Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 14

Süzlärneñ gomumi sanı 4406
Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1752
27.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
40.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
47.4 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
Härber sızık iñ yış oçrıy torgan 1000 süzlärneñ protsentnı kürsätä.
Pal Piccolo sono come due gigantesche sentinelle, una da una parte e
una dall'altra del Passo. Il 25, la cima stessa dello Zellonkofel fu
presa da noi. La soglia di Montecroce era definitivamente chiusa al
nemico.

Gli austriaci tentarono il giorno dopo di sloggiarci. Respinti,
impiegarono il giorno 27 a spostare artiglierie; il 28 bombardarono lo
Zellonkofel con tutti i calibri, poi lo assalirono ancora. Respinti, si
volsero di nuovo, all'altro pilastro del Passo, al Pal Piccolo. Nella
notte del 30, alla luce dei proiettori e dei razzi illuminanti l'ondata
dell'assalto si abbattè sulle nostre trincee, con granate a mano e
bombe asfissianti. L'onda s'infranse e ricadde.
Noi ci eravamo anche impadroniti del Passo di Volaia e del Passo
di Valentina, che si trovano a ponente del Montecroce. Il nostro
allineamento si estendeva e si piantava solidamente sulle posizioni
più forti. Il 1.º luglio facevamo ancora un piccolo passo avanti
dalla cima del Pal Grande; scendendo sul declivio scacciammo il
nemico dalla trincea avanzata. Gli austriaci fecero sforzi disperati
per riprenderla. Tentarono l'assalto nella notte stessa; poi alla
mattina seguente; poi, con più truppe, il giorno 3, dopo un serrato
cannoneggiamento; poi il giorno 5. Abbandonarono 250 morti sul
terreno. Respinti sempre, volsero l'attacco al vicino Pizzo Avostanis.
Furono lasciati avvicinare a brevissima distanza dalle trincee,
contrattaccati, rovesciati nella valle. Il giorno appresso, assalivano
ancora il Pal Grande.
Vi è qualche cosa di cieco e di feroce in questa tattica da ariete,
una forsennata negazione dell'evidenza. E l'evidenza è che la fanteria
austriaca, dai celebri _Kaiserjägern_ ai bosniaci, non può reggere
in combattimento aperto contro la nostra truppa, quando l'uomo è
contro l'uomo. La forza degli austriaci è nell'ausilio ampio, bene
organizzato, sapiente, di tutta la meccanica offensiva, di tutti gli
atroci sostituti scientifici del valore umano: è nell'uso studiato e
largo di tutti quei moderni mezzi di lotta che permettono di colpire
senza esporsi, che affidano la maggior parte del combattimento al
cieco automatismo degli esplosivi; è nell'abilità del nascondiglio, nel
soccorso delle difese inanimate. Sono artiglierie numerose, varie, ben
celate, pronte a scomparire; sono bombe asfissianti; sono granate che
delle macchine lanciano, perchè ci si espone troppo a lanciarle a mano;
sono mine, reticolati, scudi di acciaio; sono trinceramenti blindati
con feritoie a sportello nei quali la fanteria è invulnerabile. Ma il
momento arriva in cui bisogna che avanzino allo scoperto se vogliono
tentare una conquista.
Possono bombardare quanto vogliono, aumentare in proporzioni
esorbitanti la loro avanguardia di esplodenti, l'ora suona in cui i
rifugi debbono essere lasciati per farsi avanti. È l'ora che i nostri
aspettano silenziosamente. È l'ora del cuore. Non sempre ci si difende
col fuoco dall'assalto che inerpica. Le baionette si inastano, poi
con un grido selvaggio i nostri balzano sulle trincee e si gettano
giù, a valanga. Il nemico precipita indietro, lascia i suoi morti,
i suoi feriti, i suoi fucili, e da dietro i macigni spuntano mani
levate di gente che si rende. E questo non una volta, non due; quando
leggete nella nobile sobrietà della prosa di Cadorna che avvenne «il
consueto attacco» al Freikofel, al Pal Grande, al Pal Piccolo, dovete
immaginarvi queste scene sugli orridi costoni di Montecroce, grandiose
e tenibili come la penna non potrà mai dire, tumultuanti nel pallore di
un'alba, o in una notte di tempesta illuminata dalla luce fantastica di
bengala librati nell'aria dai razzi.
