: per mandare a monte le nozze, senza aver l'aria di agire
direttamente, e perciò senza scoprirsi; — rispose il conte Pompeo. — Uno
scandalo fuori via, è di buona guerra. — Eh, io le capisco, queste cose.
Il colpo, non lo nego, è un po' forte; ma è di alta scuola, bisogna
convenirne.
— E questo rivale, sarebbe?...
— Non ne conosco che uno, per ora: il conte Guidi.
— Ah! — gridò Cesare. — Il conte Guidi? Ci ho gusto. Gli darò un par di
schiaffi alla prima occasione.
— Calma, Gonzaga! È finora una mia supposizione. Non vorrei che per un
semplice sospetto....
— Allora, — disse il Gonzaga, — cercheremo ancora.
— Non cerchiamo più nulla; — rispose il conte. — Lasciamo spegnere
questa miccia male accesa. Volevano far scoppiare una bomba, e non ci
sono riesciti. Ne saranno mortificati, e noi rideremo. Ella mi ha
proprio sollevato, caro amico, con la sua bella notizia. Questa, poi,
taglia la testa al toro. Ed io dubitavo del cavaliere! Ah, ne arrossisco
davvero.
— Bravo, conte! Ecco un bel movimento dell'anima!
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Çirattagı - Arrigo il savio - 08
  • Büleklär
  • Arrigo il savio - 01
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  • Arrigo il savio - 02
    Süzlärneñ gomumi sanı 4530
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    Süzlärneñ gomumi sanı 4533
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  • Arrigo il savio - 10
    Süzlärneñ gomumi sanı 4510
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  • Arrigo il savio - 11
    Süzlärneñ gomumi sanı 3310
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