Poi si combatte per i morti.
I nostri alpini, specialmente, hanno per il cadavere una reverenza
eroica, un culto antico e solenne che fa della sepoltura un dovere
sacro. Compiono follìe di valore per raccogliere piamente i loro
caduti. Dicono che il morto vuole riposo, e reclamano dai superiori
il diritto di uscire dalle trincee. Si concertano, partono in cinque,
in sei, armati, di notte. Spesso sono scorti o sono uditi dal nemico,
la fucileria si desta, le bombe esplodono divampando fragorosamente,
i proiettori si accendono e frugano la roccia. Qualche volta la
scaramuccia si allarga, e non sono più cinque o sei che avanzano, sono
cinquanta, sono cento, lanciati fuori da un'indignazione generosa, e la
spedizione arriva sulla trincea nemica tornandone carica di trofei.
Sul Pal Grande, un giorno, uno dei nostri morti era rimasto a tre
passi dai parapetti austriaci. Era un graduato che tutti adoravano.
L'ufficiale in comando offrì una somma di denaro ai volontari che
fossero andati a prenderlo. Gli alpini, gravi, studiarono a lungo dalle
feritoie, poi scossero la testa e tacquero. L'ufficiale, un valoroso,
un dio per i suoi uomini, lasciò la trincea con un gesto di sdegno.
Bastò più della somma.
Era appena giunto al rifugio, quando l'ufficiale udì un tumulto di
fucilate e di gridi. Si disponeva, perplesso e sorpreso, a tornare
indietro, ma il tumulto diminuiva, cessava. E verso di lui, per i
camminamenti coperti, scendeva un affollamento solenne di soldati.
Era il funerale magnifico di un eroe. I primi portavano il cadavere, e
dietro a loro ondeggiavano sulle spalle fasci di fucili e grigi scudi
di acciaio, armi prese al nemico. Per riprendere il morto, la trincea
austriaca era stata attaccata, conquistata, spogliata.
Perchè gli austriaci tirano sui raccoglitori di feriti e di cadaveri?
Nulla può indurli al rispetto della croce rossa. Uno dei nostri
cappellani, dopo un combattimento, uscì dalle trincee del Freikofel in
paramenti sacri, le braccia levate, per chiedere al nemico di lasciar
prendere i morti. Fu preso a fucilate anche lui. Fremendo di sdegno i
nostri hanno visto più volte gli austriaci massacrare a colpi di fucile
e di granata i loro stessi feriti, che strisciavano penosamente gemendo
verso le loro trincee. Non è forse ferocia; probabilmente è allarme.
Sono in uno stato di agitazione evidente, di ansia, di sospetto,
di timore. Non discernono, non capiscono, sono turbati, vedono in
ogni cosa un tranello, nel prete immaginano un lanciatore di bombe
travestito, nel rampare d'un ferito scorgono l'avvicinarsi subdolo di
un assalitore, l'angoscia di una aspettativa mortale non lascia posto
per altri sentimenti, tirano su tutto quello che si muove, sulle ombre,
sulle apparenze, e tirano anche sui morti, perchè non li ricordano più,
o perchè li credono finti morti e fissandoli par loro che si spostino,
lentamente, insensibilmente, nell'ombra.
Nessun attacco di queste truppe, anche contro forze che per un periodo
furono numericamente inferiori, è mai riuscito. Non li abbiamo
ricordati tutti questi attacchi, ostinati, sanguinosi e inutili.
L'8 luglio tentavano ancora la conquista dello Zellonkofel. Il 10 si
volgevano al Pal Grande, di notte. All'alba contrattaccavamo noi e
prendevamo un'altra trincea. Il giorno dopo avanzammo ancora un poco
verso l'Anger. Il 14 luglio, nuovo assalto generale austriaco di tutte
le posizioni. Era un giorno tenebroso, nebbioso, freddo, e per due
volte l'offensiva nemica salì sullo Zellonkofel, sul Pal Piccolo, sul
Freikofel, sul Pal Grande, sull'Avostanis, a infrangersi sulle nostre
baionette. Poi il 27 luglio, il 30 luglio, il 7 agosto, il 14 agosto,
giorni di battaglia. Di ogni attacco nemico noi abbiamo profittato;
la controffensiva ci ha permesso sempre di migliorare la linea di
resistenza; prendevamo una balza, una gola, un costone. E la lotta
prosegue, ora furibonda ed ora stanca, ad una distanza da sassate, con
lanci di bombe e d'ingiurie.
Questo è il fronte verso il quale salivamo lentamente dalla valle di
Montecroce.

Salivamo verso le posizioni dalla valle di Montecroce, sul cui fondo
venivano a cadere dei colpi destinati alle retrovie, i quali aprivano
sui prati, dall'altra parte del torrente, lacerazioni oscure.
Ogni quattordicesimo giorno del mese è, per ragioni misteriose, un
giorno di furore austriaco in quel settore. Assistevamo alla quarta
celebrazione di questa data. Il tempo limpidissimo favoriva l'azione
delle artiglierie. Dalle tre del mattino il bombardamento continuava,
senza la caratteristica tremenda intensità di una preparazione di
assalto, ma vasto, su tutti i punti, contro le trincee e contro gli
approcci, sulle vette e nelle gole.
Le grosse granate passavano in alto, alle volte due, tre di seguito, e
dalla calma, azzurra, profonda serenità del cielo scendeva quel loro
ronfiare cupo, lamentoso, soprannaturale, che per delle interferenze
bizzarre del suono ha come dei rallentamenti e delle pause, che pare
sosti e riprenda, con qualche cosa di faticoso, di affannato, di
pesante.
Veniva fatto di guardare in su, curiosamente, e di cercarle nella
luce le canore masse di acciaio. Dal suono si distinguevano i calibri.
Striduli, striscianti, con un rumore di lacerazione, delle granate e
degli _shrapnells_ di artiglierie da campagna e da montagna, tirati
troppo in alto, sorpassavano le posizioni e scendevano lungo la
china tracciando invisibili archi di sonorità e di ronzii. Il fragore
echeggiante delle esplosioni saliva dalla vallata come una impetuosa
marea di tuoni. Il fumo sorgeva filaccioso e diafano sulle cime degli
abeti.
Dal colore delle nubi di fumo i soldati classificano i proiettili.
C'è la bianca, la bianchina, la rossa, la grigia. Tutto prende un
soprannome al campo. Le varie batterie nostre sono conosciute con
nomignoli che rimarranno. Una batteria da montagna, inerpicata ad
un'inverosimile altezza, è la «pettegola». È sempre la prima ad
iniziare la discussione e vuole sempre l'ultima parola.
Incomincia con otto, dodici colpi di fila; allora, siccome i suoi tiri
arrivano bene, tutti i cannoni austriaci si mettono ad abbaiare contro
di lei; l'altura sulla quale la batteria è piazzata, è tempestata da un
imperversare di granate. L'inferno dura un'ora, due ore: la pettegola
tace. Il nemico la crede colpita, distrutta, sepolta, e sospende il
fuoco. Immediatamente si odono due colpi; è lei che dice: Sono qua!
Nuovo furore austriaco, ripresa del bombardamento a oltranza. Poi
silenzio. Questa volta è finita. No, due colpi, due soli: Sono ancora
qua! E per giorni intieri continua l'alterco dei cannoni, il quale
finisce invariabilmente, alla sera, con quei due colpi insolenti,
esasperanti, che l'artiglieria nemica si rassegna a lasciare senza
risposta.
Da un'altra parte c'è la «mitragliatrice». È una batteria da campagna
che si indigna quando la tormentano troppo. Per un po' sopporta, poi
perde la pazienza e sgrana giù, per un paio di minuti, un fuoco a
tiro rapido filato come i punti di una macchina da cucire. Ma bisogna
sentirne a parlare i soldati, di questi cannoni amici.
C'è un affetto, una passione, una riconoscenza, verso quelle batterie
protettrici, che non si possono ridire. La loro voce è riconosciuta e
sveglia sempre esclamazioni di saluto nelle trincee. Non le hanno mai
viste, non sanno nemmeno con precisione dove stiano, ma i soldati le
adorano, e non ce n'è uno che all'occorrenza non si farebbe ammazzare
per salvarne un pezzo. I tiri sono seguiti con un interesse espansivo.
Un bel colpo, che vada al segno, è commentato con espressioni di gioia.
I grossi alpini si battono allora fanciullescamente le coscie con le
palme, contenti, esclamando: — Bene! Bene! Bravi! — E ridono.
Ma ieri le nostre batterie disdegnavano il fuoco nemico. Rispondevano
appena, di tanto in tanto. Qualche grossa granata passava dal sud al
nord. «Ciao, cara!» — dicevano i conducenti alzando la testa: «Buon
lavoro!»
C'inerpicavamo verso il Pal Grande su di una scoscesa spalla del monte
coperta da un folto bosco di abeti, girando e rigirando per le volute
del sentiero, ai piedi di immani pareti rocciose dai cui bordi lontani
sporgevano le tese braccia degli alberi, in oscuro intreccio. Poi
la dirupata, angusta, ombrosa cavità di un canalone ci ha presi; il
sentiero sempre più aspro è divenuto quasi una scala, una fantastica
scala a brevi zig-zag, fiancheggiata da abeti, serrata dagli speroni di
maestose muraglie basaltiche.
Un rombo lontano e sonoro, che si sarebbe preso in quel momento per il
rumore di un proiettile se non fosse stato persistente ed eguale, ci
ha fatto guardare nei lembi di cielo che s'incorniciavano luminosi e
profondi entro un frastagliamento nero di rami. Un aeroplano austriaco
passava.
Era chiaro, diafano come una cosa veduta attraverso l'acqua, pareva
lento, pareva incerto, volava verso il sud, librato sulle sue ali
immobili, poi ha virato verso l'est. La montagna, che sembrava deserta,
ha risuonato tutta di colpi di fucile. Si tirava da ogni parte sul
sinistro uccello pallido e grande che spiava. Le rocce prolungavano
stranamente il rumore dei colpi; l'eco faceva di ogni fucilata uno
scroscio. Scendeva su di noi come una portentosa cateratta di strepiti
violenti. L'aeroplano è scomparso, la fucileria ha taciuto. Qualche
grosso proiettile, passando più basso, faceva udire il rauco soffio
vorticoso della spoletta.
Il sentiero aveva i segni caratteristici delle zone battute lasciati
dal cannoneggiamento di mesi, schegge di roccia staccate dai colpi
e precipitate sul passaggio, frammenti di granate, pallottole di
_shrapnells_, buche scavate dagli scoppi. Qualche barella scendeva
lentamente e le cedevamo il passo, salutando il ferito che ci
guardava con lo sguardo lontano e assorto di chi ha appena lasciato il
combattimento e lo rivive.
Il frastuono delle esplosioni, di tanto in tanto, si faceva vicino
ma senza direzione, ingigantito dalle sonorità degli echi. Poi,
improvvisamente, uno schianto di folgore, un contraccolpo di vento, un
roteare lento in aria di tronchi d'albero sradicati dal ciglione d'una
roccia e lanciati in alto, un frullare di pietre tutto intorno a noi,
di schegge, di frammenti, con un picchiettare violento di sassaiuola
sulle piante e sul sentiero, e un fumo giallo, pesante, acre, si è
sparso a piccoli turbini e ci ha velati.
Bianca, gigantesca, precipitosa, una vetta ci appariva vicina, alla
fine del canalone, una rocca luminosa nello sfolgorìo del sole: il Pal
Grande.

Pochi minuti dopo, inerpicati sulle basi delle sue pareti,
contemplavamo la bellezza orrenda di questo grandioso e selvaggio
campo di battaglia. La via dalla quale eravamo saliti non era più che
una specie di spaccatura in basso, piena di ombra e di un arruffìo di
boscaglia, al quale ogni tanto s'invischiava la nube sinistra di una
granata. Il Pizzo di Timau vicinissimo, a levante, tutto in ombra,
azzurrastro, piombava le sue vertiginose pareti a picco quasi nei
ghiaioni del Pal Grande. A ponente la cupola scabrosa e tormentata
del Freikofel, lontana meno di un tiro di fucile. Più in là, le rocce
cineree del Pal Piccolo che sostengono un pianoro con vestigia di
verde. La spaccatura del Passo di Monte Croce appare così angusta che
lo Zellonkofel al di là del Passo, si direbbe unisca la base delle sue
due cuspidi a quella del Pal Piccolo.
Tutte queste vette, tutte queste rocce, nude, calcinate come ossami di
un mondo morto, tuonavano alle cannonate; ruggevano in echi prodigiosi,
avevano boati da valanga, frastuoni di crollo, facevano scendere dalle
più inaccessibili solitudini tumulti immani di battaglia; pareva che
ogni balza, ogni crosta, ogni dirupo sferrasse i suoi colpi, che le
montagne stesse si fulminassero confondendo in una continua tempesta lo
scrosciare esorbitante delle loro folgorazioni. E finivamo per sentire
confusamente una non so quale personalità favolosa in quelle montagne
combattenti, piene di un maestoso e immobile furore. Non è possibile
dare un'immagine del coro possente e favoloso delle vette intorno alla
lotta dei piccoli uomini invisibili, celati come insetti nei greti,
ridire quello che la montagna aggiunge alla guerra di pauroso, di
grande, di soprannaturale.
Eravamo da poco lì, quando da una piccola baracca, incastrata sopra
un gradino della roccia, è sceso un grido di evviva. «L'aeroplano è
caduto! — ha annunziato un ufficiale affacciandosi. — È caduto nella
valle dell'Anger! Abbiamo ricevuto adesso la telefonata!» La voce è
passata. Dei soldati, sull'alto della balza, si sporgevano dal ciglione
per sapere forse che cosa fosse successo, e salutavano festosamente.
Dietro a loro, più in alto, il cannoneggiamento batteva sempre. Si
udiva il miagolìo breve e rabbioso delle pallette di _shrapnell_. Una
scheggia di bomba è scesa frullando sul ridosso, ed ogni tanto un
ronzìo di pallottole austriache sperdute, rimbalzate sulle pietre,
passava intorno a noi, lontano, in direzioni imprecisabili, chi sa
dove.
Gli austriaci non hanno attaccato, non si sono mossi dalle loro
trincee. Bombardavano, e facevano un gran fuoco di mitragliatrice e
di fucile. Ma le nostre truppe accolgono con una indifferenza sublime
queste manifestazioni. Preparano le loro granate a mano e aspettano.
Perchè è con il lancio delle granate che iniziano i loro attacchi e
contrattacchi. C'è sul Pal Grande un famoso lanciatore di granate.
Ne mette cinque o sei nel tascapane, e parte dalla trincea, un mezzo
sigaro toscano acceso fra i denti. Egli preferisce le bombe lenticolari
a quelle sferiche per il suo sistema. Arriva bocconi presso la trincea
nemica, mette le bombe in fila davanti a sè, poi col toscano accende
le micce e getta i proiettili con la rapidità e la esattezza del
giocoliere che lancia i cappelli. E lanciando conta: Uno, due, tre,
quattro, cinque.... Le esplosioni si seguono serrate e la trincea si
vuota fra grida di terrore. Una volta preparò così un assalto, da solo.
Il fuoco dell'artiglieria non scuoteva le truppe di montagna nemmeno
all'inizio, quando non avevano ancora ripari sufficienti. Capitava
qualche volta che una granata prendesse in pieno la trincea e ne
demolisse un pezzo. Nessuno si muoveva. I soldati scansavano i morti e
i feriti e ricostruivano. Sul Freikofel una volta una granata austriaca
buttò giù un riparo e lanciò un caporale sulla tenda del comandante,
una ventina di metri più indietro. Ai fianchi del caporale erano due
soldati, rimasti miracolosamente illesi. Dissipato il fumo si videro
i due soldati già intenti ad ammassare i sassi crollati per rifare il
riparo. Non si erano neppure voltati per vedere dove fosse andato a
finire il caporale.
Vorrei potere essere autorizzato a dire i nomi di alcuni di questi eroi
della calma. Vi sono episodi meravigliosi. Sul Freikofel un soldato era
in vedetta in una trincea che, per un caso forse, l'artiglieria nemica
si mise a colpire incessantemente. Arrivavano raffiche di quattro, di
otto, di dodici proiettili. La trincea era demolita. Il soldato era
rimasto interrato tre volte. Per tre volte si era dissepolto. Dalla
trincea principale il suo capitano avanzò per comandargli di ritirarsi:
«Vieni via! L'hanno con te! Vieni via!» — «Signor no!» — rispose
risoluto il soldato. E tutto annerito dal fumo, sporco di terra, balzò
su dal buco, e lì fuori, allo scoperto, feroce e fermo, spianò il
fucile e cominciò a sparare, a sparare, con una rabbia fredda, come per
sfida.
Un altro soldato diceva che non poteva stare in trincea. Spesso
chiedeva il permesso di lasciarla. Prendeva il fucile e andava quatto
quatto in piena zona nemica. Studiava i punti di passaggio, rimaneva
per giorni interi immobile in appostamento. Era il cacciatore di
uomini. Tornando annunziava i risultati della posta: «_Ghe n'ho tabacai
tre!_» Per lui colpire era «_tabacar_». Un giorno rientrò pallido e
muto nelle posizioni. «Cos'hai? Sei ferito? — gli chiesero. — Vuoi
che ti portiamo?» No, volle scendere da solo al posto di medicazione.
Incontrò il capitano. «_Sior capitano_ — gli disse — _i me gà tabacà
anca mi!_» Era stato passato da parte a parte da una palla.
Ci siamo diretti al Freikofel, contornando il rovescio del Pal Grande.
Dei colpi di fucile isolati risuonavano qua e là. Non vi sono punti
completamente coperti; le anfrattuosità delle rocce permettono a
qualche tiratore isolato di andarsi a rannicchiare sui fianchi delle
alture. Episodi di combattimento hanno disseminato il loro ricordo
da ogni angolo, fuori della battaglia. L'ufficiale che ci guidava
ci ha indicato sul viottolo un punto dove, passando alcune sere or
sono, si sentì chiamare: «Capitano, in nome di Dio, fermatevi, non
andate avanti, vi ammazzano!» Era un soldato ferito, caduto a terra.
L'ufficiale lo raccolse, lo caricò sulle spalle, e passò.
Per un'ora ci siamo arrampicati sulla spalla del Freikofel in una
specie di fenditura dove il lavoro dei soldati ha saputo creare un
fantastico sentiero, che la battaglia ha disseminato di frammenti di
bombe, di schegge di granate, di pallottole: detriti della guerra
arrivati di rimbalzo. Vi sono zone in cui tonnellate di metallo si
vanno accumulando. Ci siamo trovati inaspettatamente fra casupole di
pietra, che sembrano una sull'altra, quasi fossero costruite su gradini
colossali di una alta e angusta scalinata. Subito dopo eravamo in un
labirinto di scalette picconate nella roccia, di cunicoli, di tane: le
trincee.

Tutto era chiuso, tutto era oscuro, un po' di luce verdastra filtrava
appena dalle feritoie mascherate di fronde. Si esciva curvi all'aperto
per sentieri scavati nel sasso, si andava lungo barricamenti di sacchi
pieni di terra, si rientrava nel buio di ridottine e di posti di
vedetta. Nell'ombra, vicino alle feritoie, qualche alpino era seduto
in atteggiamento di riposo, immobile, sereno, statuario, il fucile
fra le gambe, un paio di granate a portata di mano, poste sopra una
mensoletta, come dei _bibelots_, e, vicino, una cassetta piena di uno
scintillìo di munizioni. Pallottole austriache schioccavano ogni tanto
sulle pietre, all'esterno. Si udivano i colpi dei fucili nemici così
vicini, che per qualche tempo abbiamo creduto che fossero i nostri a
sparare.
Dalle feritoie si scorgevano le trincee nemiche, a cinquanta passi.
Erano ammonticchiamenti di sassi, ammassamenti di sacchi a terra, e
qua e là un grigiore strano di corazzature, del colore plumbeo delle
navi da guerra. Gli austriaci hanno due tipi di scudatura di acciaio,
uno grande da trincea, uno più piccolo da assalto. Ricorda l'antico
schermo degli arcieri, questo scudo rettangolare che si posa al suolo,
appoggiato a due montanti, e dietro al quale il soldato si rannicchia,
spiando da uno sportellino che si apre e si chiude.
In continua azione di combattimento, le nostre trincee sono sorte e si
sono rafforzate, a poco a poco, quasi insensibilmente. Furono monticoli
di pietre, poi muricciuoli nascosti da verdura di pino, poi ebbero una
copertura di travi di abete — portati su faticosamente dalla foresta
— poi sulle travi si ammassarono blindamenti di terra e di sacchi. Il
nemico che spiava non ha nemmeno visto una mano. I sassi si spostavano
adagio adagio, si allineavano, si sovrapponevano, senza che il loro
moto potesse essere percepibile da lontano. Era come se pietre, sacchi,
travi, animati per magia, lentamente manovrassero. E il lavoro non
finisce mai; si migliora, si amplia, si rinforza, si progredisce,
si aprono nuove comunicazioni, talvolta si avanza pure, sempre per
pazienti trasformazioni, cercando che i profili delle opere di difesa
non si levino a mutare troppo la fisionomia selvaggia dei luoghi.
Si profitta di ogni macigno, di ogni sterpo, e si cerca, per analogia,
di quali macigni e di quali sterpi il nemico potrebbe profittare.
Ridotte, cunicoli di passaggio entro i quali si striscia, tenebrose
casamatte nelle quali la vigilanza si apposta, rifugi blindati, spiazzi
aperti e alti per il lancio delle bombe, seguono piani capricciosi
che rispondono alle necessità di una tattica minuscola, una tattica da
fiere rintanate.
Groppe di pietroni, sporgenze di massi macchiate di licheni, crepacci
profondi, arbusti, rovi, formano fra le trincee nostre e quelle nemiche
un terreno spezzato, confuso, fantastico, che solleva ferocemente
sul suo pietrame cinereo gruppi di cadaveri, avanguardie di morti,
drappeggi flaccidi di uniformi azzurrastre che conservano incerte forme
umane, e dai quali spuntano piedi distorti, mani disseccate. Segnano
i limiti sui quali gli assalti nemici furono fermati. Qui soltanto i
viventi sono sepolti.

Fra le schiere trincerate, tutto è funebre, tetro, immobile, morto.
Le piante stesse non hanno più vita, torcono moncherini di rami nudi,
cincischiati, neri, e le reti dei fili di ferro si stendono come
enormi ragnatele sopra un intreccio di pali incrociati. Non sono stati
costruiti sul posto i reticolati; gli austriaci hanno fabbricato dei
«cavalli di Frisia» complicati con attorcimenti di fili uncinati, e li
hanno gettati avanti alle loro trincee.
Se da una parte il tono d'una voce si eleva, dall'altra essa è udita.
Al minimo svegliarsi di conversazioni nei nostri posti, il nemico si
allarma, crede a dei movimenti in preparazione, e aumenta il fuoco
per scoraggiarli. Perciò si parla sottovoce, come nella camera di un
malato. Anche i divertimenti sono silenziosi. Nei momenti di calma
relativa compaiono delle scacchiere, sulle quali fiere teste pensose
si curvano a meditare marce e contromarce di pedine, che grosse dita
esitanti sospingono.
Dalle piccole porte dei rifugi si vedevano nell'interno piedi di
dormienti spuntare confusamente dal buio e come sospesi a tutte
le altezze. I giacigli sono sovrapposti; ricordano le cuccette a
bordo delle navi, e in quelle tenebrose cabine di pietra riposavano
beatamente le squadre notturne, indifferenti allo schioppettìo e alle
detonazioni.
Di tanto in tanto, un tonfo sordo, un frullare da trottola, e gli
uomini che si trovano nei punti non blindati si fermano a guardare
intensamente in aria. Aspettano la «bomba». Lanciata da qualche
apparecchio a pressione, essa è salita ad un centinaio di metri di
altezza e ridiscende, nera e oblunga, roteando come una bottiglia
gettata. Appena si avvicina, i soldati che erano rimasti immobili,
cominciano a fare dei gesti da giuocatore al pallone che si prepari
a menare il colpo; oscillano, si dispongono a balzare da un lato o
dall'altro; per sfuggire al proiettile svolgono la stessa mimica che
se volessero afferrarlo; studiano il punto di caduta, e poi, all'ultimo
momento, quando sono sicuri, saltano via o si rannicchiano.
Un istante dopo c'è il reflusso, tutti accorrono verso il luogo dello
scoppio, che fumiga. Si lavora, v'è qualche sasso da rimettere al
posto, qualche sacco sventrato da sostituire; ogni cosa è tinta di
giallo intorno. La pietra, la tela, le travi, la terra, per un raggio
di qualche metro sono color canario e mandano un puzzo irritante e
acre.
Gli austriaci hanno pure delle sottili e piccole bombe, che lanciano
per mezzo del fucile, meno potenti delle altre. Le armi che essi
tentano sono innumerevoli, e tutte intese ad evitare più che si può
la prova del coraggio aperto. Ricadono sibilando oltre le posizioni,
nelle gole e nelle valli, frammenti di insoliti proiettili, oltre
alle deformi pallottole rimbalzate; sono strani segmenti geometrici di
metallo, quadratini di acciaio, pallette rosse di minio, bossoletti da
fucile pieni di piombo, schegge di piccole granate da cannoni navali,
di quei cannoncini che armano la prua delle torpediniere.
Tutti questi detriti sibilanti che spruzzano via e si disperdono dalle
vette in battaglia, tutte queste molecole di violenza che irradiano
follemente dalle posizioni, fanno pensare alle faville lanciate da
un'incudine gigante percossa dal veemente maglio della guerra.
Quando ridiscendevamo dal Freikofel, sul quale la calma superba e
sicura dei nostri dà alla vita una così meravigliosa apparenza di
normalità, il cannoneggiamento non aveva più l'intensità di prima. Gli
austriaci se la prendevano nuovamente con le retrovie, che delle grosse
granate cercavano. Forse il nemico immaginava chi sa quale accorrere di
rinforzi.
In una radura del bosco, sotto alle rocce del Pal Piccolo, alcuni
soldati lavoravano di zappa; erano seppellitori. Intorno a loro
dei cadaveri aspettavano che la fossa fosse pronta, distesi nelle
barelle, una rozza croce di verdi ramoscelli di pino posata sul petto
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Çirattagı - Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 15
  • Büleklär
  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 01
    Süzlärneñ gomumi sanı 4201
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1662
    30.9 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    44.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 02
    Süzlärneñ gomumi sanı 4289
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1772
    29.4 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    43.9 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 03
    Süzlärneñ gomumi sanı 4329
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1834
    29.0 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 04
    Süzlärneñ gomumi sanı 4286
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1733
    29.8 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 05
    Süzlärneñ gomumi sanı 4432
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1824
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 06
    Süzlärneñ gomumi sanı 4401
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1626
    26.7 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 07
    Süzlärneñ gomumi sanı 4329
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    30.4 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 08
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 09
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 10
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 11
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 12
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 14
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 19
    Süzlärneñ gomumi sanı 4384
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 20
    Süzlärneñ gomumi sanı 4341
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1660
    27.7 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    42.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    50.7 süzlär 8000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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  • Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 21
    Süzlärneñ gomumi sanı 3983
    Unikal süzlärneñ gomumi sanı 1568
    30.4 süzlär 2000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
    44.5 süzlär 5000 iñ yış oçrıy torgan süzlärgä kerä.
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